Lungo la Via Appia: fenomenologia del viaggio di Paolo Rumiz

È la primavera del 2015, quando Paolo Rumiz, insieme a un manipolo di amici, parte da Roma alla  volta di Brindisi per un’impresa eccezionale, il sogno di un visionario: ripercorrere l’Appia antica, ricalcando le orme dell’iter brundisinum intrapreso, nel 37 a.C., dal poeta Orazio con Virgilio e  Mecenate. La cronistoria del viaggio è l’intenso libro di Rumiz dal titolo Appia (2016), un dettagliato reportage dei luoghi e delle emozioni, ma soprattutto l’appassionato resoconto di una missione: «ritrovare» la  Regina Viarum, facendola «riemergere sotto le suole», ripercorrendola «coi piedi, nobilissimi organi  di senso». (Appia, Feltrinelli, 20161). La decisione dell’andare “errando” è alimentata da una forte esigenza gnoseologica: Rumiz sa che  «per capire bisogna andare a piedi», perché «chi viaggia rasoterra non ha difese, ma vede la verità  dei luoghi».

Così, zaino in spalla e senza auto d’appoggio, assecondando la vocazione nomade insita nella radice del suo cognome, Rumiz dà inizio all’atto eversivo dell’attraversamento a piedi dell’antico tracciato di  basalto, con il fare dell’archeologo che è appagato dal vivido vedere, dal toccare con mano, e con la  determinazione di chi si sente investito di «un mandato degli antenati da assolvere». 

L’intero viaggio è un’avventura magnifica e terribile insieme, che si sviluppa tra i due poli dialettici  dell’incanto e dell’indignazione: ripercorrere l’Appia antica è come immergersi in «un immenso museo all’aperto» di bellezze paesaggistiche e monumentali. Tuttavia l’incanto da subito deve convivere con l’indignazione alla vista di tanta bellezza soffocata e oltraggiata da brutture, scempi e soprusi. Appena fuori la Capitale, le terre di Gomorra e dei fuochi delineano lo scenario di un  desolante «Far West», di «un pugno allo stomaco»: monumenti semidistrutti giacciono abbandonati in  mezzo a campi incolti; cartelloni elettorali contendono lo spazio ad altari votivi, abitazioni private si  fanno posto all’interno di un antico anfiteatro, una secolare iscrizione funeraria sormonta la porta di  un bar, tra antichi ruderi troneggia una stazione di servizio. Si scorgono «pezzi di lastricato romano  disinvoltamente esposti nel prato inglese di un giardino, capitelli incastrati nei muri, reperti  medievali piazzati a segnare il confine tra poderi, ville con sontuosi musei illegali», testimonianze del malcostume, di una cinica indifferenza, di tollerate illegalità e di un indiscriminato abusivismo edilizio. 

Inoltre, i coraggiosi viandanti devono «combattere duramente fin dal primo miglio per conquistarsi  la bellezza», sobbarcandosi di «un po’ di lavoro sporco», perché se in alcuni tratti l’antica via è visibile e facilmente percorribile, in altri per recuperare ciò che il tempo e l’incuria hanno sepolto devono creare «buchi nella rete» di filo spinato, avventurarsi in «guadi selvaggi», sfoltire rovi a «colpi di roncola», ma anche desistere, perché «a volte per restituire l’accessibilità al tracciato dell’Appia non sarebbero state sufficienti le ruspe». La missione diviene il viaggio dell’amara presa di coscienza dello spaventoso vuoto di memoria della nazione nei confronti della madre delle strade europee, e della triste constatazione che «a dilapidare il Paese non sono stati i barbari, ma gli italiani stessi».

La dialettica bellezza-bruttezza ricorre negli incontri casuali con la gente dei luoghi attraversati e vissuti. I viandanti sono sorpresi dall’inattesa generosità di semplici agricoltori, dalla pratica saggezza di pastori filosofi, dalla sincera fede di pie donne e dalla spiazzante ospitalità di ostesse che rallegrano cuore e palato con i sapori della tradizione. Il viaggio riserva anche spiacevoli corpo a corpo con automobilisti maleducati e albergatori malfidenti. E addentrarsi ne «l’osso dello stivale» offre incontri con occhi mesti e volti rigati dalla rassegnazione di uomini che, ripetendo il leitmotiv «le colombe scappano i corvi restano», denunciano il destino, oramai passivamente subito, di un Sud che invecchia, perché privo di prospettive per i giovani.  

Tra i rassegnati c’è chi, però, ha deciso di resistere e reagire: un esercito di resilienti sinceramente  innamorati del suolo natìo, che riaccendono un’inattesa e ottimistica speranza. Sono intellettuali che, a dispetto dei tanti addii, hanno deciso di ritornare al Sud per raccontare in musica e in prosa la bellezza della loro terra, e battagliere archeologhe, «le studiose delle pietre, temute più della peste per l’intralcio che rappresentano al mercato degli appalti», che, titani nel deserto dell’indifferenza, guerreggiano in difesa della «bella donna vestita di stracci».

Qui a Rumiz si palesa il vero senso della sua missione: assumersi il dovere civico di raccontare per  scuotere le coscienze. Non c’è solo il Colosseo, «l’Hollywood d’Italia». La realtà italiana è fatta di tante piccole meraviglie, sparse su tutto il territorio e custodite nello scrigno prezioso dell’Appia antica.
Nell’Italia lacerata dalla forbice dei divari, quel «filo d’Arianna», ripercorso da Rumiz lungo lo stivale, diviene un monito a gettare il seme di qualcosa di duraturo, una prospettiva per il Sud e un nuovo senso di appartenenza e d’unità, un’esortazione a creare un progetto comune: ripristinare l’antica via, facendone una sorta di «Cammino di Santiago» laico e tutto italiano. 

Oggi, a distanza di otto anni da quel viaggio, la Via Appia è stata candidata a entrare nella Lista del  Patrimonio Mondiale Unesco.

 

Marilena Buonadonna

NOTE
1. Tutte le citazioni che seguono sono tratte da quest’opera.

 

[immagine tratta da Unsplash]

banner-riviste-2023-aprile

Esercizi di libertà con Jonathan Livingston

Nel nostro quotidiano affannarci cercando di compiere i nostri tanti doveri può capitare che non ci si interroghi affatto sulla libertà né sulla mancanza di essa. Non è affatto semplice, infatti, comprendere se un concetto così bello e, allo stesso tempo, inafferrabile faccia parte della nostra vita e se la libertà che crediamo di avere corrisponda alle nostre più profonde esigenze. In questo senso, forse, sarebbe utile riappropriarci del diritto di comprendere come e dove sentiamo che essa si eserciti affinando la capacità di guardare dentro noi stessi, attività spesso trascurata per mancanza del tempo necessario all’introspezione. Una persona, per esempio, potrebbe sentirsi libera se riesce a dedicarsi ad un’attività che ama senza alcuno scopo preciso oppure se può gestire il proprio tempo in autonomia. Queste e altre innumerevoli forme di libertà, spesso, provengono da una ricerca individuale durante la quale, probabilmente, sorgeranno spontanee alcune domande “preliminari”: io sento di essere libero? Ho un mio spazio libero? O, in una fase successiva, dove si è cacciata la mia libertà che sento di aver perduto?

