Elogio della gentilezza

Viviamo nell’epoca dell’individualismo, in cui ciascuno di noi pone i propri bisogni e desideri in primo piano. Portato all’estremo, questo interesse limitato all’Io, porta a mettere fra parentesi l’Altro, rischiando di relegarlo a una posizione di ostacolo per i propri interessi. Il fenomeno che vede sempre più a rischio le relazioni, di qualsiasi tipo esse siano, a causa di questa tendenza sociale è stato molto studiato. Tra i contributi più influenti troviamo il discorso tenuto da George Saunders, scrittore e saggista statunitense, ai neolaureati della Syracuse University. Questo discorso è stato pubblicato in seguito e il suo titolo rende chiaramente l’idea che l’autore sostiene: L’egoismo è inutile – Elogio alla gentilezza. Superfluo dire quanto le sue parole costituiscano una lezione fondamentale per tutti noi, da ascoltare e condividere.

Seguiamo passo dopo passo l’intero discorso. Innanzitutto, in ognuno di noi c’è una tendenza – una malattia, per usare il termine che preferisce Saunders – che è l’egoismo. La stessa tradizione filosofica ci ha parlato di quest’ultimo: Hobbes, per esempio, afferma che gli interessi di ciascuno di noi sono diversi da quelli degli altri e, dunque, siamo portati a metterci in primo piano, attuando atti di egoismo. Tendiamo (se naturalmente o non e quanto frequente sono questioni molto discusse) all’egoismo, al bellum omnium contra omnes, per difendere i nostri interessi e farli prevalere. Per questa malattia esiste, però, una cura: la gentilezza.

Indipendentemente dalla nostra natura, che sia di homo homini lupus (“l’uomo è un lupo per l’uomo” hobbesiano) o zoon politikon (“animale politico” aristotelico) – ovvero: sia che la nostra natura tenda all’egoismo sia che tenda alle relazioni con gli altri – potrebbe ritenersi necessario attuare la cura, ovvero una gentilezza che consista di atti di aiuto e altruismo verso gli altri. Non si tratta di dover mettere tra parentesi il nostro io, autocausandoci danni o autoponendoci in difficoltà. Si tratta, piuttosto, di trovare un equilibrio e, pur tenendo in grande considerazione il nostro benessere, porre attenzione alle necessità altrui e mettere in atto una gentilezza che ci richiede di non rimanere neutrali di fronte alla sofferenza altrui, o alle esigenze altrui. Si tratta di rispondere all’appello a cui ci richiama il volto dell’Altro, usando un’espressione di Levinas. Questo giova anche alla nostra coscienza, poiché non reagire di fronte alla sofferenza altrui potrebbe portarci al pentimento causato dal non avere agito per l’Altro.

Vediamo l’esempio pragmatico di Saunders. L’autore si chiede: “Se guardi indietro, che cosa ti dispiace?” Ci racconta che, in seconda media, arrivò nella sua classe una nuova compagna, Ellen. Quando era nervosa, Ellen si metteva una ciocca di capelli in bocca e la masticava. I compagni molto spesso la prendevano in giro e Saunders, ora cresciuto, si pente di non essere mai intervenuto. La reazione di lei alle prese in giro era chiara: rimaneva a occhi bassi, rannicchiata, quasi volesse sparire dopo le offese ricevute. Era come se le parole negative altrui le ricordassero il posto che le apparteneva, un posto nascosto, non tra la gente, un posto in cui nessuno la potesse e dovesse guardare. Dopo poco, lei traslocò e Saunders non l’ha più vista. Dopo quarantadue anni, lui si pente non perché abbia compiuto del male, ma perché non è stato gentile. Si pente di tutte le volte in cui, e questa era una di quelle, la sofferenza altrui era davanti ai suoi occhi e lui ha reagito con neutralità.

Si interroga allora sul perché: perché siamo abituati a rimanere neutrali di fronte alla sofferenza? Perché proviamo difficoltà nell’agire con gentilezza? Perché l’egoismo è radicato in noi? Tre sono i paradigmi che, secondo Saunders, causano questa condizione odierna: ciascuno di noi si sente centro dell’universo, separato dall’universo, e dunque anche dagli altri, ed eterno. Qualcuno si sentirà innocente, altri si sentiranno presi in causa ma la verità è che tutti siamo protagonisti di questa visione egocentrica della realtà: a livello razionale sappiamo che i tre paradigmi non sono veri, ma a livello viscerale ci crediamo perché riteniamo che la nostra storia personale sia più importante, e ciò è, potremmo dire, naturale perché conta in modo diverso da quella degli altri, proprio in quanto nostra.

La lezione di Saunders è chiara: non dobbiamo aspettare per essere gentili. Non dobbiamo dirci che lo saremo domani, dalla prossima settimana, in un futuro non precisato. Iniziamo sin da subito a praticare la gentilezza. E basta poco, basta un sorriso, un grazie, una parola.

«Praticate gentilezza a casaccio e atti di bellezza privi di senso»1.

 

Andreea Elena Gabara

NOTE
1. Judy Foreman, frase scritta con vernice sul muro di un magazzino.

 

[Photo credit Matt Collamer via Unsplash]

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Giordano Bruno e la metafora dell’asino

Prigionieri del ritmo incalzante della vita, quante volte lasciamo che fatti ed eventi che dovrebbero esigere la nostra attenzione passino inosservati o ci lascino indifferenti? Probabilmente non ce ne accorgiamo perché ci siamo assuefatti al modus vivendi dell’inerzia mentale: non vogliamo perdere tempo e allora scegliamo di non voler sapere e ci accomodiamo nello stato della “beata ignoranza”. Forse lo facciamo per una questione di quieto vivere o forse perché abbiamo bisogno di anestetizzarci emotivamente, dal momento che la vita già “ci regala” preoccupazioni in abbondanza.

