Il futuro del mondo. Scenari di denatalità globale

La Plasmon ha recentemente realizzato un cortometraggio ambientato in Italia nel 20501, anno in cui nascerebbe Adamo, l’ultimo bambino del nostro Paese, destinato a crescere solo tra adulti. I protagonisti raccontano l’angoscia di crescere un bambino destinato a essere sempre solo e le problematiche che hanno portato le persone ad abbandonare l’idea di avere figli. Reparti di maternità vuoti, asili vuoti, scuole vuote…

Se l’infanzia e la gioventù sono sempre state la base della piramide demografica, le cose stanno cominciando a mettere seriamente a rischio questa forma, che rischia di capovolgersi. In un mondo affollato di anziani e carente di giovani, quello che verrà a mancare sarà incommensurabile. A parte le ovvie difficoltà a pagare le pensioni di chi merita il riposo della sopraggiunta terza età, ci sarà una crisi dell’innovazione, perché è il nuovo che porta novità e cambiamento, cioè le nuove generazioni, menti fresche che pullulano di energia promotrice di evoluzione. Il perfetto connubio sarebbe il giusto mix tra freschezza e capacità innovativa delle menti giovani ed esperienza e maturità di menti più vissute.

Attualmente l’età media del nostro paese è 47 anni, ed è uno dei più vecchi al mondo. Ma siamo ormai in buona compagnia: tutte le 15 maggiori economie mondiali hanno un tasso di fertilità sotto 2,1. Le donne fanno meno figli perché sono troppo impegnate a far carriera? In realtà negli USA si è visto che oramai le donne meno istruite fanno pochi figli come quelle più in carriera. È evidente che la denatalità è un fenomeno complesso, multifattoriale2.

L’immigrazione dai paesi che ancora si reggono su buoni tassi di natalità potrebbe essere una soluzione, ma se le giovani menti in fuga non vengono istruite da qualche parte (paese di provenienza o paese di arrivo) non potranno essere una innovativa forza lavoro in nessuna realtà. Mentre i costi per il benessere degli anziani, per pagare le loro pensioni e le loro cure (la salute pesa molto nel bilancio della seconda fase della vita), risucchieranno buona parte dei budget delle spese di una nazione, sempre meno sarà disponibile per sostenere il mondo giovanile. Aumentare le tasse e l’età pensionabile sarà inevitabile. Anche i comportamenti economici sono molto diversi tra persone giovani e persone anziane, varie sono le previsioni a livello di impatto finanziario, non proprio rosee. Le menti giovani e fluide che mancheranno non potranno contribuire alle innovazioni scientifiche e culturali di cui abbiamo bisogno per poter sopravvivere in un mondo sempre più complesso. Alcuni paesi, come Singapore, provvedono con lauti incentivi economici a foraggiare le nascite, ma nonostante ciò la denatalità persiste. Di nuovo, le cause sono complesse.

Finirà, come ipotizza lo storico Yuval Noah Harari, che non potremmo più fare a meno dell’intelligenza artificiale come fonte di innovazione? Il che significherebbe affidare gli scenari del futuro a una intelligenza aliena: anche se creata dagli umani, non è umana. Chissà poi se, un giorno, queste IA che sembrano già ora destinate a farci da oracolo (Eih Siri, che ne pensi di…?) potrebbero anche elaborare, tra gli intricati e oscuri chip delle loro scatole nere, un piano congruo con il fatto che l’umanità non è destinata a permanere ancora per molto (in pratica, accelerare la nostra scomparsa).

La sopravvivenza dell’umanità nella storia è stata più volte messa in discussione, si pensi all’epidemie che nel passato hanno decimato gli umani, ma mai si era presentata una situazione in cui nascano sempre meno bambini e allo stesso tempo gli anziani siano così longevi. Il baricentro della vita si sta spostando tutto verso la vecchiaia, qualcosa che la natura non avrebbe mai permesso, se non fosse per il nostro massivo intervento a modificarne le sorti. Adesso dobbiamo fronteggiare le conseguenze, ma le implicazioni etiche di questo cambiamento sono enormi, non riusciamo nemmeno a immaginarne la portata.

È necessario che i governi si prendano cura delle loro popolazioni, aprendosi a dinamiche più attente ai comportamenti globali e a un dialogo internazionale attento ai flussi su larga scala, piuttosto che focalizzarsi solo su riduttive e fuorvianti, spesso litigiose, piccole questioni. Ma questa lungimiranza non appartiene a nessuna parte politica.

 

Pamela Boldrin

NOTE
1. Lo si può trovare al link: https://www.youtube.com/watch?v=P7lr5kEpdrk .
2. Dell’argomento tratta dettagliatamente il The Economist nell’articolo del 30 maggio 2023 dal titolo “It’s not just a fiscal fiasco: greying economies also innovate less. That compounds the problems of shrinking workforces and rising bills for health care and pensions”.

 

[Photo credit Caleb Woods]

 

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Il paradosso delle donne. La longevità femminile significa più malattie

Oramai dovrebbe essere questione piuttosto condivisa che la medicina debba avere una declinazione attenta al sesso e al genere che sta prendendo in cura. Ma, guardando cosa dicono i dati, forse non è cosa ancora sufficientemente nota. L’ISTAT, nell’annuario statistico italiano Sanità e salute 2019 ci informa che, in Italia, la donna ha un’aspettativa di vita di 5 anni superiore all’uomo (vita media degli uomini: 79,9 anni – delle donne: 84,4 anni) ma questi 5 anni di surplus sono prevalentemente di malattia e disabilità. Ci sono diversi motivi per cui questa situazione, al contempo sanitaria ed etica, si avvera. Il principale è che si continua troppo spesso ad utilizzare il paradigma dell’entità “uomo”, che riguarda il 50% dell’umanità, come modello per il 100% dell’umanità. Un po’ come ci si ostina a fare ancora con il linguaggio, quando si dice o si scrive “uomo” ma si intendono anche le donne, perché usare altri termini è faticoso e rompe con una tradizione linguistica sedimentata nell’abitudine e ignara di quanto questa visione abbia nuociuto e continui tuttora a farlo. Infatti, dire uomo e sottintendere anche donna è quello che è accaduto per millenni di ricerca scientifica e pratica medica.

