Le città sono vive e si imprimono dentro di noi

A rendere speciale il luogo in cui veniamo al mondo non sono le particolari geometrie delle strade né le forme più o meno avveniristiche dei suoi edifici. A legarci inesorabilmente a esso non sono neppure le piazze, né l’intricato labirinto di vie o i tetti colorati delle sue case.  Ciò che avvertiamo davvero nostro e che riconosceremmo ovunque, sono gli odori che abbiamo sentito lì per la prima volta, quando del mondo non conoscevamo ancora nulla. E’ il verso del merlo che nidifica sull’albero dove noi eravamo soliti giocare a nascondino e che non abbiamo più sentito in modo così chiaro e inequivocabile da allora. “Casa” è il tratto di strada che percorrevamo ogni giorno per andare a scuola, lungo il quale la signora del civico 6 sbatteva il tappeto del bagno, dopo aver fatto uscire il gatto che lì sopra aveva trascorso la notte.

«Di quest’onda che rifluisce dai ricordi la città s’imbeve come una spugna e si dilata» afferma Calvino ne Le città invisibili (1993). «Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee di una mano». L’anima pulsante di un luogo che sentiamo nostro non sono dunque le sue forme, ma l’intreccio di relazioni che noi abbiamo intessuto o continuiamo a intessere con esso. Alla stregua di un’amante clandestina, la città si dona a noi con passione e poi si nasconde, ci chiama a lei e subito si allontana. Ciò che conserviamo è un profondo senso di benessere e di appartenenza. Ma non facciamo l’errore di considerarla un’entità ferma e di volerla trattenere, perché rimarremmo delusi. 

Nel descrivere la città di Maurilia, infatti, Calvino ci mette in guardia proprio da questo pericoloso meccanismo della mente umana. Le città sono esseri viventi, sembra avvertirci lo scrittore, e assumono diverse identità lungo gli anni, ognuna delle quali risplende di luce propria, in virtù del valore che ha in quel preciso momento storico. Diventando metropoli, la città provinciale di Maurilia è sparita. Ma «la metropoli ha questa attrattiva in più afferma Calvino – che attraverso ciò che è diventata si può ripensare con nostalgia a quella che era». Se Maurilia fosse rimasta una cittadina di provincia, nessuno si sarebbe mai accorto della sua bellezza. Solo ora che si è trasformata in metropoli, chi l’ha abitata fin dall’inizio rimpiange la piazza con le galline, il chiosco della musica che c’era al posto del cavalcavia; insomma, i suoi tratti semplici, la sua genuinità.

Se amiamo davvero le nostre città, dobbiamo lasciarle andare. Ciò che conta veramente sono le emozioni incise dentro di noi, cui possiamo attingere in qualsiasi momento della nostra vita. Cercare di fermare l’incessante cambiamento, significherebbe invece negarci sentimenti importanti, quali la nostalgia o il calore del ricordo.

Ma Calvino si spinge oltre. Tra le righe egli ci fa capire che quelli che noi chiamiamo cambiamenti non sono neppure tali, ma il frutto della nostra mente ordinatrice. Siamo noi che mettiamo in relazione, che confrontiamo, che parliamo di trasformazione. Nella realtà le cose vivono di presente. I fatti e i luoghi sono costituiti da istanti affiancati, uno diverso dall’altro. Siamo sempre noi che ci ostiniamo a congiungerli con linee rette, volte a dare un senso ulteriore e personalissimo a qualcosa che lineare non è.

«Alle volte anche i nomi degli abitanti restano uguali, e l’accento delle voci, e perfino i lineamenti delle facce; ma gli dèi che abitano sotto i nomi e sopra i luoghi se ne sono andati senza dir nulla e al loro posto si sono annidati dèi estranei. E’ vano chiedersi se essi sono migliori o peggiori degli antichi, dato che non esiste tra loro alcun rapporto» (I. Calvino, Le città invisibili, 1993).

Ogni periodo storico, dunque, ha i suoi figli ed essi vivono la città in maniera sempre differente. Quello che conta davvero è il modo con cui i luoghi ci trasformano e cosa diventiamo proprio in virtù di essi.

 

Erica Pradal

 

[Photo credits jacek dylag by Unsplash]

 

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I volti dell’attesa ne “Il Deserto dei Tartari” di Dino Buzzati

Nella lingua greca classica per definire il Tempo troviamo tre parole: Chronos, Aiòn e Kairòs. Se Chronos va ad indicare la natura quantitativa del tempo, lo scorrere inesorabile dei minuti, Aiòn rappresenta il susseguirsi delle ere, il tempo vitale ma anche il destino; infine abbiamo Kairòs, probabilmente uno degli aspetti più affascinanti del tempo nella sua natura qualitativa: il “momento opportuno”. Kairòs corre veloce proprio come corre via l’occasione propizia che si deve afferrare per non rischiare di perderla per sempre. Nella vita di tutti noi può accadere di avere la percezione di aver incontrato Kairòs, di essere stati nel posto giusto al momento giusto, di aver colto un’occasione irripetibile, di aver compreso che quel momento esatto sarebbe stato il più importante e decisivo della nostra esistenza. D’altro canto possiamo aver sperimentato, però, anche un altro tipo di sentimento rispetto al tempo e al momento propizio, una zona grigia, impalpabile eppure presente: l’attesa. Questo limbo può prendere diverse forme e dimensioni: possiamo aspettare con gioiosa speranza il grande amore o il lavoro dei sogni, possiamo attendere con trepidazione mista ad ansia l’esito di un esame, una svolta nella nostra quotidianità, una notizia. Grandi e piccole forme di attesa, insomma, compongono spesso le nostre esistenze

Proprio questo misterioso e, a tratti, schiacciante tempo sospeso è al centro di uno dei capolavori della letteratura italiana del Novecento: Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati. Sin dall’incipit, Buzzati riesce a far sentire il lettore completamente immerso in quel momento che precede l’evento tanto atteso e in quella sempre imprevedibile reazione che può avere l’animo umano. Infatti l’indimenticabile protagonista Giovanni Drogo, alla notizia che aspettava di ricevere da tempo, non prova quella gioia che potremmo aspettarci da lui:

«Nominato ufficiale, Giovanni Drogo partì una mattina di settembre dalla città per raggiungere la Fortezza Bastiani, sua prima destinazione. […] Era quello il giorno atteso da anni, il principio della sua vera vita. Pensava alle giornate squallide all’Accademia militare, si ricordò delle amare sere di studio quando sentiva fuori nelle vie passare la gente libera e presumibilmente felice […]» (D. Buzzati, Il deserto dei Tartari, 1940).

