A colazione con Marx

Se vi fosse la possibilità di invitare per colazione uno solo tra i pensatori più importanti vissuti nell’Ottocento credo che sceglierei la compagnia di Karl Marx. Magari, visto la dirompente personalità, gli offrirei del caffè decaffeinato o del tè deteinato con dei biscotti rigorosamente fatti in casa. Lui arriverebbe con entrambe le braccia cariche di libri, chiedendomi subito di aggiornarlo sulla classe operaia e io, trattenendomi dal raccontargli a valanga una miriade di cose, gli direi affettuosamente di prendere posto in cucina. 

«Buongiorno dott. Marx, grazie di essere qui!»
«Buongiorno! A dire il vero ho parecchio da fare, ma una pausa dai miei studi mi farà senz’altro bene!» mi risponderebbe Marx, indicandosi con una buffa smorfia barba e capelli.

Dovete sapere, infatti, che Marx fu una persona animata da una profondissima passione per il cambiamento della società. Ricercava e studiava perché voleva assolutamente trovare il modo di dimostrare scientificamente lo sfruttamento dei lavoratori. È come se qualcuno o qualcuna oggi decidesse di impegnarsi a studiare, per proprio conto, tutto l’umanamente possibile allo scopo – ai più, forse un po’ bizzarro – di formulare dei validi argomenti a favore di una società migliore. Il ché fa di Marx una persona che tutti e tutte dovremmo voler ben conoscere. 

«Dott. Marx, il mondo di oggi è molto cambiato ma, in effetti, non ha proprio più smesso di produrre merci! Le va, allora, se parliamo un po’ di alienazione?»
«Certamente!» mi avrebbe risposto subito lui.

Marx aveva a cuore l’auto-realizzazione delle persone. Non riusciva ad accettare che si potesse vendere il proprio impegno per qualcosa come il lavoro nelle fabbriche che non era una attività né libera né creativa. Coloro che vi erano occupati dovevano adattarsi a una pesante realtà produttiva nei confronti della quale non avevano pressoché alcuna voce in capitolo. Oggi – sebbene le condizioni di lavoro, in molti settori, siano migliorate anche per la nostra attenzione alla salute e alla sicurezza – resta a noi spesso preclusa la possibilità di ampliare il senso di questa sua osservazione critica. Noi infatti, generalmente, abbracciamo l’idea dell’auto-realizzazione professionale e in questa coincidenza tra noi e il nostro lavoro, perdiamo la possibilità di valutare con distacco quello che facciamo. Coltivare la nostra persona è invece fondamentale per migliorare la nostra capacità di analisi e di giudizio.

«Dott. Marx, ne ha davvero passate tante… È stato costretto a rifugiarsi a Parigi, a Bruxelles e poi a Londra per le sue idee rivoluzionarie. Cosa la affascinava così tanto del “comunismo”?»
«Bè, allora, una precisazione! Secondo la mia analisi il comunismo sarebbe sorto dalle stesse contraddizioni del capitalismo! Nessuna utopia!>> avrebbe cercato di chiarire Marx.

In fondo, Marx nutriva il sogno di una umanità migliore. L’antagonista principale della sua battaglia era il capitalismo perché, ai suoi occhi, la struttura economica era il bersaglio prioritario del cambiamento. Per il filosofo rivoluzionario intervenire su questa struttura voleva dire cambiare anche la personalità degli esseri umani. Per Marx, infatti, l’organizzazione del lavoro capitalistico le disumanizzava poiché impediva loro l’espressione di un’attività di lavoro libera e completa. Inoltre, egli considerava ingiusto il capitalismo perché accumulava profitto a vantaggio dei soli capitalisti. Profitto che si configurava come l’eccedenza di un valore-lavoro che non veniva corrisposto a chi effettivamente lavorava. Se il salario doveva corrispondere a quanto serviva per la sussistenza dei lavoratori, il sovrappiù che si ricavava dall’organizzazione di produzione capitalistica come e a chi doveva essere distribuito? Questa era la domanda a cui Marx cercava di rispondere. Oggi, per noi, le retribuzioni sono il frutto di una contrattazione collettiva e sono giuste non tanto perché devono pareggiare la nostra sussistenza ma perché accordate tra le parti sociali. Ci resta il proposito di una retribuzione che consenta una vita dignitosa, ma demandando alla rappresentazione sindacale il compito della negoziazione, per noi è giusto ciò che risulta da un conflitto di forze, deboli o forti che siano. In questo, perdiamo il senso di una riflessione sulla comprensione di cosa sia giusto e cosa no e, di conseguenza, la sostanza e la responsabilità delle nostre argomentazioni.

«La ringrazio molto della sua disponibilità!» direi a Marx salutandolo all’uscita. «Ah, aspetti! Un’ultima cosa: il nostro primo articolo costituzionale sottolinea l’importanza del lavoro!» esclamerei un po’ sbrigativamente.
«Hai visto… Sono proprio arrivato dappertutto!» sorriderebbe Marx; ora, a mani vuote.
I suoi libri, tutti in pila, lasciati in cucina; ecco, da oggi avrò meno tempo per preparare biscotti!

 

Anna Castagna

 

[Photo credit Hennie Stander via Unsplash]

 

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Inclusività: riconoscerne il privilegio e il merito

Vi siete mai soffermati sulla parola o sul concetto di inclusività?

Per comprenderlo al meglio è necessario fare un passo indietro e considerare il concetto di esclusione.
Generalmente si ritiene che tale fenomeno sia una prerogativa della maggioranza; in realtà si tratta di un processo che viene attuato da qualsiasi gruppo nei confronti di chi appartiene ad un altro. Il motivo risiede nel processo mentale di discriminazione, letteralmente differenziare. Secondo la Treccani: «distinzione, diversificazione o differenziazione operata fra persone» ma anche «diversità di comportamento o di riconoscimento di diritti nei riguardi di determinati gruppi politici, razziali, etnici o religiosi». È un processo in parte inconscio e legato a meccanismi biologici in cui si tende a preferire e proteggere membri dello stesso gruppo, per massimizzare la trasmissione genetica, la quale, tuttavia, necessita di una certa variabilità e di conseguenza concorre anche una componente attrattiva.
Ciò è alla base della sopravvivenza, tuttavia la razionalità del nostro pensiero può portarci oltre.

