Il mondo dei bambini: è ora di cambiarlo!

La notizia del ritrovamento, dopo ben quaranta giorni nella foresta amazzonica colombiana, dei quattro fratelli di anni 13, 9, 4 e 11 mesi appartenenti alla comunità degli indigeni Uitoto, unici sopravvissuti a un disastro aereo, ha illuminato il mondo e acceso l’attenzione di chi dedica la propria ricerca alla questione dello sviluppo autonomo dei bambini. L’emergere dei dettagli su come siano riusciti a resistere senza la loro madre alle difficili condizioni della natura di quei luoghi, spinge a paragonare i bambini indigeni e quelli del mondo “occidentalizzato” e a chiedersi cosa abbia permesso ai primi di farcela in totale autonomia.
Una possibile risposta a questa domanda è da individuarsi nella competenza ambientale in possesso di questi bambini, competenza fondamentale per chi vive in stretto legame con la natura e la sua caratteristica selettiva. Ma non solo: altro aspetto determinante è l’approccio genitoriale, che sta alla base della relazione familiare, e la sua impronta educativa in favore dell’autonomia. Stabilire con i bambini il momento di svezzamento cognitivo-emotivo è una strategia vincente sul piano comportamentale. Trasmettere le istruzioni utili per riuscire ad associare a una situazione problematica le giuste soluzioni facilita la costruzione dell’autostima e migliora il rapporto di fiducia bambino-genitore. 

Ma i bambini che vivono in un ambiente fortemente antropizzato, che conoscenze hanno del mondo che li circonda? Sono sufficientemente autonomi per riuscire a cavarsela da soli?
Nella nostra parte di mondo diventa sempre più raro vedere i bambini e le bambine protagonisti della loro autonomia, così come dei loro diritti alla partecipazione attiva – sanciti peraltro dalla Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e adolescenza del 1989 – e questo non per una loro scelta ma per la prospettiva adultocentrica sul mondo infantile e per l’eccessiva protezione genitoriale che costantemente monitora il comportamento dei propri figli. 

In Italia, come sottolinea il pedagogista Francesco Tonucci, diventa sempre più raro vedere i bambini muoversi o giocare in autonomia nelle città. La trasformazione degli spazi urbani, sempre in favore delle esigenze degli adulti, è causa ed effetto dei cambiamenti sociali che a loro volta hanno trasformato i bisogni dei bambini e la percezione del ruolo genitorialeI genitori, infatti, tendono a sottostimare le capacità dei propri figli e a limitare al minino le loro occasioni di autonomia, risolvendo puntualmente ogni loro esigenza. Questo perché, da un lato, non li ritengono all’altezza e, dall’altro, perché soffrono il giudizio altrui sulle loro scelte parentali, specialmente temendo di essere considerati cattivi genitori se “aiutano i figli a fare da soli”. Ma è proprio il non mettere il bambino alla prova ad alimentare questa logica di dipendenza, nonostante da numerosi studi emerga quanto sia benefico promuovere l’autonomia – e specialmente quella di spostamento – per sviluppare una migliore conoscenza ambientale (mappe mentali), una maggiore capacità di problem solving e l’autorganizzazione. Impedire ai bambini di riappropriarsi del rapporto con l’ambiente impatta sulla sana crescita delle life skills e sulla loro identità individuale e comunitaria. 

Il bambino, privato dell’esperienza sociale della sua infanzia, è un bambino privato dell’esperienza conoscitiva del mondo e della messa alla prova della sua intelligenza in relazione ai problemi che si presentano. Un altro errore di questa parte di mondo è ritenere il bambino quasi esclusivamente un soggetto da proteggere, dimenticando che in realtà è un soggetto competente e attivo fin dalla nascita, come sottolineato anche nel testo di J. Juul Il bambino è competente (1995). Vygostki riconosce l’importanza della trasmissione degli strumenti culturali per favorire la crescita mentale del bambino, e la storia di questi bambini indigeni evidenzia l’efficacia di questa riflessione. Come afferma Maria Montessori, «per aiutare un bambino, dobbiamo fornirgli un ambiente che gli consenta di svilupparsi liberamente» (M. Montessori, La scoperta del bambino, 2022) e la realizzazione di questa condizione si concretizza se il genitore (o l’adulto in generale) abbandona una cultura della paura e della sorveglianza per sostituirla con un lavoro sull’equilibrio dei valori di fiducia e competenza. Quanto accaduto ai bambini indigeni non va letto come se fosse una favola, anche se ne ha il sapore, perché farlo limiterebbe la profondità dell’analisi a cui questa storia realmente accaduta può portarci. Cosa ci insegna questa storia? Se al bambino non viene data la possibilità di esprimere la sua autonomia, allora scomparirà ai nostri occhi la sua visione di mondo, di quel mondo che contribuiamo a costruire per lui e non con lui. Questi quattro bambini sono la testimonianza che dobbiamo avere il coraggio di metterci alla prova e iniziare a cambiare rotta limitando il nostro compito nell’orientarli. Ai bambini lasciamo la bussola in mano.

 

Marica Notte
Laureata in Filosofia all’Università La Sapienza di Roma, da quattro anni collabora nel gruppo di ricerca internazionale del progetto “La città dei bambini e delle bambine” dell’ISTC-CNR di Roma.

 

[Photo credit Artem Kniaz via Unsplash]

 

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La scrittura come “ars combinatoria”. Trinomi fantastici per situazioni insolite

I bambini di 5a E sono disposti a cerchio, seduti sui tappetini della palestra. Ognuno estrae dal quaderno un foglio bianco su cui scrive tre parole. Sono parole casuali, le prime che vengono loro in mente dopo l’ascolto di una storia filosofica. Pentola, ombra, nuvole. Lista, pensiero, cosa. Ontologo, quadri, campanello. E così via.
Giada ha scritto le tre parole in un batter d’occhio e, dopo averne ritagliata una, si alza in piedi. Le diamo un grosso gomitolo rosso che all’estremità esterna ha legato un sassolino blu. Giada posa il sassolino sul suo tappetino e, lentamente, srotola il gomitolo attraversando il cerchio, fino ad arrivare da Elisabetta, che nel frattempo si è alzata. Elisabetta riceve da Giada la parola ritagliata, lascia il suo posto a Giada e ripete l’operazione: srotola un altro po’ di gomitolo e porta una delle sue tre parole a Giacomo. Giacomo, a sua volta, porta una parola a Jamal, questo ne porta una ad Alice e così via, finché l’ultimo compagno torna al sassolino blu.