Esattamente a questo genere di domande si trova a rispondere il famigerato gabbiano Jonathan Livingston nel romanzo di Richard Bach che, riletto oggi, appare davvero illuminante. il gabbiano, infatti, rivendica una libertà particolare: la libertà di chi desidera con tutto se stesso seguire una voce altra che non è quella del gruppo sociale al quale, comunque, appartiene ma è una voce interiore, alla quale sente di non poter resistere:

«A un miglio dalla costa un peschereccio arrancava verso il largo. E fu data voce allo Stormo. E in men che non si dica lo Stormo Buonappetito si adunò, si diedero a giostrare ed accanirsi per beccare qualcosa da mangiare. Cominciava così una nuova dura giornata.
Ma lontano di là solo soletto, lontano dalla costa e dalla barca, un gabbiano si stava allenando per suo conto: era il gabbiano Jonathan Livingston. […] La maggior parte dei gabbiani non si danno la pena di apprendere, del volo, altro che le nozioni elementari: gli basta arrivare dalla costa a dov’è il cibo e poi tornare a casa. […] A quel gabbiano lì, invece, non importava tanto procurarsi il cibo, quanto volare. Più di ogni altra cosa al mondo, a Jonathan Livingston piaceva librarsi nel cielo» (R. Bach, Il gabbiano Jonathan Livingston, 1977).

Potremmo dire, quindi, che la fase più delicata, importante ed emozionante nella ricerca della propria libertà sia proprio accorgersi della mancanza di essa, solo avendone la percezione, infatti, si può agire concretamente per riconquistarla nonostante non sia sempre semplice. Per conquistare l’agognata libertà potrebbe essere necessario operare delle scelte anche drastiche e, spessissimo, si rischia di non venir compresi dagli altri. Jonathan Livingston stesso prova l’esperienza dell’emarginazione dal gruppo sociale perché nessuno dei suoi simili riesce a comprendere la sua inquietudine e le sue idee che, di fatto, se fossero accolte romperebbero un equilibrio, un ordine costituito, una serie di riti già ben collaudati. Per questo motivo, al nostro gabbiano non resta che recidere, almeno temporaneamente, alcuni legami e andar via verso un mondo nuovo dove troverà altri simili a lui coi quali confrontare le proprie idee, perfezionare le tecniche di volo che ama tanto e tramandare la sua idea di libertà, ovvero trarre felicità e soddisfazione personale nel compiere un atto senza un fine concreto«In capo a sei mesi, Jonathan aveva sei allievi, tutti esuli e reietti, ma pieni di passione. E curiosi di quella novità: volare per la gioia di volare!» (ivi).

Ed ecco come, pur nella sua brevità, il romanzo di Bach ci invita a cercare con tutte le nostre forze quella libertà che fa parte di noi, anche quando ci sembra di averla smarrita. Nelle ultime pagine il cerchio va a chiudersi per non finire mai: sarà un altro gabbiano a portare avanti lo slancio ideale di Jonathan Livingston e, forse, ha proprio ragione quando ricorda al suo adepto (e a noi) che: «Per tutte le cose, Fletcher, è questione d’esercizio!» (ivi).
Sarebbe davvero importante, per tutti noi, accogliere questo monito ed esercitarci a ritrovare la nostra peculiare libertà, regalandoci anche il diritto quasi dimenticato di praticarla. Nella nostra quotidianità dovremmo provare a dedicarci all’ascolto interiore, così da far emergere i nostri bisogni anche quando temiamo che quest’attività possa rubare tempo ad altri impegni più “concreti”. Tendere l’orecchio e mettersi nella condizione di riuscire ad ascoltare la propria voce più profonda potrebbe rivelarsi, infatti, il dono più bello e prezioso da fare a noi stessi.

 

Veronica Di Gregorio Zitella

 

[immagine tratta da Unsplash]

banner-riviste-2023

Incomunicabilità: tra Crossroads di Franzen e Gorgia

Crossroads (Einaudi, 2021) è il sesto romanzo dello scrittore statunitense Jonathan Franzen. Come in altri suoi libri (Le correzioni, Libertà), Franzen esplora le complicate, delicate e a tratti surreali dinamiche di una famiglia americana, gli Hildebrandt, all’inizio degli anni Settanta. Il capofamiglia è Russ, pastore della chiesa locale in crisi su vari livelli esistenziali, sposato con Marion, una donna infelice, insoddisfatta del proprio aspetto fisico, intrappolata nei ruoli di moglie devota e madre presente – gli Hildebrandt hanno quattro figli. Crossroads è il gruppo giovanile della parrocchia di Russ, dal quale però lui è stato estromesso perché osteggiato dai giovani membri. Rick Ambrose, giovane seminarista, minaccia di prendere il posto di Russ – lo ha già preso all’interno di Crossroads ed è l’idolo di tutti i ragazzi.
Il matrimonio di Russ e Marion, nel frattempo, naufraga. Lei va segretamente da una psichiatra, e durante una seduta emergono esperienze traumatiche vissute in gioventù che aveva rimosso e di cui non ha mai avuto il coraggio di parlare al coniuge.
Nel corso del romanzo, Franzen travolge il lettore con le storie dell’infanzia e dell’adolescenza di Russ e Marion: due vite agli antipodi. Ma il vero protagonista di questo coinvolgente romanzo è l’ incomunicabilità che connota i rapporti tra Marion e Russ, che vivono come due estranei, chiusi nelle loro routine e fantasticherie: Russ pensa a Frances, una parrocchiana vedova e attraente per la quale prova qualcosa; Marion pensa alla ragazza che era e al suo passato movimentato, così diverso dalla vita monotona e inquadrata che conduce.

