Montagne incantante, montagne di rifiuti

<p>spazzatura sparsa con lo sfondo il mare e le montagne</p>

Il film documentario PimaAscesa del regista Leonardo Panizza, presentato nel 2021 alla sessantanovesima edizione del Trento Film Festival e premiato in numerose rassegne cinematografiche, racconta l’eccezionale prima ascesa da parte di due alpinisti trentini, Simon Sartori e Giovanni Moscon, di una delle ultime cime “inviolate” del pianeta: una montagna di rifiuti a cielo aperto, che è sempre stata lì sotto lo sguardo di tutti, ma che nessuno ha mai pensato di raggiungere con piccozze e ramponi, per poi discendere con gli sci, sopra materassi abbandonati, confezioni di prodotti non ancora esauriti e ogni altro genere di immondizia gettata nell’ammasso indifferenziato.

PimaAscesa sembra così un film paradossale, in cui l’uomo scala per la prima volta una montagna, che lui ha creato senza nemmeno rendersene conto. Un uomo che trova quindi un mondo completamente sconosciuto anche se ne è l’artefice. Alla vista della discarica di spazzatura lo spettatore ha infatti difficoltà ad ammettere la provenienza di tutto quel grande accumulo di scarti e prova una sensazione di disgusto. La scalata della montagna di spazzatura maleodorante a cielo aperto appare allora come un atto di provocazione verso la società e invita il pubblico a rivolgere l’attenzione sui problemi legati all’inquinamento e al consumismo contemporaneo. Inoltre, l’ascesa alla cima della discarica, rappresentando un’impresa alternativa a quella più comune di salire su un picco alpino, offre l’opportunità di riflettere sul nostro modo di intendere la montagna, legato spesso a immagini fiabesche di una natura incontaminata.

Infatti, la frequentazione dell’alta montagna è un’attività che molte persone intraprendono durante l’anno per trascorrere il tempo libero, compiendo escursioni in mezzo alle bellezze paesaggistiche. Tuttavia, è interessante sottolineare che la scoperta delle qualità estetiche dello spazio montano è il risultato di una serie di visioni sviluppate a partire dalla fine dell’epoca moderna, alla quale hanno contribuito filosofi, letterati, scienziati e artisti. Lo stesso concetto di sublime, connesso al sentimento di terrore e bellezza provocato dall’altezza, come è stato descritto da Edmund Burke nel 1757 e ripreso in seguito da Immanuel Kant nella Critica del Giudizio (1790), ha influito sulla nascita dell’interesse e della contemplazione delle vette. Inoltre, le opere di scrittori e pensatori, tra cui Le Alpi (1732) di Albrecht von Haller e La nuova Eloisa (1761) di Jean-Jacques Rousseau, hanno tramandato un’idea poetica delle Alpi, spingendo viaggiatori e turisti europei a spostarsi dai centri urbani alle quote più alte, per fruire della purezza e dell’incanto di fitte foreste e di pendii pietrosi (cfr. P. Giacomoni, Il nuovo laboratorio della natura, 2019).

Anche il Romanticismo, ereditando le suggestioni estetiche che caratterizzano il Settecento, ha eletto la montagna a luogo privilegiato per rigenerare un contatto diretto tra uomo e natura, esprimendo un sentimento nostalgico contrapposto all’accelerazione dell’urbanizzazione e dell’industrializzazione delle città. Questa visione romantica contribuisce ancora oggi ad attirare folle di escursionisti, che scelgono le località montane alla ricerca di ambienti naturali e di aria pulita, lontano dal cemento e dall’inquinamento delle zone densamente abitate. In questa spinta verso l’alto si può intravedere una proiezione compensativa di una società che, sempre più incalzata dai problemi legati al degrado ambientale, rievoca il mito di paradisi terrestri inviolati (cfr.L. Bonesio, Oltre il paesaggio, 2002). Sembra quindi sussistere una certa corrispondenza tra la ricerca di paesaggi incantevoli, caratterizzati da cieli tersi e panorami mozzafiato, e la fuga dal degrado urbano, contrassegnato specialmente dall’accumulazione costante di rifiuti.

Se, dunque, nel paesaggio da una parte si innalzano “montagne incantate”, frutto di una particolare concezione estetica sviluppata in epoca moderna, dall’altra si elevano montagne di immondizia, create sempre dall’uomo. Una alimenta l’altra, in una visione del mondo che proietta l’immaginazione e il desiderio degli individui verso le altezze sublimi, ammassando la spazzatura verso il basso. Il rischio, tuttavia, è che in questa prospettiva la frequentazione dell’alta quota si riduca unicamente a una forma di evasione provvisoria dalla vita quotidiana e dai problemi connessi al nostro modo di vivere. Il passaggio dal sentimento di apprezzamento estetico per l’immagine della vetta immacolata a quello di repulsione di fronte al degrado dei mucchi di spazzatura ci ricorda invece che, all’ombra di un’idea di montagna “incontaminata e salubre”, cresce silenziosa e inesorabile la montagna di rifiuti, il suo “doppio” materiale (cfr. J. Scanian, Spazzatura, 2006.) che ogni giorno contribuiamo a generare.

 

Umberto Anesi

 

[Photo Credits Antoine Giret by Unsplash]

 

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L’odissea umana in “Trieste è bella di notte”

The Game: i protagonisti di Trieste è bella di notte chiamano così il viaggio per attraversare la frontiera tra Bosnia e Croazia ed entrare nell’Unione Europea. Un’odissea umana che di giocoso, però, ha davvero ben poco.

Andrea Segre, Matteo Calore e Stefano Collizzoli ce la raccontano dando forma e luce a un fenomeno quotidianamente sotto la lente dell’opinione pubblica ma i cui reali risvolti e implicazioni restano sconosciuti ai più. “Trieste è bella di notte” è una babilonia di vite, sogni e speranze troppo spesso infrante. Un documentario che, in poco più di un’ora, riesce ad aprire una breccia sulle esistenze dei migranti asiatici arrivati in Italia dalla rotta balcanica dopo essere stati rispediti indietro fino in Bosnia, senza venire identificati o avere la possibilità di fare richiesta di asilo. In piena pandemia, nel maggio del 2020, l’allora Ministero dell’Interno Luciana Lamorgese aveva introdotto le “riammissioni informali” per espellere i migranti che arrivavano in Italia. Un provvedimento che aveva colpito, in particolare, proprio la rotta balcanica. A gennaio del 2021 il Tribunale di Roma aveva etichettato le riammissioni come illegali, sospendendole fino al 28 novembre 2022 quando però il Ministro Piantedosi le ha riattivate.