I bambini, che hanno letto la nuova parola ricevuta, sciolgono il cerchio e si disperdono ai confini della palestra, dove iniziano a pensare. Inventano una breve storia, con quelle tre parole, e la scrivono sul quaderno.
L’ombra della cosa. Una cosa gigante e terribile faceva un’ombra sul pavimento di quella stanza semibuia. Io tremavo come una foglia. Mi feci coraggio e presi la matita con la punta affilata e andai di là. Dietro quell’ombra gigante e terribile si nascondeva un’enorme… pentola.
Ma che fifone, Giacomo! Hai paura di una pentola? Senti un po’ cosa ho scritto io – prosegue Giada – Nella mia testa ho tanti pensieri, una lista di pensieri. Penso alle cose spaventose come i draghi, i serpenti, i fantasmi. Penso alle cose divertenti come le caramelle, i coriandoli, le feste di compleanno. Penso alle cose noiose come pranzare con le zie, fare i compiti, guardare i quadri alle mostre.
– Adesso tocca a me, sentite! – irrompe Alice – Quando l’ontologo suona il campanello di casa sua, nessuno gli apre. Beh certo, vive da solo! A volte ha proprio la testa sulle nuvole.

I bambini della 5a E leggono a turno e ridono insieme.

Inventare una situazione a partire da tre parole è un tipico esercizio di scrittura creativa, una sorta di “attrezzo da ginnastica per le idee” che, tra gli altri, viene proposto anche dalla giornalista e saggista Annamaria Testa nel suo Minuti scritti1, testo che la stessa autrice definisce una «guida utile a percorrere molte tracce di pensiero». Tale esercizio si basa sulla consapevolezza che la creatività sia ars combinatoria.

Quella dell’associare ed organizzare elementi separati è un’abilità che coltiviamo ogni giorno. Si pensi all’uso del linguaggio: scegliamo parole e le mettiamo in ordine, secondo certe regole. E in questo processo, l’obiettivo può cambiare: ad esempio, possiamo scegliere di suscitare curiosità oppure di annoiare.
Come si combinano parole per creare qualcosa di ordinario, così si possono combinare parole anche per creare qualcosa di insolito. Discernere, scegliere e combinare diventano così gli ingredienti per inventare.

Lo scriveva anche Gianni Rodari quando, ne La grammatica della fantasia, teorizzava il binomio fantastico, cioè un esercizio per dare vita a una storia inventata a partire da due parole casuali:

«Occorre una certa distanza tra le due parole, occorre che l’una sia sufficientemente estranea all’altra, e il loro accostamento discretamente insolito, perché l’immaginazione sia costretta a mettersi in moto per istituire tra loro una parentela, per costruire un insieme (fantastico) in cui i due elementi estranei possono convivere. Perciò è bene scegliere il binomio fantastico con l’aiuto del caso. Le due parole siano dettate da due bambini, all’insaputa l’uno dell’altro; estratte a sorte; indicate da un dito che non sa leggere in due pagine lontane del vocabolario» (G. Rodari, La grammatica della fantasia, in G. Rodari, Opere, 2020).

 

Qualora le parole risultino semanticamente lontane, il loro accostamento apparirà insolito, strano. È proprio quando le parole si liberano dai loro significati quotidiani, dalle loro catene letterali, per estraniarsi e spaesarsi, che la storia creata susciterà interesse e curiosità, risultando straordinaria ed efficace.

La Valigia del filosofo 

NOTE
1. A. Testa, Minuti scritti. 12 esercizi di pensiero e scrittura, Rizzoli, Milano, 2013.

[Photo credit La Valigia del filosofo]

Il Codex di Luigi Serafini: illustrare l’impossibile

Topi tripli, uccelli ricorsivi e isole all’occhio di bue. Figure curiose, stranianti e misteriose costellano il Codex Seraphinianus, la celebre enciclopedia immaginaria di Luigi Serafini1.
Sono minerali, vegetali e animali, ma anche macchine, architetture e costumi. Tutte cose impossibili, fotografate tassonomicamente dalla china e dalle matite colorate dell’autore. L’assurdità delle illustrazioni, enigmatiche e sfuggenti, irreali e surreali, apre all’ambiguità semantica. E la polisemia, si sa, rappresenta l’orizzonte entro cui si muove liberamente, quindi creativamente, la facoltà immaginativa.

Siccome una delle vie di accesso alla filosofia è proprio l’immaginazione, quando La valigia del filosofo introduce ai bambini argomenti di ontologia2 spesso intraprende questo sentiero.
È una strada, per l’appunto, poco lineare, piena di curve e di bivi. E le sue bivalenze e digressioni, come insegna Tristram Shandy3, sono ciò che la rende imprevedibile e interessante.

Apriamo una pagina del Codex rivolgendola alla classe e chiediamo ai bambini di descriverci cosa vedono.
Esserini rossi piccoli come formiche, una specie di lucertola o di varano, con una lingua molto stretta e lunga! – Interviene Roberta.
C’è un filo attorcigliato sulla coda, anzi è proprio la coda fatta così, e questo filo esce dalla bocca passando però dentro il corpo! – Puntualizza Elia, orgoglioso della sua osservazione.
Ha un ago al posto di una zampa e sta cucendo il suo nido per terra – Risponde sottovoce Riccardo.
Non è per terra, è nell’acqua! Vedi, ha anche le zampe palmate – Polemizza Elia, che vuole sempre avere l’ultima parola.

A partire da figure fantastiche come quella mostrata, i bambini disegnano sul quaderno del filosofo tanti altri animali di loro invenzione. Qualcuno, che pensa di non essere bravo con gli animali, illustra una serie di piante immaginarie. Altri ancora si dedicano alle macchine impossibili. E così via, ognuno crea la sua voce enciclopedica.