L’inclusività, invece, sempre secondo la Treccani, viene definita come «capacità di includere più soggetti possibili nel godimento di un diritto, nella partecipazione a un’attività o nel compimento di un’azione; più in generale, propensione, tendenza ad essere accoglienti e a non discriminare, contrastando l’intolleranza prodotta da giudizi, pregiudizi, razzismi o stereotipi». Senza ombra di dubbio l’accezione di questa parola – che negli ultimi anni è costantemente al centro del nostro interesse, per rimediare forse ad un’improvvisa consapevolezza e senso di colpa di ciò che abbiamo perpetrato per anni – risuona in positivo. Ma è davvero un processo paritario? È innegabile come emerga un’asimmetria di potere tra chi agisce, chi si reputa “normale”, e chi subisce l’azione, chi è additato come “diverso”.

Dunque certi diritti alle “minoranze” non spettano fin dalla nascita, ma vengono concessi loro dalla “maggioranza”, la quale ha il potere di scegliere quale gruppo meriti dei diritti e che tipo di diritti. Ne segue una coesistenza di “minoranze” ritenute più meritevoli di considerazione e inclusione di altre. Un esempio si trova nella distinzione tra “poveri meritevoli e non”, i primi – famiglie, anziani e lavoratori – ricevono maggior supporto dallo Stato e dal resto della società, mentre i secondi – giovani e migranti – subiscono solamente disprezzo e sono ritenuti responsabili della propria condizione. Altro esempio sta in chi merita il diritto alla genitorialità: inteso sia come diritto ad avere un genitore, e il suo riconoscimento come tale da parte delle istituzioni, sia come diritto ad essere genitore. Il ricorso alle adozioni e alle procedure di PMA non sono appannaggio di tutti. Ma gli esempi di gruppi minoritari esclusi da diritti o dalla struttura sociale, sono da sempre molteplici.

Alla luce di ciò è necessario mettere in discussione l’idea di inclusività portata avanti fino ad ora e il pensiero che questo sia il punto di arrivo per l’uguaglianza. Si potrebbe infatti ritenere che sia più un punto di transizione, una tappa di un percorso molto più lungo, dove è necessario soffermarsi per prendere consapevolezza degli squilibri di potere. Inoltre, scendendo dal gradino del privilegio, si comprende il vero valore della diversità: intesa come sinonimo di varietà, è la variabilità dell’esperienza umana a costituire la natura, non quella “normalità” di recente costruzione dell’uomo, che a questo punto non si rivela altro che una sottocategoria della diversità stessa.

La tappa successiva di questo cammino potrebbe coincidere con la proposta di Fabrizio Acanfora, che nel libro In altre parole. Dizionario minimo di diversità, parla di convivenza delle diversità. Questa azione, effettivamente, si spoglia dell’asimmetria di potere su cui ci siamo concentrati e al contempo si riempie di reciprocità. Tuttavia, per quanto io ritenga meravigliosa questa espressione, sono consapevole della resistenza che si incontra nel mettere in discussione il linguaggio. Perciò sarebbe sufficiente, al momento, rivalutare la comprensione delle parole già in uso nel nostro vocabolario, come diversità e inclusività.

Una strategia, per comprendere meglio la diversità-variabilità e per attribuirgli un nuovo significato, potrebbe essere la teoria dell’intersezionalità, la quale descrive la sovrapposizione di diverse identità sociali e le relative possibili discriminazioni o oppressioni. Gli assi identitari di ognuno di noi sono molteplici e l’incrocio tra questi genera l’autenticità che contraddistingue ogni persona: ciò sottolinea come l’idea di una maggioranza dominante, caratterizzata da un criterio di normalità, non sia che un costrutto sociale e che la società è un puzzle formato da un’infinità di tasselli differenti incastrati tra di loro. Inoltre, in questo modo sarebbe più facile anche guardare con occhi diversi alla parola inclusività e abbracciare l’idea di Vera Gheno, secondo la quale «Diversità è andare alla festa, inclusione è essere membro del comitato che la organizza» (V. Gheno, Chiamami così, 2022).

 

Gaia Giulia Genova
Nata a Monza nel 1997, studia Servizio sociale all’università di Genova. Appassionata di gender studies e amante delle piante e dell’arte. Avida lettrice, per lei, come dice bell hooks, la teoria rappresenta un luogo di cura e guarigione.

 

[Photo credit Helena Lopes via Unsplash]

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Nietzsche e la storia al servizio della vita “pratica” dell’uomo

Nel 1874 Nietzsche pubblica la Seconda inattuale ossia Sull’utilità e il danno della storia per la vita, uno scritto che è destinato a far discutere e che si pone come intento anche quello di fornire una risposta ad alcune domande fondamentali: c’è progresso nella storia? La storia in che modo può giovare alla vita dell’uomo? Nietzsche afferma che in primo luogo la storia serve per la vita e soprattutto per l’azione, evidenziandone il suo aspetto di utilità pratico:

«Certo, noi abbiamo bisogno di storia, ma ne abbiamo bisogno in modo diverso da come ne ha bisogno l’ozioso raffinato nel giardino del sapere, ne abbiamo bisogno per la vita e per l’azione, non per il comodo ritirarci dalla vita e dall’azione, o addirittura per l’abbellimento della vita egoistica e dell’azione vile e cattiva. Solo in quanto la storia serva la vita, vogliamo servire la storia» (F Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, 1974).

La Seconda inattuale è figlia del suo tempo, un momento di incertezza politica e culturale, in cui le istituzioni democratiche vacillano e vi era una crisi di valori sui quali la Germania aveva costruito la sua unità nazionale; una crisi dettata dalla presenza sempre più ingombrante del progresso tecnologico e del capitalismo che aveva modificato tutti i rapporti interni ed esterni tra gli Stati. In questo clima di incertezza l’uomo, afferma Nietzsche, cerca di trovare conforto nella storia o, meglio, cerca di trovare una spiegazione, una giustificazione del suo presente nei grandi personaggi del passato, mitizzando pericolosamente la propria cultura e innalzando falsi idoli che non permettono di studiare oggettivamente il presente. L’uomo, allora, sintetizza Nietzsche ha utilizzato la storia concependola come monumentale, antiquaria e critica

Chi ha concepito la storia come monumentale (ossia gli storicisti positivisti dell’800), afferma il filosofo, ha visto nel passato esempi da venerare anche nel presente; cerca di intravedere negli eventi del passato i prodomi di quello che è il presente, vedendo nel passato solo il fasto e la grandezza degli eventi, senza considerarne le contingenze politiche e sociali che li resero possibili. La storia sembra divenire un rimedio contro la rassegnazione e grazie al passato si cerca di stimolare un’idea di progresso possibile rivivendo il passato nel presente; ma c’è un grave pericolo: abbellendo, infatti, i fasti del passato e non scovando le reali dissomiglianze e somiglianze con il reale, criticamente non si fa altro che generare un’analisi erronea non creatrice, ma solo veneratrice.

