Apologia di Socrate. Sono il tafano che vi impedisce di dormire

Per poterci orientare nel mondo, inteso come contesto socio-culturale nel quale ci troviamo, sono necessarie delle conoscenze. Queste portano perlopiù sull’insieme di regole che dobbiamo seguire per rapportarci adeguatamente gli uni gli altri, regole che ci vengono trasmesse fin dalla giovinezza da istituzioni come la famiglia e la scuola, e di cui sperimentiamo la forza quando usciamo di casa.
L’importanza del rispetto delle regole, che ci viene insegnata soprattutto mediante la paura della punizione in caso di trasgressione, ci abitua ad adattarci al modo in cui la società funziona e si forma in noi il senso della necessità di conformarsi. Contraiamo così delle abitudini, che ci portano ad agire in vari modi senza interrogarci a riguardo. Ed in questo senso l’abitudine diventa come una seconda natura1.
Questo nostro senso di adattamento si estende però a tutta una serie di pratiche che non sono direttamente riconducibili alle leggi, ma piuttosto alla contingenza del contesto sociale: modo di vestire, attività ricreative, interessi, carriera e in generale tutto ciò che è ritenuto prioritario o migliore. E poiché tutto intorno a noi sembra andare bene, non ci poniamo il problema se queste priorità siano tali legittimamente, e se “ciò che è meglio fare” lo sia veramente.
Ora, risulta chiaro che le conoscenze di questo tipo sono informazioni che ci vengono trasmesse da qualcuno: sono quindi conoscenze di seconda mano. Il nostro modo di pensare stesso è condizionato da quello che ci è stato insegnato nella nostra giovinezza, e se ci proviamo difficilmente riusciremo a render conto di tutto ciò a cui diamo il nostro assenso. Ma ci proviamo mai? Siamo abituati ad accettare pigramente senza indagare, senza porre in questione solo perché intorno a noi si fa così, e mettere in discussione i fondamenti della nostra vita di tutti i giorni ci spaventa. Così prendiamo tutto per buono e crediamo soltanto di sapere un mucchio di cose, perché sapere significa inevitabilmente essere in grado di giustificare2.

Questa necessità di interrogarsi su quello che facciamo emerge lampante nell’Apologia di Socrate di Platone. Socrate vuole mostrare a ciascuno che non vive secondo ciò che è giusto, ma secondo ciò che pensa essere tale. Non solo, Socrate lavora ad un secondo livello: egli sottolinea l’inconsapevolezza dell’ignoranza in cui si trovano i suoi interlocutori, che non sanno di non sapere. Tutti ci comportiamo seguendo questa nostra seconda natura che è l’abitudine, ma questo vuol dire subire il contesto ed esserne assorbiti. Ci allontaniamo da noi, e in questo senso siamo alienati. L’ignoranza della nostra ignoranza è la sostanza stessa di questa alienazione, che in quanto tale ostacola una reale presa di coscienza di noi stessi: «Mi sembrò che quest’uomo apparisse sapiente a molti altri e soprattutto a lui stesso, ma non lo fosse. Perciò cercai di dimostrarglielo. E così diventai odioso a lui e a molti dei presenti» (Platone, Apologia di Socrate, 21c).
Socrate non ha una conoscenza più profonda dei suoi concittadini su checchessia, ma possiede la semplice quanto determinante consapevolezza che non sa realmente nulla. E questa è una prima forma di conoscenza di sé e quindi di libertà: svuota lo spirito di tutte le false idee che gli impediscono di indagare poggiandosi non su quanto detto da altri, ma soltanto sull’osservazione della natura stessa della cosa, non facendosi guidare nelle sue analisi che da essa. 

Il nostro apparente benessere, perlopiù materiale, ci fa credere che tutto vada bene, e ci fa abbracciare immediatamente tutti i cosiddetti valori del contesto nel quale viviamo. Ma questo significa essere persone di seconda mano, comportarci in base alla contingenza dei tempi e non a ciò che veramente è degno di un uomo.
Non è facile mettere in discussione tutto ciò: significa contestare ciò che sentiamo essere la nostra identità, ciò che fin da bambini riteniamo giusto. Nondimeno è fondamentale fare questo sforzo, per non cadere nell’errore degli ateniesi di fronte al loro uomo più saggio: «Se mi condannate non troverete facilmente un altro che venga assegnato dal dio alla città come ad un cavallo grande e nobile, ma pigro a causa della sua grandezza e bisognoso di essere svegliato da qualche tafano. Ma può darsi che voi, che vi irritate in fretta e mi picchiate, come gente che casca dal sonno buttata giù dal letto, mi condanniate facilmente a morte, per continuare a dormire» (ivi, 30e).

Per la cronaca, Socrate è stato condannato.

 

Pietro Bogo

NOTE
1. Su questo tema cfr. Rousseau, Il contratto sociale, I, 2: «Gli schiavi perdono tutto nelle loro catene, finanche il desiderio di liberarsene: amano la loro servitù come i compagni di Ulisse amavano il loro abbrutimento».
2. Ciò che distingue il sapere scientifico dalla credenza e dalla fede è precisamente il fatto che ognuno, in teoria, può verificare tramite esperimenti la validità delle leggi.

 

[Photo credit Lysander Yuen via Unsplash]

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La bellezza del prestare attenzione

Perché dovresti stare qui e, come è scritto nel titolo, prestare attenzione? Senza nessun obbligo né biasimo, potresti benissimo interrompere qui la tua lettura, dimenticarti di queste parole in pochi minuti e andare avanti. Anche nella vita capita: spesso, ad ogni domanda a cui non si è in grado di rispondere in modo immediato, si risponde: “boh” e si va avanti. Quante volte siamo caduti in quei momenti di oziosa riflessione interrogandoci sulla nostra esistenza, o, scrollando su Instagram, ci siamo chiesti quanto ci fosse di vero e quanto di nascosto dietro agli apparenti attimi di vite perfette? Quante volte, usando un oggetto, ci siamo chiesti chi lo abbia inventato o da dove derivi il suo nome?

Qualcosa del genere è capitato a tutti, e di solito si reagisce così: si scrolla la testa, come per farsi scivolare la domanda giù dai capelli (per chi li ha) e si passa alla prossima frenetica attività tra le decine che occupano le nostre vite.
Eppure nasciamo pieni di domande, da bambini non si smette mai di chiedere, ci si meraviglia per ogni cosa perché tutto è nuovo, ma, man mano che si cresce, si smette di interrogare e interrogarsi. Arrivano le preoccupazioni, gli amici, il lavoro e in poco tempo, un “boh” per volta, ci si disabitua totalmente a farlo. 

