Il fantasma dell’Opera: cosa c’entra Jung? E a noi cosa importa?

Il sipario scende immerso in uno scroscio di meritati applausi. Per la prima volta sto assistendo dal vivo a una rappresentazione de Il fantasma dell’Opera di Andrew Lloyd Webber dopo averlo visto nella versione del 25esimo anniversario e dopo averne consumato la playlist su Spotify. Nella quiete dell’intervallo, mentre l’adrenalina scende, mi parte involontaria una riflessione: che cos’ha quest’opera, così chiaramente fuori dal nostro tempo, che accende così tanto la fantasia? 

Brevemente la storia. Siamo nel 1890, Christine Daae è una ballerina dell’Opera Populaire ed è convinta che, morendo, l’amato padre le abbia mandato “l’angelo della musica” per insegnarle a cantare. In realtà scopriamo subito che l’angelo della musica è il Fantasma dell’Opera, essere che pare sovrannaturale perché fa capitare terribili incidenti in teatro ma in realtà, dietro la maschera, è un semplice uomo terribilmente sfigurato ma enormemente intelligente che si è nascosto nei sotterranei per sfuggire a una vita di emarginazione e disprezzo. E infatti ha anche un nome: Erik. Erik ama Christine e vuole farla sua attraverso la potenza della musica; quando compare Raoul, visconte di Chigny, che altrettanto s’innamora di Christine (che lo ricambia) diventa una furia e cerca di strappargliela via. In tutto ciò però non si capisce che cosa (o meglio chi) voglia davvero la ragazza.

Christine sembra trovarsi in mezzo tra due archetipi: da un lato il Fantasma/Erik, che incarna la notte, il mistero, i sensi, l’istinto, la musica; dall’altro Raoul che è luce, ragione, sicurezza, chiarezza1. In termini Disney, la bestia e il principe azzurro. La scelta tra i due rappresenta il “viaggio” di maturazione della ragazza2. Ma anche il Fantasma/Erik ha il suo percorso ed è l’amore di Christine a trasformarlo. Per lo psichiatra svizzero Carl Gustav Jung l’amore è un dio, qualcosa di archetipico, cosmologico, una forza psichica che ci trascende. Ed ecco che Erik, proprio come Marte posa il capo in grembo ad Afrodite in quella toccante scena del De rerum natura di Lucrezio3, si lascia invadere dall’amore incondizionato di Christine, tanto da sciogliere quel controllo di potere che ha su di lei e da rinunciare alla sua inclinazione malvagia e iraconda che tende ad annientare il prossimo. Attraverso la maschera del Fantasma, Erik si è preso quel potere furioso di chi ha passato una vita nel disprezzo e nello scherno altrui; un potere che ora cede finalmente all’amore.

Chi del resto vorrebbe semplicemente essere temuto? Chi non vorrebbe essere riconosciuto, accettato e amato? Eppure proprio quando Erik sembra riuscire a ottenere ciò che vuole – cioè Christine –, si accorge di non provarne alcun senso di vittoria. Di quell’uomo perseguitato dall’ “Ombra”, direbbe Jung – ovvero, semplificando, dominato dallo stato più inconscio e negativo di sé, un lato solitamente non riconosciuto –, grazie alla divina natura del femminile rappresentata da Christine, si è ora aperto il vero Sé. Chissà se il Fantasma ha più o meno incoscientemente inseguito Christine per essere risollevato dalle profondità in cui si era cacciato, convinto intimamente della possibilità di redenzione, di arrivare a individuare sé stesso – ovvero, per Jung, il raggiungimento della piena affermazione del Sé, il “farsi sé”.

E che dire della nostra protagonista? In quei due baci al volto orrendo al quale ha strappato la maschera, non c’è forse l’enorme coraggio di una persona che vuole liberarsi di questa figura posticcia del padre, che fino a quel momento le è stato mentore, amico, amante, padrone?4 E che al contempo vuole farsi anche salvatrice di Raoul – in quel momento tenuto in scacco dal Fantasma –, smettere di dipendere da lui per la propria salvezza?
La compassione come strumento di libertà. L’amore come risveglio. Il riconoscimento (prima dall’esterno e poi dall’interno) come fine ultimo. Mettendo in una scatola il lampadario di cristalli, i pesanti costumi di scena, le ambientazioni gotiche dei sotterranei dell’Opera Populaire, è un po’ questo che rimane. 