Trieste è bella di notte ha il suo punto di forza nell’essere un documentario crossmediale: non si limita a raccogliere e raccontare in maniera didascalica le testimonianze dei migranti respinti al confine ma ci porta in prima persona, da spettatori, nel loro viaggio ai confini dell’Europa utilizzando le immagini realizzate dagli stessi migranti con i loro telefonini, pubblicate e condivise sui social. Il dibattito all’interno delle Istituzioni italiane è invece messo in scena attraverso gli interventi diretti dei due ministri coinvolti nella vicenda. Intanto, in una casa abbandonata a Bihać, in Bosnia, un gruppo di giovani pakistani e afghani sogna di partire, direzione Trieste, in un flusso di immagini e testimonianze raccontate sul grande schermo per evitare che continuino a ripetersi all’infinito. Un film sul confine instabile e confuso tra sicurezza e diritto, dove sono i migranti stessi a diventare “registi” del loro travaglio esistenziale. La polizia croata e bosniaca viene accusata di violenza e abusi ma tra boschi, fango e cellulari distrutti, pakistani, siriani, iraniani e afghani continuano a tentare “The Game” nella speranza di riuscire a scorgere presto, in lontananza, le luci di Trieste illuminata di notte e avere quantomeno l’illusione di avercela fatta, di essere pronti a iniziare una nuova vita. Il fatto poi che a raccontarlo sia un film, forma d’arte per eccellenza resa possibile dall’uso della luce e nata grazie ai fratelli Lumière, non fa altro che rafforzare, ancora una volta, l’importanza di fare luce su chi migra per il diritto ad avere un domani migliore.

Ne parleremo insieme alla proiezione del film domenica 3 dicembre alle ore 17.30 al Museo di Santa Caterina di Treviso nell’ambito di Raìse – Festival delle Migrazioni. La kermesse organizzata da GRA – Grande Raccordo Ambientale, Associazione Agorà e FilRouge, è una due giorni di esibizioni, talk, proiezioni e musica live al Museo civico Santa Caterina. Vivere l’Arte come forma di inclusione per raccontare e provare in prima persona cosa significa vivere lontani dalla propria terra d’origine, dai propri affetti, dalle proprie RADICI per riscoprirle, ampliarle e metterle in connessione con la comunità! Evento gratuito, prenotazioni a questo link.

 

Alvise Wollner

 

[immagine tratta da un fotogramma del film]

La società del patriarcato in “C’è ancora domani”

Scene in bianco e nero di violenza fisica e psicologica, domestica e non, e la rappresentazione audace, chiara e impattante della società del patriarcato della città di Roma nel 1946, anno appena seguente la fine della Seconda guerra mondiale: questo è ciò che Paola Cortellesi rappresenta nel suo esordio da regista uscito da poco nelle sale, il film C’è ancora domani. Guardiamo il film e potremmo pensare che le vicende della protagonista Delia siano relegate a un passato che non c’è più ma così non è: il film parla anche – e forse soprattutto – della nostra contemporaneità e alla nostra contemporaneità.

Delia, madre di famiglia, si dedica a ciò che, secondo la società in cui vive, spetta alla donna: fare le pulizie, preparare i pasti, accudire il suocero e intanto occuparsi di qualche lavoretto per portare a casa del denaro. C’è solo una cosa che lei non fa ma che la società le richiederebbe in quanto donna: a detta del suo suocero Delia “ha il difetto che risponde”. E questo, sia secondo il suocero che secondo il marito Ivano, comporta che Ivano debba rimproverarla ed educarla ogni volta che lei osa dire qualcosa di “sbagliato” oppure fa qualcosa che a loro non piace, e il modo per farlo è umiliarla e picchiarla. È così che scene di violenza diventano delle danze macabre e allo stesso tempo ironiche e divertenti, con sottofondi musicali che aggiungono un tono leggero e contemporaneamente evidenziano la pesantezza di ogni gesto di Ivano; come fanno sia ridere lo spettatore che rabbrividire i dialoghi efficaci e che fanno capire la poca, o forse inesistente, considerazione della figura femminile.

Delia e le altre donne che vivono nel suo palazzo o nella città si rendono conto, però, di valere più di quanto gli uomini vogliono far loro credere e soprattutto chiedono a noi spettatori di interrogare la società di oggi a proposito del suo retaggio culturale. Purtroppo, esso permane e sopravvive in alcune famiglie, in alcune relazioni e in alcune realtà, come i dati sulla violenza contro le donne e sui femminicidi dimostrano. Il patriarcato spesso regola il nostro agire e/o il nostro subire e di sicuro questo film ha la sensibilità adatta per parlare a tutti e presentare la condizione di inferiorità che noi donne, chi più chi meno, soffriamo e subiamo. Il film in bianco e nero e l’ambientazione del film non devono ingannarci: i femminicidi, la violenza fisica, la cultura dello stupro continuano a essere all’ordine del giorno e qualcosa di cui parliamo indignandoci; ma stiamo agendo abbastanza?

I dati, infatti, sono preoccupanti e dimostrano che, in realtà, stiamo facendo troppo poco. È preoccupante che non si parli abbastanza dei dati e che non ci siano azioni concrete sia da parte di molti noi cittadini che da parte del governo. Il 26% dei giovani tra i 14 e i 19 anni – secondo il sondaggio “Teen Community” condotto dalla Fondazione LIbellula – ritiene che dire al/la proprio/a partner quali vestiti indossare non sia un forma di violenza; il 48% dei giovani tra i 14 e 19 anni ha subito del contatto fisico indesiderato; inoltre, sentiamo ogni giorno di ragazzi che non lasciano uscire liberamente il/la partner la sera perché non si fidano. Tutto questo, e altro ancora, è ciò che rimane e sopravvive della società patriarcale e rispetto al quale non abbiamo fatto abbastanza: che sia scolastica o familiare o della società, manca un’educazione al rispetto per l’altro o per l’altra, alla capacità di vivere in una relazione senza limitare l’altro e la sua libertà.