Quando, al termine dell’opera, i bambini interpretano le immagini di un compagno, senza che questo abbia spiegato loro nulla, sembra emergere una verità: ogni figura disegnata presenta più riferimenti di quanti previsti da ciascun piccolo autore.
Alleniamoci a trovarne ancora, giochiamo a interpretare. Interpretare è una parola che per parente sembra avere l’inventare. Si tratta di esercitare l’immaginazione cercando una situazione nuova a cui un certo disegno può accedere. È un esercizio che incontra la curiosità dei bambini, ne attiva l’interesse e alimenta quel senso di libertà interiore che il bambino respira di fronte alle infinite possibilità di interpretazione che le esperienze gli suggeriscono. Ed è un esercizio che, percorrendo sentieri curvi e sperimentandone nuove ramificazioni, zigzag e imprevisti sottopassi, può sicuramente divertire. Oltre che essere propedeutico a nuovi quesiti filosofici.

Quante cose astratte possono esistere? Quali cose astratte possono esistere? Le cose astratte che esistono per te possono essere le stesse cose astratte che esistono per me? Sono domande che questo incontro di laboratorio, spontaneamente genera da sé, attraverso questa ed altre zigzaganti attività.

 

La valigia del filosofo

 

NOTE:
1. Luigi Serafini è un artista, architetto e designer italiano, nato a Roma nel 1949. Nel 1981 ha pubblicato per la casa editrice parmense Franco Maria Ricci il Codex Seraphinianus.
2. Intendiamo per “ontologia” quella branca della filosofia che si occupa di studiare cosa esiste.
3. L. Sterne, La vita e le opinioni di Tristram Shandy, Gentiluomo, Mondadori, Milano, 2005 (1759).

[Photo credit La valigia del filosofo]

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Come Carroll a caccia di Snark

Quando una valigia si riempie di parole, l’assale una gran voglia di parlare. Questa valigia, per l’appunto, è piena di ritagli di cartoncini su cui sono impresse parecchie parole. E sta per aprirsi e parlare.

Ecco che un’onda di ritagli si infrange sul pavimento. Per terra ora c’è un mare di parole. Sono tutti sostantivi, alcuni molto lunghi, altri più corti, ognuno con un significato diverso. Le mani dei bambini come vascelli solcano in ascolto questo mare, è un’esplorazione semantica in cui ritrovano parole note e ne scoprono di ignote.

Ci sono nomi che portano significati concreti e quotidiani, ce ne sono altri più strani e lontani. E poi ci sono nomi un po’ particolari che non sembrano avere un riferimento nitido, ma che hanno un significato un po’ a metà strada tra quello di altre due parole.  Come “mandarancio”: chi è che sa dove finisce il mandarino e dove incomincia l’arancio?

Di parole un po’ sfocate ne esistono a bizzeffe, sia per un uso consueto e concreto – come “mandarancio” – sia con riferimento più strano e desueto. In francese questo tipo di parole si chiama mot-valise, che letteralmente si traduce con “parola-valigia”.

Se è vero che ne esistono in grande quantità, quelle che non esistono sono certamente la maggior parte. Le mani dei bambini esplorano questo misterioso, ignoto mare. Navigando trovano un “mandacchio”, un curioso frutto tra il mandarino e il pistacchio, un “perancio” e un “kakiwi”: avete capito di quali due frutti sono frutto questi due frutti?

Ma le parole-valigia più fantasiose arrivano col mare mosso. Quando i frutti si mescolano con le verdure e gli insetti coi mammiferi, quando i fiammiferi e le briciole si mescolano con gli astri e i pianeti, quando le possibilità del quotidiano si mescolano con l’invenzione.

Il gioco di scoprire parole-valigia affascinava Lewis Carroll talmente tanto da dedicare un poemetto epico proprio a una di queste parole: Snark. È difficile dire cosa sia uno Snark: probabilmente ha qualcosa del serpente (snake) e qualcosa dello squalo (shark), ma non è detto che non abbia anche parti lumacose (snail) e tratti ringhiosi, cortecciosi e aggrovigliati (bark, snarl). Sicuramente non è un essere innocuo.

Per amplificare la potenza immaginativa del suo Snark, oltre a questi giochi polisemici, Carroll ricorre anche ad altre strategie. Innanzitutto ne proibisce qualsiasi illustrazione ed evita descrizioni dettagliate: questo perché qualsiasi contorno, figurato o verbale che sia, che vada oltre una bozza della figura fantastica ne inchioderebbe la libertà immaginativa. Rappresentare l’indescrivibile, particolareggiare l’ineffabile disambiguando il mistero, tradisce le possibilità della fantasia e ne imprigiona il senso.

In secondo luogo Carroll impregna i personaggi e le dinamiche narrative di nonsense. I dialoghi, nel loro succedersi, non hanno senso compiuto, i legami di causa-effetto sono derisi, le abituali correlazioni cadono. L’irragionevole irrompe nel quotidiano, l’assurdo prevale sulla coerenza e lo straniamento non ha scopo, ma è legge del quotidiano. E questa è una difesa senza compromessi della potenza caleidoscopica dell’immaginazione, un elogio senza mezzi termini della fantasia che si fa regola suprema della narrazione.

Infine, il culmine del genio fantastico è raggiunto da Carroll al termine del poemetto quando uno dei membri della ciurma impegnata nella caccia allo Snark, lo incontra. E quando vede la sua forma e i suoi colori, quando il fantastico diventa ai suoi occhi reale, ecco che l’osservatore sparisce. Come a confermare, nei fatti narrati, che la fantasia muore se costretta entro troppi dettagli che ne indispongono la libertà.

Allenare l’immaginazione, oltre che un gioco, è un esercizio prefilosofico e filosofico utile ai bambini. E figurarsi uno Snark, a partire dalle parole che Carroll usa per tratteggiarne la figura e dalle situazioni narrate nel poemetto, oppure inventare altre figure fantastiche a partire da una parola-valigia, sono strade possibili per incontrare la filosofia e imparare a navigare in un nuovo, diverso, mare.

 

La valigia del filosofo

 

[Photo credit La valigia del filosofo]

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Esistere di più, esistere di meno

«Che cosa esiste?» – ci chiediamo, fin da bambini. E se la domanda resta sempre la stessa, via via che cresciamo le possibilità di risposta si moltiplicano e si assottigliano. Forse perché, nel tentativo di rispondere alla domanda «che cosa esiste?», ci accorgiamo presto di quanto sia importante cercare di capire innanzitutto se il concetto di esistenza sia o meno univoco.