Il filosofo nolano Giordano Bruno, nella Cabala del Cavallo Pegaseo (1585), definiva questa forma di ignoranza «asinità di semplice negazione», ritenendo che sia propria di coloro «che non sanno, non presumono di sapere» e nondimeno vogliono sapere (cfr. G. Bruno, Cabala del Cavallo Pegaseo con l’aggiunta dell’Asino cillenico, 1985)

L’asinità di semplice negazione è una sorta di moderno analfabetismo di ritorno, da cui ciascuno di noi può essere affetto quando, pur essendo in grado di comprendere, valutare e agire scientemente, per pigrizia intellettuale o per non affaccendarci in problemi che crediamo non ci riguardano, disconnettiamo la ragione e da animali pensanti regrediamo allo stato di asini insipienti, «che tutte le facoltà dell’anima uniscono nella sola capacità di ascoltare e credere» (ibidem).
Così ci disabituiamo a pensare autonomamente e diventiamo bisognosi di una guida spirituale o di un leader carismatico che pensa e decide per noi. Deleghiamo la nostra libera facoltà di ragionare e di agire a delle autorità che ci sovrastano, alle quali, come asini consenzienti, crediamo e obbediamo.
Quante volte ci siamo fatti abbindolare dalle cangianti tendenze della moda, dalla legge del mercato o dagli influencer del momento, che ci instillano gusti che non sono i nostri e bisogni che non abbiamo? E noi, similmente a marionette, mettiamo nelle mani altrui il senso e la direzione della nostra vita, perché non abbiamo elaborato un pensiero nostro, non sappiamo cosa vogliamo, cosa sia giusto o vero, perché, in realtà, non ci soffermiamo a guardare dentro noi stessi, dal momento che farlo costa fatica e coraggio.

L’asinità ha anche il volto della presunzione. Lo sapeva bene Bruno che aveva dovuto scontrarsi con i dogmatici saccenti del suo tempo, che aveva etichettato come «asini per cattiva disposizione». I saccenti, ingabbiati nei “paraocchi mentali” di una dottrina, presumono di essere i depositari dell’unica e incontestabile verità e dunque di non avere più nulla da imparare. E, ostentando un’intransigente quanto sterile superiorità intellettuale, si sentono autorizzati ad avversare, perseguitare e condannare chi è portatore di opinioni differenti dalle proprie.

Bruno aveva coraggiosamente affrontato anche la stolta follia degli «asini per divina acquisizione», gli ignoranti per fanatismo religioso, i suoi carnefici. Il fanatismo religioso non solo riduce la capacità di pensare allo stato di quiescenza, ma inebetisce finanche la coscienza morale. Per cieca fedeltà, il fanatico religioso obbedisce acriticamente all’autorità divinizzata di un leader (politico o religioso) anche quando gli ordina di violare la dignità altrui, trucidare e condannare a morte il cosiddetto nemico, che ha commesso il “reato” di pensarla in modo diverso o che ha manifestato apertamente il suo dissenso.

Ogni giorno i telegiornali ci sbattono in faccia fatti di insensata brutalità, perpetrati dagli uomini contro l’umanità tutta, in nome di un Dio che dice sante le guerre e meritevoli del paradiso gli assassini autorizzati per fede, o a causa di un despota che dispone della legge e della giustizia arbitrariamente. E noi? Non possiamo stare a guardare con un atteggiamento di imperturbabile irresponsabilità. La denuncia di Bruno va oltre il suo tempo e continua a condannare l’asinità che ancora oggi ha il volto negativo dell’arroganza e della stoltezza, dell’inoperosità e dell’indolenza. Ogni qualvolta deleghiamo o lasciamo correre, rinneghiamo la nostra natura di animali pensanti e ci imbestiamo, e, a causa dell’ottusità, diventiamo responsabili così che ricadono su di noi quelle colpe per i mali del mondo che accolliamo agli altri.

Bruno, però, individua anche un’asinità positiva, un antidoto contro quella insana e folle: l’asinità sensata. Quest’ultima, a differenza dell’altra, ha il volto dell’umiltà, perché è constatazione che siamo fallibili e non onniscienti, che rispetto alla verità siamo sempre mancanti, che c’è sempre da imparare. L’asinità sensata è inquieta, non sta comoda nello stato di mancanza, anzi è esortazione costante alla ricerca, impegno quotidiano alla riflessione per l’azione, apertura al dialogo e al confronto. È quel saper di non sapere che allerta la ragione e la coscienza morale a essere vigili, a non perdere di vista i fini, a prestare attenzione a ciò che accade e a farsene carico responsabilmente. È quel bisogno di interrogare per comprendere che ci salva da ogni errore e conflittualità.

Finché rimarremo connessi con la nostra ragione, rimarremo connessi con la nostra umanità, la sapremo esprimere al meglio e faremo del nostro mondo un posto migliore.

 

Marilena Buonadonna

 

[Photo credit hay s via Unsplash]

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Dal relativismo culturale all’idea di bene

Quando i nostri comportamenti rientrano nei canoni di ciò che è culturalmente condiviso, la maggior parte della persone si sente tranquilla. È come se fosse stato rispettato un codice indiscutibile e inviolabile, volto a renderci persone migliori. Si tratta di leggi non scritte, ma tramandate nel tempo e rese salde dall’esperienza di chi ci ha preceduto. La cultura del luogo dove siamo nati, quei valori etici condivisi, sono un materasso morbido e avvolgente che ci accoglie, ci rassicura nel buio e attutisce i colpi quando, stanchi della faticosa convivenza con altre persone, ci stendiamo sopra. Eppure, proprio come un materasso, questo bagaglio di valori e regole che abbiamo ricevuto, per quanto confortevole e sicuro, tende ad assopirci. Dopo che il Zarathustra di F. Nietzsche ebbe ascoltato il discorso di un saggio, che era grandemente onorato e ricompensato per i suoi discorsi sul sonno e sulla virtù, disse:

«Adesso capisco chiaramente che cosa un tempo si cercava innanzitutto, quando si andava in cerca di maestri della virtù. Un buon sonno si cercava e, a questo fine, virtù oppiacee» (F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, 1976).