Giovanni Drogo è, dunque, finalmente ufficiale, una nomina che aspettava da anni, la luce che rischiara un giorno nuovo, ha nella testa e nel cuore grandi e alte aspettative e sente di meritarle. L’ufficiale, però, non riesce a provare una gioia piena, capisce che il tempo della giovinezza è andato perduto. C’è in lui, fin da subito, un presentimento: 

«Così Drogo fissava lo specchio, vedeva uno stentato sorriso sul proprio volto, che invano aveva cercato di amare. Che cosa senza senso: perché non riusciva a sorridere con la doverosa spensieratezza mentre salutava la madre? […] L’amarezza di lasciare per la prima volta la vecchia casa, dove era nato alle speranze, i timori che porta con sé ogni mutamento, la commozione di salutare la mamma, gli riempivano sì l’animo, ma su tutto ciò gravava un insistente pensiero, che non gli riusciva di indentificare, come un vago presentimento di cose fatali, quasi egli stesse per cominciare un viaggio senza ritorno» (ivi).

Il tempo, per Drogo, si dilata ulteriormente e le attese si moltiplicano fino a diventare un labirinto che sembra non avere fine. Prima la nomina a ufficiale, poi l’arrivo di un nemico che sembra essere più un’ombra che reale. La direzione di Drogo infatti, come sappiamo, è la Fortezza Bastiani che si erge in un deserto il quale, secondo le leggende, era stato teatro delle scorribande dei Tartari. Ora è solo silenzio e vuoto, le giornate scandite da una routine incessante trascorrono tutte identiche. Ad accentuare la sensazione di un’attesa che sembra chiamarne un’altra, è Drogo stesso che, in ogni momento, ha la possibilità di andare via. Eppure rimanda di ora in ora, di giorno in giorno, aspettando quell’assalto, preparandosi ad affrontarlo; anche il più lieve dei rumori ridesta in lui una singolare speranza d’azione che lo porta, inesorabilmente, a restare tra le mura della Fortezza. L’attesa sembra, così, prendere una nuova forma che tutti noi potremmo aver già incontrato nel quotidiano, quella di uno scudo che ci protegge dalla vita e dalle delusioni che potrebbe infliggerci, ma è soltanto cercando di conoscere e capire i tanti volti dell’attesa e del tempo che possiamo imparare ad affrontarli con lucidità e magari accorgerci che quell’agognato “momento opportuno” è proprio lì, davanti ai nostri occhi, ogni giorno.

 

Veronica Di Gregorio Zitella

 

[Photo credits Ryan Cheng via Unsplash]

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Estate con Sophia: consigli per letture brevi che lasciano il segno

Abbiamo superato la metà dell’estate ma abbiamo ancora tutto agosto da cui trarre il massimo della soddisfazione. Non solo in termini di camminate in montagna, gelati o tuffi tra le onde, ma anche di viaggi da fare… comodamente seduti in poltrona. O sulla sedia a sdraio.

Ecco dunque alcuni consigli di lettura (e non solo) da parte dei nostri redattori, ognuno secondo suo gusto. E così si spazia tra romanzi ed ecologia, grandi classici e psicologia. Ci siamo dati una sola regola: niente mattoni, solo cose brevi ma in grado di lasciare il segno. E voi avete dei buoni consigli per noi?

 

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FRANCESCA

Francesca, professoressa di filosofia e storia, consiglia un romanzo a sfondo storico e un’opera perturbante: Il giardino dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani e I baffi di Emmanuel Carrère. La prima lettura è ambientata a Ferrara all’indomani delle leggi razziali fasciste entrate in vigore in Italia alla fine del 1938. Il protagonista e voce narrante è un giovane ebreo affascinato dalla ricca famiglia dei Finzi-Contini, ebrei anch’essi. I rampolli della famiglia, Alberto e Micol, lo invitano a giocare a tennis nel loro splendido giardino. La storia collettiva si mescola con le storie personali dei personaggi, bisognosi di ritrovare speranza, spensieratezza, amore. I baffi racconta invece di un uomo che decide di tagliarsi i baffi per sorprendere sua moglie. Ma sarà lei – e con lei tutto quello che credeva essere il suo mondo – a sorprenderlo: sembrerebbe, infatti, che i suoi baffi non siano in realtà mai esistiti. Con essi scompaiono anche amici, genitori, ricordi, pezzi di vita. Follia o soprannaturale? 

 

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ALESSANDRO

Cosa c’è di più avvincente di un viaggio nell’interiorità e nelle emozioni umane? Questo almeno è quello che pensa Alessandro e le sue selezioni vanno in questa direzione. Mitezza di Eugenio Borgna ripercorre una delle esperienze umane più importanti eppure così dimenticate. È fondamentale recuperare, a livello individuale e relazionale, la dimensione della mitezza che si lega alla gentilezza, alla tenerezza, alla bontà, all’amicizia e si distanzia radicalmente dalla superbia, dall’orgoglio, dal potere, dall’aggressività e dall’angoscia. La riflessione etica e psicologica sulla mitezza come virtù sociale è a prezioso servizio del singolo e della collettività. Arcipelago N di Vittorio Lingiardi invece ci immerge nelle articolazioni del narcisismo che ci abita – e che non è mai possibile ridurre ad una semplice e univoca definizione – aiutandoci a conoscerne le molteplici sfumature e le diverse declinazioni che oscillano tra le numerose isole dell’insicurezza, della stima di sé, dell’egocentrismo, della vergogna, della rabbia, dell’invidia, della manipolazione e dell’aggressività distruttiva fino alla psicopatia. L’autore conduce con delicatezza e puntualità il lettore a distinguere tra un sano amore di sé e la sua patologica celebrazione, individuandone il confine sottile.

 

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ANNA

Una Barca nel Bosco di Paola Mastrocola è la storia di uno studente appassionato, che si trova inserito in un contesto che non lo valorizza, in un momento complesso come l’età adolescenziale. Un libro che spinge a riflettere sul rapporto tra noi stessi e il mondo che ci circonda, su quello che vogliamo e sul sentirsi fuori posto o in accordo con gli altri. Consigliato a tutti coloro che amano immergersi all’interno delle dinamiche formative contemporanee, cogliendone gli aspetti contradditori e percependo la necessità di cambiamento di questo mondo, nonché a tutti quelli che sono perennemente alla ricerca di se stessi. Sempre di solitudine parla Tutto Chiede Salvezza di Daniele Mencarelli, questa volta una solitudine profonda ed esistenziale che si intreccia alla malattia del protagonista, durante il soggiorno in un centro psichiatrico. Un’opera per certi versi cruda, ma che lascia al lettore molto su cui riflettere e ci trasporta in quei luoghi dove nessuno vorrebbe mai recarsi.

 

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MASSIMILIANO

Massimiliano consiglia una graphic novel di Zerocalcare, Kobane calling, reportage del viaggio dell’autore tra i curdi del Rojava. Allo stile ironico e tagliente del fumettista romano si sommano la sua sensibilità e l’umanità della situazione critica che racconta. Un libro che strappa sorrisi, lacrime e tiene incollati fino all’ultimo baloon. Altro consiglio è Autunno tedesco dello svedese Stig Dagerman: serie di appassionanti reportage nella sconfitta Germania del 1946, scritti con un occhio lucidissimo e in controtendenza rispetto agli inviati dell’epoca, che si limitavano a sottolineare il prezzo che i tedeschi dovevano pagare per il Nazismo. Dagerman mette in luce la complessità che sempre riguarda gli ambiti umani, a maggior ragione quelli in cui si lotta per la vita ogni giorno, mostrando i lati oscuri di una denazificazione di facciata e le contraddizioni della Germania post-bellica; moniti e analisi validi anche oggi.