Nella storia della filosofia occidentale, i sofisti sono stati i primi a individuare una scissione tra realtà e linguaggio, parlando anche di incomunicabilità. Comunicare ciò che la realtà è attraverso il linguaggio è arduo, a tratti impossibile, perché ogni forma di comunicazione è in fin dei conti un’interpretazione. Eppure, come rilevano i sofisti, il linguaggio ci costituisce, costruisce mondi, è potente, persuade, ammalia. Ma può anche distruggere: i personaggi di Franzen tacciono esperienze fondanti delle loro esistenze, dando così vita a rapporti falsi e inconsistenti, e lo fanno per paura di mostrarsi, perché ciò che veramente sono e desiderano non sembra essere “dicibile” né accettabile.
Marion, come Russ (ex mennonita fuggito, in gioventù, dalla famiglia e dalla comunità), si ritrova, giovanissima, senza alcun appoggio o legame con la sua famiglia d’origine. Finisce per innamorarsi di un uomo sposato per cui sviluppa un’ossessione, che fa emergere in lei gravi problemi psichiatrici. Finisce in una clinica, poi in mano a un uomo depravato e senza scrupoli; infine approda a Russ, buono e generoso, inesperto dell’amore e del sesso, che perde la testa per lei. Ma la Marion “pre-Russ” viene da lei stessa relegata in un posto così lontano e inaccessibile, all’interno della sua mente, che finisce per essere inesistente, persino inconoscibile, e in ultima analisi incomunicabile.

Proprio come sostiene Gorgia nella sua opera Sul non essere. Sono celebri le sue tre tesi nichiliste:

  • Nulla esiste

  • Anche se qualcosa esistesse, non sarebbe conoscibile

  • Anche se qualcosa fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile

Marion tace se stessa a Russ – come se non ci fosse nulla da comunicare. È impossibile raccontare a un uomo buono e devoto il suo passato depravato, il suo vero io. E allora nulla di ciò che lei veramente era e ha fatto prima di conoscerlo, è mai esistito. Ma quel nulla è il nucleo fondante della personalità di Marion, e a un certo punto emerge prepotentemente esprimendosi con folle rabbia, con gesti che le erano familiari, ma che sono sconosciuti e incomprensibili per Russ.
Anche lui tace sulla sua curiosità sessuale: Marion è stata la sua prima e unica donna, ha deciso di sposarla troppo in fretta, e altrettanto in fretta l’ha trasformata in madre amorevole e moglie consigliera, spogliandola di quel fascino e di quel mistero, di quel lato selvaggio che la caratterizzavano. Anche Russ ha rinchiuso la realtà di quella Marion in un cassetto della sua mente, gettando poi via la chiave. Quella Marion non esiste, non la si può esperire, non la si può raccontare a parole. E allora Russ si rifugia in una realtà diversa, rappresentata da Frances.

C’è uno iato, secondo i sofisti, tra physis (natura, realtà) e nomos (legge, tradizione, linguaggio): tra ciò che la realtà è e ciò che diventa grazie ai filtri della tradizione, della legge, delle convenzioni sociali e religiose, delle parole. Come sappiamo, Gorgia non voleva negare l’esistenza di ogni cosa, bensì dimostrarci che arrivare ad un principio ultimo, assoluto e metafisico della realtà, è impossibile: non possiamo conoscerlo, non possiamo dirlo.
Ma, tornando agli Hildebrandt, si evince che qualcosa andrebbe detto, invece: non per mascherare, bensì per tentare di comunicare loro stessi e la loro realtà meglio che possono – e tutti noi dovremmo farlo. Sbaglieremo, perché comunicando interpretiamo sempre, storpiamo. Ma dobbiamo tentare, cercare di imparare la lingua dell’altro, cercare di far sì che anche l’altro impari la nostra: per ritrovarci, conoscerci, entrare veramente in contatto.
Il linguaggio resta, così come la nostra capacità conoscitiva (della realtà in generale e della realtà dell’altro), manchevole. Ma è l’unico mezzo a nostra disposizione per dire una realtà che per ognuno di noi è tangibile, concreta. Dobbiamo costantemente cercare di ridurre o di stare in quello iato tra realtà e linguaggio, oppure tentare di superarlo: tentativi forse impossibili, ma necessari per comunicare.

 

Francesca Plesnizer

 

[Photo via Pixabay]

banner-riviste-2023

Eroi umani, troppo umani: tra forza e fragilità

Avevo 17 anni quando ho letto Un uomo di Oriana Fallaci. La giornalista era riuscita magistralmente a trasmettere anche a me la fascinazione e il trasporto che lei, in quanto compagna di Alèxandros Panagulis, provava per lui. A quell’età, non ancora del tutto disincantata sul mondo e sulla vita, avevo trovato in lui un eroe.

Sventurata è la terra che ha bisogno di eroi”, scriveva Brecht in una delle sue opere teatrali. E perché mai? Cosa c’è di male in un eroe?, potremmo chiederci. Il senso è che l’attesa dell’eroe, del deus ex machina che piomba nel caos e vi mette ordine, spoglia l’individuo della sua azione e della sua creatività. Se l’umanità ha bisogno di eroi, significa che è un’umanità che aspetta senza agire. Ecco perché Alèxandros Panagulis era un eroe così credibile: perché era del tutto eroico e del tutto imperfetto.

Frequentavo il liceo classico e di eroi ne sapevo qualcosa. La letteratura antica infatti ha regalato moltissime figure impegnate in eroiche missioni causate da dèi avversi – penso ad Aiace, Ettore, Eracle; eroi che muoiono ma in qualche modo restano invincibili. E poi c’è l’eroe degli eroi, Odisseo: il distruttore di Troia, l’impeccabile mente. Lui qualche debolezza la mostra: piange al ricordo dei compagni perduti, si strugge di nostalgia per Itaca; questo perché è umano e l’incipit dell’Odissea lo spiega subito chiaramente iniziando proprio con quella parola, “uomo”1. I tempi cambiano in Grecia soprattutto con l’Ellenismo, quando decadono i valori classici e tutto è in balia di una nuova divinità, la tùche, la sorte. In questo periodo si affaccia una nuova lettura dell’eroe Giasone, quella di Apollonio Rodio nelle Argonautiche. Il nuovo Giasone è amèchanos, “privo di risorse”, nella stessa misura in cui Odisseo per Omero è polùtropos, “dall’ingegno multiforme”: non si tira fuori dal pericolo da solo, sono gli dèi e una donna, Medea, a salvarlo in varie situazioni mentre lui, letteralmente, “non sa cosa fare”. Questo Giasone del 245 a.C. sembra proprio “un eroe che ha bisogno di eroi”, un eroe che dubita delle sue capacità; antieroe classico ma proprio per questo eroe ellenistico. Un uomo in preda alla sorte.