Il pericolo a cui allude il filosofo è proprio quello di fossilizzare la nostra vita su schemi vecchi e stereotipati, di ritenere giusti e virtuosi a priori alcuni comportamenti, senza considerare la situazione reale in cui essi avvengono. Ciò che ieri appariva giusto, oggi potrebbe non esserlo più perché la vita è in continuo cambiamento, la vita è viva, noi siamo vivi. «Guardali questi buoni e giusti!», continua Nietzsche, «Chi odiano essi massimamente? Colui che spezza le loro tavole dei valori, il distruttore, il delinquente – ma questi è il creatore. Compagni per il suo viaggio cerca il creatore e non cadaveri, e neppure greggi o fedeli. Compagni nella creazione cerca il creatore, che scrivano nuovi valori, su tavole nuove» (ibidem).

Un incontro inatteso, una periodo difficile, un viaggio, una discussione ci inducono a considerare prospettive differenti, distogliendoci così da ciò in cui avevamo sempre creduto. Improvvisamente si palesa davanti a noi uno scenario nuovo, mai preso in considerazione. Non si tratta di rinnegare la propria cultura, ma di guardarla per la prima volta con occhio critico, riconoscendone i pregi, ma rivelandone anche i difetti. Ci sono persone che si ritengono giuste e rette perché perpetuano per tutta la vita azioni e comportamenti ereditati, senza fermarsi a riflettere sul peso che essi hanno ora e sugli effetti che producono in questo preciso momento storico.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                     

Quello che ci viene chiesto è un salto di qualità. Ci viene chiesto di alzare un piede e appoggiarlo sul primo gradino di una nuova scala di valori, spesso in salita che potrebbe condurci alla ricerca di ciò che è realmente e universalmente Bene. Il disvelarsi del Bene è un processo attivo, esso non si esaurisce in una lista di comportamenti e soprattutto non si riceve in eredità. All’idea del Bene si tende costantemente, è una strada da percorrere lungo tutta la vita e la persona virtuosa è proprio quella che si incammina.

Platone ci mette in guardia rispetto alla nostra cecità nei confronti del Bene. Secondo il filosofo greco, il Bene è l’idea somma, è come il Sole, è il valore più alto cui ogni essere umano possa tendere e prescinde da qualsiasi cultura e da qualsiasi luogo. È universale. Le nostre anime, egli dice, hanno visto il Bene prima di incarnarsi in un corpo. Il dovere morale allora, è proprio quello di ri-conoscerlo, e lo possiamo fare solo se usciamo dalla caverna, dall’oscurità. L’uomo virtuoso è colui che ricerca, continua il filosofo, che fa della sua vita un faticoso cammino razionale verso l’idea del Bene e, una volta ri-conosciuto, lo incarna giorno dopo giorno nella propria vita (cfr. La Repubblica, libro VII, Milano 1981).

Io sono altresì convinta che ognuno di noi possa attingere al Bene, non solo attraverso la razionalità, ma attivando facoltà che spesso vengono messe in secondo piano. Se ci si dispone all’ascolto di se stessi, dell’altro e della vita, ad esempio, il Bene lo si può intuire e quindi impegnarsi a realizzarlo. Ciò che è bene, inoltre, può essere avvertito in modo empatico nelle emozioni forti che alcuni comportamenti suscitano. Un gesto d’amore, una vicinanza, un aiuto inatteso possono rivelarci il Bene più di molti ragionamenti. Quello che conta è essere disposti a riconoscerlo e permettere che esso ci modifichi.

Erica Pradal

[Photo credit Volkan Olmez via Unsplash]

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Cartesio e il problema della libertà

Il concetto di libertà è uno di quei temi che non passano mai di moda. Comprensibile, visto che difficilmente possiamo trovare qualcosa che tocchi più da vicino la nostra sensibilità. Più o meno consapevolmente, la libertà viene chiamata in causa nei contesti più disparati: se n’è parlato molto in politica quando la questione del green pass era al centro dei dibattiti; se ne parla moltissimo a scuola, quando si affronta la nozione di diritto; se ne discute implicitamente innumerevoli volte prima dei diciott’anni, con i propri genitori, quando trattiamo sull’orario di rientro la sera. E quando finalmente diveniamo maggiorenni, il mondo ci sembra ad un tratto un posto più grande, perché “adesso possiamo fare quello che vogliamo”. E quest’idea sembra essere la più popolare, quella che dà la sua accezione al concetto di libertà che ha il senso comune: assenza di limitazioni esterne.

Presto ci rendiamo conto che la vita in società non può ammettere l’assoluta libertà di ognuno, pertanto ridimensioniamo la nostra idea ed affermiamo che “la nostra libertà finisce laddove inizia quella dell’altro”. Tuttavia quest’idea di una completa indipendenza da vincoli persiste ad un livello più intimo: le nostre scelte sarebbero libere nella misura in cui non vi è nulla, se non la nostra volontà, a determinarci. E in questo senso, saremmo tanto più liberi quanto più la nostra volontà è scevra di fattori che possano spingerla in una direzione piuttosto che in un’altra. Ed è in virtù di queste ragioni, sembra, che storciamo il naso all’idea che i nostri pensieri e le nostre azioni siano causati da fattori esterni alla nostra volontà, ma che la determinano: il determinismo in tutte le sue forme è percepito come negazione della libertà.

A questo punto sorge un problema. Se da un lato un’azione libera è determinata esclusivamente dalla nostra volontà, dall’altro non possiamo però decidere che cosa vogliamo: di fronte a due alternative diamo la preferenza all’una o all’altra secondo le nostre inclinazioni, che non dipendono da una deliberazione consapevole.
Insomma, come potrò agire esclusivamente in virtù della mia volontà, se questa è determinata a sua volta da fattori che le sfuggono? Per decidere in piena libertà che cosa fare, non dovrei forse essere per l’appunto libero dalle inclinazioni che mi spingono in una direzione piuttosto che nell’altra?