La storia è in costante mutamento e cercare di ergere dei pilastri universali non è altro che un anacronismo che non aiuta nell’azione l’uomo: la storia, come afferma il filosofo, deve guidare l’uomo nella vita e nell’azione, il suo compito non è solo pedagogico, ma politico ed esistenziale. L’uomo deve creare grazie alla storia, con la storia, e non deve venerarla vivendo nel passato ed ecco che Nietzsche ci fornisce un ulteriore esempio: la storia antiquaria. Essa, a differenza della monumentale, non è più un rimedio verso il presente, anzi diventa un modello statico da venerare: si venerano i modelli passati rinnegando il presente. Questo tipo di storia, secondo il filosofo, è la più insidiosa perché porta a galla ideali immutati del passato nel presente: per fare un esempio concreto si può citare il fascismo. Esso, infatti, ha riportato alla luce ideali nocivi come quello di Patria, Nazione cercando di fare leva sul ricordo di quello che era stata l’Antica Roma e il suo Impero, creando un pericoloso anacronismo storico. Infatti, riportando ideali e concetti senza adeguarli al tempo in cui si vive, non si genera altro che una nuova idolatria del passato che non è capace di generare nulla di nuovo e che a lungo andare non riesce a adeguarsi al presente ed i suoi nuovi orizzonti.
Il vero storico deve mirare a ragionare sui concetti contestualizzandoli e puntano a guardare il presente sempre con occhio creatore. La storia non è il punto di arrivo dell’analisi per la vita dell’uomo, ma deve esserne il punto di partenza.

L’ultimo tipo di storia di cui ci parla Nietzsche è la storia critica: la storia che si fa critica del passato e che volge il suo sguardo al futuro, un tipo di storia che vuole crearsi ex-novo liberandosi del peso degli eventi passati ed essa si serve solo della potenza creatrice. Anche in questo caso il pericolo è che l’uomo cada nell’oblio, ossia dimentichi ciò che è stato e lo possa ricreare.
La storia, come afferma Nietzsche, non è una scienza e non può essere studiata oggettivamente, ma grazie all’antropologia e la politica deve essere un punto di partenza per uno studio totale sull’uomo, uno studio che gli sia di aiuto pratico.
L’uomo, infine, nella vita pratica ha bisogno necessariamente di conoscersi per agire, ha bisogno di comprendersi per poter comprendere l’altro e riscoprirsi parte di una realtà complessa: quest’analisi è fornita dal metodo filosofico che si mette al servizio dell’uomo e del reale, tornando a ricoprire dopo anni il suo ruolo primario, aiutando l’uomo a riconoscersi attraverso la società e la sua natura.

Francesca Peluso

[Photo credit Thomas Kelley via Unsplash]

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Il mondo dei bambini: è ora di cambiarlo!

La notizia del ritrovamento, dopo ben quaranta giorni nella foresta amazzonica colombiana, dei quattro fratelli di anni 13, 9, 4 e 11 mesi appartenenti alla comunità degli indigeni Uitoto, unici sopravvissuti a un disastro aereo, ha illuminato il mondo e acceso l’attenzione di chi dedica la propria ricerca alla questione dello sviluppo autonomo dei bambini. L’emergere dei dettagli su come siano riusciti a resistere senza la loro madre alle difficili condizioni della natura di quei luoghi, spinge a paragonare i bambini indigeni e quelli del mondo “occidentalizzato” e a chiedersi cosa abbia permesso ai primi di farcela in totale autonomia.
Una possibile risposta a questa domanda è da individuarsi nella competenza ambientale in possesso di questi bambini, competenza fondamentale per chi vive in stretto legame con la natura e la sua caratteristica selettiva. Ma non solo: altro aspetto determinante è l’approccio genitoriale, che sta alla base della relazione familiare, e la sua impronta educativa in favore dell’autonomia. Stabilire con i bambini il momento di svezzamento cognitivo-emotivo è una strategia vincente sul piano comportamentale. Trasmettere le istruzioni utili per riuscire ad associare a una situazione problematica le giuste soluzioni facilita la costruzione dell’autostima e migliora il rapporto di fiducia bambino-genitore. 

Ma i bambini che vivono in un ambiente fortemente antropizzato, che conoscenze hanno del mondo che li circonda? Sono sufficientemente autonomi per riuscire a cavarsela da soli?
Nella nostra parte di mondo diventa sempre più raro vedere i bambini e le bambine protagonisti della loro autonomia, così come dei loro diritti alla partecipazione attiva – sanciti peraltro dalla Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e adolescenza del 1989 – e questo non per una loro scelta ma per la prospettiva adultocentrica sul mondo infantile e per l’eccessiva protezione genitoriale che costantemente monitora il comportamento dei propri figli. 

In Italia, come sottolinea il pedagogista Francesco Tonucci, diventa sempre più raro vedere i bambini muoversi o giocare in autonomia nelle città. La trasformazione degli spazi urbani, sempre in favore delle esigenze degli adulti, è causa ed effetto dei cambiamenti sociali che a loro volta hanno trasformato i bisogni dei bambini e la percezione del ruolo genitorialeI genitori, infatti, tendono a sottostimare le capacità dei propri figli e a limitare al minino le loro occasioni di autonomia, risolvendo puntualmente ogni loro esigenza. Questo perché, da un lato, non li ritengono all’altezza e, dall’altro, perché soffrono il giudizio altrui sulle loro scelte parentali, specialmente temendo di essere considerati cattivi genitori se “aiutano i figli a fare da soli”. Ma è proprio il non mettere il bambino alla prova ad alimentare questa logica di dipendenza, nonostante da numerosi studi emerga quanto sia benefico promuovere l’autonomia – e specialmente quella di spostamento – per sviluppare una migliore conoscenza ambientale (mappe mentali), una maggiore capacità di problem solving e l’autorganizzazione. Impedire ai bambini di riappropriarsi del rapporto con l’ambiente impatta sulla sana crescita delle life skills e sulla loro identità individuale e comunitaria. 