Quindi ecco perché dovresti prestare attenzione: perché ogni volta che diciamo “boh”, ogni volta che ignoriamo la curiosità invece di coltivarla, una piccola parte di noi di spegne, si assopisce e alla fine si atrofizza.
Certamente è una soluzione facile; è facile perché abbiamo altro a cui pensare; perché, in un tentativo di scusa piuttosto goffo, riteniamo inutile pensare a quelle cose; o perché, più banalmente e semplicemente, non ne abbiamo voglia. Ecco, si può dire che il “boh” sia molto pratico come strumento: lascia in sospeso un problema finchè non evapora da sé

Arrivati a questo punto, ciò che ci può salvare non è che, per ironia della sorte, un’altra domanda: davvero ne vale la pena? Davvero sono disposto a rinunciare a interrogarmi, a scoprire, solo per ottenere in cambio un’apparente tranquillità, una mollezza priva di gusto che non fa altro che rendere la vita ogni giorno più grigia?
No ovviamente, bisognerebbe a questo punto gridare a gran voce, gettando via quel torpore! Il “boh” è facile, veloce, immediato; caratteristiche che nel nostro mondo sono viste come qualità, perché contribuiscono a rendere qualcosa più efficiente e funzionale, ma non fa altro che occultare, centimetro per centimetro, ciò che fin dall’antichità è considerato da alcuni come la massima espressione possibile di umanità, sebbene piuttosto faticosa da utilizzare correttamente: il pensiero. 

Solo attraverso il continuo pensare, l’interrogare il mondo, anziché subirlo passivamente, si può diventare persone più consapevoli, sempre investite da nuovi stimoli, si può provare a comprendere quel meraviglioso fenomeno che è la vita oltre al modo in cui appare; e sì, questo è enormemente complicato e a tratti scoraggiante, ma è l’unico modo che esista per essere veramente felici. 

E di questo messaggio, il quale più che una semplice riflessione è una vera e propria condotta di vita, si fa portavoce nientemeno che Platone, nella famosa Settima lettera. Qui egli parla di ciò che comporta la vera ricerca filosofica: afferma che la filosofia è sì questione di disposizione personale, ma soprattutto di impegno, di un lavoro continuo ed estremamente faticoso del pensiero, una salita che non risparmia neanche un singolo passo a chi decide di intraprenderla. E’ la strada più bella di tutte, ma anche la più difficile, che non ha scorciatoie, e chi vi si approccia tentando di trovarne si scoraggia, finendo per abbandonare la filosofia e riempirsi la bocca di opinioni poco ragionate e idee errate, ma più facili da ottenere, rinunciando quindi alla verità. 

Platone in questo testo sta parlando a Dionisio II, il tiranno di Siracusa, per saggiare il suo desiderio di conoscenza, che alla fine si rivela poco sincero. Mettendo da parte il caso specifico, il messaggio è chiaro: solo chi non si arrende davanti all’apparenza, chi è disposto a dedicare tempo ed energie a pensare a ciò che lo circonda, può praticare la filosofia, e quindi, per Platone, iniziare un cammino verso un’autentica felicità. Alla fine è questo il senso più profondo della filosofia: ci aiuta a capire in cosa siamo immersi tutti i giorni, ciò che ci circonda da sempre, ma che, per pigrizia, non abbiamo mai davvero osservato.

 

Alessandro Viotti
Dopo aver conseguito il diploma al liceo delle scienze umane, si è iscritto al corso di laurea in Filosofia, di cui sta frequentando il terzo anno. In particolare si interessa di filosofia antica, in merito alla quale sta scrivendo la sua tesi di laurea triennale, ma trova affascinante ogni branca di questa meravigliosa materia. Per qualche tempo si è dedicato alla divulgazione filosofica sui social, siccome ritiene che la filosofia possa davvero aiutare le persone a vivere meglio.

 

[Photo credit Kenny Eliason via Unsplash]

Ascoltare il proprio bisogno di pensare

Sentire la necessità e un vero e concreto bisogno di pensare, ai nostri giorni, potrebbe sembrare ai limiti dell’anacronismo. In un mondo che corre veloce e dentro il quale è facile percepire un senso di caos e smarrimento, desiderare di fermarsi a pensare suona quasi come un capriccio, una posa o un volersi sottrarre dall’attività, dal mondo produttivo, dallo scorrere del tempo ordinario. Ma facciamo un passo indietro: cosa significa pensare? Nel suo significato generico, che possiamo leggere come prima voce di un vocabolario, si tratta di esercitare l’attività del pensiero, cioè l’attività psichica per cui l’uomo acquista coscienza di sé e del mondo in cui vive. Ci aspetteremmo forse un significato maggiormente slegato dalla concretezza e più vicino a qualcosa di immateriale e privato, invece l’atto del pensare e il bisogno di pensare non è solamente legato alla nostra interiorità ma, a ben vedere, le sue implicazioni sono enormemente più vaste e ci consentono di abitare il mondo concreto con coscienza. 

Il momento o i momenti dedicati al pensiero – le ore, gli attimi che possiamo o desideriamo “regalare” a questo esercizio – lungi dall’essere slegati dalla realtà possono, al contrario, aiutarci a decifrare il quotidiano, il nostro tempo, ciò che sentiamo e ciò che amiamo. Allenare la nostra capacità di pensare, dare ascolto a quel bisogno profondo di fermarsi per riflettere e anche difendere questo bisogno non può far altro che migliorarci come esseri umani, perché è il pensiero e soprattutto lo sviluppo del pensiero critico a venirci in soccorso nei momenti di difficoltà, a farci porre un’attenzione particolare non solo a quello che vediamo intorno a noi ma anche a ciò che diciamo e facciamo nella vita di tutti i giorni. Se agire è il pensiero in atto e le nostre azioni sono il riflesso di quel pensare è di fondamentale importanza non mettere a tacere il nostro intimo bisogno di pensare, il desiderio che sentiamo di contemplare, di riflettere, di uscire momentaneamente dal mondo per rientrarci con una nuova difesa che è appunto composta dai nostri pensieri, unici, preziosi e che abbiamo avuto il coraggio di coltivare e veder crescere e svilupparsi. Ovviamente non tutti sentono nella stessa misura questo bisogno ma per quanto di diversa intensità il desiderio di pensare e l’atto stesso del pensare sono qualcosa che trascende l’età, il sesso, la provenienza geografica; è quella caratteristica che ci fa umani e questo lo rende affascinante e, allo stesso tempo (seppur in apparenza non tra i bisogni primari dell’uomo), proprio al vertice di un’immaginaria piramide di elementi non materiali eppure fondamentali per condurre un’esistenza consapevole.