Un approccio interessante alla questione della libertà è offerto da Cartesio nelle sue Meditazioni metafisiche, pubblicate per la prima volta nel 1641 (in particolare nella quarta, titolata Del vero e del falso). L’autore francese mostra come nell’atto di prendere una decisione intervengano due facoltà: la volontà e l’intelletto. La prima è definita come «la potenza di deliberare», di pronunciarsi su qualcosa. È il potere di decidere se accettare o rifiutare, oppure se è il caso, per il momento, di astenersi perché non abbiamo abbastanza informazioni. In questo senso, essa è intesa da Cartesio come libero arbitrio. La volontà è quindi ben distinta dalle inclinazioni personali verso qualcosa. Le inclinazioni sono un fatto, mentre la volontà è un potere d’azione, e le due cose agiscono separatamente l’una dall’altra. Per esempio, se in questo momento ci fa voglia un gelato, non possiamo farci nulla: è un fatto, ed è ciò che qui abbiamo chiamato inclinazione. Tuttavia possiamo decidere se è il caso di prenderlo oppure no: se ne abbiamo già mangiati dieci, sappiamo che mangiarne un altro ci farà male, pertanto decidiamo di non prenderlo, pur facendoci voglia.

Ad un’osservazione più attenta, ciò che ha determinato la nostra volontà a rifiutare il gelato contravvenendo alla nostra inclinazione immediata è la consapevolezza del fatto che troppo gelato fa male. La conoscenza è di competenza della seconda facoltà, l’intelletto. La conoscenza delle cose ci aiuta a prendere delle decisioni accurate: vedendo ciò che è bene e ciò che invece è dannoso, ci comportiamo di conseguenza.

Da questo testo di Cartesio emerge un’idea davvero affascinante: l’indifferenza tra più alternative non è libertà, ma indecisione causata dal fatto che non conosciamo ciò su cui stiamo decidendo, e ciò produce una sorta di paralisi. Quando invece sappiamo bene cosa scegliamo quando lo scegliamo, ci decidiamo molto più spontaneamente, e siamo tanto più liberi non avendo che una sola alternativa: quella giusta, poiché nulla ci ostacola nella nostra azione. Recita Cartesio:

«Se conoscessi sempre ciò che è vero e ciò che è buono non sarei mai nella difficoltà di decidere […], e sarei interamente libero, senza mai essere indifferente» (Cartesio, Meditazioni metafisiche, 1986).

Insomma, quello che Cartesio vuole dirci è che libertà e conoscenza sono inseparabili: soltanto conoscendo ciò che è bene, che non può che giovarmi, asseconderò la mia natura e sceglierò liberamente, eliminando così l’imbarazzo della scelta.

 

Pietro Bogo

 

[Photo credit Kaffeebart via Unsplash]

la chiave di sophia 2022

Alterità e perdono: i rapporti duraturi seguendo Recalcati

Quotidianamente constatiamo di vivere in una società frenetica, che corre incessantemente senza permettere alcun momento di pausa. In una società così caratterizzata, chiediamoci come risulta essere il rapporto con l’alterità, con l’Altro, che si inserisce nel tempo che abbiamo a disposizione per correre e, tendenzialmente, ci porta a rallentare il nostro incedere. In questa realtà, le relazioni sono sempre più instabili ed effimere, nel senso etimologico della parola poiché durano poco, quasi un giorno solo (epì eméra = per un giorno). Sono relazioni liquide, come direbbe Zygmunt Bauman, i cui legami e vincoli sono fragili, deboli e incerti non solo nel domani, ma anche nel presente. E ciò a cosa può essere dovuto se non alla nostra voglia di correre per soddisfare immediatamente tutti i nostri desideri, senza alcuna attesa? Al per sempre, quindi, non viene dato modo di esistere e Massimo Recalcati (Milano, 1959) se ne rende conto, come racconta in una sua intervista:

«L’amore non è destinato a durare ma a spegnersi in breve tempo. Il suo doping ha il fiato corto. Le coppie non credono più al matrimonio, al vincolo del legame, si disfano più facilmente. Il nostro tempo è il tempo, come direbbe Bauman, degli amori liquidi.»

Soffermiamoci sulla relazione più totalizzante, sulla cui durata, però, noi non abbiamo più tempo di interrogarci, poiché ci risulta naturale pensare all’amore come qualcosa di passeggero. Eppure esiste la possibilità di un amore duraturo, che in certi casi è anche il risultato di un lavoro sul perdonare l’altro, sforzo che si nasconde dietro a questo sentimento malleabile. Se la società frenetica tende a plasmare l’amore con le categorie che identificano la realtà, cioè incertezza, mutamento continuo e fugacità, noi, con la riflessione, possiamo esprimerci su un lavoro lento e faticoso, un lavoro che richiede tempo e impegno.

«L’amore eterno non esiste. Eppure esiste la promessa, l’aspirazione degli amanti a rendere il loro amore eterno.»

Il per sempre, dunque, non ci è garantito: sta a noi renderlo realtà e volerlo fare non è mostrarci immaturi bensì trasformare l’eventualità dell’incontro con l’altra persona nella continuità di una relazione. Per far ciò potremmo dover perdonare, ma perchè farlo?
Nel momento in cui l’Altro ci volta le spalle, la sua presenza subisce un’eclissi traumatica: ci dobbiamo confrontare con un vuoto che l’Altro ha creato nella nostra vita e in noi, come persona. La sua assenza è una perdita, senza dubbio, ma non una perdita irreversibile: per questo sarà il soggetto a doversi chiedere, nel caso in cui l’oggetto del perdono voglia riprendere il discorso amoroso che lui stesso ha frantumato, se decretare una fine definitiva dell’amore o richiamare l’altro alla presenza.

«Sono io a decidere se la sua immagine deve morire o no.»

Dovrà chiedersi se perdonare, se intraprendere un lavoro sulla sua imperfezione, non sull’imperfezione dell’Altro, un lavoro che permette di giungere faccia a faccia con le contraddizioni e i contrasti quotidiani della nostra vita. Il perdono non potrà cancellare la ferita, e nemmeno ricomporre il vaso, per ridargli la forma precedente la caduta, ma potrebbe permettere di amare l’altro nella sua più radicale libertà, che aveva offeso la promessa e frantumato l’immagine inedita della realtà. Il rapporto con l’Altro non sarà lo stesso di prima, perché la nostra percezione dell’Altro sarà cambiata, dato che lui ha subito una metamorfosi: da anima totalizzante si è eclissato con il tradimento e ora tenta di riaffermarsi nella nostra vita.