Il bambino, privato dell’esperienza sociale della sua infanzia, è un bambino privato dell’esperienza conoscitiva del mondo e della messa alla prova della sua intelligenza in relazione ai problemi che si presentano. Un altro errore di questa parte di mondo è ritenere il bambino quasi esclusivamente un soggetto da proteggere, dimenticando che in realtà è un soggetto competente e attivo fin dalla nascita, come sottolineato anche nel testo di J. Juul Il bambino è competente (1995). Vygostki riconosce l’importanza della trasmissione degli strumenti culturali per favorire la crescita mentale del bambino, e la storia di questi bambini indigeni evidenzia l’efficacia di questa riflessione. Come afferma Maria Montessori, «per aiutare un bambino, dobbiamo fornirgli un ambiente che gli consenta di svilupparsi liberamente» (M. Montessori, La scoperta del bambino, 2022) e la realizzazione di questa condizione si concretizza se il genitore (o l’adulto in generale) abbandona una cultura della paura e della sorveglianza per sostituirla con un lavoro sull’equilibrio dei valori di fiducia e competenza. Quanto accaduto ai bambini indigeni non va letto come se fosse una favola, anche se ne ha il sapore, perché farlo limiterebbe la profondità dell’analisi a cui questa storia realmente accaduta può portarci. Cosa ci insegna questa storia? Se al bambino non viene data la possibilità di esprimere la sua autonomia, allora scomparirà ai nostri occhi la sua visione di mondo, di quel mondo che contribuiamo a costruire per lui e non con lui. Questi quattro bambini sono la testimonianza che dobbiamo avere il coraggio di metterci alla prova e iniziare a cambiare rotta limitando il nostro compito nell’orientarli. Ai bambini lasciamo la bussola in mano.

 

Marica Notte
Laureata in Filosofia all’Università La Sapienza di Roma, da quattro anni collabora nel gruppo di ricerca internazionale del progetto “La città dei bambini e delle bambine” dell’ISTC-CNR di Roma.

 

[Photo credit Artem Kniaz via Unsplash]

 

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Recuperare il vero significato dell’amore

Il tempo presente sembra aver smarrito il vero significato dell’amore, in particolare per quanto riguarda tale dimensione affettiva all’interno della coppia. La crisi di questo sentimento si palesa a coloro che osservano i fenomeni sociali e si occupano di esseri umani in particolare in ambito educativo e nelle professioni d’aiuto. L’amore sembra essersi svuotato di senso in un orizzonte dominato dalla fluidità dei rapporti, dal disimpegno e dalla superficialità che conducono ad instaurare relazioni a partire da una scarsa consapevolezza di sé, della propria storia personale e della propria unicità. A questo si aggiunge la mancata cognizione che le relazioni affettive hanno bisogno di educazione e pazienza per costruirsi, di nutrimento e cura per solidificarsi nel corso del tempo. La relazione di coppia è un’entità in divenire che deve affrontare numerosi compiti evolutivi nel ciclo di vita e che necessita di un costante cammino di conoscenza reciproca, di crescita dei singoli e del Noi che la coppia va a formare. 

Nel conteso contemporaneo, diversamente, sembra essersi smarrita l’importanza imprescindibile di un simile cammino. Questa assenza conduce spesso a criticità che sfociano in atteggiamenti e rivendicazioni talvolta di natura adolescenziale. È possibile far fronte a queste difficoltà di molte coppie anzitutto riconoscendo la complessità del contesto storico, sociale e la precarietà economica del presente ma anche richiamando l’importanza decisiva di un lavoro di conoscenza di sé, crescita personale e coniugale che richiedono l’impegno e la responsabilità di far fiorire la propria umanità. Questo si realizza quando il fondamentale mantenimento e riconoscimento dell’unicità dei singoli si mette a servizio di un progetto comune che dà senso all’esistenza individuale e della coppia

È pertanto necessario recuperare il significato autentico dell’amore. A questo proposito, Viktor Frankl, psichiatra e filosofo viennese, evidenzia tre diversi livelli di amore e di attrazione fra i partner che finiscono per corrispondere a tre diverse modalità di costruzione del rapporto di coppia1. Il primo livello individuato da Frankl è “l’amore fisico” legato alla bellezza esteriore dell’altro che ci colpisce e ci attrae. Questa passione è transitoria e la relazione che si sia fermata solamente a questo livello (che, peraltro, difficilmente conduce a sperimentare una profonda intimità) è destinata a scemare. L’attuale società dei consumi e dei social network fa leva su questa dimensione richiamando l’attenzione esclusivamente sull’attrazione fisica e su una sessualità destituita di ogni elemento di mistero, in nome di un desiderio di godimento destinato a ricercare sempre nuovi incontri. 

Un secondo livello d’amore individuato da Frankl è quello erotico. In questo caso a colpirci non è solo la presenza fisica dell’altro ma alcune sue caratteristiche psicologiche di personalità quali per esempio generosità, sensibilità, capacità d’ascolto, intraprendenza. Se anche questo livello, come il primo, è un ingrediente fondamentale, certamente non è sufficiente a sostenere un progetto di coppia. Invero, ci si potrebbe sempre imbattere in una persona più bella (livello fisico) o più empatica, intelligente, intraprendente (livello erotico). Affinché una coppia possa entrare in una relazione profonda che, pur nutrendosi dell’attrazione fisica e psichica non si attesti solamente ad esse, è necessario approdare ad un terzo grado che Frankl definisce “amore spirituale”. 

Tale configurazione dell’amore rimanda alla capacità più profonda d’amare che solo l’essere umano può realizzare come il più alto dei valori. In questo caso l’Io incontra il Tu nella sua unicità e insostituibilità, nel suo “essere così”. A questo livello può iniziare un progetto di coppia condiviso, basato sulla maturazione interiore, sull’ascolto interpersonale, la conoscenza reciproca verso una germogliante intimità. Di un amore vissuto in questo intenso contatto spirituale beneficeranno, conseguentemente, anche la dimensione fisica e quella erotica. In questo modo di vivere e intendere l’amore l’Io si dona al Tu in maniera libera e responsabile riconoscendo a propria volta l’altro come essere unico, libero e responsabile. L’amore così inteso non conosce il desiderio di potere, non genera dipendenza e non inciampa nella manipolazione affettiva

Nel nostro tempo che veicola il messaggio di un surrogato dell’amore e che si ferma alla dimensione fisica o psichica, nel solco della superficialità e del dongiovannismo, la visione frankliana può costituire un antidoto, non moraleggiante, certo, ma capace di offrire alle relazioni significato, stabilità e progettualità con benefiche conseguenze anche rispetto all’esigenza di coesione e coerenza educativa per la crescita di eventuali figli.