Vito Mancuso, teologo e filosofo, ha intitolato proprio Il bisogno di pensare uno dei suoi libri (Garzanti, 2017). Qui l’autore dialoga con i suoi lettori al fine di risalire alle origini di questo bisogno tanto astratto all’apparenza eppure primordiale che ci rende così diversi da tutte le altre creature del Pianeta. Un bisogno che può anche prendere i connotati di urgenza, e infatti è intimamente legato al desiderio e al sogno. Quando pensiamo, cerchiamo e la nostra ricerca ci fa tendere verso la nostra interiorità, il nostro io più profondo al quale diamo ascolto e con il quale possiamo dialogare alla ricerca di risposte. L’esercizio del pensare è allora anche un esercizio spirituale, seppure si rifletterà sulla nostra esistenza tangibile e quotidiana. È uno strumento unico che può permetterci di non perdere la bussola ma anche fornirci un punto di appoggio per sollevarci quando tutto intorno a noi sembra crollare, ogni certezza farsi vana e, nella nostra esistenza quotidiana, percepiamo un senso di “bassezza”, di incolore uniformità:

«Io vi chiedo quale punto di appoggio avete per sollevare il vostro mondo dalle bassure dell’esistenza quotidiana» (V. Mancuso, Il bisogno di pensare, 2017).

Qui l’autore paragona il pensiero alla nota leva di Archimedeo. Il pensiero, in effetti, ci innalza ed è espressione di amore; quando si riconosce il proprio bisogno di pensare e lo si esercita, invero, si sta compiendo anche un atto d’amore, anzi più di uno: amore per la conoscenza, per l’approfondimento, per le domande, forse soprattutto per quelle che non avranno mai una risposta. Vale dunque la pena strappare dalle nostre giornate momenti da dedicare al pensiero e difendere quel bisogno prezioso, non soffocarlo e lasciarlo invece andare; sarà bello vedere dove ci porterà.

 

Veronica Di Gregorio Zitella

 

[Photo credit prottoy hassan via Unsplash]

 

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Il viaggio dell’eroe della mitologia nella società di oggi

La società attuale segue una profondità dinamicità interna: ogni attimo diventa essenziale per poter cogliere le migliori occasioni, altrimenti si rischia di rimanere indietro. Il presente è più vivo che mai, ma risulta difficile poterlo afferrare: ciò che ieri era il meglio, oggi rischia di non esserlo più e l’indomani offre sempre novità imprevedibili. Ecco che l’immagine di ciascun soggetto difficilmente ottiene un punto di appoggio su cui costruirsi. Per tentare di rimanere a galla, si ricerca questa àncora nell’accettazione dagli altri: mostrarsi parte integrata in questa dinamicità. Questo stile di vita però rischia di disperdere ciò che rende davvero umano: importa solo l’apparenza, la soggettività passa in secondo piano, portando alla anonimità. È possibile trovare un punto di appoggio diverso che possa riportare se stessi al centro?

Lo scrittore Joseph Campbell, nella sua redatta antologia di conferenze Percorsi di Felicità (2004), propone un punto fermo, non da cercare all’esterno, ma da ricercare in se stessi. Questo è raggiungibile solo se si esce dallo stato di sonnolenza, favorito dall’adeguamento sociale, per poter concepire un nuovo senso di cosa significa essere umani. Per giungere a ciò, Campbell propone di riportare in auge una prospettiva che al giorno d’oggi non ha molta considerazione nel mondo occidentale: la mitologia.

La mitologia ha sempre avuto un ruolo centrale nella esistenza umana: costruire un significato che intrecciasse ogni cosa. Nel corso dei secoli il suo nucleo è sempre rimasto invariato; non è un caso che in ogni civiltà si ritrovino miti che cercano di offrire una spiegazione in cui ogni cosa ha un preciso scopo, e in cui si intessono le leggi da rispettare per garantire un equilibrio generale. La sua finalità ultima era quella di costruire un modello attraverso cui l’uomo potesse scoprire il suo ruolo nel mondo. Non si tratta tanto di aderire ad una prospettiva teologica, quanto piuttosto di formarsi come esseri umani, grazie alla funzione pedagogica che può ancora dare un valore tutto da gustare e da sfruttare.

Quello che infatti oggi sfugge, riguarda il profondo legame tra natura umana e mitologia: i racconti mitici non sono nulla di estraneo all’esistenza, quanto proiezioni dell’inconscio collettivo. Campbell propone una visione secondo cui ogni mitologia propone modelli come esempio, in cui i protagonisti fuggono dal ruolo impostogli per poter arrivare a essere se stessi. Ognuna di queste mitologie presenta il tentativo di connettere l’uomo con la propria dimensione interiore di umanità, testimonianza è la presenza di un filo conduttore comune: il viaggio dell’eroe. Questo è caratterizzato dalla presenza di un singolo che decide di andare incontro a ogni sfida, ad ogni pericolo, per poter tornare trionfante nella sua terra, profondamente cambiato.

È possibile costruire un parallelismo con la vita quotidiana: ogni sfida riguarda un confronto con sé stessi affinché ci si possa ricostruire pezzo dopo pezzo, liberi da ogni catena. L’eroe è ciascuno di noi che si avvale delle sue risorse per poter trovare la propria felicità, una connessione profonda con la sua interiorità. La strada di questo viaggio non è battuta: non esiste un sentiero preimpostato. Ciascuno deve avventurarsi da solo, ognuno possiede una soggettività irriducibile a cui nessun’altro ha accesso.

«Noi entriamo nella “selva oscura” dal punto più buio, dove non ci sono sentieri. Dove c’è un sentiero o una strada, è il sentiero di qualcun altro; ogni essere umano è un fenomeno unico. L’idea è di trovare il proprio percorso verso la felicità» (J. Campbell, Percorsi di felicità, 2004).

La propria soggettività richiede di essere ascoltata: solo ognuno può fare i conti con sé stesso. L’intero percorso è solcato da rischi, più di una volta la tentazione di tornare indietro si farà sentire, ma anche solo la possibilità di gustare una felicità autentica permette di non demordere:

«Ripetutamente siamo chiamati al regno dell’avventura, verso nuovi orizzonti. Ogni volta si presenta lo stesso problema: rischio? E se si rischia, ci sono pericoli e aiuti, realizzazione e fallimento. La possibilità di fare fiasco c’è sempre. Ma c’è anche la possibilità della felicità» (ivi).

Questa funzione pedagogica del mito oggi viene applicata in modo diverso: si ricerca la strada non nell’ascoltare gli altri, come nella tradizione orale mitica, ma in uno spazio privato grazie alla lettura. La narrativa risulta svolgere lo stesso compito: diversi autori offrono spunti di vita entro cui ognuno può ritrovare affinità con sé. Il libro diventa il miglior alleato di ciascuno di noi, uno strumento da usufruire per aiutare ad imboccare quella strada nella ‘selva oscura’.

 

Tommaso Donati
Nato a Busto Arsizio il 04/05/2002, decide di intraprendere gli studi in Filosofia presso la Univerisità Degli Studi di Milano. Lettore vorace, considera la riflessione critica come uno strumento indispensabile per la quotidianità.

 

[Photo credit Chris Czermak via Unsplash]

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Verità e opinione: il postmodernismo nel quotidiano

Ciascuno di noi ha una sua personale visione del mondo, una filosofia più o meno articolata. Ogni qualvolta ascoltiamo un TG, leggiamo un giornale o un articolo su Facebook siamo soliti integrare le informazioni assorbite nella nostra personale filosofia.