Dobbiamo chiederci: cosa abbiamo fatto per ogni ragazza o donna di cui abbiamo scoperto la morte per mano del fidanzato o del marito? Cosa stiamo facendo noi come società? Cosa insegniamo agli uomini? Insegniamo il rispetto delle decisioni altrui, del corpo, della mente e delle emozioni degli altri? Quando a un uomo si insegna che il suo volere è più importante di quello di una donna e che quindi se lei rifiuta la relazione con lui ha il diritto di decidere del suo corpo, della sua vita e della sua morte? Perché i ragazzi imparano questo e nessuno interviene? Perché c’è ancora chi si chiede cosa avrebbe potuto e/o dovuto fare Delia al posto di chiedersi cosa avrebbe dovuto fare Ivano? Perché ci indigniamo e chiamiamo mostro Ivano ma non ci chiediamo com’è possibile che siano uomini coloro che decidono di uccidere le donne e lo Stato non agisce in alcun modo? Perché non indaghiamo sull’educazione di Ivano oppure di un ragazzo che maltratta oggi la sua ragazza? Perché non ci chiediamo i suoi modelli, i libri, i film, i discorsi che riempiono la sua quotidianità? Perché lo Stato non esercita il suo potere per modificare questa situazione? Perché nessuno corre in aiuto di Delia nonostante tutti sentano le sue urla quando Ivano la picchia? Perché il sistema patriarcale non viene fatto crollare?

Dobbiamo iniziare ponendoci queste domande perché, come dice Delia nel film, c’è ancora domani e dobbiamo sin da subito muoverci per contrastare la società patriarcale e tutto ciò che essa comporta. Dobbiamo noi in prima persona non farci portavoce delle massime del patriarcato e, anzi, agire contro queste ultime non accettando mai violenze di alcun tipo, siano esse esplicite o no, fisiche o psicologiche. C’è ancora domani ma è oggi il giorno in cui dobbiamo iniziare ad agire. Oggi la donna è ancora Le Deuxième Sexe, per citare Simone de Beauvoir, e già da oggi noi dobbiamo impegnarci perché così non sia: vedere il film di Paola Cortellesi e riflettere sul suo messaggio sono solo due primi piccoli passi per cambiare questa situazione.

Andreea Elena Gabara

[Photocredit: fotogramma tratto dal film]

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“Triangle of sadness”: nauseante e perspicace satira su servi e padroni

Triangle of sadness, film del regista svedese Ruben Östlund, riesce a divertire, nauseare, intristire, arrabbiare, far riflettere. Un’opera che ci tocca problematizzando e facendoci sentire non al sicuro.
Il lungometraggio, vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes 2022, si divide in tre capitoli. Il primo, intitolato “Carl e Yaya”, ha per protagonisti due giovani e bellissimi modelli. A cena in un ristorante di lusso, litigano: Yaya non paga il conto, anche se aveva promesso che l’avrebbe fatto. Carl le fa notare che gli stereotipi sui ruoli di genere gli stanno stretti: perché deve pagare lui? Dovrebbero essere uguali – anche se economicamente non lo sono: Yaya gli ricorda che guadagna più di lui.

La vicenda si sposta poi in un’altra location: “Lo yacht”, capitolo due. A bordo, assieme a Carl e Yaya, ci sono personaggi talmente improbabili e stereotipati da risultare realistici. Dimitrij, magnate russo che “vende merda”, come spiega lui stesso (vende fertilizzanti), che è lì con moglie e giovane amante. Una coppia di anziani inglesi che commerciano bombe a mano: “I nostri prodotti vengono utilizzati per difendere la democrazia nel mondo“. Therese, affascinante donna di mezza età in sedia a rotelle, che ripete “In den Wolken” (in tedesco “Tra le nuvole“), poiché dopo l’ictus che l’ha colpita si esprime solo così.

Anche l’equipaggio della nave è bizzarro, indottrinato dalla fanatica Paula, il primo ufficiale, che ribadisce a tutti che devono essere a completa disposizione degli ospiti, praticamente loro schiavi. E poi c’è il capitano della nave, Thomas, nascosto nella sua cabina, probabilmente ubriaco, fino alla fatidica cena con il capitano – la parte letteralmente nauseante, che consiglio di (non) guardare con “consapevolezza”, per chi è debole di stomaco.
Thomas è un “americano comunista“: così lo apostrofa Dimitrij, che invece si palesa come “russo capitalista“. Durante l’apocalittica cena – interrotta a causa di una tempesta, ma soprattutto degli orrendi rigurgiti degli ospiti in preda al mal di mare – Thomas e Dimitrij solidarizzano. Si ubriacano, giocano a carte, si sfidano a colpi di citazioni: Marx, Lenin, Reagan, Kennedy, massime che parlano di capitalismo, socialismo, schiavitù, libertà. Tutto degenera e i due discutono parlando all’interfono della nave, ascoltati da tutti i passeggeri, e seminano il panico parlando di naufragio.

Poi il naufragio avviene davvero: la nave viene attaccata da alcuni pirati armati e nel terzo e ultimo capitolo, “L’isola”, alcuni dei personaggi citati approdano su sponde deserte.
Le dinamiche sociali si sovvertono: prende il potere Abigail, che sullo yacht era la responsabile delle pulizie, ma ora si proclama capitano. È l’unica in grado di procurare del cibo pescando. “Siete pigri e non dovreste essere così dipendenti da me“, dice. Prende vita, sullo schermo, la figura hegeliana (ribaltata) del servo-padrone: Abigail lavora, manipola la natura, sa catturare, uccidere, cucinare, gli altri no – abituati a vivere serviti e riveriti. Alienati rispetto alla natura, essi possono sopravvivere solo in un mondo dove sono loro e quelli come loro a dominare.

È l’alba di una dittatura marxista del proletariato, retta da Abigail, matriarca che rende schiavi Dimitrij e Carl: il primo è pronto a darle tutto ciò che ha pur di ricevere cibo da lei, il secondo diventa il suo amante. Ecco che, ciò che Carl auspicava all’inizio del film, si realizza in maniera estremizzata: Abigail e gli altri non sono uguali, e la celebre massima marxista che Dimitrij cita, “Ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni“, è usata da Abigail come legittimazione della sua prevaricazione. I bisogni di tutti sono i medesimi, ma non le capacità: se Abigail era sempre stata, nel mondo capitalista, l’invisibile donna delle pulizie, ora è invece una dittatrice incontrastata.