La prospettiva frankliana non è un dato definitivo ma s’inserisce nell’idea della relazione come via di piena umanizzazione: l’amore spirituale ama la libertà dell’altro e desidera il suo bene oltre ogni deriva egoistica. Per giungere a questo è indispensabile educarsi e percepirsi in un cammino interminabile di maturazione individuale e di coppia imparando così ad amare pur sapendo che tale è una conquista mai definitivamente raggiunta. Invero, il senso dell’amore riposa nell’arte di coltivare, riparare e custodire l’unicità del legame ogni nuovo giorno.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE
1. Cfr., V. E. FRANKL, Logoterapia e analisi esistenziale, tr. it. di E. Fizzotti , Morcelliana, Brescia, 2005.

 

[Photo credit Mayur Gala via Unsplash]

 

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Digital Gang. Chi ha davvero inventato internet e il metaverso?

Stando a sentire alcuni, la storia delle più grandi invenzioni dell’era digitale potrebbe ispirare una serie tv sulla pirateria intitolata Digital Gang: Bill Gates ai danni di Gary Kildall; Steve Jobs di Douglas Engelbart e William English; Mark Zuckerberg dei gemelli Tyler e Cameron Winklevoos – ok, ma del furto subìto dal povero Giulio Camillo, vogliamo parlarne?!

Camillo era un filosofo italiano vissuto tra il 1480 e il 1544, un nerd totale che aveva dedicato notevoli sforzi alla progettazione del cosiddetto Teatro della Memoria: un teatro di legno diviso in gradinate, passaggi e settori, che davano vita a incroci dove si trovavano porte con impresse immagini che davano accesso a documenti scritti conservati in cassette, scaffaletti o scrigni. Lo scopo era rendere l’intero scibile umano facilmente accessibile, mentalmente come fisicamente: il teatro doveva offrire al visitatore un’esplorazione non solo intellettuale ma anche motoria dell’universo mentale umano, facendone percorrere i meandri e attraversare gli snodi, così da rendere più agevole la memorizzazione dei percorsi del sapere. Il tutto nella convinzione, tipica dell’umanista rinascimentale, che il cosmo mentale corrispondesse fedelmente al cosmo extra-mentale: se passeggiavi in quella strana finzione teatrale era come se stessi passeggiando nel mondo reale. Per raggiungere tale risultato, occorreva rovesciare i canoni teatrali: il visitatore non doveva stare dal lato del pubblico per assistere allo svolgimento di uno spettacolo, ma doveva occupare il centro della scena, agendo in qualità di attore, chiamato a muoversi all’interno di una rappresentazione che gli poteva così girare intorno. Una cosa del genere insomma: https://youtu.be/baO7p3yVYFY .

Tuttavia, a Camillo non bastava ideare simile edificio, cosa che già lo occupava a studiare da matti per preparare documenti e schizzi di ogni tipo, ma voleva a tutti i costi realizzarlo: così, si impegnò – diremmo oggi – in un’intensa attività di fund-raising volta a coinvolgere nell’impresa venture capitalist di alto rango quali Re, Duchi, Marchesi, Condottieri, Governatori e simili. Pare riscosse discreto successo, tanto da riuscire – si narra – a realizzare un primo prototipo della struttura capace di ospitare 1-2 persone: da una lettera del 28/03/1532 scritta a Erasmo da Rotterdam dall’umanista olandese Viglio Zwichem, che lo avrebbe visitato, scopriamo che Camillo chiamava la propria creazione «mente artificiale», «anima artificiale» o «anima provvista di finestre». Bene, ma che c’entra tutto ciò con Digital Gang?

Pensaci bene: Camillo aveva progettato nientemeno che internet, anzi persino il metaverso. Difatti, da un lato internet non è altro che un unico enorme archivio multimediale del sapere umano, da navigare spostandosi da un nodo a un altro e costruendosi così un itinerario personale, anziché semplicemente osservare un percorso dato (un ipertesto non è un testo); dall’altro lato “metaverso” è il nome che oggi diamo alla possibilità che navigare vada oltre allo stare davanti a uno schermo da esplorare cliccando col mouse o dando direttamente ditate, consistendo piuttosto nell’entrarci dentro immersivamente, come se si fosse davvero nel vivo nell’ambiente da esplorare. Insomma, il povero Camillo meriterebbe indubbiamente di fare un giro sul web e godersi un tour nella versione digitale della mente provvista di finestre, per poi indossare un bel visore e muoversi immersivamente nei meandri della mente artificiale: verosimilmente, sarebbe inizialmente entusiasta di fronte al suo sogno diventato realtà, ma poi realizzarebbe stizzito che quello era appunto il suo sogno! Niente profitti né meri ringraziamenti per lui!

Materiale per un’altra puntata della serie, quindi? Tempo per Camillo di far causa per ottenere un bel risarcimento? Se fossi tra i suoi avvocati, in realtà glielo sconsiglierei, perché ripensare oggi alle sue idee visionarie, all’epoca da molti percepite come bizzarre se non deliranti, ci permette piuttosto di avere un piccolo spaccato di come funziona la storia umana: tutto inizia con il sogno di qualcuno, che prefigura qualcosa di estremamente improbabile eppure possibile, prosegue con dei tentativi di dargli corpo, anche soltanto in maniera abbozzata sulla base dei mezzi al momento a disposizione, e culmina con la sua piena realizzazione, magari dopo che quell’idea sembrava sepolta o senza che chi l’ha materializzata sia consapevole del filo rosso che lo lega a quei primi strambi sognatori. Perciò, se da questo momento ti capitasse di dedicargli un pensiero qua e là durante le tue web-scorribande o gite in 3D, sarebbe già un buon modo di rendergli omaggio…

 

Giacomo Pezzano

 

[Photo credit Joshua Sortino via Unsplash]

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La cura all’origine dell’essere umano e fondamento dell’etica solidale

Quando si nasce si dà inizio a un percorso racchiuso in un tempo determinato, che è il limite entro il quale possiamo dare forma al nostro essere e costruire il senso del nostro stare al mondo. Per questo, venire al mondo e trovarsi “gettato” in esso crea un vincolo necessario tra la vita e la cura. Quest’ultima è l’innata e originaria predisposizione ad avere a cuore la vita preoccupandocene, dal momento che essa è precaria e soggetta all’imprevedibile contingenza. Così inteso, il vincolo vita-cura dura quanto la vita stessa ed esige, con eguale necessità, la relazione con gli altri.