Il presupposto di partenza è questo: le stesse malattie si comportano diversamente a seconda che siano maschili o femminili, eppure sono sempre state studiate per come si presentano sugli uomini. Un caso eclatante? La diagnosi di infarto del miocardio arriva più tardiva quando colpisce le donne, perché i loro sintomi sono diversi da quelli classici degli uomini e vengono spesso mal interpretati (spesso finiscono nell’orbita dei disturbi gastrici o psichici). Il risultato? Nonostante l’infarto del miocardio sia meno frequente nelle donne, esse muoiono più facilmente degli uomini, a causa del ritardo nelle cure. Un altro punto cruciale, tra i tanti, è la farmacoterapia, in quanto gli studi farmacologici sono stati a lungo effettuati solo su maschi (animali prima e uomini poi) con il risultato che effetti e dosaggi non danno gli stessi risultati nelle donne, che sono colpite più frequentemente da maggiori effetti collaterali e minore efficacia.
Non bastasse, ci sono studi che ci informano che le donne sono più stressate degli uomini, soprattutto perché ovunque nel mondo si fanno più carico dei ruoli di care-giver (American Psychological Association, Stress in America: The State of Our Nation, 2017). Questo incrementa la loro vulnerabilità alle malattie ma influisce anche sull’effetto dei farmaci e delle varie cure.
Eppure va detto che le carenze della medicina, sebbene procurino numerosi svantaggi alla salute delle donne lungo tutta la loro vita, finiscono anche per penalizzare alcuni uomini, soprattutto in alcune malattie. È il caso, non unico, dell’osteoporosi, che è stata a lungo considerata una malattia che colpisce principalmente le donne caucasiche in post-menopausa. Questo presupposto ha modellato il suo screening, la sua diagnosi e il suo trattamento sul modello femminile, cosicché se l’osteoporosi ce l’ha un uomo, finisce che le complicanze sono maggiori a causa, perlopiù, della latenza di diagnosi.

La storia della medicina è molto coinvolta nelle ragioni delle grandi difficoltà a declinare la pratica medica a seconda di sesso e genere. Colpevole è certamente una cultura del sapere che fin dalle sue origini ha escluso le donne dalla formazione e le ha oggettificate senza tenere conto del loro contributo nemmeno come pazienti. Persino la storia dell’anatomia, che si è realizzata sulle autopsie dei cadaveri, ha dovuto accontentarsi di rari cadaveri femminili (precludendo l’approfondimento delle diversità anatomiche femminili). L’ostinazione a relegare il sapere nelle menti di una selettiva e parziale fetta di umanità ha procurato molta sofferenza e continua a produrre ancora molte ingiustizie per quanto riguarda diagnosi, prevenzione, prognosi e terapie.

Oggi, almeno per quanto riguarda i paesi occidentali, abbiamo molte donne, addirittura la maggioranza, oramai su quasi tutti i settori delle professioni sanitarie e in buona parte anche sul fronte della ricerca. Questo fatto depone favorevolmente al cambiamento che attendiamo.
È vero che le donne sono da tempo immemore il sesso debole, ma non perché nascono così, anzi, la natura della longevità è piuttosto una evidente dimostrazione della loro forza; ma l’essere state in balia di cure declinate esclusivamente al maschile e allo stesso tempo escluse dal sapere attorno quelle cure le ha rese tremendamente vulnerabili. Ora la conoscenza degli errori e la presenza delle donne all’ecclesia del sapere potrà essere finalmente una possibilità per smantellare le enormi ingiustizie che ancora affliggono molte persone nel momento più vulnerabile della loro esistenza, cioè quando soffrono e hanno bisogno di essere curate.

Pamela Boldrin

[Photo credit Towfiqu Barbhuiya via Unsplash]

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Tecnologia: dipende da come si usa?

Si dice che il Novecento sia stato il secolo più cruento di sempre. Perché? Cos’ha contraddistinto il Novecento rispetto a tutti i secoli precedenti? La risposta appare ovvia ma imprescindibile: un dispiegamento della tecnologia e dei mezzi tecnologici inaudito, il quale ha inaugurato potenzialità distruttive fino ad allora impensabili. Senza tener conto di ciò non è possibile comprendere le catastrofi del secolo scorso. A questo punto non è difficile l’affacciarsi di una delle più tipiche espressioni d’ingenuità: “Dipende da come la si usa, la tecnologia”. Ora, come modo di dire, come luogo comune, questa frase può essere accettata. Ma è ingenuo pensare con questa semplice proposizione di aver risolto definitivamente il problema, di aver trovato una verità ultima. Occupandosi di filosofia non ci si può accontentare di luoghi comuni o di verità definitive, accettate in modo a-critico.

Perlopiù andiamo avanti ciecamente, senza renderci conto che la tecnologia e il suo sviluppo procede senza curarsi di qualsivoglia argomento. Spesso ci aggrappiamo a quell’unica frase “Dipende da come si usa”. Forse un’efficace smentita di questa visione tanto diffusa sta nel fatto che una delle molle più potenti dell’agire umano sia di «fare qualcosa solo perché si può farla, giusto per dimostrare che la possibilità è realmente possibile» (M. D’Eramo, Il selfie del mondo, 2017). Stando a tale prospettiva, l’uomo (perlomeno l’uomo occidentale post-greco che ha tolto la categoria del “limite”) non sarebbe in grado di dominarsi davanti a un nuovo strumento che gli permetta di accrescere la propria potenza, la propria capacità di incidere sul mondo, che gli permetta di vivere più a lungo, di sentirsi più sicuro etc. Qualunque sia l’arnese, l’apparecchio, il congegno in questione, egli presenterebbe in sé la tendenza intrinseca a estrapolare il massimo possibile dalle potenzialità dello strumento a sua disposizione. Pertanto, una riflessione sull’uso “corretto”, qualora avvenisse, sarebbe solo posteriore, secondaria, fondamentalmente accessoria.

Sembra che man mano si stia rinunciando una volta per tutte a pretendere una legittimazione del potere di quegli apparecchi con i quali sempre più siamo costretti – seppur velatamente – ad avere a che fare. Ma da chi mai si può pretendere la legittimazione del potere di un apparecchio? Se in linea di principio nessun essere umano in carne ed ossa ci costringe a regolare gran parte della nostra esistenza sulla base di algoritmi, di codici e di chissà che altro, allora insorgere contro un uomo o un gruppo di uomini in carne e ossa non rappresenta certo la soluzione. D’altra parte, una mobilitazione luddista nel 2023 apparirebbe anche al più ingenuo degli uomini come assurda, infantile. E allora?