Östlund, in questa satira disturbante e perspicace, pare suggerire che un vero socialismo non sia possibile: gli oppressi diventano all’occasione oppressori, e se possono redimersi… lo fanno? L’interrogativo resta volutamente aperto.
È forse vero che, come ricorda la citazione di Lenin proferita dal capitano Thomas, “la libertà, nella società capitalista, rimane […] la libertà per i proprietari di schiavi“, di chi ha il potere di prevalere su qualcun altro? La stessa domanda può essere posta riguardo al binomio patriarcato/matriarcato. L’ultimo non può sostituire il primo, poiché in tale sostituzione non vi sarebbe libertà, solo scambio di ruoli tra oppresse e oppressori. Constatare ciò non fa che irrigidire il “triangle of sadness” di ognuno di noi – la porzione di viso tra le sopracciglia, dove si concentrano le rughe.

Che cos’è la vera libertà? L’essere umano sarà mai capace di abbracciarla?
Per farlo, dovrebbe prima abbracciare l’altro: accettarlo, accoglierlo, rispettarlo e (pre)occuparsi dell’altro.
Siamo in grado di farlo?

 

Francesca Plesnizer

 

[Photo credits: redcharlie via Unsplash]

 

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Dal film “L’ultimo Samurai”, una breve riflessione sulla guerra

Il protagonista del film L’ultimo samurai (2003) è il capitano americano Nathan Algren (Tom Cruise), che in preda al disgusto verso sé stesso per aver eseguito ordini di guerra terribili, acconsente, con sofferente cinismo, di partire per il Giappone per addestrare l’esercito imperiale. Il Giappone si trova infatti coinvolto in un processo di modernizzazione che, destabilizzando l’antica tradizione culturale, pone su due fronti opposti gli interessi del potere economico e gli ideali dei Samurai. Nathan, costretto a vivere per alcuni mesi nel loro villaggio, rimarrà attratto dalla disciplina del loro stile di vita. Quando il piccolo Higen (Sosuke Ikematsu) chiederà a Nathan il motivo per cui combatterà a fianco dei Samurai, Nathan risponderà: “Perché vengono a distruggere quello che io ho imparato ad amare.

Ma l’amore può davvero giustificare una guerra? O meglio, traducendo questa domanda in termini a noi più vicini, possono degli ideali etici giustificare una guerra?

Se guardiamo al passato (ma anche al nostro presente) possiamo riscontrare che molte guerre sono state e vengono combattute in difesa di profondi ideali etici come la libertà, l’uguaglianza o la giustizia. La guerra viene quindi, in questi casi, considerata e accettata, se non addirittura valorizzata, come il mezzo necessario per raggiungere una condizione sociale e politica “positiva”. Ciò non toglie però che la guerra implichi di per sé sempre disperazione e distruzione e pertanto ogni qualsivoglia giustificazione etica risulta, per forza, paradossale. Affermare, per esempio, di combattere una guerra per la pace equivale a desiderare di far entrare luce in una stanza tenendo contemporaneamente chiuse le sue finestre. Finestre che debbono rimanere chiuse, si sostiene, per la pace ma per un tempo indeterminato che è, nel frattempo, di guerra. Ricordare la distinzione reale che vi è tra la guerra e la pace significa allora evitare di incorrere nell’illusione di combattere una guerra che possa definirsi di per sé giusta. Le guerre sono sempre sbagliate già solo per le terribili condizioni che esse implicano. Vengono combattute perché, a un certo momento, risultano inevitabili ma mai perché siano da considerarsi inequivocabilmente corrette. Se si combatte una guerra perché non si ha scelta ciò non significa che quella guerra sia giusta. Anzi, tutto l’opposto significa che, da più parti, si è già gravemente sbagliato.

Nell’opera cinematografica il giovane imperatore del Giappone (Nakamura Schichinosuke) appare insicuro e indeciso, non riuscendo a farsi portavoce del suo popolo. Attratto dai vantaggi del mondo moderno non rinnega né sostiene le antiche tradizioni culturali del suo paese. La sua incertezza comporterà lo scontro bellico tra l’esercito imperiale e i Samurai, i guerrieri responsabili dell’operato dello stesso Imperatore. Ed è proprio questo particolare che può aiutarci a riflettere su quanto le guerre siano spesso le conseguenze di decisioni mancate o semplicemente sbagliate. Sicché si comprende quanto sia importante che i nostri ideali etici ispirino costantemente i nostri discorsi, le nostre scelte e le nostre azioni al fine di evitare qualsiasi genere di violenza. Ciò a maggior ragione quando non abbiamo le stesse opinioni o quando necessitiamo delle stesse risorse. Nessuno dovrebbe essere costretto né a combattere né a difendersi. Tutti dovrebbero voler comprendere la differenza tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere, trasmettendola l’un per l’altro.

La storia ci dice – fin qui – che, prima o poi, le guerre finiscono. Vengono stipulati i trattati e gli accordi di pace. Ci sono i vincitori, i vinti e le vittime. Molto è distrutto e si ricostruisce. Si susseguono le generazioni e il tempo del conflitto diventa per tutti memoria. Si conserva la convinzione che la guerra abbia condotto alla pace mentre la pace è arrivata quando tutti hanno smesso di combattere. Lo sguardo scosso e commosso del sottoufficiale (Satoshi Nikaido) inquadrato nella scena della battaglia finale arriva, se e solo se, si lascia il cuore a osservare e giudicare. Egli ordina ai suoi soldati di cessare il fuoco. Forse ha capito che non c’è nessuna giustificazione per quello che sta accadendo. Trovare il modo di convivere bene e in pace è l’unico vero nostro obiettivo. In fondo, tutti sappiamo che la guerra non è la pace eppure ci ritroviamo sempre e di nuovo a combattere, dicendoci l’un l’altro, che è ciò che è da fare. Scendiamo in campo per i nostri ideali che diventano degli assoluti e ci impediscono di sentire il dolore che riversiamo nel reale. Basterebbe già solo un istante di immedesimazione per iniziare a vedere quanto stiamo sbagliando, recuperando così la sensibilità della nostra ragione.