Se dovessimo prendere tre individui e chiedere loro di commentare una notizia o di valutare un dato noteremo come ciascuno avrà una sua differente sfumatura di pensiero. I tre individui potrebbero avere tre opinioni in netta contrapposizione. Questo fatto porterebbe un eventuale esaminatore ad affermare che nessuno dei tre abbia totalmente ragione o totalmente torto e che non esista un vero e un falso, ma solamente diverse interpretazioni.

Quanto esposto nelle righe precedenti è l’idea che sta alla base della filosofia postmoderna, espressa da Jean-François Lyotard nella sua opera del 1979 La condizione postmoderna – Rapporto sul sapere: non esistono verità, ma solo interpretazioni. Secondo i postmodernisti, gli uomini hanno da sempre cercato di spiegare il mondo attraverso delle grandi narrazioni come Cristianesimo, illuminismo, idealismo, marxismo, esistenzialismo e così via. Tutte queste narrazioni, ad un certo punto della storia (nel XX secolo), sono venute meno lasciando il posto alle interpretazioni. Non è possibile tracciare, in poche battute, una genealogia delle cause e delle conseguenze del postmodernismo, perciò tenteremo solo di delineare alcuni degli aspetti postmoderni sul piano pratico. 

La visione postmoderna, anche se non ce ne accorgiamo, permea tutto il nostro modo di concepire la realtà dalle nostre piccole e personali visioni del mondo che rafforziamo quotidianamente, fino alle speculazioni degli intellettuali, dei giornalisti e dei politici.

La condizione postmoderna, dal mio punto di vista, è una “malattia filosofica” che abbisogna di un superamento, per le ragioni che vedremo a breve. Essa è profondamente radicata nel nostro modo di pensare e perciò non semplicissima da superare. Tuttavia, abbiamo il vantaggio di potercene liberare partendo dal nostro quotidiano.

La visione postmoderna è fondata su una contraddizione intrinseca: se non esiste nessuna verità e ci sono solo interpretazioni, l’asserzione «non esistono verità ma solo interpretazioni» è vera o falsa? Se è vera ci si contraddice perché almeno una verità esiste, se è falsa, allora, è vero il suo opposto e cioè «una verità esiste». 

Oltre a quanto detto sopra, non è possibile che due interpretazioni antitetiche di uno stesso fatto siano contemporaneamente vere. Come spiega Aristotele nel IV libro della Metafisica: non è dato che A e non-A siano contemporaneamente vere nello stesso momento e sotto il medesimo aspetto. Capiamo con un esempio: un individuo X non può essere, allo stesso tempo, e sotto lo stesso aspetto, “bianco” e “non-bianco”.

Com’è quindi possibile superare il postmodernismo? Il primo strumento è la capacità argomentativa, l’argomentazione è l’unico mezzo per dimostrare la veridicità delle nostre tesi. Bisogna tener presente che nessuno è tenuto a dar credito a un’opinione priva di argomentazioni. Quando veniamo a conoscenza di “un qualcosa” (sia esso una notizia o altro), attraverso i telegiornali o qualsivoglia mezzo di comunicazione di massa, dobbiamo andare alla ricerca di fonti attendibili che dimostrino, o che smentiscano, ciò che è appena giunto alle nostre orecchie. Qui potrebbe sorgere un problema: come si distingue una fonte argomentativa attendibile da una non attendibile? La risposta è semplice da capire ma complessa da mettere in pratica: bisogna chiedersi quale sia l’intento del produttore della fonte, si tratta di qualcuno che intende raccontare con onestà intellettuale un fatto, o si tratta di qualcuno che ha un piano ideologico prestabilito in mente e produce fonti ad hoc per propagandare la sua visione?

Un altro strumento per superare il postmodernismo, dal mio punto di vista, è quello di non confondere il rispetto per l’altro con l’accettazione passiva delle sue idee: un individuo e le sue idee non sono totalmente sovrapponibili, se qualcuno asserisce «la Terra è piatta», noi non siamo tenuti a considerare la sua opinione come “valida” per paura di mancargli di rispetto. Le proprietà possedute o non possedute dal nostro pianeta e gli individui che le esprimono verbalmente sono realtà ben distinte, l’inviolabilità di ogni individuo non è una condizione sufficiente a ritenere “degna di considerazione” ogni sua opinione. 

Vi sarebbero ancora molti strumenti per superare il postmodernismo, mi limito ad aggiungerne uno. Il fatto che alcune verità siano sconosciute non implica che queste non ci siano, si badi a non cadere nell’arroganza di chi si autoproclama “arbitro del vero” ritenendo inesistente tutto ciò che è a lui sconosciuto.

 

Riccardo Sasso

Riccardo Sasso è laureato in storia e filosofia presso l’università di Trieste e sta frequentando il corso di laurea magistrale in filosofia presso gli atenei di Trieste e di Udine.
I suoi principali interessi sono la patristica e la scolastica medievale, la filosofia del Novecento, in particolare, la neoscolastica; la teologia della liberazione e la filosofia analitica.
Oltre alla filosofia, si interessa di storia contemporanea, economia, politica e attualità.

 

[Immagine tratta da Unsplash.com]

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Sull’importanza della filosofia per noi, oggi

Perché è o dovrebbe essere importante la Filosofia per tutti noi oggi? E che cosa intendiamo quando utilizziamo questo termine?
«Se oggi parliamo di filosofia è perché i Greci hanno inventato la parola philosophia, che significa amore della saggezza, e perché la tradizione della philosophia greca si è trasmessa al Medioevo e quindi ai Tempi Moderni»1. Con queste parole, Pierre Hadot (1922-2010), considerato uno dei maggiori specialisti contemporanei nel campo degli studi di filosofia antica sintetizza il percorso storico della Filosofia.

Ma questo amore della saggezza, come è giunto fino a noi oggi? attraverso quale immagine semantica? Non è forse vero che immaginiamo esistere da qualche parte una saggezza, un sapere vero mai pienamente raggiungibile? e che immaginiamo il filosofo tentare da solo questo sforzo?

In realtà, se è vero che «non è nella natura dell’uomo possedere un sapere […] tale che se lo possedessimo sapremmo cosa fare e cosa dire»2, è altrettanto vero che è proprio il nostro, di fatto, condividere tempi
e spazi comuni, nella molteplicità delle sue forme e dinamiche, a ricreare ininterrottamente e senza fine l’esigenza di sapere come vivere e come vivere insieme.

Non disponiamo di alcun sapere vero definitivo, applicabile efficacemente senza margine di errore ad ogni circostanza; non possiamo raggiungere la saggezza, pur se ne tentiamo l’impresa con sincera e ammirabile convinzione. Non potremmo mai contemplare simultaneamente tutta la contingenza possibile ed agire con assoluta certezza.
Eppure la Filosofia come amore inarrestabile della saggezza, come ricerca che non conquista ciò che sembra promettere, non è un’attività inutile e marginale, in quanto le forme e le dinamiche della nostra vita individuale e collettiva si originano silenziosamente e senza sosta dall’humus del nostro pensiero.