C’è poi un’altra rilettura dell’eroe classico meritevole d’esser considerata: l’Ulisse di James Joyce. Il libro omonimo esce nel 1922, dopo una guerra che ha ridisegnato i profili del mondo e gli orizzonti valoriali, nonché nel pieno sviluppo delle teorie psicanalitiche. Lo scopo è proprio quello di creare un parallelo tra l’eroe e un qualsiasi uomo della modernità. Lui, così come la moglie Molly (parallelo di Penelope) e Stephen Dedalus (parallelo di Telemaco), racchiudono alcune fragilità tipiche umane quali la diffidenza, l’infedeltà, la passività; la loro eroicità sta nel resistere alle soffocanti sovrastrutture sociali, alle convenzioni e alle aspettative, pur nelle loro debolezze.

Anche Alèxandros Panagulis, rivoluzionario che fa della liberazione della Grecia dalla dittatura (1967-1974) la sua ragione di vita, sfoggia numerose ombre. Inizialmente il suo personaggio sembra molto chiaro: stoicamente eroico sopporta anni di carcere, torture e umiliazioni. È proprio con la scarcerazione e il ritorno nella società che la facciata comincia a spaccarsi e il sogno a infrangersi: scopre che la sua Grecia non ha più bisogno di eroi e si accontenta della nuova, falsa democrazia in comando e comincia a perdere fiducia nel popolo, cade nell’alcool, nell’infedeltà sistematica, cede alla rabbia. I Greci non lo vedono più come un eroe e lui non si sente un eroe. Finché, “misteriosamente”, la sua auto si schianta contro un muro a pochi giorni da un suo discorso in parlamento in cui avrebbe svelato alcuni documenti segreti. La Grecia si sveglia nuovamente e il suo funerale, il 5 maggio del 1976, è seguito da mezzo milione di persone che invadono Atene al grido “Alekos zi zi zi” (“Alekos vive vive vive”). Scrive Oriana Fallaci: «Ecco perché sorridevi tanto misteriosamente ora che calavi dentro la fossa dove il Gran Sacerdote […] ruzzolava grottesco […] calpestando la statua di marmo, credendo che soltanto quella restasse di un sogno, di un uomo».

Durante il lockdown causato dal Covid-19 ho assistito improvvisamente a un mondo che riversava ogni dove quella parola, eroe, a proposito degli operatori sanitari. In che cosa sono diversi da noi questi eroi? In che cosa vi assomigliamo? Tra le tante domande e risposte provvisorie, continuo a ricordare in quanti in quei giorni hanno detto “Non sono un eroe, faccio semplicemente il mio lavoro”; eppure li ignoriamo, continuiamo a considerarli eroe. Provo una certa desolazione nel constatare quanto ci venga spontaneo credere che l’abnegazione nei confronti degli altri, l’altruismo e il rispetto, possano appartenere soltanto a degli umani speciali, e non a tutti noi, chiunque di noi, noi umani.

 

Giorgia Favero

 

NOTE:
1.“Andra moi ennepe, Mouse, polutropon” racconta Omero, in italiano: “Cantami, o Musa, dell’uomo multiforme”. Andra significa appunto “uomo” ed è la primissima parola di tutta l’Odissea.

[Photo credits Unsplash-com]

banner-riviste-2023

Arte e Psiche: come rappresentare la realtà?

La relazione tra un artista e la sua psiche è imprescindibile per ben comprendere le sue opere d’arte. Possiamo, e dobbiamo, pensare ad artisti, come Vincent Van Gogh, Joan Mirò e Paul Cézanne, che fecero della loro psiche, intesa come l’insieme di funzioni emotive, relazionali e cerebrali, l’anima della loro arte. Possiamo anche pensare alla psicoanalisi, tramite la quale il legame tra arte e psiche viene studiato in modo approfondito sin da Freud e Jung.

Cosa intendiamo precisamente con relazione tra artista e psiche? Patrick McGrath in Follia (1996) parla di questo legame e ce ne fornisce una lettura. Ci racconta di un artista che riflette i turbamenti e le alterazioni del suo carattere nelle sue sculture, in un’ottica diversa da quella che ci immagineremmo. Questo artista è Edgar, protagonista di una relazione molto complessa con Stella, moglie del vice direttore del manicomio, in cui lo stesso Edgar Stark è detenuto per uxoricidio. I turbamenti di Edgar e la sua malattia si riflettono nella relazione d’amore e nella sua arte, data la sua abitudine a scolpire i visi delle donne amate.

«Dopotutto era un artista, e in ogni artista si annida un bambino sperduto e indifeso» (P. McGrath, Follia, 1996).

Così viene descritto Edgar. In effetti, notiamo che il suo isolamento sociale è evidente, proprio come quello di Stella, e può essere ritenuto una delle cause della loro dipendenza affettiva. Un isolamento, il loro, in cui lei si lasciava ritrarre e lui dava sfogo alla sua psiche sotto forma di materia. Lui rappresentava Stella, ne scolpiva la testa ma lasciava trasparire dalle sue opere un animo mosso da sentimenti forti. «Succede abbastanza spesso agli artisti e credo che dipenda dalla natura del loro lavoro. Vivere per lunghi periodi in solitudine e poi esibirsi di fronte a un pubblico, col rischio di esserne respinti, porta a instaurare col partner una relazione di un’intensità abnorme» (ivi). L’arte di Edgar, dunque, scaturisce da un isolamento dal resto del mondo, da una relazione complessa e dai sentimenti che tutto ciò può portare. La sua arte è una valvola di sfogo e lui non può assolutamente rinunciarvi, perché è il suo modo di cercare la realtà. Cosa intendiamo con l’espressione ricercare la realtà? Edgar e Stella discutono proprio di quella che è, secondo lui, la funzione dell’arte.

Edgar, infatti, ritrae la testa di Stella ma ritiene di non riuscire a plasmare quello che si agita nella sua mente, ciò che lo tormenta. Stella gli chiede come mai la sua scultura non abbia i contorni e lo chiede perché l’assenza di contorni le sembra indicare una non conoscenza, come se lui non sapesse chi lei è. L’artista, però, le risponde che proprio ciò che non vuole è vedere Stella, vederla come si vede lei allo specchio o come la vedono gli altri. Vuole semplicemente cercare un’immagine realistica, la realtà. Stella non riesce a capire cosa intenda.
Lui, però, sa bene come definire la realtà: la realtà è ciò che meramente vede, liberata da ciò che sente. Questa è la realtà, e la verità. Non sappiamo quanto di vero ci sia nel dialogo, visto che, dopo aver detto queste cose, Edgar scoppia a ridere, ma possiamo immaginare che l’artista voglia liberarsi da ciò che sente e dai tumultuosi istinti che ha, dalla sua paranoia e dalla sua malattia. Possiamo immaginare che la realtà per lui sia senza contorni, senza linee definite esattamente come lo è la sua psiche. La scultura indefinita, dunque, rappresenterebbe sia la realtà esterna, spoglia di sensazioni, sia quella interna, frammentata e indecifrabile.