 

Anna Castagna

 

[Photo Credits Ryunosuke Kikuno via Unspalsh]

 

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Platone tra mitologia e fantascienza: “Gattaca” e il mito delle stirpi

 

Il film del 1997 Gattaca, del regista Andrew Niccol, con Ethan Hawke e Uma Thurman (probabilmente galeotto fu il film, dato che i due si sono sposati l’anno successivo e hanno avuto una figlia, la Maya Hawke di Stranger Things) ci parla di un futuro distopico in cui la società è immersa in una feroce lotta di classe.
Il protagonista è Vincent Freeman (nomen omen), interpretato da Ethan Hawke. Nel suo mondo le persone si distinguono tra validi e non validi: egli è un non valido, in quanto i suoi genitori hanno scelto di concepirlo in modo naturale, senza intervenire sul suo patrimonio genetico. Vincent ha un’anomalia cardiaca, una propensione alla miopia e, secondo i test effettuati alla nascita, un’aspettativa di vita di trent’anni.
Per il secondo figlio dunque, i suoi genitori decidono di affidarsi alla scienza, che interviene sui geni del neonato affinché sia valido, geneticamente perfetto: non predisposto a malattie, fisicamente forte e resistente. Vincent cresce con un fratello valido, Anthony, con cui instaura una continua competizione. Vincent, pur essendo un non valido, è estremamente intelligente e ambizioso: sogna di diventare astronauta. I suoi genitori però, lo mettono in guardia: per quanto potrà studiare e allenare il suo fisico, a causa della sua anomalia cardiaca non potrà mai partire per lo spazio.
Così, Vincent accetta di lavorare come inserviente a Gattaca, una sorta di Nasa fantascientifica che gestisce i viaggi spaziali. Ma la sua ambizione è viva più che mai, e accetta di diventare un pirata genetico: assume l’identità di un valido, tale Jerome Morrow, interpretato da Jude Law. Jerome era un atleta dal corredo genetico impeccabile, ma ha avuto un incidente che l’ha reso paraplegico. Vende, dunque, la sua identità a Vincent ma anche, giornalmente, il suo sangue, la sua urina, le sue cellule epiteliali. Vincent, a sua volta, si sottopone a estenuanti allenamenti e a operazioni chirurgiche pur di assomigliare il più possibile a Jerome – i due hanno già in comune una vaga somiglianza fisica.
A questo punto, Vincent-Jerome può entrare a Gattaca occupando una posizione di prestigio: supera senza problemi i test attitudinali e, il più importante, quello anti-droga. È questo, infatti, l’espediente (non ortodosso) che le grandi aziende e corporation utilizzano per escludere i non validi da posizioni lavorative di alto livello – poiché con un test antidroga sono in grado di controllare il patrimonio genetico.

C’è un parallelismo tra questa storia e il mito delle stirpi narrato da Platone nel III libro della Repubblica, un racconto di derivazione fenicia che Platone utilizza per far capire come gli esseri umani siano al contempo uguali e diversi, in base ai ruoli sociali. Il mito narra che, un tempo, la madre terra tenne nel suo grembo gli esseri umani per poi farli nascere. Il racconto dice, rivolgendosi alla specie umana:

«voi […] siete tutti fratelli, ma la divinità, mentre vi plasmava, a quelli tra voi che hanno attitudine al governo mescolò […] dell’oro, e perciò altissimo è il loro prego; agli ausiliari [i guerrieri] l’argento; ferro e bronzo agli agricoltori e agli altri artigiani» (Platone, Repubblica, 2023).

Il mito si comprende meglio grazie alla teoria platonica della tripartizione dell’anima: l’animo umano consta di una parte razionale, una irascibile (rappresentata dal coraggio, dall’impeto ad agire per il bene) e una concupiscibile (gli istinti, la parte emozionale e meno virtuosa). Una parte prevale in ciascuna delle tre diverse tipologie di persone, che a loro volta danno vita alle tre classi sociali che Platone immagina per il suo Stato utopico, un archetipo a cui ispirarsi.
Coloro in cui prevale la parte razionale sono i filosofi, aventi un’anima aurea. Poiché conoscono il bene, la giustizia, la vera realtà e il vero essere (che per Platone, lo ricordiamo, si trova in un mondo trascendente, detto delle idee o Iperuranio), essi dovranno governare. Vi sono poi gli irascibili, ossia i guerrieri: forti, valorosi, pronti a difendere lo Stato, ad agire per compiere il bene – sono le anime argentee.
Infine, i lavoratori, coloro in cui istinti ed emozioni hanno la meglio: hanno anima ferrea e bronzea, producono e mandano avanti lo Stato, sono indispensabili come tutti gli altri, ma vanno domati, comandati.

La rigida visione deterministica di Platone sembra avere una forte analogia con il mondo di Gattaca, con i suoi validi e non validi. Platone, in realtà, pensava che il passaggio da una classe sociale all’altra non fosse impossibile. Egli esorta a «non custodire nulla con tanto impegno quanto i figli, osservando attentamente quale tra questi metalli si trova mescolato nelle anime loro» (ivi). Nel suo feroce determinismo c’è uno spiraglio: parafrasando, chi era davvero straordinario e “aureo”, poteva aspirare alla classe sociale più prestigiosa, quella dei filosofi-governanti, anche se era nato da anime d’argento o di ferro e bronzo. Qualcuno come Vincent di Gattaca: nel film, ad un certo punto, egli viene scoperto, perché, per quanto si possa fingere di essere qualcun altro, la nostra natura, anche sotto forma di “reperti” fisici, tende a emergere. Eppure, l’ambizione di Vincent e la sua tenacia, lo porteranno lontano, verso mete che credeva insperate.
Non conta come o da chi siamo nati, né con quali caratteristiche genetiche: poco importa se dentro abbiamo oro, argento, bronzo o ferro. Ciò che conta è quello che vogliamo, che desideriamo: quello è il nostro vero propulsore, ciò che ci definisce e ci conduce verso il posto che è davvero nostro.

 

Francesca Plesnizer

 

[Photo Credits Salvatore Andrea Santacroce via Unsplash]

 

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Una Buildung story a più rami: “And then we danced” – suggestioni

Ci troviamo a bordo di un autobus molto affollato; gli unici suoni sono dei frammenti di parole, lo stridore degli pneumatici, il cigolio del mezzo; un ragazzo si sta cambiando con la divisa da lavoro: due mani estranee lo sostengono gentilmente contro gli scossoni, gli aggiustano il colletto là dove le sue dita inciampano goffamente; Merab si volta un istante e scambia un sorriso muto con la sconosciuta. Con queste inquadrature si apre And then we danced (2019)1, variazione a sfondo lgbt+ di bildung romance: iniziazione al sentimento, esplorazione della propria sessualità, rivendicazione della propria individualità compongono il fil rouge di una densa storia di crescita.