Di conseguenza, le questioni poste dalla Filosofia non sono superflue, non costituiscono un sovrappiù intellettivo, non conducono ad un’indagine sterile ed improduttiva perché inevitabilmente «we live some answer to these questions every day»3.

Cosicché, la Filosofia che lavora con ciò che riteniamo costituire il perno del nostro volere, del nostro agire e del nostro pensare rappresenta un’attività primaria e molto speciale poiché permette al nostro pensiero di costruire e modellare attivamente le forme e le dinamiche della nostra vita personale e sociale.
Per questo, la Filosofia non può e non deve delinearsi come attività esclusiva né tantomeno escludente, ma rendersi disponibile a chiunque sperimenti interiormente e/o esteriormente una sfasatura significativa e rilevante tra ciò che sente essere e ciò che sente dovrebbe essere.
Ecco la preziosità e l’importanza della Filosofia che riesce a materializzare la nostra sensibilità in parole, rendendo la nostra ragione più delicata e il nostro sentimento più prudente.
Ecco il nostro impegno filosofico che non può e non deve mai dissolversi, mai mancare; il suo evidente, costitutivo, ineliminabile ed irrimediabile fallimento nel raggiungimento del vero sapere rappresenta in realtà, la miglior garanzia di massima libertà di pensiero e di azione poiché è il nostro vivere insieme nella sua mobile e irrevocabile contingenza a costituire una fonte inesauribile di problematicità e ad esigere per questo, un plurale coinvolgimento e un impegno attento e costante.
Nessun sapere vero da applicare ma un intero mondo da costruire.

In conclusione, la Filosofia non è da qualificarsi in negativo, come attività che aspira alla saggezza senza mai raggiungerla, ma in positivo, come quella attività che permette di tradurre ed esprimere a parole quella particolare sensibilità che inevitabilmente viaggia e viaggerà nel tempo sempre con noi. Non si tratta di impegnarsi in un’ impresa solitaria dall’obiettivo irrealizzabile ma di sentirsi legittimamente, pienamente e socialmente coinvolti in un’attività corale capace di dar forma, concretezza ed espansione alla nostra singola voce: non per imporsi ma per collaborare, non per contestare ma per proporre, non per non cambiare mai ma per imparare a farlo. Infondo, «il vero sapere è in realtà un saper fare, e il vero saper fare è il
saper fare il bene»4.

Nessun sapere vero da raggiungere ma un tesoro dal valore incommensurabile a cui attingere ed al contempo, arricchire con la nostra singolare sensibilità. La Filosofia è amore della saggezza non perché desidera definitivamente definirla ma perché desidera infinitamente realizzarla.

 

Anna Castagna

 

Nata a Verona e laureata in Filosofia nel 2004.
Impiegata fino al 2015.

 

NOTE:
1. P. Hadot, Che cos’è la filosofia antica?, Einaudi Editore, Milano 2010 (ed. originale 1995), p. 4.
2. Ivi, p. 51.
3 M. J. Sandel, The moral side of murder – Lecture 1 – www.justiceharvard.org.
4. P. Hadot, op.cit., p. 21.

[Photo credit unsplash.com]

Il pedagogista cristiano: tra pedagogia, etica e spiritualità

«L’essere umano non è chiamato a vivere,
ma a vivere bene».
– Giuseppe Mari

Nel seguente articolo tratterò il concetto di pedagogista cristiano prendendo spunto dalla prospettiva del Professor Giuseppe Mari. In sede introduttiva è doveroso esplicitare che ha avuto una formazione filosofica ed è stato professore ordinario di Pedagogia presso l’Università Cattolica di Milano e presso IUSVE (Istituto Universitario Salesiano Venezia). Ha preso parte a numerosi gruppi di ricerca nazionali ed internazionali, tra cui Scholè (Centro Studi tra Docenti Universitari Cristiani), SoFPhiEd (Société Francophone de Philosophie de l’Education, Paris) e SEP (Sociedad Española de Pedagogia, Madrid). Per la stesura dell’articolo ho preso spunto dal suo testo Pedagogia cristiana come pedagogia dell’Essere.

Nella prospettiva che ha portato avanti il pedagogista, l’apporto del Cristianesimo costituisce uno snodo centrale nella ricerca di Senso. Il filone culturale preso in considerazione si fonda su «una fede che intimamente anima la persona»1. Questa affermazione mette in luce la possibilità di un percorso di ricerca accurato e profondo, verso la scoperta e costante alimentazione del proprio credo. Inoltre è necessario non tralasciare l’aspetto della relazionalità, che anima l’essere umano.
In secondo luogo lo studioso ha posto magistralmente in questione il fatto che il Cristianesimo viva un’«intima tensione […] tra umano e divino»2. Essa è riscontrabile sia nella dottrina della creazione dell’essere umano a immagine di Dio, sia in quella dell’incarnazione di Gesù. La dottrina cristiana è quindi fondata su un delicato equilibrio che si crea tra la polarità della secolarizzazione e quella della sacralizzazione, entrambi concezioni errate del Cristianesimo. In questo senso, lo sbilanciamento verso una parte piuttosto che l’altra porta ad uno «snaturamento dell’ispirazione religiosa cristiana la quale crede che il Verbo si fece carne»3.
Giuseppe Mari, durante la sua vita, si è interrogato sulle potenziali ricadute etiche e pedagogiche derivanti da questa prospettiva; ciò lo ha portato ad identificare la figura del pedagogista cristiano. L’idea è fondata sulla possibilità di un dialogo costruttivo e non confessionale del Cristianesimo con i vari apporti disciplinari specifici, i quali costituiscono la nostra società tecnica. Questa apertura è possibile tramite un passaggio cardine, ovvero la fondazione scientifica di una riflessione educativa «condotta da credenti ma non fondata sul postitum confessionale [comunque assolutamente decisivo per un’identificazione cristiana cattolica] bensì in analogia con le altre scienze»4. Nel caso del pedagogista cristiano la riflessione è fondata sulla Pedagogia in quanto scienza.

Il ricercatore, in maniera accorta ed equilibrata, ha prevenuto la relativizzazione dell’apporto di riferimento. Essa ne causerebbe un intimo snaturamento. In questo senso, citando Berti, scrive: «Ma che cosa si vorrebbe? […] Non solo che la Chiesa si aprisse, come effettivamente si apre, ad un pluralismo filosofico, ammettendo come compatibili con la fede una pluralità di filosofie (cosa che essa fa) ma che le ammettesse tutte, diventando in tal modo essa stessa relativista?»5.