Ecco che il cerchio si chiude e noi comprendiamo come l’arte sia riflesso della psiche: in questo caso l’artista non trasmette i contenuti della sua anima, i suoi turbamenti, ma piuttosto il modo in cui percepisce la sua psiche, caotica e sfocata, agitata e anche ambigua. La realtà, dunque, oggetto della sua arte, altro non è che la cornice in cui l’identità dell’oggetto della sua arte e l’entità delle sue emozioni sono sfocate e indecifrabili.

 

Andreea Elena Gabara

 

[immagine tratta da Unsplash]

banner riviste 2022 ott

 

 

L’amica geniale tra soggettività e femminismo

A otto anni dalla pubblicazione dell’ultimo romanzo della tetralogia de L’amica geniale, la sua autrice Elena Ferrante resta un totale mistero. Nella lettura dei suoi romanzi ci consoliamo nell’immaginarla coincidere con la sua protagonista e voce narrante, Elena Greco, e scivoliamo nelle vicende e soprattutto nelle soggettività straordinariamente dipinte dei due lead character: Lenù (Elena Greco appunto), e Lila (al secolo Raffaella Cerullo), personaggio narrato e spesso lontano ma sempre vivo nelle pagine dei quattro volumi. Due storie personali che si aprono a mai banali riflessioni universali.

A partire proprio dal rapporto complesso tra le due amiche geniali, nato in un rione degradato e violento di Napoli negli anni Cinquanta. Il racconto nella tetralogia è estremamente introspettivo e non si riduce mai a forme edulcorate o stereotipate nel descrivere atti e pensieri che disegnano il percorso di vita femminile: né nei confronti del sesso, né in temi come matrimonio e maternità, e nemmeno nella complessa relazione tra amiche, una sorellanza e un affetto smisurati ma costellati anche da invidie, gelosie e competizione. Fin da bambina Lenù vive da subalterna di Lila e decide di collocarsi sulla sua scia, riconoscendole a pelle quella geniale libertà e indipendenza rispetto al violento ordine costituito che le circonda e che è loro imposto. Un caos nel quale però Lenù, diversamente da Lila, non sa nuotare, e dal quale infatti si sottrae grazie ai meriti scolastici che la portano lontano dal rione e della violenza, lontano dall’ignoranza e dalla parlata dialettale, lontano da quel rapporto inevitabilmente subalterno della donna all’uomo, ma anche da quella soggettività nuova e complessa incarnata da Lila. Salvo ritrovarsi adulta a Firenze, sposata con un docente universitario di ottima famiglia, due figlie al seguito, un libro pubblicato da un editore milanese, ma anche una vita domestica dedicata esclusivamente alla casa e alle bambine e una vita intellettuale tarpata dalle incombenze e segnata fin dalle origini dal desiderio di compiacimento maschile.

Sono i movimenti femministi del ’68 – ben descritti nel terzo volume de L’amica geniale – a risvegliare in Lenù questa consapevolezza, facendo germogliare in lei l’idea dei «maschi che fabbricano le femmine». Il dito è puntato su un’educazione millenaria tutta maschile che plasma e ingabbia nel suo rigore la soggettività femminile: temi che fanno eco (dichiarato e velato) ad autrici come Irigaray, Cavarero, Lanza, Muraro. Un’accusa violenta e a 360°: «Sputare su Hegel. Sputare sulla cultura degli uomini, sputare su Marx, Lenin e Engels. E sul materialismo storico. E su Freud. E sulla psicoanalisi e l’invidia del pene. E sul matrimonio, sulla famiglia […] e sulla trappola dell’uguaglianza. E su tutte le manifestazioni della cultura patriarcale. E su tutte le sue forme organizzative. Opporsi alla dispersione delle intelligenze femminili. Deculturalizzarsi. Disacculturarsi a partire dalla maternità, non dare figli a nessuno. Sbarazzarsi della dialettica servo-padrone. Strapparsi dal cervello l’inferiorità, restituirsi a sé stesse. Non avere antitesi. Muoversi su un altro piano in nome della propria differenza»1. Lenù sente finalmente di doversi liberare da quei «patti segreti» ai quali era scesa fin da ragazzina per plasmarsi all’ordine maschile del mondo, e di doversi riformare: dover «disimparare» per «capire meglio cos’ero, indagare sulla mia natura di femmina»2. Filosoficamente Ferrante rimanda dunque al pensiero della differenza sviluppato proprio a partire da quegli anni.

Questa rinuncia all’ordine maschile fa tornare Lenù a Lila, che pur non essendosi mai allontanata di un passo dal rione – manifestazione privilegiata di quella cultura da cui fuggire – sembra totalmente svincolata da ogni visione di mondo globale, paternalistica e progressista. Lila è il personaggio imprevedibile per eccellenza proprio perché capace di sfuggire a ogni ordine precostruito e anche noi lettori, come Lenù, l’amiamo e la odiamo per questo. Anche nel 2022, quando ogni rivendicazione di individualità femminile, ogni resistenza a plasmare la quotidianità in chiave patriarcale dovrebbe essere vecchia storia… ma ancora non lo è. Lo chiarisce la stessa Ferrante in un articolo pubblicato sul Guardian: «Ancora oggi, dopo un secolo di femminismo, non possiamo ancora pienamente essere noi stesse. I nostri difetti, crimini, virtù, piaceri, il nostro stesso linguaggio sono ubbidientemente iscritti nelle gerarchie maschili, puniti o apprezzati secondo un codice che non ci appartiene davvero e che quindi ci logora»3.

Questo lo sfondo della tetralogia de L’amica geniale, nella quale accompagniamo la crescita individuale di Lenù e anche noi come lei, attraverso Lila, ci mettiamo in discussione: chi siamo? Chi vogliamo essere? Come vogliamo comportarci? Quale visione di mondo ci è davvero nostra? Ma non solo: abbracciamo anche di noi i nostri lati più oscuri e facciamo pace con noi stesse, con le nostre inclinazioni e i nostri desideri, i nostri pensieri più bui. Pretendiamo una vita nostra.

 

Giorgia Favero

 

NOTE:
1 E. Ferrante, Storia di chi fugge e di chi resta, E/O Edizioni, Roma 2013, p. 254
2 Ivi p. 256
3 Leggi l’articolo: https://www.theguardian.com/lifeandstyle/2018/mar/17/elena-ferrante-even-after-century-of-feminism-cant-be-ourselves

[Immagine di copertina: le protagoniste della serie tv L’amica geniale. Fonte: RaiPlay]

banner riviste 2022 ott

L’Inno ad Arimane di Leopardi e la sofferenza del vivere

Leopardi ed Arimane sono due figure affascinanti. Il primo è un poeta filosofo vissuto tra Settecento e Ottocento, famoso per il suo pessimismo radicale ma anche per i suoi slanci eroicamente ribelli; il secondo è un’entità mitica, ovvero il presunto dio del male contrapposto ad Ahura Mazda nello zoroastrismo. Cosa le collega? Ebbene, Leopardi ha scritto nel 1833 un abbozzo di un Inno ad Arimane, che è rimasto in forma di appunto, ma che risulta essere di una profondità e di una forza emotiva sconvolgenti.