Tutto lascia supporre che, al cospetto di uno sviluppo inesorabile della tecnologia, le armi della critica siano inefficaci. Certo, se ne può discutere all’infinito con argomentazioni magari ben strutturate, ma intanto l’apparato tecnico va potenziandosi sempre di più, come fosse una immane creatura in grado di accrescersi autonomamente e inarrestabilmente. I dati fluttuano qua e là come fossero entità a sé stanti, e si fatica a pensare che tutto sommato ad alimentare tutto ciò siano pur sempre degli uomini. Ci si sofferma mai a pensare che con l’eventuale scomparsa dell’uomo dalla Terra non resterebbero altro che conglobati di plastica, metallo, cemento etc., oggetti incomprensibili a qualsiasi altra creatura? Inoltre è superfluo aggiungere che è proprio per lo sviluppo immane di quest’apparato che via via abbiamo preso una certa dimestichezza con l’idea di una nostra possibile estinzione. Magari è ormai inscritto nel nostro DNA che «il concetto stesso di progresso è divenuto inseparabile da quello di epilogo» (E. Cioran, Squartamento, 1981).

Avanziamo nella nebbia, come sempre accade agli uomini immersi nel loro presente. E continuare a sostenere riguardo allo sviluppo della tecnologia che “dipende da dove lo si indirizza, da come lo si usa” forse non fa che intensificare questa nebbia. O forse l’uomo, che già decenni fa Gunther Anders definiva come “antiquato”, è davvero diventato un pezzo d’antiquariato e, in quanto tale, non più infastidito da quella nebbia che sempre lo ha spinto a porsi le domande ultime, quelle più importanti e vertiginose, quelle filosofiche?

 

Vincenzo Di Puma
Nato in Sicilia nel 1990, vive a Bologna dove ha conseguito la laurea triennale in Filosofia con una tesi su Gerard Genette e quella magistrale in Scienze Filosofiche discutendo una tesi su Jurgen Habermas.

 

[Photo credit Ales Nesetril via Unsplash]

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Cosa possiamo imparare dalla narrativa? Il romanzo come fonte storica

Siamo soliti acquisire nozioni relative al passato, più o meno recente, attraverso i manuali di storia. Questa pare essere la via “istituzionale”, quella verso cui siamo stati indirizzati fin da bambini. Ma se ci fosse un metodo alternativo, in cui a unirsi sono utile e dilettevole, per arricchire il nostro bagaglio storico? 

Per esempio, leggendo Guerra e Pace di Tolstoj ci viene data la possibilità di procurarci delle conoscenze in merito all’aristocrazia russa del XIX secolo, o ancora, Per chi suona la campana, di Hemingway, potrebbe dirci qualcosa a riguardo della guerra civile che ha dilaniato la Spagna tra il 1936 e il 1939. Questi testi, oltre a essere di argomento storico, hanno però un’altra e, aggiungerei, primaria (con un’accezione più ontologica che temporale) caratteristica comune: appartengono al genere letterario del romanzo, sono quindi opere narrative, composte principalmente da proposizioni finzionali e non da locuzioni assertive.

Sorge spontaneo chiederci se un prodotto finzionale, scritto con uno scopo diverso da quello della divulgazione scientifica, possa davvero essere dotato di un valore epistemico. Questa domanda prevede una risposta, almeno in parte, affermativa; d’altronde anche gran parte della tradizione umanista ammetteva la possibilità dell’acquisizione di un qualche tipo di informazione sul mondo (passato o contemporaneo a chi scrive) derivata specificatamente dall’esperienza letteraria – Aristotele poneva il piacere di imparare all’origine dell’ars poetica e Orazio definiva la poesia dulce et utile.

Prima di chiarire il motivo per cui un’opera finzionale è in grado di assolvere una funzione didattico-cognitiva, è doveroso mettere in guardia il lettore, esplicitando la modalità operativa di uno scrittore di narrativa, la quale, senz’altro, si differenzia da quella di uno storico. Leggendo un testo narrativo possiamo acquisire un’enorme quantità di dati empirici; tuttavia, non dobbiamo essere ingenui nel considerare valida ogni asserzione che sembra comunicarci qualcosa di fattuale. Gli eventi raccontati sono modellati dall’autore, e in particolare dal punto di vista che egli sceglie di adottare. Le narrazioni di un romanzo possono essere paragonate alla finestra di una stanza dalla quale osserviamo il mondo, ma tale finestra ha un vetro opaco, popolato da figure viste non attraverso ma sul vetro. Essa, quindi, è in realtà un dipinto, frutto dell’atto intenzionale e consapevole dell’artista di rappresentare il mondo, ma non necessariamente raffigurante eventi veramente accaduti e personaggi realmente esistiti.

Allargando il concetto di fonte a ogni tipo di lascito umano del passato, è possibile considerare testimonianze storiche più o meno attendibili, anche opere appartenenti al genere della letteratura finzionale, e in questo modo, un romanzo, anche se alienato dal suo uso originario (quello della fruizione estetica), può essere analizzato in vista di una conoscenza altra. 

In un testo narrativo si possono cercare informazioni dirette su eventi storici ma un impiego di questo tipo comporta che le notizie derivate dai romanzi vengano attentamente confrontate con altra documentazione, di altra natura; tale confronto consente di verificare ciò che – in un’opera di fiction – vi è di attendibile e ciò che, invece, deriva dal puro lavoro di invenzione. Un lettore leggendo un romanzo storico si trova sicuramente stimolato a chiamare in causa le proprie conoscenze in merito a una realtà determinata e a incrementarle con le immagini formatesi in seguito a tale lettura. È possibile quindi riscontrare una sorta di ampliamento cognitivo relativamente a un dato periodo, fatto o personaggio storico. Tuttavia, le credenze derivate in questo modo si configurano come particolari immagini mentali, plasmate da specifici dispositivi linguistici e da determinate strutture di rappresentazione comuni alla narrativa finzionale, e per questo non possono raggiungere il grado di scientificità richiesto dalle testimonianze storiche.