 

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GIORGIA

Giorgia ha appena compiuto 31 anni e quindi è in piena crisi dei trenta (+1) anni, crisi profonda creativa alla Jonathan Larson in Tick, tick… boom!, per intendersi. E quindi ha adorato pagina dopo pagina l’ultimo romanzo di Paolo Giordano, Tasmania: l’universale e i temi caldi dell’attualità si mescolano allo strettamente personale di Giordano, o meglio del protagonista del libro, nel quale – tra smarrimento e masochismo – è davvero facile rispecchiarsi. Sullo sfondo lo spettro incombente dei cambiamenti climatici sui quali si apre un unico, piccolo spiraglio di salvezza: la Tasmania, appunto. E se l’ecoansia non avrà ancora avuto la meglio su di voi, passate pure a un bellissimo saggio, La nazione delle piante di Stefano Mancuso. L’ormai noto in tutto il mondo neurobiologo vegetale immagina una Costituzione “scritta” dalla nazione più popolosa della Terra – gli alberi, che sono ben 3mila miliardi! Tra riflessioni globali e confessioni intimistiche, tra nozioni scientifiche e spunti filosofici, cercheremo di capire insieme a Mancuso perché questo pianeta è così commoventemente unico e perché forse vale la pena tornare a conviverci.

 

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GIACOMO

Si dice che il giallo sia l’ideale per passare un po’ di tempo rilassati sotto l’ombrellone, e anche la filosofia sa attrezzarsi in questo senso. Per un po’ di mystery in salsa filosofica Giacomo consiglia Notti a Serampore di Mircea Eliade, un romanzo breve, suggestivo e incisivo che risale ai tempi in cui l’autore viveva e studiava in India. Un giallo avvincente, che attraversa le epoche e sfida l’idea stessa di tempo. Se il genere piace, si può approfittare dei cinema all’aperto per recuperare il bel L’ultima notte di Amore di Andrea Di Stefano, un poliziesco come non se ne vedevano da anni in Italia. Con un bravissimo Pierfrancesco Favino a interpretare il classico poliziotto a pochi giorni dalla pensione, il film si rivela un noir incalzante, tesissimo, profondo nella sua cupissima visione di una Milano mai così aliena e sconosciuta.

 

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LUCA

Leggere racconti sull’estate in estate. Questo è quello che si fa se ci addentriamo ne Le piccole vacanze, il libro che ha iniziato la grandiosa carriera di scrittore di Alberto Arbasino. L’autore ci accompagna con il suo stile visionario in mezzo alle giornate estive fatte di primi amori, desideri, strade e abitudini dei ragazzi degli anni ‘50 in un’Italia che reinventava se stessa, per farci scoprire quanto siano senza tempo le estati di ogni epoca. Per chi cercasse atmosfere e sensazioni simili ai racconti di Arbasino ma trasposte su schermo, non si può non citare l’acclamato Chiamami col tuo nome, film del 2017 di Luca Guadagnino che incastona la turbolenta storia di due giovani ragazzi nell’estate italiana di una provincia silenziosa ma ricca di speranze.

 

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CHIARA

Chiara ha pensato per le vostre vacanze a due proposte di lettura, che sia in riva al mare o in cima a una montagna. Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Mark Haddon, è un romanzo che racconta il problematico rapporto tra il mondo esterno e Christopher, un ragazzo di quindici anni che soffre della sindrome di Asperger. Un’opera di finzione che ci aiuta a sviluppare un particolare tipo di empatia: quella nei confronti di chi si arrabbia se i mobili di casa vengono spostati o se tutte le finestre non sono chiuse, verso chi detesta che ci siano due persone con lo stesso nome nella medesima stanza o che non riesce a mangiare dal piatto in cui zucchine e salmone si sfiorano. Anche un saggio può aiutarci a vedere le cose da un altro punto di vista, e lo sguardo di Shitao, un monaco e pittore cinese di fine ‘600 è alquanto originale. Discorsi sulla pittura del monaco zucca amara si presenta non solo come un’ottima introduzione all’estetica orientale, ma invita il lettore a guardare l’incontro tra uomo e natura, tra arte e vita con occhi nuovi.

 

Non ci resta che augurarvi buona lettura!

 

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Lungo la Via Appia: fenomenologia del viaggio di Paolo Rumiz

È la primavera del 2015, quando Paolo Rumiz, insieme a un manipolo di amici, parte da Roma alla  volta di Brindisi per un’impresa eccezionale, il sogno di un visionario: ripercorrere l’Appia antica, ricalcando le orme dell’iter brundisinum intrapreso, nel 37 a.C., dal poeta Orazio con Virgilio e  Mecenate. La cronistoria del viaggio è l’intenso libro di Rumiz dal titolo Appia (2016), un dettagliato reportage dei luoghi e delle emozioni, ma soprattutto l’appassionato resoconto di una missione: «ritrovare» la  Regina Viarum, facendola «riemergere sotto le suole», ripercorrendola «coi piedi, nobilissimi organi  di senso». (Appia, Feltrinelli, 20161). La decisione dell’andare “errando” è alimentata da una forte esigenza gnoseologica: Rumiz sa che  «per capire bisogna andare a piedi», perché «chi viaggia rasoterra non ha difese, ma vede la verità  dei luoghi».

Così, zaino in spalla e senza auto d’appoggio, assecondando la vocazione nomade insita nella radice del suo cognome, Rumiz dà inizio all’atto eversivo dell’attraversamento a piedi dell’antico tracciato di  basalto, con il fare dell’archeologo che è appagato dal vivido vedere, dal toccare con mano, e con la  determinazione di chi si sente investito di «un mandato degli antenati da assolvere». 

L’intero viaggio è un’avventura magnifica e terribile insieme, che si sviluppa tra i due poli dialettici  dell’incanto e dell’indignazione: ripercorrere l’Appia antica è come immergersi in «un immenso museo all’aperto» di bellezze paesaggistiche e monumentali. Tuttavia l’incanto da subito deve convivere con l’indignazione alla vista di tanta bellezza soffocata e oltraggiata da brutture, scempi e soprusi. Appena fuori la Capitale, le terre di Gomorra e dei fuochi delineano lo scenario di un  desolante «Far West», di «un pugno allo stomaco»: monumenti semidistrutti giacciono abbandonati in  mezzo a campi incolti; cartelloni elettorali contendono lo spazio ad altari votivi, abitazioni private si  fanno posto all’interno di un antico anfiteatro, una secolare iscrizione funeraria sormonta la porta di  un bar, tra antichi ruderi troneggia una stazione di servizio. Si scorgono «pezzi di lastricato romano  disinvoltamente esposti nel prato inglese di un giardino, capitelli incastrati nei muri, reperti  medievali piazzati a segnare il confine tra poderi, ville con sontuosi musei illegali», testimonianze del malcostume, di una cinica indifferenza, di tollerate illegalità e di un indiscriminato abusivismo edilizio. 