In questo testo, Leopardi, di fatto, invoca con rabbia Arimane, che viene definito come «Re delle cose, autor del mondo». Cioè il poeta ci sta dicendo che, nel momento in cui si sta apprestando a scrivere il suo Inno, egli concepisce l’intero sistema del mondo come creato e governato da un dio del male. E non un dio del male qualunque: si tratta di Arimane, ovvero l’equivalente del cristiano Satana. Può apparire strano che Leopardi, che si è sempre professato ateo, si rivolga ad una divinità. Tuttavia, è importante considerare che nelle indagini accademiche odierne relativamente al satanismo e alle sue forme, è spesso difficile distinguere tra satanismo ateo e satanismo teista. Dunque, mutatis mutandis, il “satanismo” di Leopardi, così come compare in questo Inno abbozzato, non è altro che una personificazione di quella Natura malvagia e matrigna di cui spesso ha parlato nelle sue opere.

Ci si può anche chiedere perché Leopardi nomini Arimane e non Satana. Ciò potrebbe essere stato dettato da una forma di erudizione, ma anche dal disprezzo che Leopardi portava nei confronti della religione cristiana, al punto tale da rifiutarne anche l’entità malvagia e preferire il suo equivalente in una diversa e più antica religione.

Il punto centrale di questo Inno si trova verso la fine. A fronte di una sofferenza fisica e psicologica prolungata, insostenibile e senza scopo, Leopardi prende atto di non poterne più della vita – «Non posso, non posso più della vita». E a questa consapevolezza segue la drammatica richiesta di morte ad Arimane, che viene pregato di non fargli superare i trentacinque anni. Abbiamo qui due giganti che si confrontano tra loro: da una parte un uomo disperato che vede l’unica possibile soluzione ai suoi tormenti nella morte, dall’altra uno spirito malvagio, autore di un mondo malvagio, che viene pregato, ma con disprezzo e rabbia, per ottenere la fine della vita. Leopardi non è mai stato così eroico come in questo Inno: anche di fronte alla morte, non si rivolge al cristiano dio del bene, ma preferisce un altro spirito, un dio malvagio che si è oggettivato in questo terribile mondo e che ne ha concepito lo schema con «somma intelligenza» e crudeltà. Rivolgersi a Dio (lo spirito buono), potrebbe richiamare l’idea del Paradiso e della redenzione in una interminabile gioia eterna; ma qui Leopardi insiste nella sua invocazione verso lo spirito del male, ben sapendo che forse tale spirito non è nemmeno reale e che dopo la morte tutto sarà finito, comprese le sofferenze.

Indubbiamente ognuno porta con sé i suoi drammi e i suoi dolori. Vi è chi è tormentato da sofferenze fisiche, chi da sofferenze psicologiche, chi da entrambe. Naturalmente l’intensità con cui esse si manifestano non è uguale per tutti. Tuttavia, è innegabile che nel mondo vi sia più male che bene, il che potrebbe portare allo scoraggiamento.
A volte, quando si parla della propria sofferenza con amici e conoscenti, ci si sente dire, ad esempio: “Ma dai, forza, coraggio, la vita è bella, le sofferenze passano, non essere così negativo…” Questi discorsi falliscono nella capacità di comprendere la sofferenza e quindi di creare una sorta di empatia che potrebbe giovare. Bisogna tenere conto che vi è chi soffre terribilmente e che queste frasi di circostanza, forse dettate più dall’imbarazzo e dall’impotenza che da un vero desiderio di aiutare, non fanno altro che porre una barriera ed aumentare il senso di disperata solitudine. Tuttavia, di fronte al dolore e alla sofferenza, può essere di conforto sapere che vi sono dei grandi artisti, poeti e filosofi che vi sono passati e hanno apertamente espresso le proprie idee e i propri sentimenti. E allora, l’Inno ad Arimane non risulterà scritto invano.

 

Francesco Breda

 

[immagine tratta da Unsplash]

banner riviste 2022 ott

“Staccando l’ombra da terra”: sei un aeroplano o un pilota?

È trascorso esattamente un anno dall’ultimo respiro di Daniele del Giudice. Staccando l’ombra da terra è un laboratorio di edificazione umana, in quanto invita il lettore a porsi domande cruciali: qual è il valore che si attribuisce alla vita? E qual è il tipo umano che si agita dietro una determinata prospettiva?

Ho riletto quest’opera a distanza di un anno, per riscoprire ogni volta i viaggi che rendono la vita umana rigogliosa, ma anche per non dimenticare quanto fragili siano gli equilibri che la costituiscono. Sono convinta che la lettura di Staccando l’ombra da terra induca nel lettore un bilancio iniziale della propria esistenza: per riscontrare questo suo legame con la vita, occorre meditare di tanto in tanto, nel corso della lettura, su come si posa il nostro sguardo, sulla natura degli elementi che catturano la nostra attenzione, sulla qualità degli stimoli che essi producono in noi, su come l’evento coinvolge e corrompe il nostro pensiero. Del Giudice coinvolge il lettore all’interno delle proprie profondità e lo fa volteggiare nei vortici ad esse connaturati.

«Al tramonto dopo l’atterraggio, faremo lunghi ed elastici passi per rilassarci dalle fatiche dei comandi. Sorrideremo, di nuovo ricongiunti alla nostra ombra» (D. Del Giudice, Staccando l’ombra da terra, 2017).

Del Giudice non interpreta volo e fantasia come un’evasione dalla realtà ma come ciò che educa la sensibilità nei confronti dei fenomeni della vita. Il volo – nella forma fisica e mentale – predispone una riconciliazione con la realtà, “l’aderenza al paesaggio”, l’assenza di livore nei confronti del dolore, una risposta affermativa alle imbeccate della vita, di cui bisogna saperne accettare ogni sfaccettatura.

Tutti siamo capaci di volare e, guardando al passato, riconosciamo questa verità. Il volo della mente o della fantasia è certamente il più rischioso, ma anche il più dovizioso, in quanto non deve limitarsi a ciò che gli strumenti umani consentono. Oltretutto, come il volo fisico, quello mentale si avvale di un linguaggio specifico: fatto di codici universali, ma capace di scivolare liberamente oltre, spaziando negli angoli del cielo.