Merab (Levan Gelbakhiani) è un giovane danzatore georgiano che da anni si allena per entrare nel National Georgian Ensemble, quando l’arrivo nel corpo di ballo del talentuoso Irakli non muove le carte in maniera imprevista: tra i due nasce dapprima una sottile rivalità, destinata a evolversi in un sentimento più tenero, sfumato e ambiguo, specialmente da parte di Merab, e a metterne in discussione l’orientamento sessuale.

Fin da quelle prime immagini sull’autobus si svela una sottotraccia alla vicenda di Merab che ci racconta una dimensione dei rapporti umani speciale: una sub story di collaborazione disinteressata e vicinanza al prossimo ben lontana da quella di individualismo diffuso che abitiamo oggi, sempre più allenati a coltivare e a difendere la capacità di bastarsi da sé, in assoluta indipendenza dall’altro.

Ci troviamo in una sala da ballo: una coppia si esibisce in una coreografia georgiana tradizionale; qualche rapido scorcio ci mostra il volto corrucciato dell’insegnante, che a un certo punto ordina bruscamente ai ragazzi di fermarsi; avvicinandosi a Merab l’uomo lo rimprovera aspramente, rinfacciandogli di essere troppo morbido nei movimenti e di allontanarsi dalla durezza granitica prevista per il maschio dai balli della tradizione.

Le inquadrature molto movimentate ci parlano, oltre che della naturale tensione del momento, anche delle emozioni del maestro, in particolare come di una paura: il timore che i ragazzi attraverso il ballo possano comunicare se stessi più di quanto la tradizione ammetta per resistere uguale a se stessa, che la evolvano in qualcos’altro attraverso il proprio contributo spontaneo e personale, segnando un cambiamento imprevedibile nelle radici identitarie georgiane.

Dall’episodio traspare un’altra sottotraccia ancora del film: il conflitto tra la generazione di Merab e le precedenti, insieme al bisogno, legittimo e destinato a trionfare, di manifestare la propria unicità. Merab arriverà infatti a elaborare criticamente l’eredità del maestro e a rivendicare la sua personalità nel ballo, attraverso una coreografia improvvisata da cui trapelano in fluidità il suo stile personale di movimento, il suo sentire, la delicatezza con cui si approccia al mondo.

Se da un lato la danza diventa strumento con cui rivendicare la propria identità, dall’altro la sua relazione clandestina con Irakli è destinata a sciogliersi; e forse è proprio in quest’ultima sequenza che si delinea con più vigore un fil rouge del film: la delicatezza dei sentimenti, l’autenticità degli affetti e il loro potere di illuminare e di dare forza, come testimonia l’ultimo scambio di battute tra Merab e il fratello e come ci mostrano anche le scene finali, quando alla performance di Merab davanti alla commissione del corpo di ballo un’amica si commuove per la gioia di vedere una persona che ama raggiungere un sofferto traguardo: la consapevolezza della propria unicità e il coraggio di esprimerla.

La storia di Merab può parlarci in maniera potente: attraverso il doppio binario della sua crescita, di immersione nel sentimento da una parte e di riscatto della propria distintività dall’altra, sembra richiamarci alla necessità di compiere la fatica di conoscere noi stessi, di stabilire un contatto con quel nocciolo presente in ognuno di noi in grado di definirci come individui unici e irripetibili; e anche di stabilire un compromesso tra questo nocciolo e le nostre radici.

Iniziazione al sentimento, scesa a patti con la tradizione, rivendicazione della propria unicità e della possibilità di esprimerla; e infine umanità delle relazioni, delicatezza degli affetti: un insieme di suggestioni che si colgono lungo tutto il film e che appaiono come disseminati dalla mano del regista con noncuranza – ma con noncuranza significativa – come a dire che la spontaneità e bellezza di un gesto o di un momento tra persone può emergere e vedersi in qualsiasi luogo e momento.Uno stimolo a riconoscere e preservare – in un mondo dalle strutture e dinamiche sempre più instabili e alienanti, tendente vorticosamente alla sterilità delle interazioni umane e alla loro rifunzionalizzazione in chiave utilitaristica – il valore dei rapporti interpersonali.

 

Cecilia Volpi

NOTE
1. Il regista è Levan Akin; il film è uscito in Georgia nel novembre del 2019 e poi al festival di Cannes nel 2020.

 

[Photo Credits Ahmad Odeh via  Unspash]

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Dal film “Vi presento Joe Black”: dalla Morte all’Amore

Il film Vi presento Joe Black del 1998 mette in scena la personificazione della Morte (Brad Pitt) la quale, affidandosi all’integrità umana del facoltoso Bill Parrish (Anthony Hopkins) decide di sperimentare la vita. La breve esperienza umana della Morte, presentata a tutti con il nome improvvisato di Joe Black, sembra voler rappresentare, contro-intuitivamente, l’arco ideale dell’esistenza umana. Quell’intervallo di tempo, che iniziando in una condizione di innocenza, terminerebbe con il compimento del proprio fondamentale scopo di vita. Infatti Joe, all’inizio della sua bizzarra escursione, si atteggia come un bambino che sperimenta il nuovo, gironzolando, per esempio, nella casa di Bill alla ricerca di qualcosa di imprecisato o mostrandosi goloso e distratto durante la riunione aziendale. Inoltre Joe, sebbene a malincuore, deciderà di terminare la sua avventura proprio dopo la realizzazione del suo obiettivo. Solo dopo aver incontrato e vissuto l’amore con passione, infatti, sarà pronto al definitivo addio.

Se vivere cercando di realizzare ciò che sentiamo essere il nostro scopo principale di vita può consentirci di accettare o di dimenticare, positivamente operosi, l’inesorabilità della nostra stessa morte, quale pensiero può accompagnare a vivere il dolore della morte di una persona che amiamo?

Ora, sebbene il film ruoti intorno al tema della morte e sfiori alcune sue diverse declinazioni – accennando alla sua tragicità nella scena dell’incidente del ragazzo di cui la Morte assumerà le sembianze o alla sua drammaticità nella circostanza dell’anziana donna gravemente malata – in realtà il lungo cortometraggio lascia trapelare dallo sfondo la vulnerabilità umana nei confronti del dolore per la perdita di una persona amata. Lo stesso Bill, che rappresenta un’eccellenza dell’agire umano, rimasto vedovo, confida a Joe la quotidianità di una triste e nostalgica mancanza. Inoltre Joe, al momento della sua partenza, non promette alla sua innamorata Susan (Claire Forlani) l’eccezione dell’eternità bensì l’immunità dal dolore della perdita di chi si ama. Ciò sembra quindi suggerirci che l’aspetto più insostenibile della morte non sia propriamente quello di strappare a noi la vita ma quello di strappare a noi gli affetti.