Inoltre, i coraggiosi viandanti devono «combattere duramente fin dal primo miglio per conquistarsi  la bellezza», sobbarcandosi di «un po’ di lavoro sporco», perché se in alcuni tratti l’antica via è visibile e facilmente percorribile, in altri per recuperare ciò che il tempo e l’incuria hanno sepolto devono creare «buchi nella rete» di filo spinato, avventurarsi in «guadi selvaggi», sfoltire rovi a «colpi di roncola», ma anche desistere, perché «a volte per restituire l’accessibilità al tracciato dell’Appia non sarebbero state sufficienti le ruspe». La missione diviene il viaggio dell’amara presa di coscienza dello spaventoso vuoto di memoria della nazione nei confronti della madre delle strade europee, e della triste constatazione che «a dilapidare il Paese non sono stati i barbari, ma gli italiani stessi».

La dialettica bellezza-bruttezza ricorre negli incontri casuali con la gente dei luoghi attraversati e vissuti. I viandanti sono sorpresi dall’inattesa generosità di semplici agricoltori, dalla pratica saggezza di pastori filosofi, dalla sincera fede di pie donne e dalla spiazzante ospitalità di ostesse che rallegrano cuore e palato con i sapori della tradizione. Il viaggio riserva anche spiacevoli corpo a corpo con automobilisti maleducati e albergatori malfidenti. E addentrarsi ne «l’osso dello stivale» offre incontri con occhi mesti e volti rigati dalla rassegnazione di uomini che, ripetendo il leitmotiv «le colombe scappano i corvi restano», denunciano il destino, oramai passivamente subito, di un Sud che invecchia, perché privo di prospettive per i giovani.  

Tra i rassegnati c’è chi, però, ha deciso di resistere e reagire: un esercito di resilienti sinceramente  innamorati del suolo natìo, che riaccendono un’inattesa e ottimistica speranza. Sono intellettuali che, a dispetto dei tanti addii, hanno deciso di ritornare al Sud per raccontare in musica e in prosa la bellezza della loro terra, e battagliere archeologhe, «le studiose delle pietre, temute più della peste per l’intralcio che rappresentano al mercato degli appalti», che, titani nel deserto dell’indifferenza, guerreggiano in difesa della «bella donna vestita di stracci».

Qui a Rumiz si palesa il vero senso della sua missione: assumersi il dovere civico di raccontare per  scuotere le coscienze. Non c’è solo il Colosseo, «l’Hollywood d’Italia». La realtà italiana è fatta di tante piccole meraviglie, sparse su tutto il territorio e custodite nello scrigno prezioso dell’Appia antica.
Nell’Italia lacerata dalla forbice dei divari, quel «filo d’Arianna», ripercorso da Rumiz lungo lo stivale, diviene un monito a gettare il seme di qualcosa di duraturo, una prospettiva per il Sud e un nuovo senso di appartenenza e d’unità, un’esortazione a creare un progetto comune: ripristinare l’antica via, facendone una sorta di «Cammino di Santiago» laico e tutto italiano. 

Oggi, a distanza di otto anni da quel viaggio, la Via Appia è stata candidata a entrare nella Lista del  Patrimonio Mondiale Unesco.

 

Marilena Buonadonna

NOTE
1. Tutte le citazioni che seguono sono tratte da quest’opera.

 

[immagine tratta da Unsplash]

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Esercizi di libertà con Jonathan Livingston

Nel nostro quotidiano affannarci cercando di compiere i nostri tanti doveri può capitare che non ci si interroghi affatto sulla libertà né sulla mancanza di essa. Non è affatto semplice, infatti, comprendere se un concetto così bello e, allo stesso tempo, inafferrabile faccia parte della nostra vita e se la libertà che crediamo di avere corrisponda alle nostre più profonde esigenze. In questo senso, forse, sarebbe utile riappropriarci del diritto di comprendere come e dove sentiamo che essa si eserciti affinando la capacità di guardare dentro noi stessi, attività spesso trascurata per mancanza del tempo necessario all’introspezione. Una persona, per esempio, potrebbe sentirsi libera se riesce a dedicarsi ad un’attività che ama senza alcuno scopo preciso oppure se può gestire il proprio tempo in autonomia. Queste e altre innumerevoli forme di libertà, spesso, provengono da una ricerca individuale durante la quale, probabilmente, sorgeranno spontanee alcune domande “preliminari”: io sento di essere libero? Ho un mio spazio libero? O, in una fase successiva, dove si è cacciata la mia libertà che sento di aver perduto?

Esattamente a questo genere di domande si trova a rispondere il famigerato gabbiano Jonathan Livingston nel romanzo di Richard Bach che, riletto oggi, appare davvero illuminante. il gabbiano, infatti, rivendica una libertà particolare: la libertà di chi desidera con tutto se stesso seguire una voce altra che non è quella del gruppo sociale al quale, comunque, appartiene ma è una voce interiore, alla quale sente di non poter resistere:

«A un miglio dalla costa un peschereccio arrancava verso il largo. E fu data voce allo Stormo. E in men che non si dica lo Stormo Buonappetito si adunò, si diedero a giostrare ed accanirsi per beccare qualcosa da mangiare. Cominciava così una nuova dura giornata.
Ma lontano di là solo soletto, lontano dalla costa e dalla barca, un gabbiano si stava allenando per suo conto: era il gabbiano Jonathan Livingston. […] La maggior parte dei gabbiani non si danno la pena di apprendere, del volo, altro che le nozioni elementari: gli basta arrivare dalla costa a dov’è il cibo e poi tornare a casa. […] A quel gabbiano lì, invece, non importava tanto procurarsi il cibo, quanto volare. Più di ogni altra cosa al mondo, a Jonathan Livingston piaceva librarsi nel cielo» (R. Bach, Il gabbiano Jonathan Livingston, 1977).

Potremmo dire, quindi, che la fase più delicata, importante ed emozionante nella ricerca della propria libertà sia proprio accorgersi della mancanza di essa, solo avendone la percezione, infatti, si può agire concretamente per riconquistarla nonostante non sia sempre semplice. Per conquistare l’agognata libertà potrebbe essere necessario operare delle scelte anche drastiche e, spessissimo, si rischia di non venir compresi dagli altri. Jonathan Livingston stesso prova l’esperienza dell’emarginazione dal gruppo sociale perché nessuno dei suoi simili riesce a comprendere la sua inquietudine e le sue idee che, di fatto, se fossero accolte romperebbero un equilibrio, un ordine costituito, una serie di riti già ben collaudati. Per questo motivo, al nostro gabbiano non resta che recidere, almeno temporaneamente, alcuni legami e andar via verso un mondo nuovo dove troverà altri simili a lui coi quali confrontare le proprie idee, perfezionare le tecniche di volo che ama tanto e tramandare la sua idea di libertà, ovvero trarre felicità e soddisfazione personale nel compiere un atto senza un fine concreto«In capo a sei mesi, Jonathan aveva sei allievi, tutti esuli e reietti, ma pieni di passione. E curiosi di quella novità: volare per la gioia di volare!» (ivi).