Pilota è chiunque viaggi con la mente o colui che, tenendo traccia di quei movimenti, viaggia con gli esecutori, come lo scrittore. E siccome si è sempre viaggiato e volato, l’idea della macchina-aeroplano era preceduta da un radicato presentimento e un ardente desiderio. Attraverso la storia di un aspirante aviatore (o meglio, di un divenir-aeroplano), Staccando l’ombra da terra compagina il rapporto singolare che intreccia uomo ed evento, da cui dipende la qualità che ciascuno attribuisce alla vita. In questi fragili equilibri tra volo e “tutto il resto” (ovvero, l’imprevedibilità dell’accadere), il pilota dell’aereo si trova nella necessità di ricrearli continuamente, seguendo l’istinto e applicando il proprio sapere, nei bilanci probabilistici di cadute e successi.

Il protagonista ci viene presentato nella sua seconda lezione di volo, quando si accinge ad eseguire il suo primo volo da solista. Il maestro Bruno adotta dei metodi di insegnamento imperniati sulla capacità di riconoscere e risolvere gli errori: se non si è in grado di comprendere l’errore, la propria e altrui vita è a rischio. L’equazione è semplice, eppure ogni concezione del volo è singolare. Ad esempio, mentre Bruno predilige l’interiorizzazione degli strumenti di volo, il protagonista è più incline a mettere in discussione il proprio sapere in ordine a ciò che è più importante ottemperare. Dunque, sviluppa l’umiltà, consapevole che soltanto l’incontro con l’evento decide dell’individuo. Diversamente dal maestro, il protagonista è aperto a “tutto il resto”, poiché è lì che si appronta la propria strategia di volo, è lì che germogliano il valore attribuito alla vita e la cartografia del proprio tipo umano.

La normalizzazione del volo, avvenuta attraverso la costruzione di una grammatica e al prezzo di molti errori, modificò il modo di vivere e di morire del pilota. Ma la lingua operativa rivela la lingua madre (la lingua del volo della mente) come se volesse ritornarvi nel momento della sua piena maturità o all’inizio del suo declino.

E come nasce un pilota? Nell’infanzia il protagonista amava camminare ed era sedotto dalla traslazione del paesaggio: credeva di essere un tram. Ma vedeva già tutto in altra proporzione: i marciapiedi erano strade che perimetravano isolati, le pozzanghere erano i laghi dentro i crateri vulcanici, e i rigagnoli erano fiumi in piena.

«Quando non ero impegnato nel trasporto urbano su rotaia, mi sentivo un aeroplano: non un pilota, insisto, un aeroplano […]L’infanzia è anche una certa quota, un certo rapporto con la terra, una questione di dimensioni che non si avranno più, un punto di vista ad esaurimento, di cui una volta perduto, si perde perfino la memoria» (ibidem).

«Una volta inventato l’aeroplano, c’è una sola cosa al mondo con cui è veramente connesso, ed è l’infanzia» (ibidem).

Cosa accade diventando pilota? Certamente si diventa un attento timoniere, quando prima si era uno spensierato testimone. Ogni decisione dipende da questo fatto, ogni salvezza grava sulla responsabilità del pilota. E proprio questo peso abilita un nuovo rapporto con “tutto il resto”: il pilota è attivamente amalgamato con la probabilità, si unisce ad essa, come quando esegue le manovre di volo per uscire dai vortici del cielo, mentre l’aeroplano ne è passivamente preso alle spalle. È un rapporto più maturo con il groviglio di virtualità e opposizioni laceranti. Egli scivola nei momenti di caduta, poi ritrova il peso e la gravità, planando sugli alberi. Pertanto: «amavi il caso e le coincidenze, ma a te spettava il battito d’ali, pilota. […] A te toccava essere il signore di quel piccolo limite [entro il quale un aeroplano era ancora un aeroplano], sempre che ti interessasse ancora arrivare sul VOR, e magari anche a casa» (ibidem).

Del Giudice mostrò abilmente quant’è necessario adottare la corretta prospettiva: non orizzontale o verticale, bensì obliqua. L’obliqua sorprende veramente il nostro sguardo: è una visione di profondità spaziale. La vita acquisisce sapore in funzione del rapporto con ciò che si ha e di cui si fa parte. Possiamo lasciare questo mondo avendo vissuto armoniosamente con “tutto il resto”!

 

Giorgia Spaziani

[Photo credit Ross Parmly via Unsplash]

la chiave di sophia 2022

 

Libertà e linguaggio in 1984 di Orwell

Molti di noi conosceranno l’opera di George Orwell 1984: il romanzo distopico che narra un futuro governato dal Grande Fratello, figura totalitaria che controlla e conosce il mondo circostante e i suoi abitanti. In questa realtà gli uomini non hanno facoltà né di agire, né di pensare; ogni idea contraria al Partito, la forma di governo dominante, viene definito “psicoreato” ed è punito con la morte. Persino il linguaggio, fonte inesauribile di varietà e ricchezza, è stato sottoposto a revisione, allo scopo di impoverirlo sempre di più, creandone uno nuovo: la “neolingua”, contrapposto a quello standard “l’archelingua”.

«Si riteneva che, una volta che la neolingua fosse stata adottata in tutto e per tutto e l’archelingua dimenticata, ogni pensiero eretico (vale a dire ogni pensiero che si discostasse dai principi del Socing) sarebbe stato letteralmente impossibile, almeno per quanto riguarda quelle forme speculative che dipendono dalle parole» (G. Orwell, 1984, 2015).

In sostanza il linguaggio, nel futuro 1984 di Orwell, è ridotto all’osso, in quanto se non esistono nemmeno gli strumenti e la capacità di esprimere un’idea contraria al Partito, con il tempo si esaurirà anche la possibilità di pensarla. Interessante, partendo da questa considerazione, come il nostro autore dia una consistente importanza al potere della parola, il cui esercizio stimola la riflessione, aiuta la creazione di opinioni contrarie e di pensieri indipendenti.
Ecco dunque che, in un ipotetico distopico 1984, la conoscenza del linguaggio standard, il suo studio e la sua lettura, possono essere una minaccia per un regime totalitario che non vuole lasciare nulla al prossimo, ma mira a controllare qualsiasi cosa.

Afferma Winston, il protagonista di 1984, nella sezione conclusiva del romanzo:

«In effetti, ciò che distingueva la neolingua da tutte le altre lingue esistenti, era il fatto che ogni anno, anziché ampliarsi, il suo lessico si restringeva. Ogni riduzione era considerata un successo perché, più si riducevano le possibilità di scelta, minori erano le tentazioni di mettersi a pensare» (ibidem).