Nella Metafisica Aristotele afferma che l’«essere si dice in molti modi»1, benché sempre in relazione a un unico principio, e una buona parte della storia della metafisica può essere letta all’insegna delle diverse declinazioni a cui questa tesi è stata sottoposta. Alcuni filosofi contemporanei, ad esempio, negano che «esistere» possa avere più di un significato, mentre altri la pensano diversamente. A tal proposito, il filosofo Achille Varzi distingue almeno tre posizioni2. Secondo la prima, entità di tipo diverso possono esistere secondo forme o modalità diverse: ad esempio, per il filosofo Gilbert Ryle i corpi materiali esisterebbero in un «senso diverso» da quello in cui esistono le entità mentali3. La seconda posizione nega che tutte le asserzioni esistenziali abbiano la stessa portata: il filosofo Rudolf Carnap, ad esempio, è portavoce del profondo divario tra questioni esistenziali «interne» ed «esterne» a una data struttura linguistica4. Secondo la terza posizione, detta realismo interno, non si può parlare di esistenza in senso assoluto, in quanto sarebbe ingenuo pensare di poter fornire un’immagine del mondo che non rifletta nessun pregiudizio dello schema concettuale a cui facciamo riferimento5.

A problemi ontologici di questo tipo sono dedicati alcuni incontri di laboratorio del progetto di logica, filosofia e narrazione per bambini e ragazzi La valigia del filosofo. Alcune attività legate al tema dell’esistenza animano i primi incontri dei percorsi didattici officina Frullapensieri e officina delle idee, rivolti rispettivamente ai bambini dagli 8 agli 11 anni e ai ragazzi dagli 11 ai 14 anni. La scelta di iniziare il viaggio alla scoperta di alcuni dei temi fondamentali della filosofia analitica a partire dalla domanda su ciò che esiste nasce dal desiderio di impostare il percorso didattico in un preciso quadro di riferimento, in cui possa emergere l’importanza, per fare filosofia, di approfondire il rapporto tra linguaggio e ciò che, appunto, riteniamo faccia parte della realtà in cui viviamo.

Le attività di brainstorming su ciò che i bambini pensano che possa essere scritto nel catalogo universale, un elenco di entità che, secondo loro, esistono, sono spesso molto divertenti. Nell’ascoltare il modo in cui motivano le loro scelte, si può capire quali siano le loro più o meno timide posizioni filosofiche. Più la discussione si fa accesa, più i bambini cercano basi solide per sostenere le proprie tesi, il più delle volte riuscendo ad accogliere l’invito a considerare il punto di vista degli altri. Ed ecco che le argomentazioni via via costruite a sostegno delle diverse posizioni filosofiche contribuiscono chiaramente alla formazione di un’idea condivisa: per dire che una cosa esiste, dipende da cosa si intende.

Nella nostra esperienza non abbiamo mai incontrato un bambino di orientamento talmente scettico da mettere in dubbio l’esistenza degli oggetti materiali, ossia di quelle entità concrete con cui ci troviamo a interagire ogni giorno. Se tra i filosofi vi sono molte discordanze, è anche vero che generalmente si trovano d’accordo nel supporre che il nostro mondo comprenda almeno gli oggetti materiali che per definizione sono ordinari, concreti e tangibilissimi.

Ma quando si parla di nuvole, ombre e baci, ecco che arrivano le diatribe:

– Si possono disegnare!

– Ma non si possono toccare!

– Eppure si possono vedere!

– I baci no!

– Ma si possono sentire!

È sorprendente osservare quanto la capacità filosofica dei bambini riesca a cogliere in modo intuitivo quelle distinzioni alle quali i filosofi hanno da sempre dedicato la loro attenzione nel tentativo di definire il concetto di esistenza. A volte, e non di rado, i bambini arrivano ad ammettere gradi di esistenza, nelle cose. La diatriba qui sopra, ad esempio, si risolse con un bell’e va bene, facciamo che esistono, ma un po’ di meno!

 

La valigia del filosofo

 

NOTE:
1. Cfr. Aristotele, Metafisica, IV, 2, 1003b.
2. A.C. Varzi, Metafisica. Classici contemporanei, Laterza, Bari 2008, pp. 6-7.
3. G. Ryle, Il concetto di mente, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 17-18.
4. R. Carnap, Il neoempirismo, Utet, Torino 1969, pp. 626-652.
5. H. Putnam, La sfida del realismo, Garzanti, Milano 1987, pp. 28-33.

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Sillogismi in officina

In ogni officina che si rispetti si ripara o si costruisce qualcosa e può sempre capitare di creare qualcosa di nuovo accostando pezzi che mai, prima, avremmo pensato che potessero trovare un legame. Ogni luogo delle invenzioni e delle scoperte è un’officina. Ma servono strumenti adatti e funzionanti alla perfezione!

Cosa si può costruire con le frecce di cartoncino colorato che animano il gioco durante l’ultimo incontro dell’Officina delle idee?1 Sono grandi ma leggere, non sembrano strumenti adatti per lavorare su oggetti pesanti. E ciascuna porta con sé una scritta. Che siano istruzioni? Non esattamente, o forse sì: “CONTRADDITTORIETÀ. Di due proposizioni contraddittorie, esattamente una è vera mentre l’altra è falsa”. Oppure: “SUBCONTRARIETÀ. Due proposizioni subcontrarie non possono essere entrambe false.2 Al termine del gioco i ragazzi hanno attaccato le frecce alla parete della classe, in modo tale da ricostruire correttamente il “quadrato delle opposizioni”. Viste così, le frecce si rivelano strumenti efficaci per imparare a costruire buoni ragionamenti. Collocate all’interno del “quadrato delle opposizioni”, indicano i rapporti logici che intercorrono tra due enunciati categorici3 di tipo diverso, che hanno lo stesso soggetto e lo stesso predicato. Durante la riflessione che accompagna il gioco, iniziamo a prendere confidenza con alcuni tipi ragionamento immediato. Dario, per rendere più chiaro ai compagni il concetto di contraddittorietà, afferma: «se è vero che tutti i gatti sono pigri, allora non è vero che qualche gatto non è pigro». Per subcontrarietà, invece, i due  enunciati “Qualche gatto è pigro” e “qualche gatto non è pigro” non possono essere entrambi falsi, pur potendo essere entrambi veri. 

Ma quando un ragionamento può essere considerato un buon ragionamento? Dal nostro punto di vista, rispondere a questa domanda presuppone avviare la riflessione sulla differenza tra la forma logica del ragionamento e i significati degli enunciati che lo compongono, con i loro valori di verità. Acquisire familiarità con quei particolari tipi di ragionamenti chiamati da Aristotele sillogismi permette ai ragazzi di mettere a fuoco proprio questa differenza. 