Ed ecco come, pur nella sua brevità, il romanzo di Bach ci invita a cercare con tutte le nostre forze quella libertà che fa parte di noi, anche quando ci sembra di averla smarrita. Nelle ultime pagine il cerchio va a chiudersi per non finire mai: sarà un altro gabbiano a portare avanti lo slancio ideale di Jonathan Livingston e, forse, ha proprio ragione quando ricorda al suo adepto (e a noi) che: «Per tutte le cose, Fletcher, è questione d’esercizio!» (ivi).
Sarebbe davvero importante, per tutti noi, accogliere questo monito ed esercitarci a ritrovare la nostra peculiare libertà, regalandoci anche il diritto quasi dimenticato di praticarla. Nella nostra quotidianità dovremmo provare a dedicarci all’ascolto interiore, così da far emergere i nostri bisogni anche quando temiamo che quest’attività possa rubare tempo ad altri impegni più “concreti”. Tendere l’orecchio e mettersi nella condizione di riuscire ad ascoltare la propria voce più profonda potrebbe rivelarsi, infatti, il dono più bello e prezioso da fare a noi stessi.

 

Veronica Di Gregorio Zitella

 

[immagine tratta da Unsplash]

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Incomunicabilità: tra Crossroads di Franzen e Gorgia

Crossroads (Einaudi, 2021) è il sesto romanzo dello scrittore statunitense Jonathan Franzen. Come in altri suoi libri (Le correzioni, Libertà), Franzen esplora le complicate, delicate e a tratti surreali dinamiche di una famiglia americana, gli Hildebrandt, all’inizio degli anni Settanta. Il capofamiglia è Russ, pastore della chiesa locale in crisi su vari livelli esistenziali, sposato con Marion, una donna infelice, insoddisfatta del proprio aspetto fisico, intrappolata nei ruoli di moglie devota e madre presente – gli Hildebrandt hanno quattro figli. Crossroads è il gruppo giovanile della parrocchia di Russ, dal quale però lui è stato estromesso perché osteggiato dai giovani membri. Rick Ambrose, giovane seminarista, minaccia di prendere il posto di Russ – lo ha già preso all’interno di Crossroads ed è l’idolo di tutti i ragazzi.
Il matrimonio di Russ e Marion, nel frattempo, naufraga. Lei va segretamente da una psichiatra, e durante una seduta emergono esperienze traumatiche vissute in gioventù che aveva rimosso e di cui non ha mai avuto il coraggio di parlare al coniuge.
Nel corso del romanzo, Franzen travolge il lettore con le storie dell’infanzia e dell’adolescenza di Russ e Marion: due vite agli antipodi. Ma il vero protagonista di questo coinvolgente romanzo è l’ incomunicabilità che connota i rapporti tra Marion e Russ, che vivono come due estranei, chiusi nelle loro routine e fantasticherie: Russ pensa a Frances, una parrocchiana vedova e attraente per la quale prova qualcosa; Marion pensa alla ragazza che era e al suo passato movimentato, così diverso dalla vita monotona e inquadrata che conduce.

Nella storia della filosofia occidentale, i sofisti sono stati i primi a individuare una scissione tra realtà e linguaggio, parlando anche di incomunicabilità. Comunicare ciò che la realtà è attraverso il linguaggio è arduo, a tratti impossibile, perché ogni forma di comunicazione è in fin dei conti un’interpretazione. Eppure, come rilevano i sofisti, il linguaggio ci costituisce, costruisce mondi, è potente, persuade, ammalia. Ma può anche distruggere: i personaggi di Franzen tacciono esperienze fondanti delle loro esistenze, dando così vita a rapporti falsi e inconsistenti, e lo fanno per paura di mostrarsi, perché ciò che veramente sono e desiderano non sembra essere “dicibile” né accettabile.
Marion, come Russ (ex mennonita fuggito, in gioventù, dalla famiglia e dalla comunità), si ritrova, giovanissima, senza alcun appoggio o legame con la sua famiglia d’origine. Finisce per innamorarsi di un uomo sposato per cui sviluppa un’ossessione, che fa emergere in lei gravi problemi psichiatrici. Finisce in una clinica, poi in mano a un uomo depravato e senza scrupoli; infine approda a Russ, buono e generoso, inesperto dell’amore e del sesso, che perde la testa per lei. Ma la Marion “pre-Russ” viene da lei stessa relegata in un posto così lontano e inaccessibile, all’interno della sua mente, che finisce per essere inesistente, persino inconoscibile, e in ultima analisi incomunicabile.

Proprio come sostiene Gorgia nella sua opera Sul non essere. Sono celebri le sue tre tesi nichiliste:

  • Nulla esiste

  • Anche se qualcosa esistesse, non sarebbe conoscibile

  • Anche se qualcosa fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile

Marion tace se stessa a Russ – come se non ci fosse nulla da comunicare. È impossibile raccontare a un uomo buono e devoto il suo passato depravato, il suo vero io. E allora nulla di ciò che lei veramente era e ha fatto prima di conoscerlo, è mai esistito. Ma quel nulla è il nucleo fondante della personalità di Marion, e a un certo punto emerge prepotentemente esprimendosi con folle rabbia, con gesti che le erano familiari, ma che sono sconosciuti e incomprensibili per Russ.
Anche lui tace sulla sua curiosità sessuale: Marion è stata la sua prima e unica donna, ha deciso di sposarla troppo in fretta, e altrettanto in fretta l’ha trasformata in madre amorevole e moglie consigliera, spogliandola di quel fascino e di quel mistero, di quel lato selvaggio che la caratterizzavano. Anche Russ ha rinchiuso la realtà di quella Marion in un cassetto della sua mente, gettando poi via la chiave. Quella Marion non esiste, non la si può esperire, non la si può raccontare a parole. E allora Russ si rifugia in una realtà diversa, rappresentata da Frances.

C’è uno iato, secondo i sofisti, tra physis (natura, realtà) e nomos (legge, tradizione, linguaggio): tra ciò che la realtà è e ciò che diventa grazie ai filtri della tradizione, della legge, delle convenzioni sociali e religiose, delle parole. Come sappiamo, Gorgia non voleva negare l’esistenza di ogni cosa, bensì dimostrarci che arrivare ad un principio ultimo, assoluto e metafisico della realtà, è impossibile: non possiamo conoscerlo, non possiamo dirlo.
Ma, tornando agli Hildebrandt, si evince che qualcosa andrebbe detto, invece: non per mascherare, bensì per tentare di comunicare loro stessi e la loro realtà meglio che possono – e tutti noi dovremmo farlo. Sbaglieremo, perché comunicando interpretiamo sempre, storpiamo. Ma dobbiamo tentare, cercare di imparare la lingua dell’altro, cercare di far sì che anche l’altro impari la nostra: per ritrovarci, conoscerci, entrare veramente in contatto.
Il linguaggio resta, così come la nostra capacità conoscitiva (della realtà in generale e della realtà dell’altro), manchevole. Ma è l’unico mezzo a nostra disposizione per dire una realtà che per ognuno di noi è tangibile, concreta. Dobbiamo costantemente cercare di ridurre o di stare in quello iato tra realtà e linguaggio, oppure tentare di superarlo: tentativi forse impossibili, ma necessari per comunicare.