In Essere e tempo Martin Heidegger sottolinea che l’essere-nel-mondo, per ciascuno di noi, è un originario mit-sein, un essere-con-gli-altri, un aprirsi a una dinamica relazionale, che si esprime nel vicendevole besorgen, preoccuparsi gli uni degli altri.
La cura ci lega agli altri a motivo della nostra strutturale incompletezza, che ci fa essere in uno stato di continuo bisogno. Se fossimo perfetti vivremmo nella condizione dell’apatheia, dell’imperturbabilità, che secondo Epicuro si confà solo alla divinità. Quest’ultima, calata nell’eternità, permane senza elementi di rottura, ostacoli o imprevisti. Noi uomini, però, come sottolinea anche Spinoza, viviamo calati nel tempo, che sottopone a continui cambiamenti e insidie la nostra vita, mettendola a dura prova, depotenziandola e sfavorendola. E poiché non godiamo dell’autarchia, dell’autosufficienza, e da soli non siamo in grado di affrontare le sfide e sopperire a tutte le esigenze della vita, la cura è essenziale. Essa ci consente di disporre di una forma di sovranità sul nostro tempo fuggevole e variabile, di approntare misure di protezione e di difesa, per portare a compimento il nostro progetto esistenziale e realizzare le nostre possibilità.

«“Il prendersi cura” del nutrimento, dell’abbigliamento nonché la cura del corpo ammalato sono forme dell’aver cura […]. L’aver cura, com’è ad esempio l’organizzazione sociale assistenziale, si fonda nella costituzione di essere dell’Esserci in quanto con-essere» (M. Heidegger, Essere e tempo, 2006).

Il prendersi cura vicendevolmente risponde a più bisogni, precisa Heidegger, condividendo questa convinzione con gli antichi greci, che utilizzavano termini diversi per esprimere le sfaccettature dell’avere cura.
L’avere cura nel senso di preoccuparsi delle necessità vitali, che i Greci chiamavano mérimna, risponde al bisogno di continuare a vivere e preservare il nostro essere, procacciandoci cibo, mezzi e ripari.
La cura che risana l’essere in caso di malattia, che i Greci nominavano terapéia, è l’insieme delle pratiche assistenzialistiche e mediche che rispondono al bisogno di ripristinare la salute e il nostro benessere fisico e psichico, poiché quando il corpo si ammala e soffre anche l’anima si ammala e soffre.
L’avere cura della vita, però, non si risolve solo nel procurare cose per conservarla o nell’alleviare le sofferenze e guarire le malattie. Poiché l’essere umano viene al mondo “mancante di una forma” e con un’innata tendenza all’autorealizzazione, c’è bisogno anche della cura che gli antichi greci chiamavano epiméleia heautoũ, che è quel prendersi cura di sé, concretizzando la migliore forma di vita possibile, sviluppando e consentendo la massima espressione delle proprie attitudini. La cura così intesa è una necessità esistenziale, in quanto è strettamente legata alla felicità, il sentimento di appagamento che si prova quando si sente la propria vita piena di significato, completa e realizzata.

Distinguendo terminologicamente la kur, la cura in senso medico-biologico, dalla sorge, la cura in senso emotivo-esistenziale, Heidegger sottolinea che anche la sorge, che persegue il fine della felicità, è un’impresa collettiva, presuppone la dimensione del mit-sein, e dunque la preoccupazione intersoggettiva alle sorti degli altri. In quest’ultimo senso la cura ha una connotazione fortemente etica poiché chiama gli altri alla responsabilità di farsi carico del bene e dell’umanità in senso lato, includendo quell’attenzione e partecipazione a rispettare e difendere il diritto altrui a una vita felice.
Lo sviluppo personale, infatti, non dipende solo dalle potenzialità individuali. Esso ha come presupposto un contesto relazione nel quale siano state approntate le condizioni per consentire all’individuo di realizzare la sua identità, favorendone e rispettandone l’autonomia, la libera capacità di espressione e di iniziativa. Si tratta di una forma di assistenza dell’altro che non può e non deve consistere nel «sollevare l’altro dalla “cura” sostituendosi a lui […] intromettendosi al suo posto» (ivi).

Prendersi cura degli altri nel senso della responsabilità etica equivale ad «aiutare l’altro a divenire trasparente nella propria cura e libero per essa» (ivi); vuol dire adoperarsi affinché l’altro giunga a realizzare consapevolmente e liberamente il proprio progetto e la propria umanità. Ciò richiede un’etica della solidarietà e della tutela universale dei diritti che è un cammino in itinere, dal momento che, pur nella sua essenzialità e urgenza, è ancora tutto da percorrere.

 

Marilena Buonadonna

 

[Photo credit Roman Kraft via Unsplash]

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La comprensione della storia e la ricerca del consulente filosofico

<p>Immagine di una protesta per l'aborto a Washington</p>

La consulenza filosofica nasce nel ‘9001 per avvicinare la filosofia alla quotidianità di ogni uomo, nasce per essere al servizio del reale e anche nell’analisi della storia non può sottrarsi da questa sua natura.
Studiare la storia dell’uomo vuol dire studiarlo antropologicamente nei suoi mutamenti sociali e culturali, studiare un evento storico vuol dire studiarne la politica che ha segnato quella data popolazione e come questa abbia influito sulle ideologie di quel dato popolo: se si pensa, ad esempio alla seconda guerra mondiale, risulta impossibile non tenere conto della diffusione delle teorie sulla razza ed oggi, se si pensa alla Russia,  risulta impossibile non tenere conto della forte presa della religione e del ruolo politico che gioca nella visione di concetti fondamentali come Patria, Nazione e di popolo straniero.

Se si guarda alla storia con occhio critico si possono rintracciare degli avvenimenti simili nelle epoche, ma dettati da contingenze diverse e in questo senso la consulenza filosofica può essere utile nell’analisi: si possono tracciare delle somiglianze e delle dissomiglianze nelle epoche attraverso un metodo di studio trasversale. Per essere più chiari: i movimenti di protesta delle suffragette verso fine ‘800 ed inizi ‘900 possono essere in qualche modo collegati ai movimenti di protesta delle donne negli anni ’60-70 per il diritto all’aborto. È inevitabile pensare ad un passo indietro nella storia quando la corte suprema degli Stati Uniti a inizio luglio 2022 ha nuovamente negato il diritto costituzionale all’aborto; ciò ha dato vita a nuovi movimenti di protesta per prendere posizione contro questa decisione che in un sol momento ha cancellato anni di lotte e proteste.

La somiglianza tra i due eventi che si può cogliere è la lotta per dei diritti, i quali dovrebbero essere tutelati giorno dopo giorno, perché nessun diritto può essere dato per scontato, come ci è stato dimostrato; la dissomiglianza è nei mezzi e nella comunicazione, nell’espansione del movimento fomentato dalla globalizzazione e da Internet che connette milioni di persone.
Un’altra dissomiglianza potrebbe essere trovata nella velocità con cui questi movimenti si formano e si rigenerano: sicuramente in passato è stata molto più graduale la loro formazione e azione. Ad oggi, grazie all’iper connessione che ci permette di connetterci in qualunque momento ed in qualsiasi luogo, tutto è più istantaneo e veloce (a volte meno pianificato e meno efficace, altre più efficace per il grande numero di persone che vi partecipano e apportano il loro contributo alla protesta).