Dall’affermazione si comprende l’intento chiarificatore ed a favore dell’idea che all’interno della società contemporanea debba essere mantenuta viva la prospettiva cristiana, poiché è eticamente e spiritualmente forte. La Rivelazione di Gesù ne costituisce un aspetto centrale e l’originalità pedagogica che quest’ultima porta è accostabile tramite il messaggio evangelico. Per Mari il Vangelo veicola contenuti educativi la cui mediazione
richiede attenzione e intenzionalità, poiché l’inculturazione cristiana portata da Gesù non deve essere intesa come «esemplarietà esclusiva [ma] deve tenere conto delle molteplici (e nuove) variabili culturali»6.

In conclusione desidero esplicitare il motivo per cui ho trattato questo argomento. In primo luogo ho scelto questo tema perché credo che il fatto di esplicitare una tensione tra due polarità che snaturano il Cristianesimo (secolarizzazione e sacralizzazione), consenta al lettore di identificarle nella sua vita personale e comunitaria. In secondo luogo credo che l’articolo fornisca una possibilità di riflessione sulla “collocazione” personale e comunitaria rispetto ai poli della alla tensione identificati sopra; la collocazione può essere bilanciata oppure sbilanciata verso uno dei due, e necessitare di un ricentramento. Infine la prospettiva del pedagogista cristiano è fattibile quotidianamente attraverso azioni solidali semplici e concrete.

 

Matteo Milanese

Mi chiamo Matteo Mianese, ho 22 anni e vivo a Mirano in provincia di Venezia. Nel 2016 ho conseguito il Diploma di Tecnico dei Servizi socio-sanitari presso l’istituto Vendramin Corner a Venezia. Quest’anno mi sono laureato in Scienze dell’Educazione-Educatore della Prima Infanzia presso IUSVE a Mestre ed al momento sto proseguendo con la Magistrale in Scienze Pedagogiche nella stessa università.

 

NOTE
1 G. Mari, Pedagogia cristiana come pedagogia dell’essere, Editrice La Scuola, Brescia, 2001, p. 260.
2 Ibidem
3 Ivi p. 261
4 Ivi p. 262
5 Ivi p. 268
6 Ivi p. 265

Geni si diventa! Appello per lo studio della Filosofia

Oltre 100 accademici, centinaia di professori della Scuola e altri professionisti di tutta Italia vi hanno già aderito. La testimonianza di Costantino Esposito e il suo invito  alla filosofia, come firmatario del Manifesto per la filosofia.

Una volta Oscar Wilde ha scritto che a dare risposte son capaci tutti, mentre è per porre la vere domande che ci vuole un genio. Ma si può imparare ad essere un genio? Verrebbe da rispondere di no, poiché la genialità è quasi un talento naturale o una dote eccezionale del singolo individuo. Eppure, se ci pensiamo, c’è una sorta di “genialità” che appartiene quasi nativamente alla nostra intelligenza (indipendentemente dal fatto di essere poi dei “geni”). È quello di cui parla Cartesio all’inizio del Discorso sul metodo (1637): la cosa meglio distribuita al mondo, quella “naturalmente uguale in tutti gli uomini” è il buon senso o ragione, vale a dire “la capacità di giudicare rettamente, discernendo il vero dal falso”; e la diversità delle nostre opinioni non deriva dal fatto che alcuni possiedano una quantità maggiore di intelligenza rispetto ad altri, ma dal fatto che seguiamo strade diverse e non prendiamo in considerazione le stesse cose. Per questo, come avverte in maniera fulminante Cartesio, «non basta avere un buon ingegno: l’essenziale è applicarlo bene». E questo sì che lo si può imparare, nel senso che si può – e si deve anche, se non si vuol rinunciare al proprio ingegno – imparare a riconoscere la via attraverso cui esercitarlo, ossia il “metodo” richiesto per raggiungere la verità (ed evitare la falsità). Per questo non è contraddittorio dire che geni si nasce nella misura in cui lo si diventa.

Forse è a questo livello che si può tentare di rispondere alla domanda se valga (ancora!) la pena studiare filosofia. Le soluzioni tradizionali di tale quesito (soprattutto in riferimento alla collocazione della disciplina “filosofia” nei curricula scolastici) consistevano prevalentemente nel rivendicare due tipi di funzione a questo insegnamento: una funzione per così dire “architettonica”, secondo la quale la filosofia avrebbe il compito di connettere in un quadro unitario i diversi campi del sapere prospettando l’obiettivo cui tutte le conoscenze tendono; e una funzione “critica”, grazie alla quale gli studenti possano esercitare una riflessione e una valutazione del loro stesso sapere e delle motivazioni delle loro azioni. Mentre la prima funzione è oggi probabilmente molto più indebolita rispetto alla tradizione storicistica italiana; è certamente la seconda funzione quella che oggi resiste meglio e viene continuamente rilanciata. E tuttavia, se da un lato la formazione di una mentalità critica costituisce un programma condiviso e conclamato, dall’altro esso rischia sempre di dare per scontato il suo obiettivo, cioè quello di fornire un metodo per il buon uso della nostra intelligenza, o meglio ancora, quello di fornire le condizioni per poterlo trovare. Per questo mi pare che la cosa più utile possa essere proprio il non considerare come cosa ovvia la dinamica della nostra ragione e quindi la posta in gioco delle nostre conoscenze e delle nostre azioni, finendo per intenderla come il risultato di strategie di apprendimento o di tecniche retoriche.

È assai diffusa l’idea che uno studio come quello della filosofia fornisca gli strumenti più utili per i procedimenti di “problem solving”, la soluzione dei problemi che si presentano continuamente nei più diversi campi del pensiero e dell’attività umana (dall’economia alla politica, dalla gestione delle risorse umane all’ottimizzazione dei processi socio-politici ecc), proprio perché insegnerebbe a “ragionare”. Ma forse la leva della competenza filosofica, più che nel saper risolvere problemi (e proprio per poterlo fare), sta nel saper porre le domande giuste. Porre una domanda è davvero il lavoro più impegnativo per la nostra intelligenza, poiché si tratta di capire che cosa c’è al mondo, e che cos’è quello che c’è. Sembra l’attività di un notaio o di un mero registratore, mentre è l’attività di un genio (e naturalmente anche i notai sono chiamati ad esserlo!).

Proprio per imparare a porre le domande vere (cioè quelle che più “rispondono” alle cose), vale ancora la pena avventurarsi nella storia del pensiero, alla scoperta di come questa competenza del domandare sia stata esercitata. Come testimoniano le vicende straordinariamente variegate e differenziate della filosofia, ogniqualvolta la ragione umana mette in questione il reale, interrogandosi sul suo significato e provando a discutere criticamente quello che sembra ovvio o si crede per abitudine, si mette in moto un’esperienza che è realmente un’avventura, in cui per ciascuno possono aprirsi spazi di senso e possibilità inedite. Insomma, studiare filosofia non solo può essere ancora utile, ma risulta quasi necessario in un tempo tanto cangiante come quello di oggi. Per questo ho sottoscritto il Manifesto per la Filosofia assieme a decine di colleghi e merita che continui a esser sempre più condiviso.