In una società così dedita all’hic et nunc, al qui ed ora, permettiamoci di rischiare per una promessa, di concederci di perdonare, se sentiamo che la felicità si trovi al di là del correre incessante. Concediamoci di tornare sui nostri passi, concediamoci un gesto gratuito di perdono per essere liberi di ricercare rapporti duraturi, in un’epoca che ci inonda di sensazioni effimere. Permettiamoci di vivere la fiducia in un mondo nuovo, creato dall’unione dell’Io e dell’Altro.

Andreea Gabara

[Photo credit Alex Schute via Unsplash]

la chiave di sophia 2022

Una libertà critica per capire che possiamo essere ecologici

Ci piace pensare di essere liberi, liberi come un fiume in piena che non incontra ostacoli lungo il suo cammino. Eppure, ogni giorno percepiamo la fragilità di questa nostra libertà che, come una foglia secca, è sempre sul punto di lasciarsi travolgere da forze esterne. Soprattutto oggi, in un mondo scosso da disastri planetari e guerre intestine, da epidemie emergenti e cambiamenti climatici repentini, sperimentiamo costantemente il nostro condizionamento e la nostra limitatezza nei confronti degli eventi che incalzano il mondo attorno a noi. Sorge allora spontanea una domanda: quale libertà? Quale libertà spetta a noi esseri umani contemporanei che vivono sotto il marchio dell’estinzione?

La filosofia politica, che sul tema della libertà è stata tra le discipline ad avere maggiore influenza, ha ascritto agli esseri umani due differenti tipi di libertà, una negativa e una positiva. In quanto persone, siamo liberi di agire e compiere determinate azioni, come per esempio votare, esprimere la nostra opinione, professare la religione che preferiamo, amare chi vogliamo, etc. Questo primo tipo di libertà si definisce positivo perché designa la nostra capacità o possibilità di fare qualcosa in base ai nostri desideri o valori. Anche se, riferendosi solamente alla possibilità di fare qualcosa, questa libertà si confonde spesso con una libertà formale di cui godiamo in maniera astratta. Al contrario, la libertà negativa è libertà come assenza d’impedimento e di ostacoli. Essa, quindi, indica che noi tutti possiamo agire senza che nessuno intervenga a ostacolarci o rimanere passivi senza che nessuno ci costringa a non agire. Certamente, gli esempi più conosciuti di questo tipo di libertà sono l’inviolabilità del proprio corpo, il diritto alla privacy e la garanzia alla proprietà privata.

Tuttavia, le modalità della libertà di cui l’essere umano dispone non si esauriscono in queste due dimensioni relative alla capacità di agire senza interferenze o in accordo con i propri valori. Questo perché l’essere umano, come Nietzsche insegna, possiede anche la capacità fondamentale di poter giudicare e ribaltare i valori in cui crede. In effetti, quest’ultima capacità individua un nuovo tipo di libertà, che non esclude i primi due ma si aggiunge ad essi nel tentativo di migliorare la consapevolezza dell’uomo in un momento di profonda crisi. Secondo il filosofo canadese James Tully, questa terza libertà può essere definita ‘critica’ perché ha il ruolo chiave di sfidare, nella pratica quotidiana, i valori e i pregiudizi che abbiamo ereditato. La libertà in quanto critica, quindi, riguarda le condizioni che permettono a noi soggetti umani di attuare delle trasformazioni al fine di diventare delle persone diverse. Da questo punto di vista, è facile vedere che questa libertà è anche ecologica. Infatti, se pensiamo che l’identità di una persona sia definita dai valori in cui crede, modificando quei valori una persona potrà cambiare radicalmente la propria identità, diventando, per esempio, più sensibile ai problemi del cambiamento climatico o al maltrattamento degli animali.

La nostra vita è piena di momenti ‘critici’ in cui si racchiude la possibilità di diventare altro, di aprirci a certi orizzonti e chiuderci ad altri. Esempi classici possono essere la decisione di diventare genitori, di scegliere un certo percorso di studi o una certa carriera, di abbandonare il proprio paese per vivere in un altro. Ma lo stesso vale per esempi più ecologici come la decisione di non mangiare carne più di una volta a settimana, o di non utilizzare alcun prodotto contenente della plastica (sia nel packaging sia nei suoi ingredienti), o ancora di coltivare un piccolo orticello. I momenti ‘critici’ della nostra vita, allora, sono degli eventi che determinano la forma della nostra vita e, così, tanto più una vita è capace di queste trasformazioni, tanto più libertà critica possederà.

In un mondo sempre più complesso e caotico, in cui la paura e l’orrore sembrano essere padroni, è importante comprendere e distinguere come dobbiamo agire e cosa possiamo fare. Questa comprensione però ci mostra che le nozioni di libertà positiva e negativa non sono più sufficienti a spiegare la nostra libertà e, al tempo stesso, a metterci sul cammino di una rivoluzione. Al contrario, serve ampliare il raggio della nostra vista e riconoscere un nuovo tipo di libertà, più propriamente critica ed ecologica, che ci aiuti a cambiare il nostro modo di stare al mondo e abitare la Terra che ci ospita.

 

Gaia Ferrari

 

[Photo credit Pablo Heimplatz via Unsplash]

la chiave di sophia 2022

Epitteto e l’arte di controllare se stessi

Capita a tutti di sentire quella necessità, più o meno manifesta, di affrontare, gestire e programmare fin nei minimi dettagli azioni, comportamenti e situazioni proprie o altrui. Non passa giorno, infatti, senza che ognuno di noi senta quel bisogno di controllare qualcosa o qualcuno: che siano le chiavi dell’auto o di casa, i propri compiti lavorativi, le notifiche sui nostri smartphone o semplicemente il monitoraggio dell’ambiente circostante e degli altri, non possiamo fare a meno di comportarci così. Questo perché controllare le cose ci aiuta ad anticipare comportamenti e situazioni; di colpo il mondo diventa più piccolo, familiare e prevedibile e subito svanisce quel senso di smarrimento e insicurezza tipico della condizione umana.