 

Francesca Plesnizer

 

[Photo via Pixabay]

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Eroi umani, troppo umani: tra forza e fragilità

Avevo 17 anni quando ho letto Un uomo di Oriana Fallaci. La giornalista era riuscita magistralmente a trasmettere anche a me la fascinazione e il trasporto che lei, in quanto compagna di Alèxandros Panagulis, provava per lui. A quell’età, non ancora del tutto disincantata sul mondo e sulla vita, avevo trovato in lui un eroe.

Sventurata è la terra che ha bisogno di eroi”, scriveva Brecht in una delle sue opere teatrali. E perché mai? Cosa c’è di male in un eroe?, potremmo chiederci. Il senso è che l’attesa dell’eroe, del deus ex machina che piomba nel caos e vi mette ordine, spoglia l’individuo della sua azione e della sua creatività. Se l’umanità ha bisogno di eroi, significa che è un’umanità che aspetta senza agire. Ecco perché Alèxandros Panagulis era un eroe così credibile: perché era del tutto eroico e del tutto imperfetto.

Frequentavo il liceo classico e di eroi ne sapevo qualcosa. La letteratura antica infatti ha regalato moltissime figure impegnate in eroiche missioni causate da dèi avversi – penso ad Aiace, Ettore, Eracle; eroi che muoiono ma in qualche modo restano invincibili. E poi c’è l’eroe degli eroi, Odisseo: il distruttore di Troia, l’impeccabile mente. Lui qualche debolezza la mostra: piange al ricordo dei compagni perduti, si strugge di nostalgia per Itaca; questo perché è umano e l’incipit dell’Odissea lo spiega subito chiaramente iniziando proprio con quella parola, “uomo”1. I tempi cambiano in Grecia soprattutto con l’Ellenismo, quando decadono i valori classici e tutto è in balia di una nuova divinità, la tùche, la sorte. In questo periodo si affaccia una nuova lettura dell’eroe Giasone, quella di Apollonio Rodio nelle Argonautiche. Il nuovo Giasone è amèchanos, “privo di risorse”, nella stessa misura in cui Odisseo per Omero è polùtropos, “dall’ingegno multiforme”: non si tira fuori dal pericolo da solo, sono gli dèi e una donna, Medea, a salvarlo in varie situazioni mentre lui, letteralmente, “non sa cosa fare”. Questo Giasone del 245 a.C. sembra proprio “un eroe che ha bisogno di eroi”, un eroe che dubita delle sue capacità; antieroe classico ma proprio per questo eroe ellenistico. Un uomo in preda alla sorte.

C’è poi un’altra rilettura dell’eroe classico meritevole d’esser considerata: l’Ulisse di James Joyce. Il libro omonimo esce nel 1922, dopo una guerra che ha ridisegnato i profili del mondo e gli orizzonti valoriali, nonché nel pieno sviluppo delle teorie psicanalitiche. Lo scopo è proprio quello di creare un parallelo tra l’eroe e un qualsiasi uomo della modernità. Lui, così come la moglie Molly (parallelo di Penelope) e Stephen Dedalus (parallelo di Telemaco), racchiudono alcune fragilità tipiche umane quali la diffidenza, l’infedeltà, la passività; la loro eroicità sta nel resistere alle soffocanti sovrastrutture sociali, alle convenzioni e alle aspettative, pur nelle loro debolezze.

Anche Alèxandros Panagulis, rivoluzionario che fa della liberazione della Grecia dalla dittatura (1967-1974) la sua ragione di vita, sfoggia numerose ombre. Inizialmente il suo personaggio sembra molto chiaro: stoicamente eroico sopporta anni di carcere, torture e umiliazioni. È proprio con la scarcerazione e il ritorno nella società che la facciata comincia a spaccarsi e il sogno a infrangersi: scopre che la sua Grecia non ha più bisogno di eroi e si accontenta della nuova, falsa democrazia in comando e comincia a perdere fiducia nel popolo, cade nell’alcool, nell’infedeltà sistematica, cede alla rabbia. I Greci non lo vedono più come un eroe e lui non si sente un eroe. Finché, “misteriosamente”, la sua auto si schianta contro un muro a pochi giorni da un suo discorso in parlamento in cui avrebbe svelato alcuni documenti segreti. La Grecia si sveglia nuovamente e il suo funerale, il 5 maggio del 1976, è seguito da mezzo milione di persone che invadono Atene al grido “Alekos zi zi zi” (“Alekos vive vive vive”). Scrive Oriana Fallaci: «Ecco perché sorridevi tanto misteriosamente ora che calavi dentro la fossa dove il Gran Sacerdote […] ruzzolava grottesco […] calpestando la statua di marmo, credendo che soltanto quella restasse di un sogno, di un uomo».

Durante il lockdown causato dal Covid-19 ho assistito improvvisamente a un mondo che riversava ogni dove quella parola, eroe, a proposito degli operatori sanitari. In che cosa sono diversi da noi questi eroi? In che cosa vi assomigliamo? Tra le tante domande e risposte provvisorie, continuo a ricordare in quanti in quei giorni hanno detto “Non sono un eroe, faccio semplicemente il mio lavoro”; eppure li ignoriamo, continuiamo a considerarli eroe. Provo una certa desolazione nel constatare quanto ci venga spontaneo credere che l’abnegazione nei confronti degli altri, l’altruismo e il rispetto, possano appartenere soltanto a degli umani speciali, e non a tutti noi, chiunque di noi, noi umani.

 

Giorgia Favero

 

NOTE:
1.“Andra moi ennepe, Mouse, polutropon” racconta Omero, in italiano: “Cantami, o Musa, dell’uomo multiforme”. Andra significa appunto “uomo” ed è la primissima parola di tutta l’Odissea.

[Photo credits Unsplash-com]

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Arte e Psiche: come rappresentare la realtà?

La relazione tra un artista e la sua psiche è imprescindibile per ben comprendere le sue opere d’arte. Possiamo, e dobbiamo, pensare ad artisti, come Vincent Van Gogh, Joan Mirò e Paul Cézanne, che fecero della loro psiche, intesa come l’insieme di funzioni emotive, relazionali e cerebrali, l’anima della loro arte. Possiamo anche pensare alla psicoanalisi, tramite la quale il legame tra arte e psiche viene studiato in modo approfondito sin da Freud e Jung.

Cosa intendiamo precisamente con relazione tra artista e psiche? Patrick McGrath in Follia (1996) parla di questo legame e ce ne fornisce una lettura. Ci racconta di un artista che riflette i turbamenti e le alterazioni del suo carattere nelle sue sculture, in un’ottica diversa da quella che ci immagineremmo. Questo artista è Edgar, protagonista di una relazione molto complessa con Stella, moglie del vice direttore del manicomio, in cui lo stesso Edgar Stark è detenuto per uxoricidio. I turbamenti di Edgar e la sua malattia si riflettono nella relazione d’amore e nella sua arte, data la sua abitudine a scolpire i visi delle donne amate.