A questo punto possiamo comprendere allora come il tema della morte e il tema dell’amore siano tra loro profondamente legati. Se l’amore dà senso alla vita – «Fare il viaggio e non innamorarsi profondamente, be’, equivale a non vivere» spiega Bill alla figlia minore Susan in una delle primissime scene del film – vuol dire che, di conseguenza, è proprio l’amore a renderci vulnerabili al dolore della morte. In fondo, l’immensa sofferenza che si prova per l’assenza di chi amiamo altro non è che l’intensità di un amore che collassa – innaturalmente – dentro di noi. Quest’ultima considerazione sull’amore ci rivela quindi tutta l’inadeguatezza di una interpretazione conciliante con la morte. La prospettiva che la concepisce come il termine puntuale, sebbene sempre inatteso, del compimento del proprio fondamentale scopo di vita non dà infatti ragione del grande dolore che si prova per la perdita di chi si ama. Se l’amore dà senso alla vita, è anche vero che quello stesso amore ci rende incomprensibile, se non inaccettabile, la stessa morte, rischiando addirittura di far vacillare l’amore come senso della vita. La morte resta quindi un enigma, la cui conclusiva supremazia manifesta a noi stessi l’evidenza della nostra vulnerabilità.

Ecco che, allora, il subire impotenti la perdita di chi amiamo significa attraversare, senza alcuno scudo, la frattura dell’equilibrio affaccendato della nostra ordinarietà. Il nostro dolore, che si dilata come nell’eterno, schiude bruscamente la nostra esigenza di riflessione. E riconoscendoci vulnerabili, in questa sorta di limbo interiore, può forse accompagnarci il pensiero che l’amore che cerchiamo nella nostra vita altro non sia che la naturalezza di un sentimento presente costantemente dentro di noi. L’amore, proprio come la morte, ma in un senso inverso a essa, si trova infatti in noi, sempre, in una condizione di potenzialità. A pensarci, se l’inesorabilità della morte non priva di vigore il nostro impegno a contrastarla nella vita è proprio perché anche l’amore rivendica tutta la sua realizzazione. E il dolore della perdita della persona che amiamo taglia proprio lì: proprio dove l’amore e la morte, dentro di noi, si toccano. Un tocco che resta indecifrabile alla mente ma palpabile al cuore. E in questo dolore dal sapore metamorfico, possiamo forse provare a lasciarci attrarre dall’idea di liberare nell’aria tutto l’amore di cui siamo capaci e vivere il nostro pezzetto di tempo, anche dolcemente distratti, dal sorriso di chi, inconsapevole della nostra profonda ferita, ci passa per un momento accanto.

 

Anna Castagna

 

[Photo credits Luigi Boccardo by Unsplash]

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Tutto, ovunque, nello stesso momento: il multiverso

Il fisico americano Hugh Everett III, nel 1957, azzardò un’interpretazione della meccanica quantistica che lui definiva “a molti mondi” (e che chiamiamo multiverso). Riassunta in modo il più possibile chiaro (e perciò impreciso), Everett pensava che l’unico modo per confermare la contemporaneità di stati diversi previsto dalla fisica quantistica fosse contemplare l’esistenza di più mondi paralleli, uno per ogni possibilità.
Considerata più che altro un esempio di fringe science (a metà con la fantascienza), la teoria ha ottenuto popolarità negli anni, sia in campo scientifico, dove una minoranza di fisici la postula come conseguenza della teoria delle stringhe e della teoria delle bolle, sia soprattutto in campo di cultura pop. Romanzi, fumetti, film, videogame e serie tv si sono buttati sul concetto di mondi paralleli come nuova miniera d’oro di idee e trovate narrative.

Quello che viene spesso trascurato, però, è la risultante filosofica della teoria del multiverso, che può rappresentare il colpo di grazia definitivo a un antropocentrismo agonizzante fin dalla rivoluzione copernicana. Col progresso scientifico, l’uomo al centro del mondo e signore della creazione si è scoperto una specie tra tante, abitante di un pianeta minuscolo e marginale che orbita intorno a una stella che è una su miliardi, galleggiante in un universo sterminato, vuoto, oscuro, minaccioso e indifferente. La fisica quantistica toglie anche l’ultimo supporto metafisico alla vita umana: la sua unicità, e quindi il suo senso. Se esiste un universo in cui si realizza ogni mia possibile scelta, che senso ha la mia decisione qui e ora? Se esistono miliardi di miliardi di “me”, che importanza posso avere io come individuo?

A sorpresa, questo è il punto centrale di Everything Everywhere All at Once, il film dei The Daniels (Daniel Kwan e Daniel Scheinert) che ha sbancato all’ultima edizione degli Oscar. Il nodo centrale è uno scontro generazionale, quello tra l’iperattiva, stressata e infelice Michelle Yeoh (Evelyn) e sua figlia in cerca di attenzione e affetto Stephanie Hsu (Joy).
Quest’ultima, o meglio una sua versione alternativa, ha una visione d’insieme sul multiverso che la porta a un disperato e assoluto nichilismo. Ogni cosa e ogni persona, ripetute quantisticamente all’infinito, non hanno valore, e il risultato è un panorama mortificante, un nulla pieno di tutto, un crudele gioco di insensatezza cosmica. In preda a una simile angoscia esistenziale, comprensibilmente, la ragazza cerca conforto dalla mamma.

A Evelyn è chiesto di trovare una risposta impossibile, un barlume di senso in un multiverso spaventoso, sempre più complesso, sempre più oscuro e terrificante… e in qualche modo la trova, complice la natura di fabbrica dei sogni che è il cinema. Tra esplosioni di puro dadaismo e psichedelie surreali, trovate piacevolmente folli che fanno apparire il film come un trip acido particolarmente strutturato, si scava disperatamente alla ricerca di qualcosa da salvare in un cosmo alla deriva. In orizzonti di senso svaniti che portano inevitabilmente all'(auto)annientamento, di fronte all’abisso del nulla, la risposta si trova, nascosta, umile e sofferta, in una quotidianità di affetti che si concretizza nelle relazioni. Di fronte all’abisso, l’amore eroico e ostinato che insiste a valorizzare contro ogni evidenza l’oggetto del proprio affetto è l’unico argine possibile alla disperazione.