Un sillogismo è un’inferenza mediata in cui, dati due enunciati categorici (la premessa maggiore e la premessa minore), è possibile derivarne un terzo (la conclusione). Un sillogismo è un processo argomentativo valido soltanto se la verità delle premesse implica necessariamente la verità della conclusione. 

Scriviamo alla lavagna alcuni esempi di sillogismi pensati dai ragazzi nel modo classico, seguendo lo schema in stampatello: 

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Quando lo spazio della lavagna è quasi del tutto riempito, Alice esprime un dubbio: «in generale ho capito come funziona, ma c’è qualcosa che mi sfugge. Come posso concludere che tutte le rose sono profumate partendo dal fatto che tutti i fiori sono profumati, se questo non è vero? Esistono molti fiori che non sono profumati!» I ragionamenti che appaiono più solidi, quelli che tutti sono pronti a definire buoni ragionamenti, sono solo due: quelli che portano alla conclusione a partire da premesse indubitabilmente vere. I ragazzi, confrontando  le loro idee, iniziano a tracciare in modo autonomo una distinzione tra i sillogismi che è carica di significato e che deve soltanto essere precisata. 

Allora questo pensare senza preoccuparci della verità degli enunciati di partenza è stato inutile? Tutti i sillogismi che prendono avvio da premesse false o di cui non possiamo conoscere il valore di verità sono sbagliati? Assolutamente no! La validità del sillogismo consiste unicamente nella sua correttezza formale; affinché tale correttezza sussista poco importa se, di fatto, le premesse da cui il sillogismo prende avvio sono vere o false. Se un sillogismo è valido soltanto se la verità delle premesse implica necessariamente la verità della conclusione, possiamo sempre assumere che le premesse siano vere. E non è un imbroglio! D’altra parte, basta immergerci nella lettura di una storia di fantasia per credere alla verità di enunciati che nel mondo reale riterremmo falsi, senza che, per questo motivo, sia modificata la nostra capacità di distinguere nel racconto i ragionamenti corretti da quelli sbagliati.

Il dubbio di Alice nasceva dalla necessità di avviare il ragionamento a partire da enunciati veri e i compagni non trascurano il suo valore. Al termine di questo breve viaggio nella teoria dell’argomentazione i ragazzi definiscono buoni ragionamenti soltanto i processi argomentativi validi, costruiti a partire da premesse vere. 

 

La valigia del filosofo

 

NOTE:
1. L’Officina delle idee è il percorso didattico da La valigia del filosofo dedicato ai ragazzi della Scuola secondaria di primo grado.
2. Cantini, P. Minari, Introduzione alla logica, Le Monnier Università, 2009, p.70 – 71.
3. Gli enunciati categorici sono enunciati della forma “S è P”, dove S ha la funzione di soggetto e P di predicato. Cfr. Gatti pigri, gatti contraddittori, La Chiave di Sophia n. 11 Anno V. 

[Tutte le immagini sono realizzate da La valigia del filosofo]

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Hai mai visto un entrinciattolo? Giochi tra senso e verità

Chi, incuriosito dal suo aspetto antico, aprirà la valigia lasciata sulla porta di una libreria, la troverà piena di oggetti dalla concretezza indubitabile: pennarelli a punta grossa e matite, forbici, cartoncini colorati… Che sia la valigia di un artista? Ma a cosa potrebbero servire due scatole di cartone luccicanti, carte da gioco giganti, illustrazioni di illusioni ottiche e due cappelli a forma di gatto perfettamente uguali? Forse è stata dimenticata qui da un mago! Peccato che le cose astratte non si possano vedere né toccare. Altrimenti, salterebbero subito agli occhi tre idee, pronte a uscire dalla valigia per garantire la certezza che si tratta de La valigia del filosofo: i concetti di senso, verità e validità. 

Questi sono i concetti essenziali della teoria dell’argomentazione, che si applicano rispettivamente alle nozioni di termine, enunciato e ragionamento. Il modo di fare filosofia con i bambini che caratterizza ogni laboratorio de La valigia del filosofo prende forma proprio a partire dalle basi della teoria dell’argomentazione. Per questo motivo, i concetti di senso, verità e validità occupano molto spazio – per fortuna solo in teoria – all’interno della valigia. Sono il filo conduttore che giustifica lo spazio materialmente occupato da quella varietà di oggetti concreti apparentemente alla rinfusa, e che spiega come questi oggetti si trasformino in strumenti didattici. 

I termini dotati di senso sono le parole del nostro linguaggio che hanno significato in sé. Le parole sono realtà materiale, suono della voce se stiamo parlando, o segni su carta se scriviamo. Se tale materialità ha un legame con “ciò per cui sta”, se la parola si riferisce a una qualche entità, allora è dotata di significato e può essere usata per costruire un enunciato, elemento minimo del nostro modo usuale di comunicare. 

Il senso si trasferisce naturalmente dalle parole (o termini) agli enunciati. I bambini, in alcuni degli incontri del laboratorio Officina Frullapensieri, sono guidati nella scoperta dei concetti di base della logica classica, applicata agli enunciati dichiarativi. La riflessione si svolge attraverso il gioco con la macchina della verità: una macchina in grado di leggere gli enunciati tramite le sue speciali antenne, che sa sempre se ciò che legge è vero oppure falso. Una macchina blu che non sa parlare, ma che può rispondere agli input accendendo due luci: una verde, per il vero, o una rossa, per il falso. 

Quando un bambino aggancia a una delle antenne un cartellino con su scritto “la volpe pavese trottera nello zucchero con tre entrinciattoli”, a nessuno dei compagni pare così strano che la macchina sembri impazzita. Le  due luci si accendono alternandosi, intermittenti… qualcuno pensa che la macchina esploderà! La discussione, in classe, si anima: cosa sono gli “entrinciattoli”? Probabilmente animali, ma quali? E poi, cosa vuol dire “trottera”? All’improvviso le luci della macchina della verità si spengono contemporaneamente. Molti bambini sono pronti a spiegare il suo comportamento: la macchina della verità funziona ancora alla perfezione, ma, in questo caso, non può decidere tra vero e falso! Le parole “trotterare” e “entrinciattolo” hanno la forma apparente di un verbo e di un nome, ma non si trovano sul vocabolario! La macchina della verità ha sospeso il giudizio su questo particolare enunciato (ammesso che lo sia), perché la mancanza di senso di alcune delle parole che lo compongono si trasferisce alla sua interezza. Come minimo dovremmo metterci d’accordo sul significato della parola “entrinciattolo”. Stabilire che, da oggi, per tutti i bambini della scuola, la parola si riferisce esclusivamente a scoiattoli e ghiri delle foreste canadesi, e spargere la voce. 