Del resto, tutti noi vorremmo avere costantemente e continuamente sotto controllo la nostra vita e l’universo intero se solo ne avessimo la possibilità, ma sempre più spesso dobbiamo rassegnarci e fare i conti di fronte all’impossibilità di tale impresa.
Sia chiaro, una routine ordinaria, un’agenda ben organizzata o il voler avere sempre la situazione sottomano non sono di per sé comportamenti negativi, anzi; essi ci aiutano a districare la nostra quotidianità. Il problema sorge, allora, quando essi condizionano in maniera preponderante la nostra vita impedendoci di viverla a pieno. Questo perché la gioia e la sicurezza provate in un primo momento, lasciano presto il posto ad ansie e timori di fronte alla consapevolezza e all’assurdità della nostra mania: non possiamo controllare tutto e tutti e anche quando abbiamo l’illusione che ciò avvenga, difficilmente le cose accadono nella stessa maniera di come ci saremmo aspettati. Quando non riusciamo nel nostro intento, quando le cose ci sfuggono per la loro velocità e imprevedibilità, restiamo amareggiati e frustrati di fronte alla constatazione della nostra impotenza e restiamo vittime di ciò che vorremo attuare più di ogni altra cosa: il controllo. Impauriti e disorientati rimaniamo sospesi tra la nostra mania di onnipotenza e la tragica constatazione della sua impossibile realizzazione. E allora che fare?

Secondo Epitteto, filosofo stoico del I secolo d.C., le nostre sofferenze e i nostri timori nascono in seguito a due errori che troppo spesso commettiamo: cerchiamo di esercitare un controllo assoluto e maniacale su qualcosa di esterno che non è in nostro potere; e non ci assumiamo mai la responsabilità dei nostri pensieri e delle nostre convinzioni, su cui in realtà abbiamo una grande influenza. Egli era infatti profondamente convinto, come leggiamo in apertura del suo manuale, l’Enchiridion, che tra tutte le cose che esistono al mondo, solo alcune sono davvero in nostro potere – ovvero i nostri pensieri – e che il compito di ogni uomo, che voleva definirsi libero e felice, non doveva essere altro che quello di ricordarsi costantemente cosa dipendeva da lui e cosa invece no, come ad esempio gli amici, la reputazione, il meteo o semplicemente il fatto che un giorno sarebbe dovuto morire. 

Questo perché «se tu reputerai per libere quelle cose che sono di natura schiave e per proprie quelle altrui, ti capiterà di trovare quando un ostacolo quando un altro ed essere afflitto, turbato e dolerti degli uomini e degli Dei; […] mentre se tu considererai tuo quello che tuo è veramente, e se terrai che sia d’altri quello che è veramente d’altri, nessuno mai ti potrà sforzare, nessuno impedire e non soffrirai alcun male» (Epitteto, Manuale, 2017).

Convinzioni e pensieri rappresentano quindi le uniche cose sulle quali, secondo il filosofo greco, possiamo realmente esercitare una qualche forma di controllo. Potrebbe sembrare quasi una banalità, è vero, ma essi costituiscono il regno all’interno del quale siamo realmente sovrani, in quanto abbiamo sempre la possibilità e la libertà di scegliere cosa pensare e in cosa credere, basta semplicemente volerlo.
All’uomo si presentano quindi due alternative: utilizzare la propria ragione per dirigere e guidare i propri pensieri al meglio, accettando il fatto di avere un controllo limitato su ciò che avviene nel mondo e sugli eventi esterni e raggiungere quindi la serenità dell’animo, oppure lasciarsi sopraffare e piegare da tutto ciò sul quale non può esercitare la propria influenza e trascorrere arrabbiato, impaurito e infelice la maggior parte della propria vita. Perché, come ci ricorda Epitteto, il mondo esterno non ha nessun potere su di noi a meno che non glielo concediamo, pertanto l’unica cosa di cui siamo padroni siamo noi stessi.

Edoardo Ciarpaglini

[Photo credit Iucas Favre via Unsplash]

la chiave di sophia 2022

La nostalgia di un passato sbiadito in Milan Kundera

La scrittura di Milan Kundera (Brno, 1929), autore ceco naturalizzato francese, è intrisa di filosofia e riflessioni su temi disparati: memoria e tempo, per esempio, costellano diverse sue opere, tra cui L’ignoranza. Kundera ci racconta la fragilità e precarietà della memoria, dovute al fatto che i ricordi possono diventare nebulosi, e tratta della relatività del tempo e della nostra percezione di esso, che non è lineare come il suo scorrere. Come Henri Bergson afferma, il tempo viene percepito in modo differente dalla nostra coscienza in base alle nostre emozioni, ovvero, per citare Sant’Agostino, il tempo è distensio animi, è il nostro far esperienza delle tre dimensioni di passato, futuro e presente.

Il passato, con cui si confrontano i protagonisti del romanzo, non è limpido come il presente, ma può frammentarsi e assumere sempre più opacità. In un testo dedicato al nostos, al ritorno in patria, come L’ignoranza, Kundera fa riferimento ad Ulisse, eroe della nostalgia (nostos=ritorno, algos=dolore), dato che, seppur lui non ricordasse quasi nulla della sua Itaca, ne sentiva la mancanza. I ricordi non sopravvivono se noi non li alimentiamo, ma devono essere evocati continuamente per non perdere nitidezza: tuttavia, la nostalgia non cessa allo sbiadire del passato. Per questo, più Ulisse viveva lontano dalla sua Itaca, più la dimenticava: la sua nostalgia, invece, cresceva. La nostalgia, dunque, basta a sé stessa.