Tra le pieghe di citazioni dei Wachowski, Satoshi Kon e Kubrick, parodie di Ratatouille e scene sentimentali tra sassi, dita di wurstel e improbabili inserzioni anali, Everything Everywhere All at Once dimostra un’inaspettata profondità, una consapevolezza acuta e dolorosa di una generazione che chiede alla precedente una sola cosa: di esserci, di condividere per quanto possibile tempo, esperienze, emozioni… e magari di trovare proprio in questo una singola scintilla di senso persa nella sterminata oscurità di un multiverso che non offre alcun punto di riferimento.

 

Giacomo Mininni

 

[Photo credit Greg Rakozy via Unsplash]

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“Grazie ragazzi”: nell’attesa di Beckett uno slancio di vita

Un lavoro, un/a compagno/a di vita, una vacanza, la laurea o il diploma, un’uscita con gli amici, un aumento in busta paga, un figlio, la concessione del mutuo, l’inizio di una nuova attività, un abbraccio o un bacio, il Natale, un successo sportivo, una risposta, la fine di qualcosa, la guarigione, la morte, la vita. Passiamo la nostra esistenza ad aspettare – o meglio, forse, sono tante le cose che attendiamo giorno per giorno, a volte in modo ossessivo, a volte vano. Nessuno meglio dei prìncipi dell’attesa della cultura occidentale può raccontarcelo: Estragone e Vladimiro, protagonisti (presenti) del capolavoro di Samuel Beckett Aspettando Godot (1952), le cui riflessioni apparentemente (o veramente) senza senso continuano ancora oggi a pungolarci.

Siamo nel teatro dell’assurdo, una scenografia scarna con pochi personaggi sul palco che non fanno altro che aspettare questo signor Godot, sulla cui identità – fuori dalla sceneggiatura – da decenni ormai le teorie si sprecano – Dio? Impersonificazione della fortuna? Della morte? –, liquidate tutte fin da subito da Beckett stesso che diceva che non sapeva neanche lui chi fosse Godot. Ed è forse proprio questo il punto che rende l’opera così universale.

Di recente se n’è appropriato anche il cinema italiano con Grazie ragazzi di Riccardo Milani (2023), uscito nelle sale da poche settimane e trasposizione dell’originale francese che racconta la storia vera di un attore svedese. La storia di un gruppo di detenuti al quale viene proposto un laboratorio di teatro per mettere in scena proprio l’opera di Beckett. Chi del resto meglio dei carcerati – vuole convincerci l’attore-insegnante di teatro Antonio Albanese – può interpretare al meglio l’attesa continua? L’attesa “del pasto, dei colloqui, dell’ora d’aria, del giorno dopo”, ma soprattutto del giorno della libertà, la madre di tutte le attese.

E così quattro uomini tra loro assai diversi vestono i panni dei quattro principali personaggi di Beckett, mettendo in scena quei dialoghi magistralmente assurdi proferiti per ingannare l’attesa – o meglio proprio perché ne sono intrappolati. Su quel palco l’esistenza perde e riassume valoreCi suicidiamo oggi o domani?», e poi «Troviamo sempre qualcosa, vero, Didi, per darci l’impressione di esistere?»), si alternano momenti di calma e di tensione, d’ilarità e di rabbia, ritorna puntualmente il tema della memoria: «Sono infelice», «Ma no! Da quando?», «Me n’ero dimenticato», «Sono scherzi che ci fa la memoria». I personaggi dimenticano cos’hanno fatto ieri, non sanno se ricorderanno domani cos’hanno fatto oggi («non ricordo di aver incontrato nessuno, ieri. Ma domani non ricorderò di aver incontrato nessuno oggi»), addirittura si dimenticano quello che stanno facendo, cioè aspettare Godot («Che facciamo adesso?», «Aspettiamo Godot.», «Già, è vero»). Presi talvolta da un’apatia di vita, ogni giorno è sempre uguale nell’attesa.

Così in carcere. In una commedia che strappa più di una risata, Grazie ragazzi ci ricorda il potere salvifico dell’arte, la sua capacità di fare breccia nelle mura dell’isolamento, di un’arroganza e menefreghismo costruiti, riportandoci lì dove vogliamo stare, nelle relazioni autentiche e nella bellezza della vita; l’arte che prova a darci una seconda chance o che semplicemente allevia le nostre sofferenze, ci apre una prospettiva nuova. Però ci fa rivalutare anche il sapore del sole sul viso e di un orizzonte ampio, la possibilità di aprire qualsiasi porta e di andare dove vogliamo: in altre parole, della libertà. Una libertà a volte davvero molto fragile e che quando negata ci rinchiude in questo vortice d’attesa. Il film non indugia nel raccontarci perché Damiano, Mignolo, Diego e Radu (con l’unica eccezione di Aziz) sono in carcere, affinché il nostro giudizio possa andare oltre l’evidente fatto, seppur non trascurabile, che hanno compiuto un gesto illegale, inducendoci a non trascurare nemmeno l’umanità che resta al di là delle azioni. Un’umanità nella quale possiamo ancora a sentirci fratelli. Scevro da pietismo e buonismo, il monologo finale di Albanese vuole parlarci dritti al cuore proprio per non lasciarci inermi di fronte allo scorrere del tempo e della vita, e per non voltare lo sguardo lontano dalle tragedie dell’esistenza e della società, arroccati nel pregiudizio. Soprattutto in vista della conclusione del film, un po’ amara ma reale, svincolata dagli happy ending da commedia per restare aderente alla storia originale e anche a un senso di giustizia terrena.

Qualcosa di particolarmente importante però ci distingue da Estragone e Vladimiro e dagli inaspettati attori del film di Milani, ed è questo: loro restano e noi ci muoviamo. Il duo di Beckett rimane accanto all’albero, immobile, mentre noi sfogliamo l’ultima pagina e chiudiamo il libro; Diego, Damiano, Aziz, Radu e Mignolo (attenzione, spoiler!) tornano in carcere mentre noi ci alziamo dalla nostra poltrona comoda e usciamo dalla sala. Abbiamo la nostra occasione di raccogliere tutte le riflessioni del caso e andarcene, farne qualcosa, non vanificare attese e speranze. Inseguendo con rinnovata grinta Godot, oppure lasciandolo finalmente andare.

 

Giorgia Favero

 

[photo credit Felix Mooneeram via Unsplash]

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