In pratica, la domanda da porsi è come la consulenza filosofica possa aiutarci nella vita di tutti giorni. Potrebbe sembrare solo un esercizio teorico ma non lo è: avere uno sguardo critico nella vita di tutti i giorni significa comprendere il passato e correggere il futuro; vuol dire domandarci se i valori che la società propina sono equi per tutti e se qualcosa è davvero cambiato rispetto al passato. Il metodo filosofico insegna consapevolezza, apertura e ci spinge ad avere uno sguardo nuovo sul mondo pensandosi moltitudine e non singolarità. Applicando l’analisi fornitaci dalla consulenza filosofica risulta difficile differenziare nettamente la nostra epoca dalle altre. In realtà, infatti – per quanto oggi si parli di accettazione, inclusione e di nuovi diritti per cui combattere – resta un sottofondo culturale difficile da cancellare. Ancora oggi, chi è diverso per etnia o religione o orientamento sessuale spesso è ostacolato in molti ambiti della sua vita, questo anche perché c’è una falla nelle istituzioni democratiche e soprattutto nell’istruzione: se la consulenza filosofica deve guidarci a tracciare analisi trasversali della storia facendo sì che questa si avvicini anche alla nostra vita quotidiana e possa fornici aiuto nella comprensione del presente, l’istruzione dovrebbe a sua volta contribuire fornendo un valido metodo di analisi critica. La scuola dovrebbe essere il luogo del confronto proficuo, il luogo in cui ci si allontana da sé stessi per poter arrivare a comprendere l’altro: l’orizzonte dovrebbe allargarsi e contemplare ogni angolatura del reale, dovremmo imparare a guardarci come parte di una realtà più grande e complessa.

È per questo che la consulenza filosofica potrebbe essere un’utile guida alla comprensione del presente e volgere il nostro sguardo al futuro; senza, però, dimenticare il passato che diventa monito e altrettanto guida.

Francesca Peluso

NOTE
1. Il fondatore della consulenza filosofica come Philosophische Praxis è Gerd. B. Achenbach (1947), il cui intento era servirsi del metodo analitico filosofico per riavvicinare la filosofia ad ogni ambito del reale per farsi ancella della vita dell’uomo e fornirgli un supporto pratico nell’azione.

[Photo credit Gayatri Malhotra via Unsplash]

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Imparare: alcune riflessioni, da un pensiero di Nietzsche

Credo non accada molto spesso di dedicarsi alla lettura di un libro accorgendosi, anche un po’ per caso, di possedere come lettrice o lettore la stessa età anagrafica dell’autore o dell’autrice nel periodo di stesura per quello specifico scritto. A me è capitato, qualche tempo fa, con Ecce Homo. Come si diventa ciò che si è di Friedrich Nietzsche composto nel 1888.
La consapevolezza di quella inusuale oltre che casuale coincidenza d’età, tra chi scrive e chi legge, trasformò la mia lettura in una sorta di confronto immaginario con un coetaneo d’eccezione. Sicché, mentre procedevo nel racconto della sua autobiografia, mi pareva quasi che i pensieri espressi dal filosofo Nietzsche superassero la normale relatività della sua prospettiva culturale e del suo contesto storico e giungessero fino a me, nel XXI secolo, carichi di un senso e di un significato immune dalla parzialità a cui solitamente li costringe il tempo. E tra questi suoi pensieri autentici, perché profondamente sentiti e sinceri, ve n’è uno su cui vorrei soffermarmi e condividere alcune riflessioni.

 Scrive Nietzsche nel suo capitolo intitolato “Perché scrivo libri così buoni”:

«In definitiva, nessuno può trarre dalle cose, libri compresi, altro che quello che già sa. Chi non ha accesso per esperienza a certe cose, non ha neppure orecchie per udirle» (F. Nietzsche, Ecce Homo, 1991).

Con queste due brevi e risolute asserzioni, Nietzsche offre l’occasione alle sue lettrici e ai suoi lettori di riflettere più attentamente sulle caratteristiche del nostro modo di imparare. Egli infatti, in queste poche righe, allude a una immagine del conoscere interattiva e selettiva dove la persona che impara non subisce passivamente e indistintamente tutto quello che gli viene proposto; questo perché, nella dinamica del suo apprendimento, la persona chiama in causa quello che già sa o quello di cui ha già avuto esperienza. Potremmo dire che, in effetti, chi impara non si trova mai propriamente nella condizione concreta di una tabula rasa pronta e disponibile a colmare meccanicamente le sue lacune conoscitive, ma che è sempre la singolarità della sua persona a esserne coinvolta.

Possiamo ora appuntare due ulteriori riflessioni molto importanti per la comprensione del nostro modo di imparare.

La prima, che ha il valore di una semplice constatazione, riguarda la nostra capacità deduttiva che, diversamente da come si è soliti pensare, non si presenta come una abilità automaticamente espansiva bensì personalmente selettiva. Se infatti proviamo a riflettere sulle nostre deduzioni possiamo osservare come esse non nascano semplicemente dalla lettura o studio di un testo. Se fosse veramente così, l’uguaglianza delle nostre letture e dei nostri studi determinerebbe da sola anche l’uguaglianza delle nostre riflessioni. Ma, nella realtà, possiamo riscontrare che non avanziamo mai nel nostro apprendimento in modo tra di noi uniforme proprio perché le nostre deduzioni, le quali caratterizzano la nostra personale crescita conoscitiva, non si trovano inscritte a priori, una volta e per sempre, nel sapere trasmesso dai testi. Quando impariamo noi non rendiamo esplicite deduzioni di per sé implicite, bensì la singolarità del nostro patrimonio conoscitivo e delle nostre esperienze di vita veicola una selezione, più o meno consapevole, tra la disponibilità e la varietà logica dei nostri pensieri.

La seconda – che può dare avvio a una pratica, ora, poco diffusa – riguarda la nostra capacità di comprensione che, diversamente da quanto si è soliti porre attenzione, può svilupparsi al crescere delle nostre esperienze di vita, e per questo migliorare con l’aumento graduale dell’età. Infatti, gli avvenimenti della nostra vita conducono a un ventaglio interiore che può predisporci a un ascolto più partecipato, e quindi a una comprensione più ampia e sfaccettata. Di conseguenza, accostarsi in età matura ai pensatori e alle pensatrici della nostra storia culturale non può che essere benefico per la nostra consapevolezza interiore, perché la gamma dei nostri vissuti agisce un attrito in grado di generare lo sdoppiamento empatico dell’immaginazione.