Costantino Esposito
Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”

manifesto-per-la-filosofia_copertinaAbbiamo bisogno del vostro sostegno e delle vostre firme!
Ecco il link per firmare il manifesto
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L’elenco dei primi firmatari qui

Per info: manifestoperlafilosofia@gmail.com

 

 

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Breve storia del dualismo per principianti

Vi siete mai chiesti in che relazione siano anima e corpo? Oppure, per dirla in termini più “scientifici” e attuali, mente e cervello? Esistono davvero entrambi, oppure tutto ciò che pensiamo, proviamo, facciamo è riducibile alla materialità della nostra corporeità?
I discepoli scientisti del “se non vedo, non credo”, ritengono che tutto ciò che esiste realmente sia solo fisico e tangibile.
Secondo me, invece, in questa prospettiva completamente materialista, c’è una riduzione ingiusta della natura e dell’uomo alla sua sola cosalità.
Niente di male, ci mancherebbe, nel vivere secondo materia: tutto ha un corpo e la corporeità è il nostro unico modo d’esistere, il corpo permette di relazionarci con il mondo. Ma se mancasse qualcosa, non necessariamente migliore, superiore o più sacro del corpo e della materia, ma che li completi? Spirito, anima, forma, mente, date all’invisibile il nome che più vi piace.

Ammettendo l’esistenza di questo non tangibile, in che rapporti sarebbe con il tangibile? La maggior parte, scommesse aperte, risponderebbe affermando due principi separati, anima da un lato e corpo dall’altro.
Persino molti cristiani – cattolici e non – che credono, in teoria, nella resurrezione della carne, in cuor loro immaginano l’anima immortale in Paradiso e il corpo dimenticato sottoterra chissà dove.
E la colpa, se consapevoli o ignari, pensiamo dualizzando è della filosofia. O meglio, di alcuni grandi filosofi.

Da Platone in poi, tutto fu due.
È dal più brillante dei discepoli di Socrate che per la prima volta, nella storia della filosofia, entra di gran carriera l’idea dell’esistenza di due mondi separati, il primo, per origine ed importanza, eterno, immobile, incorruttibile; l’altro, transeunte, in continuo divenire, sottoposto a generazione e corruzione.
Nessun vento contrario poté opporsi alla forza della navigazione portata avanti dalle braccia del filosofo, che avrebbe pronunciato la sentenza secondo la quale materia e spirito, sensibile e sovrasensibile, sarebbero ontologicamente differenti e l’uno subordinato all’altro.

Aristotele tentò di porre rimedio alla divergenza abissale tra materia e forma inserendo il concetto di sostanza, ma non bastò a risolvere la questione.
Sulla scia del neoplatonismo e del manicheismo, Agostino perpetuò l’idea di corpo impuro e materia malvagia, assunti che Tommaso rivide dicendo che l’anima, la carne e le ossa appartengono alla struttura stessa dell’uomo (d’altro canto Gesù diceva che il corpo è tempio dello Spirito!).

Ma la modernità s’affacciò prepotente e matematica sul pensiero medioevale al tramonto, fiduciosa dei suoi alambicchi  e certa delle sue equazioni.
Cartesio, con la sua celebre massima “Cogito ergo sum, pose la pietra tombale sulla possibilità di riunire anima e corpo nei secoli filosofici a venire. Res cogitans e res exstensa, pensiero e materia, nell’uomo così maldestramente collegate da una qualche ghiandola, costituirono la base della sua riflessione e di problemi che tutt’oggi non riusciamo a scrollarci di dosso. La materia, operante secondo leggi fisiche determinate, altro non era se non un guazzabuglio di qualità miste ad estensione e, nel caso del corpo umano o animale, le parti costituivano una macchina in tutto e per tutto insensibile di per sé, animata da un io pensante, una coscienza sicura solo della propria esistenza grazie a un percorso che parte dal dubbio iperbolico per approdare a una verità propria dell’attività noetica. Solo all’anima spettavano le sensazioni, le esperienze, la ricerca della verità.

Kant, sicuramente uno dei più grandi pensatori di tutti i tempi, riuscì solo a spostare il problema che, dall’ambito ontologico – ossia dell’essere – passò a quello conoscitivo (possiamo conoscere solamente i fenomeni, ma non potremo mai arrivare all’essenza delle cose!); e anche lo Spirito di Hegel, benché non immediatamente, si rivelò un buco nell’acqua ai fini della risoluzione del problema, che tutt’ora perdura se non proprio a livello accademico (un particolare tipo di approccio fenomenologico pare abbia tentato di sciogliere i principali nodi), almeno per il senso comune.

La scienza contemporanea, infatti, confonde ulteriormente le acque, tentando di mostrare come tutte le attività che prima attribuivamo all’anima o alla mente, non siano altro che particolari legami tra neuroni: questo non solo è improbabile da affermare alla luce delle attuali conoscenze, ma condiziona il senso comune già accennato: quanti agiscono come se avessero un’anima, ma, se viene chiesto loro cosa ne pensano a riguardo – si sa che con l’internet tutte le discipline sono diventate democratiche (ma giuste?) piazze di dibattito – , rispondono riponendo piena e totale fiducia nella ricerca scientifica che un giorno arriverà a dirci come il nostro cervello produca pure emozioni e coscienza e pensiero.

Come risolvere, dunque, la questione? Accogliendo a braccia aperte i grandi traguardi delle scienze naturali, per poi ritornare, con questi nuovi tesori tra le mani, alla filosofia, dove tutto ha avuto inizio. Troppo spesso l’approccio scientifico riduce e riduce, fino a conglomerare l’uomo e il mondo in una capocchia di spillo, come se potesse davvero esaurirsi tutto fisico, tutto lì.
Ed è qui che rientra in gioco la filosofia, come via preferenziale per capire l’uomo e non solo: essa è l’unico modo possibile per imparare a vedere il mondo nella sua interezza, è un esercizio faticoso ma che permette di conoscere il senso d’essere del mondo e di collocare le cose stesse all’interno di un orizzonte di senso.

 

Vittoria Schiano di Zenise

 

24 anni, studentessa magistrale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, s’interessa particolarmente di Filosofia Teoretica e Bioetica.
Convita sostenitrice della dell’utilità pratica e quotidiana della Filosofia, s’impegna nella divulgazione di vario genere.
S’approccia allo studio della percezione, attraverso gli scritti di Maurice Merleau-Ponty, e a quello che ne consegue: filosofia della mente, estetica, psicologia e – soprattutto – lingua francese.