La classe rinuncia subito all’impresa. Una bambina, allora, appronta un piccolo foglio da far leggere alla macchina della verità, scrivendoci sopra “fantasmi”. La reazione osservata da tutti sembra molto simile alla precedente. Mentre il verde e il rosso delle luci si rincorrono, qualcuno ha già capito il motivo: «quella non può essere né vera ne falsa… Perché non è una frase!» Le luci, di nuovo, si spengono. E c’è poco da aggiungere all’osservazione appena fatta. “Fantasmi” è un termine, non un enunciato, ed è qui che emerge la fondamentale differenza tra i due elementi linguistici: mentre sia a proposito dei termini che degli enunciati possiamo porci domande relative al senso, non è lecito domandarci se i termini siano veri o falsi. La verità entra in gioco soltanto nel momento in cui, mediante un enunciato, descriviamo una certa situazione o il sussistere di una certa relazione tra oggetti o individui, e valutiamo il rapporto tra la nostra descrizione e “ciò per cui essa sta”. In un balzo, gli enunciati ci fanno saltare dal senso alla verità.

 

La valigia del filosofo

 

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“Chi ha rotto la credenza?”. Tra causalità e correlazione

A guardarlo bene, il mondo può sembrarci una struttura complessa in cui diversi elementi interagiscono con relazioni di varia natura. Tra queste relazioni sopravanza la causalità: giorno dopo giorno pianifichiamo e interpretiamo parte della nostra esperienza attraverso leggi causali e anche l’immagine scientifica del mondo1, nella sua ricerca di modelli esplicativi e predittivi, invoca spesso il nesso causale.
Che la nostra vita sia piena di perché, i bambini lo sanno bene. Ma non è altrettanto intuitivo l’accesso alla natura di tale quesito metafisico. Per guidare i bambini nell’analisi e nella comprensione delle relazioni causali, può essere utile2 innanzitutto chiarire cosa la causalità non è. Causalità, ad esempio, non è correlazione. In altre parole, se all’aumentare di una variabile aumenta o diminuisce un’altra variabile, non significa che siamo in presenza di un nesso causale.
Per chiarire, riportiamo un dialogo tratto da una storia di fantasia:

– Ad agosto vendo moltissimi gelati, perché fa caldo e la gente vuole rinfrescarsi.
– E d’inverno? – chiese Achille.
– L’inverno è una stagione orribile! – Protestò il gelataio, rabbuiandosi.
– Sai, ieri mia mamma si è tagliata i capelli. Se li taglia sempre ad agosto! – gli sorrise Achille, per cambiare argomento nel tentativo di rasserenare il venditore.
– Sì, lo avevo notato. Quando tua madre si taglia i capelli io vendo più gelati!

In questo particolare dialogo appare evidente che il legame tra il taglio di capelli e la vendita di gelati sia di semplice correlazione, non di causalità: non si può dire che quel taglio dei capelli comporti un aumento delle vendite di gelato. Si potrebbe forse dire, invece, che entrambi questi eventi abbiano tra le loro rispettive cause l’aumento delle temperature che si verifica in estate.

Per capire cos’è quel qualcosa in più che consente ad una relazione tra eventi di essere causale, i bambini creano nuovi esempi con un gioco di carte illustrate. Dopo aver ricevuto alcune regole, i bambini provano a creare un legame che non colleghi due eventi alla maniera del dialogo precedente, ma che sia di causalità: una carta dovrà fungere da causa e un’altra da effetto. Per ampliare le possibilità di risposta e favorire la libera immaginazione dei bambini, le carte illustrate sono poco realistiche e si prestano a molte interpretazioni.
Dopo aver indagato la natura del nesso causale, i bambini sono guidati nella scomposizione di tale legame nei suoi elementi principali, i cosiddetti relata causali3, ossia di quelle entità tra cui si può dire che esista un nesso causale, la causa, ossia il motivo per cui succede una certa cosa, e l’effetto, cioè ciò che la causa produce. A introdurre questa fase può essere utile un episodio narrativo come questo:

Achille stava giocando nel giardino della nonna quando per sbaglio calciò la palla verso la finestra che la nonna aveva accidentalmente lasciato aperta. La palla era entrata in soggiorno e aveva colpito la sedia gialla. La sedia gialla era caduta sulla sedia rossa che era caduta sul tavolo che strisciando aveva spinto la sedia blu che aveva colpito la credenza rompendone un cassetto.
Inutile dire che la nonna si era arrabbiata col nipotino, accusandolo della rottura del cassetto. Achille invece avrebbe voluto incolpare la nonna, che aveva lasciato la finestra aperta, ma ritenne più prudente incolpare una delle sedie, e il verdetto era caduto sulla sedia blu.
Chi ha rotto la credenza?

Di fronte a storie di questo tipo è difficile trovare un comune accordo: un bambino risponde «la palla», perché senza quella non sarebbe avvenuto il danno, un altro risponde «sia Achille sia la nonna», perché le persone sono dotate di intenzione, mentre gli oggetti sono inanimati e quindi privi di vero potere causale; un altro ancora «la sedia blu», essendo l’oggetto che ha materialmente rotto il cassetto, un altro «Achille, la nonna, la palla, la finestra, il tavolo e le sedie», perché tutti questi elementi insieme hanno concorso alla realizzazione del danno, ma c’è anche chi dice «nessuno», non essendoci stata intenzionalità nell’incidente.
Una situazione narrativa così articolata dà modo ai bambini di analizzare in modo un po’ più complesso il nostro problema metafisico. Ad esempio può emergere non solo la classica visione per cui esistono solo due relata, una causa c e un effetto e tali per cui «c causa e», ma anche quella per cui le relazioni causali hanno la forma «c causa e piuttosto che e4.