Quando Ulisse torna a Itaca, i suoi conterranei gli raccontano le vicende accadute nei dieci anni della sua lontananza, convinti che nulla gli interessi più della sua amata terra: eppure non è così. Lui a Itaca aspetta solo che gli venga chiesto di raccontare la sua storia. Questo accade anche a Irena, protagonista del romanzo di Kundera sopracitato: «Non ci interessiamo alla vita degli altri, ma in assoluta innocenza. Non ce ne rendiamo neanche conto». E le si risponde: «È vero. Solo chi torna in patria dopo una lunga assenza può cogliere questa verità: nessuno si interessa alla vita degli altri ed è normale».

Ciò che Ulisse spera non gli viene invece chiesto, poiché si crede di sapere già tutto di lui, di poter conoscere la sua intera esperienza in quanto simile, in quanto compatriota, in quanto uomo. Chi, invece, è in esilio prova, come abbiamo già visto, nostalgia dovuta al desiderio inappagato del ritorno alla propria casa. Kundera ci fornisce più traduzioni di nostalgia: gli spagnoli dicono añoranza, termine legato al latino ignorare, poiché la nostalgia è sofferenza dell’ignoranza (se tu sei lontano, io non posso sapere cosa ne è di te); i cechi usano il sostantivo stesk, che crea anche la commovente frase styská se mi po tobe (non posso sopportare il dolore della tua assenza); in tedesco troviamo Sehnsucht, desiderio di ciò che è assente, sia che sia stato, sia che non sia mai stato. Qualsiasi traduzione consideriamo, la nostalgia si alimenta da sé, e non è attenuata dall’ignoranza: anche l’oblio, seppur si contrapponga alla memoria, può alimentare il nostro animo, esattamente come accade a Tamina ne Il libro del riso e dell’oblio. Suo marito è morto, il suo ricordo sfuma quotidianamente e lei, rendendosene conto, si impegna quotidianamente ad alimentare il suo anelito, la sua Sehnsucht, guardando la foto di suo marito:

«Ogni giorno faceva una sorta di esercizio spirituale con quella foto: si sforzava di immaginare il marito di profilo, poi di semi-profilo, poi di tre quarti. Ripeteva dentro di sé la linea del suo naso, del mento, e ogni giorno constatava con terrore che quel ritratto immaginario aveva nuovi punti discutibili in cui il pennello della memoria vacillava».

L’immagine del marito le sfugge dalle mani, il passato è destinato a sbiadire; eppure, lei si sforza di alimentare la nostalgia: sofferenza dell’assenza, tenerezza dell’amore perduto.

 

Andreea Elena Gabara

[immagine tratta da Unsplash]

la chiave di sophia 2022

 

A lezione di vita. O di morte?

Ultimi giorni di scuola.
I ragazzi entrano in classe, buttano lo zaino a terra vicino al banco e si siedono. La loro mente è già proiettata al di là di questi muri. C’è un dopo che li attende. Ma stamattina ho in serbo per loro un compito importante, ho una domanda che incombe.

“Che cos’è per te la felicità?” 

Mi guardano stupiti. Cercano conferma nel compagno di banco. Non è una domanda facile, lo so. Nel giro di pochi minuti le mani inforcano la penna e cominciano a scivolare leggere sul foglio. Ogni tanto si inceppano e il loro sguardo incrocia il mio, poi via di nuovo a intessere questa inconsueta ragnatela di significati.

Quando tutti hanno finito, incalzo con il secondo quesito. Ora scrivi che cosa fai per essere felice. “Ah… questa è più facile, prof!”, dice qualcuno. C’è chi scrive senza alzare mai lo sguardo, chi invece ha bisogno di prendere fiato.

Ultimo compito. Ora scrivi tre cose che ti tolgono la felicità. Nessuno obietta. Tutti hanno qualcosa da dire e il mio obiettivo è in parte raggiunto. Quando raccolgo i fogli in una scatola, l’emozione è palpabile. Ci rendiamo conto che qui dentro c’è qualcosa di importante, qualcosa che va trattato con cura. Ridistribuisco i fogli a caso e incominciamo a leggere.

“La felicità è stare con la mia famiglia e con gli amici; la felicità è far contento un amico; è giocare a carte con i miei genitori, la sera. La felicità è raggiungere un risultato importante, prendere un bel voto. E’ rendere felici i miei….La felicità è…”. Ci sono tante parole preziose in questi fogli volanti ed è difficile passare oltre, ma quando affrontiamo la seconda domanda succede qualcosa di inatteso. Un ragazzo alza la mano e mi dice: “Prof, io per essere felice voglio pensare bene della morte”. Ho un attimo di smarrimento. “Cosa intendi di preciso?” ribatto.

“La morte è un fatto certo. Tutti dobbiamo morire. Se ci penso, mi spavento molto, è una cosa terribile sapere che ti accadrà. Se, invece, impari ad amare la morte, la tua vita sarà più serena e rilassata, darai più importanza alle cose che fai“.

Non posso credere che abbia detto proprio questo. “Vivere tenendo conto della morte è importantissimo, quanto difficile” gli dico, “e tu l’hai intuito ora, a soli 14 anni. Bravo.”

Mi guarda inorgoglito e io ripenso alle bellissime pagine di uno dei più grandi filosofi del ‘900, Heidegger. Nel suo libro Essere e Tempo, un progetto ambizioso rimasto però incompiuto, egli fa un’analisi profonda dell’uomo come Essere gettato nel tempo. La sua esistenza è destinata a finire perché è proprio la morte a caratterizzare il suo Esserci qui e ora. L’uomo per definizione è un essere mortale. Ma l’angoscia che lo attanaglia, quando comprende questo, è un sentimento  tanto doloroso quanto necessario. Vivere il vuoto, accusare il non senso di una vita che è destinata a finire, può causare smarrimento all’inizio, ma poi diventa la chiave di volta per iniziare a vivere in modo autentico

Vivere sapendo di morire ci mette davanti a una scelta fondamentale. Continuare a tirare avanti come se fossimo immortali, sprecando il tempo in chiacchiere, facendo cose inutili, basando la nostra felicità su oggetti che non ci apparterranno mai del tutto, oppure prendere in mano la vita e decidere ogni mattina dove orientare il timone.