 

[Photo credits Cody Davis on unsplash.com]

Sul senso critico nell’epoca della smaterializzazione

Invitato dalla redazione de La Chiave di Sophia, lo scorso 14 novembre ho tenuto una conferenza nell’Università di Venezia sul tema dei cambiamenti in atto nell’ambito della comunicazione visiva. Nel corso dell’incontro, una signora tra il pubblico mi ha chiesto se nel nuovo scenario sia ancora possibile educare al senso critico. È una domanda del tutto comprensibile. Fondamentalmente essa nasce dal timore che di fronte all’impatto dei social network o dei nuovi media, non si sia sufficientemente in grado di reagire in modo appropriato.

In realtà, per parlare del senso critico non è sufficiente parlare del senso critico. Mi scuso per il gioco di parole, ma se non leggiamo correttamente il contesto in cui la domanda sul senso critico si pone, lo stesso domandare rischia di diventare evanescente. E, dunque, siamo effettivamente in grado di vedere nella sua reale portata il contesto in cui viviamo? Ci sono eventualmente ostacoli che si frappongono tra noi e la realtà, impedendoci di coglierla per come è?

Il gesto di Huizinga

Agli inizi del Novecento, Johan Huizinga scrive La crisi della civiltà, uno studio in cui si osserva che i fatti dello spirito sono diventati maggiormente indagabili e la competenza del reale ha raggiunto vette fino a quel momento inimmaginabili. Poi, però, nel capitolo Generale indebolimento del raziocinio, lo studioso olandese spiega che tali conseguimenti sono solo apparenti perché essi non si traducono in un perfezionamento delle esperienze individuali. Prendendo in esame il cinematografo, che rappresentava una delle principali innovazioni della sua epoca, Huizinga formula un giudizio di condanna senza appello. Lo «sguardo cinematografico», egli sostiene, comporta «l’atrofia di intere serie di funzioni intellettuali». La radicale critica di Huizinga sorprende anche perché viene formulata proprio mentre, negli stessi anni, molti intellettuali elogiano il dispositivo cinematografico per il potenziamento delle possibilità espressive da esso dischiuse. Rileggendo quelle pagine sembra di assistere ad una sorta di irrigidimento, come se le parole dello studioso fossero dettate da un gesto preliminare. Lo vedete, il gesto? È il coprirsi gli occhi, una postura preventivamente antalgica che si assume prima ancora di avvertire un dolore. In pratica, si preferisce non vedere. È questo il rischio che stiamo correndo noi, senza accorgercene, di fronte alle specificità del contesto in cui viviamo?

Lo sguardo pietoso del tabaccaio pisano

Qualche giorno fa, ho deciso di spedire una lettera ad un amico. Sono uscito per andare dal tabaccaio a comprare un biglietto, una busta ed il francobollo. Qui, la mia sorpresa: trovare un biglietto e una busta era molto più difficile di quanto pensassi. I tabaccai ne erano sprovvisti. Uno dei loro, un signore anziano, con gli occhiali dalla montatura nera poggiati in avanti, sul naso, ha usato una particolare cautela nel dirmi di non avere ciò che cercavo. C’era, nel suo sguardo premuroso e nelle sue parole lente, una sorta di timore di ferire un interlocutore evidentemente percepito come un essere fuori dal mondo. Sì, per quell’uomo ero un essere fuori da un mondo che non usa più spedire le lettere: abbiamo ormai rimpiazzato quel gesto con uno molto più immateriale come inviare una email. Tale smaterializzazione può essere riferita non solo ad un gesto, come lo spedire una lettera, ma al modo stesso in cui facciamo esperienza delle cose.

In genere, per conoscere una cosa, ce la rappresentiamo. È come se ci ponessimo di fronte ad essa e la afferrassimo. La rappresentazione è il risultato di un incontro tra noi e le cose. Richiede tempo e la fatica della personale esposizione, che è un modo per dire che quella rappresentazione devo farla proprio io e non un altro, perché sennò la conoscenza non è più personale. Nel modo tradizionale di conoscere, c’è esperienza quando c’è rappresentazione personale. Perfino nel caso delle conoscenze indirette, esse vengono acquisite tramite una introiezione vigilante.

Oggi, invece, nell’epoca della smaterializzazione, ciò che viene a mancare è la connessione necessaria tra l’esperire ed il rappresentare in prima persona. Dunque, non ho più bisogno di perdere tempo a rappresentarmi le cose, perché le rappresentazioni le trovo già bell’e pronte. Simili ai piatti precotti di un fast-food, in virtù della digitalizzazione, esse sono immediatamente disponibili.

E così, nella nostra epoca l’esperienza delle cose diviene sempre più connessione estrinseca di rappresentazioni pre-formate, rese disponibili nell’ambiente digitale in cui mi muovo. Nel mondo virtuale, le rappresentazioni cui posso accedere sono pressoché infinite: ciascuno di noi diventa come un bambino che abbia di fronte un mondo di possibilità inesplorate. Le esperienze precodificate cui accedo mi forniscono una certa conoscenza, come se l’esperienza da cui esse derivano fosse mia. Siamo nella potenziale condizione di avere le risposte pronte a qualsiasi domanda, una condizione di cui è difficile non subire il fascino.

A mente fredda, però, dobbiamo riconoscere che in questo potenziamento del nostro sguardo sulla realtà, una cosa manca. Mancano i criteri di verificazione dell’esattezza delle rappresentazioni che troviamo già formate.

Nel modello tradizionale di conoscenza, il criterio che ci permette di capire se una rappresentazione è vera o falsa, cresce in noi con la pratica del rappresentare: più rappresentiamo, più impariamo a discernere se il risultato ottenuto è affidabile. Nel nuovo scenario, invece, venendo a mancare la pratica del rappresentare, viene contestualmente meno la possibilità di verificare la veridicità di ciò che trovo già rappresentato. Sganciata dall’esperire individuale, la rappresentazione diviene nomade, tendenzialmente indifferente al vero e al falso.

Più potenti e vulnerabili

Siamo dunque diventati potentissimi, ma di una potenza cieca. Giunti a questo punto, la vera questione diventa: ci dobbiamo coprire gli occhi, come fece Huizinga di fronte alla più grande novità della sua epoca o possiamo osare guardare la realtà negli occhi?

Decidere dell’attualità del senso critico comporta un corretto posizionamento nei confronti delle specificità del mondo in cui viviamo. Oggi siamo effettivamente più potenti rispetto al passato. Ma è pur vero che proprio questa maggiore potenza ci rende più deboli, perché più esposti al rischio di credere, in buona fede, in ciò che non è vero.

 

Giovanni Scarafile

Giovanni Scarafile è docente di Etica Applicata all’Università di Pisa, è stato ricercatore di filosofia morale e professore aggregato di etica e deontologia della comunicazione presso l’ Università del Salento. 
È direttore di YOD MAGAZINE e vice Presidente dell’IASC, International Association for the Study of Controversies (www.iasc.me) e membro del Consiglio Direttivo della Società Italiana di Filosofia Morale.
 
[immagine di Kelly Sikkema tratta da Unsplah]