In secondo luogo, un romanzo può essere indagato non tanto in vista della ricerca di informazioni sull’epoca in cui l’opera è ambientata, ma come prodotto culturale che riflette la mentalità, i pensieri, i problemi e i gusti del periodo storico in cui l’autore vive e scrive. L’opera, in questo modo, deve essere messa in relazione alla biografia del suo autore, al ruolo assunto rispetto ad altri testi dello stesso periodo e alla risposta dei lettori. Un romanzo può diventare quindi una fonte primaria rispetto alla storia della mentalità in quanto documentazione fondamentale e una fonte secondaria in riferimento alla storia più generale se esaminato in riferimento alle strutture sociali e agli ambienti culturali. In breve, potremmo dire che I Promessi sposi risultano storiograficamente rilevanti non tanto in relazione alla realtà storica del 1600, periodo in cui è ambientata l’opera, ma piuttosto a quella del 1800, secolo in cui visse e operò Manzoni.

Quello che sicuramente fanno i romanzi, a prescindere dal loro grado di “storicità”, è aiutarci a esercitare la nostra immaginazione, estendendola a diverse situazioni e a nuovi punti di vista, che spesso si dimostrano illuminanti. Le storie ci aiutano a pensarci come fossimo un altro e questa è una capacità umana fondamentale, indispensabile nell’esperienza estetica ed etica, e di conseguenza anche nella vita di tutti i giorni.

 

Chiara Frezza

 

[Photo credit Mikolaj via Unsplash]

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Agire in modo ecologico: Jonas e la responsabilità

Il Climate Clock di New York riporta quanto tempo abbiamo per evitare l’innalzamento di CO2 e scongiurare una catastrofe climatica senza precedenti: ad oggi segna all’incirca sei anni1.Di fronte a questo pericolo che ci sovrasta, sembra mancarci un segnavia, una bussola morale che possa guidare le nostre azioni al fine di salvare il nostro pianeta, il nostro futuro, noi stessi. Esistono numerose associazioni che, tramite manifestazioni e proposte, cercano e di offrirci una via di fuga da questa situazione che sembra unidirezionale. Eppure, manca una presa di coscienza effettiva da parte della maggior parte della popolazione che permetta di concepire la gravità della questione e a che cosa si stai andando incontro.

Tra le file della filosofia, in nostro soccorso interviene Hans Jonas, il quale può davvero aiutarci in questo nostro intento. Infatti, nella sua celebre opera Il Principio Responsabilità, sottolinea che il vero problema è l’uomo stesso: il suo potere di agire è arrivato a sovrastare e a incidere sulla natura stessa, mettendo a repentaglio ogni esistenza prossima. Di fronte a tutto ciò si apre un vuoto etico incolmabile.

L’azione umana ha sempre preso parte entro un orizzonte limitato, in cui l’uomo non generava squilibri nel sistema della biosfera: la natura si prestava sempre come autonoma e superiore. Da questa posizione, risulta che le finalità umane non erano mirate a sfruttare la natura quanto piuttosto a garantire un innalzamento verso una condizione migliore individuale, proponendo etiche di carattere escatologico. Con l’avvento del positivismo e della rivoluzione industriale questa prospettiva cambia radicalmente: si fa spazio una idea di società che segue un progresso tecnico verso un benessere concreto, comportando uno sfruttamento del presente in vista del futuro. In questo nuovo modus operandi, l’uomo si considera in grado di dettare una direzione dinamica del tempo, a discapito di una staticità temporale entro cui operare per il proprio presente.

A una stretta visione di questi nuovi fatti, ci si accorge però subito di una problematica: ogni proiezione del futuro vive solo di immaginazione perché non riguarda un qualcosa di già noto e tutelabile, ma una novità mai testata. È questo il limite di ogni progresso: costruire una immagine generale senza entrare nei dettagli, ma sono proprio questi che sono rilevanti in una società operante. Subentra quindi un primo fattore da prendere in considerazione: l’ignoranza. Tra la conoscenza predittiva e gli effetti veri futuri esiste una discrasia incolmabile; ogni favorimento del futuro che comporta sacrifico del presente, può ritorcersi contro l’uomo nel suo sviluppo.

Da questa situazione di inconoscibilità, un aiuto viene offerto dalla paura. Questo sentimento, infatti, permette all’uomo di riconoscere i suoi limiti strettamente naturali: quello che egli è lo deve alla natura, compresi i suoi giudizi di valore, frutto di un bagaglio accumulato nel tempo. Ne risulta che l’uomo non ha capacità di onnipotenza, ma che anzi deve essere colui che garantisce quello stesso equilibrio naturale, che gli permette di essere ciò che è. Qualsiasi visione ideologica di supremazia deve essere frenata dando precedenza a una progettazione che consideri la posizione naturale dell’uomo come essere limitato. In questo senso il detto “il fine giustifica i mezzi” non è un motto degno di attenzione, perché quello stesso fine potrebbe turbare l’equilibrio.

Ciò che deriva da tutto ciò è un senso di responsabilità che l’uomo deve garantire verso il suo stesso futuro: ogni azione deve essere pesata con autocontrollo e critica, senza manie ideologiche non fondate. Questa stessa responsabilità non può fondarsi su una reciprocità, in quanto i venturi non hanno voce in capitolo nelle decisioni presenti ma ne subiranno le conseguenze. Il rapporto instaurato, infatti, non risulta essere di matrice empirica, ma di matrice ontologica: garantire un’idea di umanità adatta alla vita, con la possibilità di vivere in modo autentico e con dignità. Non si tratta di un obbligo esterno imposto, quanto piuttosto di un rispetto di ciò che siamo e di ciò che tutti devono godere, in quanto ognuno non è né più né meno di altri.

Jonas stesso offre un monito da usare come guida:

«agisci in modo che le conseguenze delle tue azioni siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra» (Hans Jonas, Il Principio Responsabilità, 1979).

 

 

Tommaso Donati

Nato a Busto Arsizio il 04/05/2002, decide di intraprendere gli studi in Filosofia presso l’Univerisità Degli Studi di Milano. Lettore vorace, considera la riflessione critica come uno strumento indispensabile per la quotidianità.

 

NOTE
1. Dato acquisito direttamente dal sito di riferimento.

 

[Photo credit Markus Spiske via Unsplash]

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L’invisibile potere del digitale: dove ci trasportano le sue correnti?