«Dopotutto era un artista, e in ogni artista si annida un bambino sperduto e indifeso» (P. McGrath, Follia, 1996).

Così viene descritto Edgar. In effetti, notiamo che il suo isolamento sociale è evidente, proprio come quello di Stella, e può essere ritenuto una delle cause della loro dipendenza affettiva. Un isolamento, il loro, in cui lei si lasciava ritrarre e lui dava sfogo alla sua psiche sotto forma di materia. Lui rappresentava Stella, ne scolpiva la testa ma lasciava trasparire dalle sue opere un animo mosso da sentimenti forti. «Succede abbastanza spesso agli artisti e credo che dipenda dalla natura del loro lavoro. Vivere per lunghi periodi in solitudine e poi esibirsi di fronte a un pubblico, col rischio di esserne respinti, porta a instaurare col partner una relazione di un’intensità abnorme» (ivi). L’arte di Edgar, dunque, scaturisce da un isolamento dal resto del mondo, da una relazione complessa e dai sentimenti che tutto ciò può portare. La sua arte è una valvola di sfogo e lui non può assolutamente rinunciarvi, perché è il suo modo di cercare la realtà. Cosa intendiamo con l’espressione ricercare la realtà? Edgar e Stella discutono proprio di quella che è, secondo lui, la funzione dell’arte.

Edgar, infatti, ritrae la testa di Stella ma ritiene di non riuscire a plasmare quello che si agita nella sua mente, ciò che lo tormenta. Stella gli chiede come mai la sua scultura non abbia i contorni e lo chiede perché l’assenza di contorni le sembra indicare una non conoscenza, come se lui non sapesse chi lei è. L’artista, però, le risponde che proprio ciò che non vuole è vedere Stella, vederla come si vede lei allo specchio o come la vedono gli altri. Vuole semplicemente cercare un’immagine realistica, la realtà. Stella non riesce a capire cosa intenda.
Lui, però, sa bene come definire la realtà: la realtà è ciò che meramente vede, liberata da ciò che sente. Questa è la realtà, e la verità. Non sappiamo quanto di vero ci sia nel dialogo, visto che, dopo aver detto queste cose, Edgar scoppia a ridere, ma possiamo immaginare che l’artista voglia liberarsi da ciò che sente e dai tumultuosi istinti che ha, dalla sua paranoia e dalla sua malattia. Possiamo immaginare che la realtà per lui sia senza contorni, senza linee definite esattamente come lo è la sua psiche. La scultura indefinita, dunque, rappresenterebbe sia la realtà esterna, spoglia di sensazioni, sia quella interna, frammentata e indecifrabile.

Ecco che il cerchio si chiude e noi comprendiamo come l’arte sia riflesso della psiche: in questo caso l’artista non trasmette i contenuti della sua anima, i suoi turbamenti, ma piuttosto il modo in cui percepisce la sua psiche, caotica e sfocata, agitata e anche ambigua. La realtà, dunque, oggetto della sua arte, altro non è che la cornice in cui l’identità dell’oggetto della sua arte e l’entità delle sue emozioni sono sfocate e indecifrabili.

 

Andreea Elena Gabara

 

[immagine tratta da Unsplash]

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Un diverso fato. Il potere della riscrittura

Negli ultimi mesi mi ha incuriosita il successo di una forma di scrittura certamente non nuova ma che sembra conoscere una grande rinascita: la riscrittura. Si tratta del retelling (letteralmente “raccontare di nuovo”) e, più nello specifico, del retelling mitologico e della letteratura classica sia greca che latina. Un fenomeno non solo italiano ma internazionale, al centro del quale ci sono moltissime autrici: Madeline Miller, per esempio, che con La canzone di Achille (2011) e Circe (2019) ha scalato le classifiche anche grazie al passaparola generatosi sui social, che non sembra essersi esaurito in un breve lasso temporale, come talvolta succede nel mondo dell’editoria, ma che continua ad attirare lettori e lettrici di ogni età. Al di là delle possibili operazioni di marketing, che senza dubbio esistono, viene da chiedersi, però, a quale necessità questi libri rispondano.

Come mai nel 2022 tante persone, così differenti tra loro, desiderano immergersi in storie che attingono la loro forza dal mito e nelle quali tornano figure sicuramente affascinanti ma anche in qualche modo “datate” come dèi, eroi, eroine, e temi almeno apparentemente abusati come amori e lotte? A ben vedere sembrerebbe evidente che questo tipo di narrazione non risponda solo a un bisogno di evasione ma anche ad una esigenza più profonda: riappropriarsi liberamente di alcune storie che continuano a parlarci, travalicando le epoche, donando ai loro personaggi una nuova linfa vitale e, ancor di più, una voce inedita. Attraverso la scrittura e la lettura di questi romanzi, infatti, si costruisce un diverso immaginario collettivo nel quale i personaggi, pur restando fedeli ad alcune precise caratteristiche sembrano spiccare il volo, rendersi davvero protagonisti di una vicenda che riesce ad oltrepassare quel destino già segnato che, invece, si rivela modificabile. Inoltre, l’operazione della riscrittura conferisce importanza a personaggi che, per secoli, sono stati secondari strappandoli, da un lato, ad un ruolo marginale e quasi di comparsa e, dall’altro, al loro stesso fato. Quando leggiamo un testo di questo tipo, effettivamente, ci sembra di compiere un’operazione di riconsacrazione verso figure che ci sono molto familiari, che abbiamo amato e per le quali avremmo desiderato un epilogo differente. Inoltre, soprattutto nella riscrittura da parte di autrici, vediamo emergere un’attenzione inedita verso le protagoniste ed il loro peculiare punto di vista.

Il potere della riscrittura in questo senso mi è sembrato particolarmente evidente ne L’Eneide di Didone di Marilù Oliva, edito quest’anno, che pone al centro della sua narrazione appunto Didone, una regina forte e determinata che in Virgilio si toglie la vita tragicamente per Enea, un uomo che, alla fine dei conti, è solo di passaggio a Cartagine:

«Siamo quasi tutti/e rimasti delusi per il modo in cui una regina dal carattere così risoluto abbia posto fine alla sua vita e abbia abbandonato il progetto per cui si era impegnata verso il suo popolo. Certo, Didone nell’Eineide è figura funzionale a una storia, imperniata su un uomo, che ha come scopo principale celebrare il più importante impero dell’antichità, secondo la veduta romanocentrica: Cartagine funge da area di sosta all’interno di un viaggio impegnativo e la sua regina – che dunque è soltanto una pedina di una scacchiera che per utilitas la contempla – potrebbe addirittura diventare un ostacolo per l’eroe, se non venisse in qualche modo eliminata. […] quindi quale migliore escamotage letterario per estromettere una personalità scomoda, se non il suicidio?» (M. Oliva, L’Eneide di Didone, 2022)

Il gesto di Didone nell’Eneide appare, dunque, funzionale alla storia e molto lontano dalla sua forte personalità ed è proprio qui che interviene la riscrittura a restituire a Didone una voceGraz, e a far sì che un altro destino sia possibile donando ai lettori e alle lettrici la possibilità di immaginare un’eroina libera di essere l’artefice del proprio destino.