Anche se il linguaggio sembrerebbe un fattore esteriore nell’esercizio del pensiero, un mezzo più che una sostanza, Orwell ci dimostra che non è così, in quanto la proprietà di parola conduce necessariamente ad allenare la capacità di espressione delle proprie idee e di sostegno delle proprie tesi. Si pensi a questo proposito all’importanza che il linguaggio ricopre nell’antichità romana: Cicerone affermava nel De Oratore che nulla fosse più importante di intrattenere le menti degli uomini con la capacità di parlare, elemento che fu sempre fiorente «in ogni popolazione libera e nelle società pacate e tranquille»1. Ne deriva che il tentativo di ridurre questa capacità attraverso il controllo della lingua, è alla base di un regime dispotico.

A ciò si aggiunge un altro elemento importante, che Orwell mette in luce nelle ultime battute del suo romanzo: cambiare la lingua in un’altra versione più povera implica l’allontanamento del popolo dalla letteratura del passato, in quanto con il passare del tempo i testi risulterebbero sempre più incomprensibili alla maggior parte delle persone.

«Soppiantata una volta e per sempre l’archelingua, anche l’ultimo legame con il passato sarebbe stato reciso. La storia era già stata riscritta, ma qui e là ancora sopravvivevano frammenti della letteratura  trascorsa, e finché si riusciva a conservare la propria conoscenza dell’archelingua era possibile leggerli» (G. Orwell, 1984, 2015).

Ecco dunque che la revisione del linguaggio permetterebbe il controllo di tutta la letteratura e la sua inacessibilità nel futuro. Ciò implicherebbe l’esclusione automatica di tutto il patrimonio culturale e letterario conservato per secoli.

Traendo le conclusioni dalle riflessioni di Orwell si può soltanto ribadire l’estrema necessità e urgenza della lettura, della conservazione della ricchezza del linguaggio e dell’esercizio della parola. Tutto ciò da un lato è necessario per conservare la memoria del passato e stimolare il pensiero, dall’altro per mantenere la possibilità di esprimere opinioni e idee che sostengano le proprie tesi e permettano, qualora lo si voglia, di prevalere verbalmente sull’altro.

 

Anna Tieppo

 

NOTE
1. Cicerone, De Oratore, 1, 30-31: «haec una res in omni libero populo maximeque in pacatis tranquillisque civitatibus».

[immagine tratta da Unsplash]

la chiave di sophia 2022

Nightmare Alley e l’illusione dell’essere umano

Nightmare Alley, il più celebre dei romanzi di William Lindsay Gresham, è un viaggio all’interno dell’animo umano e dei suoi meandri: i personaggi rappresentano le tensioni dell’essere umano tra redenzione, vendetta e riscatto sociale. Il protagonista, Stan, è un uomo misterioso di cui si riesce a scorgere ben poco, un uomo che riesce a mascherare le sue emozioni ed il suo passato ma che arrivato a Nightmare Alley – luogo simbolo dell’occulto e dell’inganno, ovvero luogo in cui si esibiscono circensi, veggenti e i così definiti freaks – egli man mano mostra la sua vera natura.

La parabola di Stan inizia con il parricidio che commette e che rappresenta la morte della sua moralità, la sua purezza che degenera in vendetta; scappa e giunge casualmente a Nightmare Alley, dove inizialmente lavora come semplice apprendista di Zeena, un’affascinante cartomante, fin quando non comincia a cimentarsi nell’arte dell’occulto, nella cartomanzia e nella lettura del pensiero mettendo a punto numeri sorprendenti che incantano tutto il pubblico grazie all’aiuto dell’amata Molly, che rappresenta di contro l’ingenuità e la purezza perdute dallo stesso Stan.

Stan viene accecato dal successo e dalla brama di riscatto sociale: come il Faust vende la sua anima in nome dell’assoluto, così Stan vende la sua in nome della brama, illudendosi di potersi ergere oltre ogni valore morale senza alcuna ripercussione e arriverà, infatti, ad ingannare un uomo disperato alla ricerca di redenzione per un errore passato, mettendo in scena un raccapricciante spettacolo che verrà smascherato con conseguenze tragiche.

È interessante notare come allo stesso tempo ci sia uno scambio e quasi una coincidenza tra l’ingannatore e l’ingannato: se è vero che Stan inganna e fa di questo la sua arte, è altrettanto interessante notare che gli uomini che vengono ingannati si sottopongono lucidamente ad un’arte che sanno in fondo essere fittizia, cercando speranza. Nightmare Alley rappresenta il luogo della lucida illusione delle mente umana, il luogo dove l’essere umano si rifugia quando il reale non riesce a rendergli giustizia e il luogo da cui è difficile evadere se non si recupera il contatto con sé stessi e con il mondo. È curioso che Stan alla fine della sua tragica storia ritorni a Nightmare Alley per divenire non più il soggetto ma l’oggetto dell’attrazione, ossia la così detta “bestia umana” che rappresenta il regresso dell’uomo al suo stato più bruto.

Si potrebbe obiettare che l’essere umano, tentando di evadere da ogni vincolo morale come fa Stan, non diviene altro che un bruto: ossia ritorna allo stato di natura alla Rousseau, nel quale non è in grado di stringere un vincolo sociale. La critica intrinseca alle pagine di Gresham è senz’altro alla borghesia del suo tempo: una classe media che si lasciava raggirare da giochi di prestigio che erano in voga, noncuranti dei reali problemi che li circondavano e lucidamente ingannati da un’atmosfera nebulosa che loro stessi avevano creato.

Il monito sempre attuale, infine, che Gresham lascia trasparire tra le sue pagine è che l’uomo nel momento in cui cade preda del lucido inganno di poter superare sé stesso ed i propri valori, di poter andare oltre quella che è la sua moralità e quindi la sua stessa umanità, diviene egli stesso ciò che aveva cercato di dominare: un bruto. L’uomo contemporaneo, oggi, servendosi della tecnologia tenta di superare se stesso, candendo vittima del falso mito del progresso; l’uomo, piuttosto, dovrebbe imparare a vivere nel rispetto dei suoi vincoli naturali perché solo in questo modo può rispettare se stesso e la natura di cui fa parte, preservando il suo posto nel mondo. Oggi più che mai è necessario fare riferimento a questo monito.

Il romanzo di Gresham mostra come non ci siano colpevoli o vittime, mostri o santi, ma che il vero pericolo risiede nella natura dell’essere umano e che il compito dell’uomo per non cadere nell’istintività tipica del bruto sia coltivare la sua natura rispettandone i limiti, che è il presupposto per la sua stessa conservazione e progresso, per poter essere sempre il soggetto del suo mondo e per diventarne, invece, l’oggetto.

 

Francesca Peluso

 

[immagine tratta da Unsplash]

la chiave di sophia 2022