Nel 2006 il sociologo americano Aneesh ha coniato la parola algocracy, per indicare l’emersione del dominio e del potere degli algoritmi all’interno della struttura e dell’ordine sociale. Ogni momento della nostra esistenza sembra sempre di più collegato all’ecosistema digitale, che smonta la classica dicotomia tra il pubblico e il privato, tra ciò che fa parte della nostra intimità e ciò che ci determina davanti agli occhi degli altri. Ed è così che l’avvento del digitale può essere sottoposto a più di una lettura. La prima corrisponde a una visione positivista, attraverso la quale consideriamo la nuova società come ricca di promesse, di aperture, di crescita, soprattutto di maggiore consapevolezza di sé, delle proprie scelte e azioni sia in ambito sociale sia in ambito politico. Niente di più vero. Ma non finisce qui. L’analisi diventa più profonda ed è lì che la visione prende una piega (o tante pieghe) diversa.

Proviamo a leggere la rivoluzione digitale come una controrivoluzione. In associazione a premesse rosee e cariche di aspetti positivi, contestualmente si è sviluppato uno strano indebolimento delle libertà individuali, che si può cogliere dalle emergenti dinamiche di potere. L’ambiguità del nuovo assetto sociale – nella sua apparenza così liberale e democratico – nasconde un assoggettamento trasparente. Può essere definito in questo modo giacché a prima vista non si nota, ci passiamo attraverso, senza nemmeno notarlo.

«Proprio là dove non viene tematizzato, il potere è indiscusso; più grande è il potere, più silenziosamente agisce. Esso accade, senza bisogno di segnalarsi in modo clamoroso.» (B.C. Han, Psicopolitica, 2016)

Certo, non si intende dire che siamo schiavi di un regime totalitario con a capo un tiranno, ma ci siamo trasformati a mano a mano in dipendenti volontari. Lo (psico)potere non agisce in maniera violenta, bensì con benevolenza: la libertà non viene mai negata, ma usata e sfruttata. Proprio per questo motivo non esiste la figura conclamata di dittatore che gestisce il classico potere disciplinare. La società algocratica, infatti, ci rende complici attivi della nostra stessa sottomissione. Ne abbiamo bisogno perché riceviamo una quantità esponenziale e sempre più crescente di stimoli, provenienti dall’habitat digitale in cui siamo immersi, che si trasformano in desideri, in un continuum che è diventato tipico dell’assetto sociale. Tra innumerevoli scelte che possiamo compiere in maniera consapevole e razionale, alla fine preferiamo che le nostre azioni ci vengano ‘consigliate’: “Che cosa mi consiglia Netflix da guardare?”.

Può venire in mente l’amara considerazione che fa Shoshana Zuboff sulla perdita di autonomia profonda dell’individuo: ognuno di noi rappresenta un capitale (umano) e la sua esperienza un surplus di esso. (S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, 2019).

Il capitalismo digitale si insinua senza freni in tutte le menti, inevitabilmente.
E se viene instillata un’ideologia, che cosa rischiamo?
Per esempio, se un’ideologia diventa egemonica, senza che gli individui sociali la riconoscano come tale, interiorizzandola, la potrebbero applicare come unico modello possibile. Allora, il pericolo è l’ottenimento di una conformazione sociale e di un appiattimento degli individui, fino a raggiungere la loro pacifica obbedienza, a scapito della consapevolezza e personale e collettiva.

Questo pensiero può ricordare il racconto in cui dei pesci che si chiedevano cosa fosse l’acqua di David Foster Wallace. Ancora oggi non sappiamo effettivamente cosa sia l’acqua in cui navighiamo. La rete per noi rappresenta un archivio potenzialmente infinito di informazioni e di dati, ma i confini e i limiti del suo corpo sono ancora troppo poco conosciuti, come anche i modi inediti attraverso i quali genera nuove forme di interazione. Pur vivendoci, non sappiamo dove inizia e finisce l’asse di potere, da che parte si orienta e in che direzione ci conduce. Le mutazioni a cui siamo sottoposti e le possibili e variegate forme di “dominazione silente” possono rappresentare una grande sfida sociale, per ripensare ciò che siamo e vogliamo essere e in che genere di relazione viviamo con gli altri e con l’ambiente. 

Dobbiamo scegliere, allora, se incarnare il personaggio dantesco di Ciacco, abbuffandoci di dati e di informazioni, senza assumere una prospettiva che rifletta la direzione verso cui stiamo procedendo al fine di diagnosticare quali sono i possibili effetti collaterali per noi e per il nostro futuro. Oppure possiamo potenziare la nostra intelligenza collettiva, per ripensare criticamente il rapporto tra la conoscenza, l’uomo, la realtà e la tecnica. Il pensare riflessivo e collettivo permette, infatti, agli individui di non cadere nella spirale dell’automatismo, ma di svegliarsi dal torpore cognitivo.

 

Ilaria Turrisi

 

[Photo credit Markus Spiske via Unsplash]

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Estetica anestetica: una riflessione sulla coscienza umana

Oggi si potrebbe forse racchiudere lo studio dell’ontologia (ovvero di quella branca filosofica che indaga l’essere in quanto tale) all’interno di due categorie di indagine: 1) una astrofisica, riguardo l’insoluto temporale di ciò che ha preceduto l’essere – ovvero l’interrogativo sull’origine del nostro universo e, dunque, indirettamente anche sulla nostra – e 2) una “neuroesistenzialista”, invece, propriamente riferibile al tentativo di comprenderne l’essenza e il suo collegamento con la coscienza umana. 

Questo secondo ambito di ricerca parte dall’assunto di una materia organica attualmente presente e ne esplora i meccanismi attraverso cui essa pensa sé stessa. Riferendoci alla suddetta materia col termine di cervello (o encefalo, tessuto cerebrale, sistema nervoso centrale, etc.), possiamo subito tracciare un parallelismo con l’oggetto di studio astrofisico: proprio come la progressione vitale dell’universo, infatti, anche quella cerebrale mostra un’espansione entropica. Nel corso del suo sviluppo, i momenti di veglia a maggiore attività (quelli intellettualmente più impegnativi, potremmo dire) sono caratterizzati da un alto livello di attività cerebrale caotica. Attività, questa, che rappresenta il risultato del dialogo tra le varie aree del nostro encefalo, le quali elaborano degli input provenienti dall’esterno (visivi, uditivi, tattili, etc.) elevandoli a coscienza – rendendoci, cioè, consapevoli di essi. Un valido indicatore di questo lavoro cerebrale è l’elettroencefalogramma (EEG) che misura, attraverso degli elettrodi posti sul capo la trasmissione elettrica encefalica (ovvero il passaggio di impulsi elettrici da neuroni ad altri, che di fatto rappresenta il modo in cui essi dialogano tra di loro). Esso restituisce su carta un tracciato fatto di onde che mostrano un andamento caotico – ad alta frequenza ed ampiezza variabile – durante l’espletazione delle cosiddette funzioni superiori (apprendimento, memoria ed immaginazione) e dunque durante la produzione di un linguaggio esteriore – ed esternato – e di un linguaggio interiore – ed interiorizzato – per la creazione di una forma e di un contenuto di autocoscienza, nonché della sua evoluzione.  