Al di là del loro numero, poi, un’altra osservazione che può emergere è quella che si basa sulla tipologia dei relata considerati. Parliamo di causalità singolare quando ad essere connessi sono eventi particolari, dotati di una precisa collocazione spaziotemporale. Ad esempio «il fatto che Giuliano abbia fumato quattro pacchetti di sigarette senza filtro al giorno per venticinque anni è causa del suo tumore ai polmoni5. Si parla, invece, di causalità generale quando si mettono in rapporto tipi diversi di eventi, come nella frase «il fumo causa il tumore ai polmoni».

Considerazioni come queste possono essere visualizzate concretamente per mezzo di grafici quali il modello a rete: i relata sono rappresentati dai nodi e la relazione causale dalle frecce. I bambini, dopo aver imparato a leggere e creare modelli di questo tipo, diventano in grado di interiorizzarli e di personalizzarne alcuni criteri. Rafforzare l’apprendimento tramite la creazione di criteri visivi stimola la loro capacità di evidenziare l’entità di una causa rispetto ad un’altra e, in generale, facilita l’abitudine a interpretare con più chiarezza il nesso di causalità.

 

La valigia del filosofo

 

NOTE:

1. W.S. Sellars, Philosophy and the Scientific Image of Man, in Frontiers of Science and Philosophy, University of Pittsburgh Press, Pittsburgh 1962.
2. Questo è quanto La valigia del filosofo, progetto di logica e filosofia per bambini e ragazzi nato in Toscana nel 2015, si propone di fare con i suoi laboratori.
3. Per motivi di semplicità, consideriamo in questo articolo i relata come eventi individuali, ossia cose che accadono in una precisa regione di spazio-tempo, tralasciando le altre interpretazioni.
4. B. Van Fraassen, The Scientific Image, Oxford University Press, Oxford 1980.
5. R. Campaner, Causalità e cause, in A. Coliva, Filosofia analitica. Temi e problemi, Carocci, Roma 2007.

 

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E tu chi sei? Il concetto di identità alla prova del tempo

Le nostre vite prendono forma in un flusso di continui cambiamenti, all’interno del quale sappiamo muoverci quotidianamente in modo naturale, spesso senza dover riflettere sulla sua presenza. Nei cambiamenti che sentiamo coinvolgere il nostro pensiero e la nostra sfera emotiva, ma anche in quelli che riguardano gli oggetti materiali, non percepiamo una minaccia all’idea della persistenza nel tempo dell’identità. La memoria, come un filo teso tra passato e presente, restituisce un’idea immediata di identità come qualcosa di unico e di unitario. Niente ci impedisce di pianificare le nostre azioni future e di stabilire relazioni autentiche con gli altri, perché nel cambiamento riconosciamo quei punti fissi che permettono di non mettere mai in discussione il fatto che le cose, pur cambiando, restino loro stesse.  

“Questa convinzione si fonda a sua volta su un bisogno ineluttabile: il bisogno di trovare dei punti fermi nel flusso continuo di trasformazioni che ci circondano, l’esigenza di stabilizzare ciò che stabile non è”. Come giustificare, dunque, lo status ontologico ed epistemologico dei punti fermi che rendono naturale l’idea che l’identità delle cose sopravviva al cambiamento? Li possiamo riconoscere come puri elementi della realtà? Oppure, in quale misura sono il prodotto di dispositivi mentali che rispondono all’esigenza di stabilità?

A partire dalle esigenze del senso comune e dal principio teorico, che apparentemente ben vi si accorda, secondo il quale due cose sono identiche se possiedono le stesse caratteristiche, possiamo problematizzare il concetto di identità. E possiamo dare spazio a una sua caratterizzazione meno granitica rispetto a quella a cui, forse, pensiamo abitualmente. In questo senso, il punto di vista offerto da Lewis Carroll nel dialogo tra Alice e il Bruco in Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie, è un invito, rivolto ai bambini e agli adulti, a soffermarci sulle incongruenze che emergono quando si dà per scontato che l’identità sopravviva al tempo e al cambiamento.

Alice, di fronte alla domanda «E tu chi sei?» che il Bruco le rivolge all’inizio del loro incontro, non sa cosa rispondere: aver cambiato più volte statura nel corso di quell’incredibile giornata l’ha resa terribilmente confusa. L’idea che dà sostanza al suo disorientamento, se estesa a tutte le cose, è racchiusa in questa domanda fondamentale: “come può una medesima entità godere di proprietà diverse e tra loro incompatibili?”. Il Bruco potrebbe non aver capito come mai i cambiamenti vissuti da Alice siano capaci di mettere in crisi la sua identità semplicemente perché ritiene che proprietà diverse – in questo caso le diverse stature di Alice – non siano in realtà incompatibili, se possedute in momenti diversi. Il riferimento a proprietà temporali rappresenta una risposta plausibile alla domanda nell’ambito del dibattito contemporaneo di stampo analitico. È ragionevole, tanto da sembrare ovvio, osservare che non esiste alcuna incongruenza nel fatto che la mia gatta oggi fosse assonnata alle 6.30 del mattino e vivace stasera, alle 20.15. Potrei descrivere la copertina del libro che ho sul tavolo attraverso queste due proprietà temporali, evitando così ogni incompatibilità: dai-colori-accesi-nel-1978 e sbiadita-nel-2019. Ma rimane discutibile quanto l’inserimento dell’elemento temporale direttamente nelle proprietà che determinano l’identità degli oggetti sia una valida soluzione del problema, e non, invece, soltanto una sua riformulazione.

Sembra che la mente del Bruco, nella sua assonnata sicurezza, non sia sfiorata da alcun dubbio riguardo la realtà oggettiva dei punti fissi e la stabilità dell’identità attraverso il cambiamento. Alice, che invece non ha più la certezza che il cambiamento non sia capace di sgretolare l’identità, gli rivolge queste parole:

«Forse perché lei non ha ancora fatto la prova» […] «Ma quando si dovrà trasformare in crisalide – e le capiterà un giorno o l’altro – e poi da crisalide in farfalla, vedrà che si sentirà un po’ confuso anche lei

La trasformazione del Bruco in farfalla fornisce lo spunto di riflessione per dubitare delle proprietà temporali come risposta convincente al problema che stiamo indagando. Immaginiamo che il Bruco abbia un gemello con cui condivide le stesse caratteristiche e che, per questo, può essere considerato identico a lui: stesso colore verde acceso della pelle, stessi occhiali sul naso, stesso timbro profondo della voce! Certamente tendiamo a sostenere in modo spontaneo che il Bruco, trasformandosi in farfalla, resterà la stessa entità e, d’altra parte, che il Bruco e il suo gemello siano entità distinte. Ma, non appena la riflessione diviene più sottile, emergono aspetti contraddittori e sembra impossibile rintracciare una via diretta per definire il concetto di identità come qualcosa di stabile nel tempo.