«Prima di tutto bisogna caratterizzare l’essere-per-la -morte in quanto essere-per una possibilità, e precisamente per la possibilità più specifica dell’Esserci stesso. Essere-per  una possibilità, cioè per un possibile, può significare: avere a che fare con un possibile nel senso di prendersi cura della sua realizzazione» (Martin Heidegger, Essere e Tempo, 1970).

La morte è l’unica certezza, tutto il resto è possibilità. Siamo artefici del nostro quotidiano,  ogni giorno siamo chiamati a dare un senso a ciò che facciamo, a prenderci cura delle nostre possibili vie da percorrere.

Io avrei potuto entrare in classe e fare la mia solita lezione. Non l’ho fatto. Ho scelto di porre una domanda importante e tutto ciò ha dato un senso inaspettato alla mia quotidianità. Questa è la nostra grandezza, la scelta che facciamo ogni volta che iniziamo le nostre giornate. Tutte.

 

Erica Pradal

 

[immagine tratta da Unsplash]

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Io contro di te: Hegel e la lotta per il riconoscimento

Leggere la Fenomenologia dello spirito è un atto di scoperta e sofferenza continua: ogni volta che credi di averla capita, ecco che riesce a sorprenderti e a rivelarti qualcosa di nuovo a cui non avevi fatto caso. Sembra una di quelle calli veneziane che più le percorri e più ti risultano oscure e misteriose, conducendoti sempre in una direzione diversa. Ed è proprio per questo suo continuo ribollire di idee che oggi vorrei ritornare sulle pagine della Fenomenologia e parlare un po’ del tema del riconoscimento tra auto-coscienze. Però anziché considerare questo tema attraverso la famosa dialettica tra servo e padrone, vorrei concentrarmi sul suo stadio preparatorio. Sto parlando della lotta per la vita e la morte. Questa lotta è estremamente interessante, perché ci mostra con grande chiarezza i rischi di una concezione astratta dell’identità personale; rischi che si manifestano quotidianamente negli scontri tra fidanzati, amici, genitori e figli, etc.

Per cominciare bisogna dire che l’esperienza che Hegel ci sta descrivendo con questa lotta è un’esperienza originaria, perché rappresenta un desiderio di riconoscimento che ciascuno di noi – in quanto uomo – vive costantemente dentro di sé e fuori di sé, nel confronto con gli altri. Nel caso specifico della lotta per la vita e la morte, Hegel ritiene che questo desiderio si caratterizzi per il fatto che ciascun uomo pretende di affermare la sua assoluta libertà e indipendenza, e di essere riconosciuto come tale, senza però voler riconoscere a sua volta l’altro. Per esempio, un figlio adolescente pretende il riconoscimento unilaterale da parte dell’autorità del padre, che per lui significa dire: «Io sono grande e, se voglio uscire con gli amici, posso fare ciò che Io voglio!»
Allo stesso tempo, un padre pretende che il figlio sottostia e riconosca come assoluta la sua autorità, affermando che «Io sono il padre e decido Io cosa è meglio». In questo caso, è chiaro che le due auto-coscienze che sono coinvolte nello scontro si considerano entrambe come assolutamente libere e indipendenti, ovvero come un “puro essere per sé” che non è limitato da nulla poiché non è dipendente da nulla. Considerandosi così assolutamente libere, però, le due auto-coscienze non possono certo riconoscere l’altro come un loro stesso pari, ma soltanto come una cosa che limita momentaneamente la loro libera espressione di sé.

Siccome il riconoscimento è essenziale per l’auto-coscienza in generale, non le è mai sufficiente considerarsi libera in sé, ma sempre vuole essere riconosciuta in quanto libera dall’altra auto-coscienza. È così che nasce l’eventualità del conflitto e la vera e propria lotta per la vita e la morte: padre e figlio, per esempio, non si accontentano di dire «Io sono libero» ma bramano al contempo di ottenere la prova della propria libertà. Questa prova, ovviamente, passa attraverso l’altro, poiché mancando l’altra coscienza mancherebbe anche il mezzo del riconoscimento. Ecco che così si mostra il fraintendimento di fondo di questa lotta, in cui i due contendenti non comprendono che riconoscersi vuol dire includere e non escludere l’altro.

Ora, per Hegel, l’esito necessario di questa lotta tra auto-coscienze che si considerano astrattamente libere e indipendenti è che una delle due decida di abbandonare la scontro, al prezzo di riconoscere senza essere riconosciuta dall’altro contendente. Così si raggiunge una forma di riconoscimento, seppur assolutamente asimmetrica: un sé riconosce l’altro e così abbandona la propria assoluta indipendenza e libertà, l’altro sé rimane legato a questa indipendenza e libertà ottenendo il riconoscimento desiderato. Nel caso di padre e figlio, è solitamente il figlio che rinuncia alla sua libertà di uscire e divertirsi con gli amici e dà il riconoscimento dovuto al padre, che al contrario rimane fermo sulla sua posizione (ovviamente, è anche possibile che sia il padre a rinunciare alla sua autorità e lasciare fare al figlio tutto ciò che vuole).

In conclusione, la lotta per la vita e per la morte è estremamente interessante, poiché ci rivela qualcosa di essenziale sul modo in cui ci dobbiamo relazionarci agli altri; una relazione che passa attraverso l’evitare di affermare una concezione astratta e completamente auto-assorta della nostra identità. Infatti, ogni volta che crediamo di essere assolutamente liberi e indipendenti e di poter ottenere il riconoscimento dell’altro attraverso l’esclusione, ecco che siamo condotti alla più primitiva e ottusa violenza (sia verbale sia fisica); affermiamo, inoltre, con convinzione che la relazione con l’altro va rifiutata perché “Io” sono naturalmente auto-sufficiente e ci chiudiamo, infine, in un circolo vizioso di isolamento.

 

Gaia Ferrari

 

[Photo credit Marc Sendra Martorell via Unsplash]

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