Come medico specializzando in anestesia, utilizzo quotidianamente in sala operatoria un altro strumento di misurazione dell’attività cerebrale – che nasce dal bisogno di rapidità di interpretazione della profondità di anestesia in sala operatoria – commercializzato col nome tutt’altro che casuale di Spectral Entropy. Si tratta di un sistema di analisi dell’attività cerebrale che, elaborando le caratteristiche delle onde di più tracciati EEG su varie aree encefaliche ed integrandole tra di loro, estrapola un numero matematico che pone in relazione il grado di entropia sinaptica con il grado di ipnosi: 

  • Entropia = 100-75: stato ipnotico lieve
  • Entropia = 50-25: anestesia generale
  • Entropia = 25-0: stato ipnotico profondo 

L’anestesista, tramite l’azione farmacologica che espleta sulla coscienza, ogni giorno ne sperimenta le caratteristiche, il contenuto e le sue diverse forme. Potremmo dire che il lavoro che mi sto formando a fare, dalla sua postazione in sala operatoria, alla testa del paziente, ha una seduta in prima fila sullo spettacolo della coscienza umana, sulle sue stratificazioni e sulle modalità della transizione tra i suoi piani. Aspetto questo, che credo valga la pena prendere in esame nel ciclo vitale dello sconfinato ed appena nato discorso “neuroesistenziale”. In tal senso si potrebbe pensare un’«estetica anestetica» – per citare i Baustelle – nel senso di una percezione anestetica di alcuni spazi del reale, nell’idea che in fisiologia il metodo storicamente più efficace di studiare un meccanismo è sempre stato quello di interromperne il funzionamento. Questo, comunque, a mio avviso è solo il punto di vista dell’anestesista sul cervello umano; ce ne sono però molti altri in ambito medico; come ad esempio quello del neurologo, del neuro-radiologo, del neurochirurgo, dell’anatomo-patologo, etc. Ma il punto centrale della questione “neuroesistenziale” resta quello del salto sinestesico, che consiste nel dover spiegare come un tessuto organico, tramite la sua attività elettrica, possa superare il gap materiale immagazzinando un concetto o un ricordo, e produrre di reazione un moto riflessivo o immaginativo apponendo un piccolo tassello nell’enorme stoccaggio della nostra memoria, che altro non siamo che noi stessi, il nostro self più profondo. La nostra memoria connotata, rivisitata, rivalutata, ripresa, ripescata per andare a riprodurre i nostri pensieri, quell’ io con cui soltanto noi possiamo dialogare. 

Come spiegare dunque questo salto? Le neuroscienze ci stanno provando, ma è qui che la filosofia odierna deve indagare la scienza, aiutarla. Perché è da un’idea, spesso, che si disegna uno studio da effettuare attraverso la raccolta e l’eventuale verifica di dati. Bisogna essere inventori, immaginatori, per imbarcarsi nel viaggio infinito che è ancora al suo inizio, per l’esplorazione –  come dell’ignoto spazio profondo –  così anche dell’ignoto io profondo.

 

Riccardo Accattoli

Riccardo Accattoli è nato a Macerata il 10/11/1993. Si è laureato in medicina e chirurgia ed abilitato alla professione di medico all’università di Perugia, dove sta attualmente svolgendo il suo percorso di specializzazione in Anestesia, rianimazione, terapia intensiva e del dolore.

 

[Photo credit Pawel Czerwinski via Unsplash]

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Un giorno durante un colloquio: i giovani e il futuro

C: Buongiorno
IO: Buongiorno, si accomodi pure nella postazione che preferisce. Ha avuto problemi a trovare l’indirizzo?
C: No, nessun problema, la ringrazio. Con Google Maps ormai si arriva dappertutto.
IO: Molto bene, mi fa piacere – controllo brevemente i dati del curriculum per assicurarmi che corrispondano a quanto scritto – . Mi dica, come mai si candida per questa posizione? Quali aspetti le piacerebbe trovare nel suo futuro lavoro?
Silenzio. Il candidato mi guarda con due occhi che esprimono paura e smarrimento allo stesso tempo; gli occhi di chi non sa quale sia la risposta giusta, gli occhi di chi si chiede a sua volta perché si trovi seduto su quella sedia difronte a me. 

Spesso nel corso del mio lavoro di Recruiter, mi imbatto in giovani che mi trasmettono tali sensazioni, percepisco il concreto disagio di chi, terminati gli studi superiori, si trova a dover fare scelte importanti di vita: cerco un lavoro oppure mi iscrivo all’Università? Se opto per il lavoro, mi proietto nel mio ambito di studi oppure no? In altre parole: Quale è la mia strada?

In questi ultimi anni di profondi rivolgimenti sociali e politici, che hanno contribuito a creare disagio nelle nuove generazioni, sempre di più manca un appiglio, un concreto progetto sociale, umano, che dia ai ragazzi delle prospettive e li faccia sentire meno persi nelle loro scelte. L’approccio che ritrovo nei giovani è spesso rivolto a provare senza troppa convinzione, prima di aver realmente effettuato un’analisi interiore su quali siano le proprie inclinazioni, i propri sogni o progetti. Ciò significa forse che i ragazzi d’oggi – solita ramanzina degli anziani – non sono più in grado di sognare?