Così, vogliamo lasciare il lettore con una domanda: non c’è un’incongruenza nell’identificare il Bruco con la farfalla, che ha caratteristiche incompatibili rispetto alle sue, e nel dare grande valore, invece, alla diversità tra il Bruco e il suo gemello, che ci sembrano identici?

 

La valigia del filosofo

 

NOTE
1. Cfr. Achille Varzi, L’identità nel cambiamento, 13 Maggio 2006, Roma. Guarda il video.
2. Ibidem.
3. Cfr. L. Carroll, Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie, in M. D’Amico (a cura di), Il mondo di Alice, Bur, Milano, 2006, cap V.

E tu chi sei? Il concetto di identità tra logica e narrazione

Il Bruco si tolse di bocca la pipa e, con voce languida e assonnata, chiese: «E tu chi sei?» […]
Alice rispose con voce timida: «Io… io non lo so, per il momento, signore… al massimo potrei dire chi ero quando mi sono alzata stamattina, ma da allora ci sono stati parecchi cambiamenti».
«Che vuoi dire?» disse il Bruco, severo. «Spiegati!»
«Mi dispiace, signore, ma non posso spiegarmi,» disse Alice «perché io non sono più io; capisce?»1.

Nel primo incontro del percorso didattico Le meraviglie che Alice trovò, ideato per avvicinare i bambini alla lettura dei celebri romanzi carrolliani Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie e Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò, la storia di Alice viene ripercorsa attraverso un gioco di carte, dando vita a una lettura collettiva. Le grandi carte di picche hanno la funzione di introdurre con un’immagine, accompagnata da una breve frase, le tematiche logico-filosofiche spesso racchiuse nei dialoghi tra Alice e gli strampalati personaggi che popolano la sua avventura.

Quando il giocatore con in mano il tre di picche scopre la sua carta, la riflessione dei bambini si concentra per la prima volta sul tema dell’identità. «E tu chi sei?». I pensieri del Bruco, distratti o forse assorti, sono stati interrotti dall’arrivo di Alice.

Il tema dell’identità occupa una posizione centrale all’interno del dibattito filosofico contemporaneo di stampo analitico e nei laboratori de La valigia del filosofo2 si è scelto di privilegiare tale approccio. Il concetto di identità viene quasi sempre affrontato giocando con le proprietà fondamentali che caratterizzano le relazioni di equivalenza-simmetria, riflessività e transitività, in modo tale che i bambini possano sperimentare l’utilità della logica nello smontare i concetti per “guardarli dall’interno”. Certamente, però, nel Paese delle Meraviglie molti altri incontri offrono lo spunto per considerare il concetto di identità attraverso chiavi di lettura di tipo diverso. La Regina di Cuori, per esempio, ha un carattere davvero difficile: sembra una furia cieca e senza ragione. La sua entrata in scena sposta l’accento sull’emotività e sulla dimensione dell’identità personale come continuità psicologica. D’altra parte, la scelta di partire da una narrazione per avviare la riflessione filosofica rivela la sua bellezza anche nel mettere in luce, come fosse una sfida, la necessità di creare ponti tra diversi approcci filosofici. Il dialogo tra Alice e il Bruco stimola la riflessione sul tema dell’identità personale e della sua persistenza nel tempo, e può diventare il punto intorno al quale ruotano diversi input filosofici in cerca di un equilibrio reciproco.

Stamattina la mia gatta era assonnata, indolente, mentre stasera è anche troppo vivace. Il libro che ho di fronte in questo momento ha la copertina scolorita e le pagine stropicciate: sicuramente non era così quando è stato comprato, nel 1978! È facile accorgersi che nel nostro mondo, come in quello di Alice, le cose cambiano, e che non troviamo in ciò niente di sconvolgente. Sono sicura del fatto che la mia gatta di stasera sia la stessa di stamattina, e non perché l’ho tenuta d’occhio tutto il giorno, nel dubbio che qualcuno la sostituisse con una identica a lei d’aspetto, ma più estroversa! Tutti noi siamo capaci di vivere serenamente in un flusso di continui cambiamenti, perché riconosciamo al suo interno, in modo spontaneo e naturale, alcuni punti fissi: quelli che ci permettono, per esempio, di riconoscere un amico dopo tanto tempo che non lo vediamo. Se non percepissimo punti di continuità nel cambiamento, vivremmo in una costante crisi d’identità di tutte le cose e non saremmo capaci né di attribuirci le responsabilità delle azioni compiute, né di pianificare il nostro futuro.

Una condizione di questo genere ci sembra assurda, fortunatamente lontanissima dal nostro vissuto quotidiano. Ma, se cerchiamo di comprendere la ragione profonda del fatto che l’identità delle cose persista, sopravvivendo al loro cambiamento, scopriamo che si tratta di una questione tutt’altro che banale. In altre parole, in cosa consistono i punti fissi che ci permettono di pensare che le cose, pur trasformandosi, conservino la propria identità? Alice, prima di incontrare il Bruco, aveva cambiato più volte dimensione: era diventata piccola piccola bevendo da una boccetta con la scritta “bevimi” sull’etichetta, e poi enorme, mangiando un dolcetto. Se partiamo dal presupposto teorico che due cose siano identiche se e solo se possiedono tutte le stesse caratteristiche, possiamo prendere filosoficamente sul serio le parole di Alice, quando afferma di non essere più la stessa. A partire da questo presupposto teorico e dalla perplessità di Alice, nel prossimo articolo presenteremo alcuni aspetti paradossali che emergono quando l’identità viene pensata in relazione alla sua persistenza nel tempo.

 

La valigia del filosofo

 

NOTE
1. Cfr. L. Carroll, Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie, in M. D’Amico (a cura di), Il mondo di Alice, Bur, Milano, 2006, cap V.
2. La valigia del filosofo è un progetto di logica e filosofia per bambini nato nel 2015.

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