Detto questo, solo una piccola avvertenza sul carattere del nostro bagaglio conoscitivo ed esperienziale che, in quanto perno e motore del nostro apprendimento, potrebbe condurci a liquidare troppo in fretta quelle letture che, in un dato momento, ci risultano troppo lontane e poco familiari. In questi casi, è bene pazientare e cercare qualcosa che ci aiuti ad attutire la distanza perché ogni grande pensatore e pensatrice ha qualcosa di profondo da dirci. Capire questo qualcosa significa scoprirne l’umanità che è, insieme, la loro ma sempre anche la nostra.

Anna Castagna

[Photo credit Kimberly Farmer via Unsplash]

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Rughe e odierni tabù: l’attesa, le soglie e la finitudine

Al giorno d’oggi conosciamo sempre meno soglie.
Non concepire soglie significa, innanzitutto, non dover aspettare – per nulla al mondo. Temporeggiare  è, a quanto pare, del tutto inutile. E tale constatazione non può che essere un dato di fatto nell’era di  Amazon che, a ben guardare, è probabilmente il più grande “demolitore di soglie” mai esistito: qualche  tasto, un click ed è fatta, avremo ciò desiderato senza alzarci dal nostro letto: grassi sovrani costantemente già seduti al liscio “tavolo delle merci”, del quale basta tirare un po’ la tovaglia per poter avere  tutto.
Da impazienti cronici quali siamo, l’unico momento in cui accettiamo di dover aspettare è, forse, davanti alla porta di casa di un nostro caro amico, ma con i mezzi odierni di calcolo e comunicazione,  probabilmente non aspetteremo neanche davanti a tale porta, che quasi sempre troveremo già aperta – oramai i navigatori calcolano perfettamente le tempistiche dei nostri spostamenti, e i messaggi via  rete non tardano ad arrivare: perché attendere?
E non è che ce ne siamo dimenticati: la società attuale sembra che proprio non voglia più conoscere soglia o impedimento che non le siano opportuni e necessari, o in qualche modo utili. Si fa di tutto  per eliminarle. L’unico motivo per cui, anche davanti alla casa del nostro amico, potremmo accettare  di dover aspettare è il raro caso di una nostra visita a sorpresa. 

Come per le rughe, non vogliamo soglie.
Vogliamo un mondo liscio come la nostra pelle: «La levigatezza è il segno distintivo del nostro tempo. È  ciò che accomuna le sculture di Jeff Koons, l’iPhone e la depilazione brasiliana» (B.C. Han, La salvezza del bello, 2019). Come un vastissimo  piano, sempre più levigato ed ininterrotto, appare la nostra esistenza. Su una superficie così levigata,  senza attriti, tutto è ed appare a nostra disposizione. La continuità piallata del piano ci permette di non  attendere mai più dell’istante, un po’ per tutto: dagli acquisti agli spostamenti, passando per le cose da  dirsi nel privato come in pubblica piazza, per arrivare fino ai sentimenti, dai più frivoli ai più profondi.
Levighiamo, e non vogliamo rughe – superuomini imbellettati.
Troppo spesso però, ci scordiamo che questo piano sul quale viviamo la nostra vita è sempre e comunque il corpo di un grandissimo scivolo, che è divertente proprio in quanto ha un termine, ha una fine. Qualsiasi caratteristica e lunghezza abbia la parte in discesa, solo sapendo della sua terminazione – cioè della soglia finale, che non è “nient’altro” che la nostra, umana morte – possiamo rendercene veramente conto e “viverla”.
«Le soglie, come passaggi, ritmano, articolano e raccontano […]. Sono, le soglie, passaggi temporalmente intensi, che oggi vengono abbattuti a favore di una comunicazione e di una produzione accelerate, prive di fratture» (B.C. Han, La scomparsa dei riti, 2021): disabituati a queste, perdiamo la coscienza dei momenti di cesura rispetto al piallato ordinario, che in primo luogo sono quelli del dolore

Proseguendo su questa scìa, anche nella lettura di Marc Augé il discorso intorno alla morte fa propri i termini “spaziali” della soglia o, più precisamente, della frontiera: «Il rispetto delle frontiere è dunque un  pegno di pace. Non è un caso che gli incroci e i limiti […] siano stati oggetto di un’intensa attività rituale.  Non è un caso che gli esseri umani abbiano dispiegato ovunque un’intensa attività simbolica per pensare il passaggio dalla vita alla morte come una frontiera» (M. Augé, Nonluoghi, 2020).
E il fulcro del discorso sta nell’inizio di ciò appena ripreso: così come, per Augé, geopoliticamente  l’accettazione delle frontiere è un “pegno di pace”, ciò vale anche nella trasposizione macabra del discorso. L’accettazione della finitudine della vita è il pegno per la nostra, interiore, pace. Il discorso intorno alla morte è così, anche, un discorso di soglie.
A ben vedere, aveva ragione l’americano Geoffrey Gorer quando, esattamente sessant’anni fa, nel 1963, profetizzò proprio la morte come odierno – già per l’epoca – e futuro grande tabù nella nostra  società: la morte, diceva, sta prendendo il posto del sesso1.

Il momento del dolore – e, come evento estremo, la morte dell’Altro-conosciuto, se non addirittura  amato, o la morte di Sé – è un momento temporalmente intenso. È una ruga – e la vorremmo piallare, ma non si può: disperati, non sappiamo che fare. Vorremmo che tutto si risolvesse in un click, invano.
Di fronte alla morte, al dolore e al lutto, non c’è peggior difetto d’essere impazienti. Ed eccoci qui.

 

Tommaso Antiga
Nato a Conegliano nel 1998, è Architetto e Dottorando di Ricerca presso l’Università degli Studi di Trieste, precedentemente laureatosi al corso di Laurea Magistrale in Architettura presso l’Università degli Studi di Udine con una tesi in forma di discorso sul tema della morte e dei suoi luoghi, portato avanti con il Prof. Giovanni La Varra. Da sempre appassionato anche di arte e filosofia e, nel tempo libero, aspirante scrittore.

 

NOTE
1. Cfr. G. Gorer, The Pornography of Death, in Appendice a Id., Death, Grief and Mourning, 1963.

 

[Photo credit  via Unsplash]

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