In realtà essi sono inseriti in un contesto sociale così iper-connesso e ricco di stimoli (dal cellulare, alla televisione, alle innumerevoli attività che scuola e istituzioni propongono) che lascia davvero poco spazio e tempo al raccoglimento, alla riflessione, all’analisi di sé, elementi essenziali per conoscere il proprio io profondo. A ciò si aggiunge una società che inneggia al cambiamento, quasi che la stabilità sia necessariamente sinonimo di fallimento, di inattività. Tuttavia, ci dimentichiamo che ogni cambiamento per essere assimilato e dare i propri frutti sulla persona, necessita di un periodo di stabilità interiore, durante il quale tutto ciò che l’uomo ha appreso viene colto dentro di sé, cosa che non accade nel cambiamento continuo senza frutto.

Insomma, per dirla con le parole del filosofo Zygmund Baumann, oggi ci troviamo inseriti in una società liquida, vacillante e incerta, dove le relazioni lavorative e personali vanno decomponendosi e ricomponendosi con una rapidità inquietante, lasciando spazio ad un vuoto di senso. In questa società l’uomo si trova a vivere mille realtà, una dietro l’altra, senza che nessuna sia veramente appagante. A ciò si aggiunge l’apparente tangibilità delle prospettive lavorative e personali: in un mondo in cui ogni barriera è venuta meno e anche persone sconosciute riescono a diventare note – è ad esempio il caso degli influencer – tutto sembra facile e raggiungibile senza sforzo. Manca insomma l’idea di una costruzione di sé passo dopo passo, con i necessari fallimenti e soprattutto la pazienza che un lavoro professionale richiede.

A quegli occhi disorientati che vedo quotidianamente passare davanti a me vorrei dunque dire: imparate a guardarvi dentro, a riflettete su voi stessi. Magari la filosofia può aiutarvi in questo: a cercare di costruire concretamente un progetto in cui credere, seguendo le vostre più profonde inclinazioni, senza troppa fretta ma con tenacia e convinzione. Come disse Steve Jobs in uno dei tanti interventi della sua carriera: «Il miglior modo per fare un ottimo lavoro è amare quello che fate 1. Se non lo avete ancora trovato, continuate a cercare» e, aggiungerei, quando lo troverete capirete che è ciò che fa per voi.

 

Anna Tieppo

NOTE
1. Conferenza di Steve Jobs per i neolaureati alla Stanford University del 2005

 

[immagine tratta da Unsplash]

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Parole, parole, parole… la filosofia ha ancora qualcosa da dire?

«La filosofia è fatta pressoché interamente in parole. Un diagramma occasionale può aiutare, e alcuni dicono (in parole!) che la musica, la danza, la pittura o la scultura senza parole possono esprimere idee filosofiche; ma per discutere propriamente il valore di quelle idee dobbiamo usare parole. Il linguaggio è il medium essenziale della filosofia»1.

Quest’affermazione suona banale: se conosci un filosofo o sei in prima persona della cricca, sai bene che il tuo lavoro consiste – fermandosi alla superficie – nel leggere e scrivere testi. Da qui sorgono le varie immagini della postura fondamentale del filosofo come uno stare “a tavolino”, “alla scrivania” o “sulla poltrona”. Andando invece più in profondità, le cose non cambiano: sin dai tempi di Platone, pensare filosoficamente significa intrattenere un dialogo mentale, ossia parlare con sé stessi, mettendo in ordine lineare e sequenziale concetti e riflessioni, come se ci si scrivesse un libro interiore. D’altronde, sin dall’infanzia insegnano: per capire che cosa ti frulla in testa, devi saper articolare sulla carta fuori dalla testa. Struttura mentale e struttura scritta fanno tutt’uno: vale per il dilettante come per il professionista del pensiero. Sembra persino scontato sottolinearlo.

Non a caso, simili idee sono condivise da filosofi di tradizioni, approcci e orientamenti assai diversi, quando non contrastanti e incompatibili: tutti si trovano comunque concordi nell’intrecciare indissolubilmente l’attività filosofica con la parola in generale e quella scritta in particolare. Anche i filosofi devono avere i propri punti fermi, no?! Eppure, se vogliamo fare i filosofi sul serio e fino in fondo, l’acqua calda non può essere una scoperta: deve diventare un problema. Dove c’è ovvietà, lì c’è dubbio: è uno dei mantra filosofici. Non può non valere anche per il rapporto monogamo tra filosofia e linguaggio verbale: perché bisogna prenderlo per buono? Forse perché si pensa soltanto a parole? O, perlomeno, perché si pensa filosoficamente solo a parole? Se è davvero così, significa allora che le persone sorde, quelle nello spettro autistico che ragionano visivamente e quelle con forme di afasia non pensano o non sono in grado di filosofare? In questo caso, servirebbe almeno il coraggio di dirselo esplicitamente: la filosofia è sotto questo riguardo radicalmente non inclusiva.

Ma non credo che debba essere questa l’ultima parola (scritta). Soprattutto se teniamo conto di un’invenzione epocale come il web. Epocale perché, tra le altre cose, ha cominciato a ristrutturare anche le nostre modalità espressive: oggi, chiunque ha tra le mani un aggeggio che permette certo di scrivere, ma anche di scattare foto, fare video, creare grafiche, ecc. Dalla penna allo smartphone: siamo nel cuore della cosiddetta cultura visuale, intrisa di multimedialità anzi transmedialità, di ibridazione tra tocchi, suoni, (video)immagini e testi – mancano soltanto gusto e olfatto, per ora. In breve, sta succedendo che atti come ideare, scriptare, girare e montare un video equivalgono a pensare, a dar forma alla propria mente. Non ti sembra un po’ strano che la filosofia resti tagliata fuori da tutto ciò? Non stride che laurearsi in filosofia voglia dire ancora soltanto (leggere testi per) scrivere una tesi? Ma dove sta scritto che si possa pensare filosoficamente soltanto per iscritto?