La parola scritta e l’atto della scrittura appaiono, allora, armi potentissime capaci di modificare il corso degli eventi e di offrire non solo un nuovo finale ma anche un nuovo inizio. Un potere che dovremmo provare ad esercitare anche nel nostro quotidiano per liberare la mente da schemi precostituiti che, a volte, non osiamo superare ritrovandoci intrappolati in una storia in apparenza già conclusa, dimenticando che la penna per riscriverla è proprio lì, sotto ai nostri occhi.

 

Veronica Di Gregorio Zitella

Veronica Di Gregorio Zitella è nata a Popoli (PE) l’08/04/1989. Lettrice vorace, si è laureata in Lettere e Filosofia alla Sapienza di Roma e si occupa di comunicazione digitale.

 

[Photo credit Aaron Burden via Unsplash]

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L’amica geniale tra soggettività e femminismo

A otto anni dalla pubblicazione dell’ultimo romanzo della tetralogia de L’amica geniale, la sua autrice Elena Ferrante resta un totale mistero. Nella lettura dei suoi romanzi ci consoliamo nell’immaginarla coincidere con la sua protagonista e voce narrante, Elena Greco, e scivoliamo nelle vicende e soprattutto nelle soggettività straordinariamente dipinte dei due lead character: Lenù (Elena Greco appunto), e Lila (al secolo Raffaella Cerullo), personaggio narrato e spesso lontano ma sempre vivo nelle pagine dei quattro volumi. Due storie personali che si aprono a mai banali riflessioni universali.

A partire proprio dal rapporto complesso tra le due amiche geniali, nato in un rione degradato e violento di Napoli negli anni Cinquanta. Il racconto nella tetralogia è estremamente introspettivo e non si riduce mai a forme edulcorate o stereotipate nel descrivere atti e pensieri che disegnano il percorso di vita femminile: né nei confronti del sesso, né in temi come matrimonio e maternità, e nemmeno nella complessa relazione tra amiche, una sorellanza e un affetto smisurati ma costellati anche da invidie, gelosie e competizione. Fin da bambina Lenù vive da subalterna di Lila e decide di collocarsi sulla sua scia, riconoscendole a pelle quella geniale libertà e indipendenza rispetto al violento ordine costituito che le circonda e che è loro imposto. Un caos nel quale però Lenù, diversamente da Lila, non sa nuotare, e dal quale infatti si sottrae grazie ai meriti scolastici che la portano lontano dal rione e della violenza, lontano dall’ignoranza e dalla parlata dialettale, lontano da quel rapporto inevitabilmente subalterno della donna all’uomo, ma anche da quella soggettività nuova e complessa incarnata da Lila. Salvo ritrovarsi adulta a Firenze, sposata con un docente universitario di ottima famiglia, due figlie al seguito, un libro pubblicato da un editore milanese, ma anche una vita domestica dedicata esclusivamente alla casa e alle bambine e una vita intellettuale tarpata dalle incombenze e segnata fin dalle origini dal desiderio di compiacimento maschile.

Sono i movimenti femministi del ’68 – ben descritti nel terzo volume de L’amica geniale – a risvegliare in Lenù questa consapevolezza, facendo germogliare in lei l’idea dei «maschi che fabbricano le femmine». Il dito è puntato su un’educazione millenaria tutta maschile che plasma e ingabbia nel suo rigore la soggettività femminile: temi che fanno eco (dichiarato e velato) ad autrici come Irigaray, Cavarero, Lanza, Muraro. Un’accusa violenta e a 360°: «Sputare su Hegel. Sputare sulla cultura degli uomini, sputare su Marx, Lenin e Engels. E sul materialismo storico. E su Freud. E sulla psicoanalisi e l’invidia del pene. E sul matrimonio, sulla famiglia […] e sulla trappola dell’uguaglianza. E su tutte le manifestazioni della cultura patriarcale. E su tutte le sue forme organizzative. Opporsi alla dispersione delle intelligenze femminili. Deculturalizzarsi. Disacculturarsi a partire dalla maternità, non dare figli a nessuno. Sbarazzarsi della dialettica servo-padrone. Strapparsi dal cervello l’inferiorità, restituirsi a sé stesse. Non avere antitesi. Muoversi su un altro piano in nome della propria differenza»1. Lenù sente finalmente di doversi liberare da quei «patti segreti» ai quali era scesa fin da ragazzina per plasmarsi all’ordine maschile del mondo, e di doversi riformare: dover «disimparare» per «capire meglio cos’ero, indagare sulla mia natura di femmina»2. Filosoficamente Ferrante rimanda dunque al pensiero della differenza sviluppato proprio a partire da quegli anni.

Questa rinuncia all’ordine maschile fa tornare Lenù a Lila, che pur non essendosi mai allontanata di un passo dal rione – manifestazione privilegiata di quella cultura da cui fuggire – sembra totalmente svincolata da ogni visione di mondo globale, paternalistica e progressista. Lila è il personaggio imprevedibile per eccellenza proprio perché capace di sfuggire a ogni ordine precostruito e anche noi lettori, come Lenù, l’amiamo e la odiamo per questo. Anche nel 2022, quando ogni rivendicazione di individualità femminile, ogni resistenza a plasmare la quotidianità in chiave patriarcale dovrebbe essere vecchia storia… ma ancora non lo è. Lo chiarisce la stessa Ferrante in un articolo pubblicato sul Guardian: «Ancora oggi, dopo un secolo di femminismo, non possiamo ancora pienamente essere noi stesse. I nostri difetti, crimini, virtù, piaceri, il nostro stesso linguaggio sono ubbidientemente iscritti nelle gerarchie maschili, puniti o apprezzati secondo un codice che non ci appartiene davvero e che quindi ci logora»3.

Questo lo sfondo della tetralogia de L’amica geniale, nella quale accompagniamo la crescita individuale di Lenù e anche noi come lei, attraverso Lila, ci mettiamo in discussione: chi siamo? Chi vogliamo essere? Come vogliamo comportarci? Quale visione di mondo ci è davvero nostra? Ma non solo: abbracciamo anche di noi i nostri lati più oscuri e facciamo pace con noi stesse, con le nostre inclinazioni e i nostri desideri, i nostri pensieri più bui. Pretendiamo una vita nostra.

 

Giorgia Favero

 

NOTE:
1 E. Ferrante, Storia di chi fugge e di chi resta, E/O Edizioni, Roma 2013, p. 254
2 Ivi p. 256
3 Leggi l’articolo: https://www.theguardian.com/lifeandstyle/2018/mar/17/elena-ferrante-even-after-century-of-feminism-cant-be-ourselves

[Immagine di copertina: le protagoniste della serie tv L’amica geniale. Fonte: RaiPlay]

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