Fortunatamente, diversi studiosi stanno cominciando a denunciare la peculiare forma di xenofobia che attraversa il lavoro filosofico: una resistenza sistematica per tutto ciò che sconfina dai territori del concetto, ossia della parola scritta. Ma lo denunciano ancora a parole. Nel mentre, però, anche grazie al lavoro di vari content creator filosofici, dai video ai podcast, dai fumetti alle performance, qualcosa sta effettivamente cominciando a cambiare, non solo a parole – forse. Bisogna allora sperare che la scossa arrivi definitivamente anche ai piani alti delle “torri d’avorio”, perché è tempo di riconoscere che limitarsi a fare filosofia su immagini, disegni, grafiche, video, nuovi media, dispositivi di realtà aumentate e virtuali, ecc., non basta più: occorre iniziare a fare filosofia con tutto ciò – tanto “mediante” quanto “insieme”. Non è semplice, ma non è impossibile: esattamente come, all’epoca, accadde con la scoperta delle potenzialità espressive e antropologiche della scrittura. Perché oggi dovremmo fermarci di fronte ai videogame? L’alternativa alla parola (scritta) non è il silenzio; non avere più nulla da dire non significa non aver più niente da esprimere: ci sono più cose nel cielo e nella terra espressivi di quante ne abbiano finora sognate i filosofi.

(Ma questo è un testo scritto! Sì, ma funziona come un purgante: va espulso con le sostanze tossiche. Parole per (cominciare a) salutare le parole)

 

Giacomo Pezzano

 

NOTE:
1. T. Williamson, Philosophical Method: A Very Short Introduction, Oxford University Press, Oxford 2021, p. 103.

[immagine tratta da Pixabay]

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Estinzione volontaria: una soluzione inopportuna

Con l’aggravarsi della crisi climatica, molte discipline cercano di dare un loro contributo, teorico o pratico che sia, al fine di proporre soluzioni a questo dramma globale. Tra le varie discipline, non poteva mancare la filosofia. Una delle prospettive proposte dalla filosofia è quella che possiamo chiamare estinzionismo.

L’estinzionismo può essere definito come quella corrente di pensiero che ritiene che gli esseri umani dovrebbero smettere di riprodursi (si veda “antinatalismo”) e propendere volontariamente per l’estinzione della specie. La ragione di fondo, secondo i sostenitori di questa visione, è che l’uomo sia “nocivo” per l’ecosistema. Il più noto movimento estinzionista è il Movimento per l’estinzione umana volontaria (VHEMT), il cui motto è «Si possa noi vivere a lungo ed estinguerci».

La prospettiva estinzionista, ad un primo acchito, potrebbe far trasparire un certo disprezzo per l’essere umano. Tuttavia, dal mio punto di vista, questa visione contiene una latente autoderesponsabilizzazione. Gli estinzionisti non hanno torto nel dire che la crisi climatica è causata dagli uomini. Nonostante ciò, l’idea che l’uomo debba scomparire dalla Terra non può essere considerata la soluzione corretta. Per quale ragione? Per rispondere a questa domanda dovremo rifarci al pensiero evoluzionista del sacerdote gesuita e paleoantropologo francese Pierre Teilhard De Chardin. Nella sua opera più nota, Il fenomeno umano (1955), De Chardin spiega come l’evoluzione, intesa come processo universale, abbia percorso una complessificazione sempre maggiore e che questa abbia portato, attraverso dinamiche naturali e meccaniche, alla nascita della vita e, in seguito, alla vita intelligente. La forma di vita più complessa e intelligente è individuata da De Chardin nell’essere umano, “fenomeno umano” appunto.

Dalla prospettiva di De Chardin si potrebbe dedurre che, l’essere umano (Homo sapiens sapiens), abbia una responsabilità nei confronti dell’ambiente, la quale proviene dalla sua intelligenza e consapevolezza. Sappiamo che l’uomo è responsabile della crisi climatica, ma egli è anche fregiato della capacità di porvi rimedio. La crisi climatica può, almeno per ora, essere risolta; così come dimostrano numerosi studi. Si veda, ad esempio, l’ultimo report dell’IPCC. La consapevolezza del problema, quindi, è qualcosa di cui abbiamo una piena vertenza, inoltre abbiamo anche gli strumenti scientifici e i mezzi politici necessari per trovare una soluzione. Questa è la ragione per la quale non è possibile tirarsi indietro, come recita la massima evangelica: «A chi è stato dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più» [Lc. 12, 48]. Possiamo dire, quindi, che i sostenitori dell’estinzionismo, nel loro voler “sensibilizzare l’uomo all’estinzione volontaria”, non fanno altro che sollevare l’uomo dalle sue responsabilità. Non si chiede all’essere umano di rimboccarsi le maniche e di mettere a frutto le sue facoltà intellettive, ma si promuove una quiescenza orientata all’estinzione della specie.

Un altro possibile argomento contro l’estinzionismo potrebbe essere tratto dall’intervento al CICAP del 2018 del filosofo della scienza Dietelmo Pievani, che afferma, riprendendo una considerazione del biologo statunitense Stephan Jay Gould, che se la nostra specie è stata selezionata dall’ambiente, significa che abbiamo avuto una grande occasione. Questa “grande occasione”, dal mio punto di vista, comporta delle notevoli conseguenze. Tra di queste, si potrebbe annoverare la volontà di preservare la natura e il non rinunciare all’opportunità dell’esistenza biologica.

Delle ultime doverose considerazioni, al fine di contrastare ogni estinzionismo, sono le seguenti: non è giusto che un gruppo intero paghi per le colpe di una piccola minoranza. La crisi climatica, è stata causata dalla società industriale e dai suoi eccessi, non dalla totalità dei più di sette miliardi di esseri umani presenti sul pianeta Terra. Di conseguenza si deve chiedere: perché dovrebbe arrivare all’estinzione la totalità della specie umana, se è vero che non tutti sono colpevoli? Oltre a ciò, visto e considerato che l’eventuale estinzione sarà una questione con cui dovranno fare i conti le future generazioni, e non chi ha posto le basi per questa catastrofe, perché mai si dovrebbe porre questo gravame sulle spalle di una generazione che non ha colpe?

In conclusione, possiamo dire: così come in passato la capacità intellettiva ha permesso a homo sapiens sapiens d’essere selezionato dall’ambiente. Allo stesso modo, essa dovrebbe essere utilizzata oggi per non far estinguere la specie.

 

Riccardo Sasso

Riccardo Sasso è laureato in storia e filosofia presso l’università di Trieste e sta frequentando il corso di laurea magistrale in filosofia presso gli atenei di Trieste e di Udine.
I suoi principali interessi sono la patristica e la scolastica medievale, la filosofia del Novecento, in particolare, la neoscolastica; la teologia della liberazione e la filosofia analitica.
Oltre alla filosofia, si interessa di storia contemporanea, economia, politica e attualità.

 

[Photo credit unsplash.com]

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