Certo, uno/a potrebbe anche vederci la storia di una stereotipatissima innocente ragazzina abusata da un uomo potente e disturbato che le fa credere di amarla – mentre in realtà il suo è solo becero desiderio di possesso –, un uomo del quale s’innamora preda della più classica sindrome di Stoccolma, e dal quale si allontana solo dopo che la sua pura bellezza interiore non ha “sciolto” il cuore malvagio della bestia cattiva e assetata di sangue con la quale no, giammai possiamo simpatizzare visto che ha ucciso una serie di persone… 
Ma dove sarebbe allora la poesia?
Certo, rimarrebbe la musica. Quei testi sublimi, capaci di toccare corde nascoste; quegli accordi trionfali, quelle melodie malinconiche. Forse bastano davvero solo questi.

 

Giorgia Favero

 

NOTE:
1 – “Turn your face away from the garish light of day / Turn your thoughts away from cold, unfeeling light / And listen to the music of the night. Let the dream begin, let your darker side give in / To the power of the music that I write”, canta il Fantasma a Christine.
2 – Un momento chiave di passaggio è la canzone solista di Christine “Wishing you were somehow here again” in cui canta: “Too many years / Fighting back tears / Why can’t the past / Just die?
3 – Lucrezio, De rerum natura, I 31-37: “Infatti tu sola [Venere] puoi con la tranquilla pace aiutare / i mortali, poiché i feroci effetti della guerra Marte / signore delle armi gestisce, lui che spesso nel tuo grembo si / getta sconfitto dall’eterna ferita di amore, / e così guardando in alto con il tenero collo ripiegato / soddisfa gli sguardi avidi di amore stando a bocca aperta verso di te, dea, / e dal tuo volto non si stacca il respiro di lui che giace“.
4 – “Pitiful creature of darkness, what kind of life have you known? God give me courage to show you, you are not alone” dice Christine al Fantasma/Erik prima di baciarlo.

[Photo credit unsplash]

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Guardiamo l’arte e la natura con gli stessi occhi?

Oggi c’è un gran discutere su natura e cultura e i presupposti di queste discussioni sono spesso ideologici. Per un lungo periodo gli elementi naturali raffigurati nelle opere d’arte di scuola italiana sono stati rappresentati con scopi allegorici o decorativi, più che come soggetto a sé stante avente un’anima propria. Come componente allegorica tali elementi hanno parlato di altro (morale, teologia, politica), mentre come entità decorativa essi sono stati un soggetto accessorio all’elemento antropico. Da questo possiamo facilmente capire che, fin dal medioevo, nella cultura italiana è esistita una generale subordinazione delle scienze naturali a quelle umanistiche. Alcuni critici affermano che predominante è stata l’idea platonico-cristiana, espressa dall’apostolo Paolo, secondo cui «la realtà fenomenica è immagine o simulacro di realtà sovrasensibili e rappresenta la via per la conoscenza del mondo invisibile» (L. Proscio, Il bestiario della cattedrale di Anagni, 2015). Tutto questo è ben visibile negli affreschi della cripta della cattedrale di Anagni (FR), come pure negli arazzi della dimora dei Borromeo sull’Isola Bella (VB) nei quali le scene di vita selvaggia nella natura non rappresentano altro che una raffigurazione della lotta tra il bene e il male.

Anche il paesaggio nell’arte classica italiana viene nella maggior parte dei casi rappresentato come elemento di sfondo rispetto alla presenza umana, se non addirittura come il frutto dell’azione di tale presenza; in questo senso è storicamente vero che l’uomo ha influenzato il paesaggio italico da lungo tempo, in particolare per quanto concerne la formazione dei paesaggi culturali, legati all’attività agricola e attraverso la gestione di prati, castagneti da frutto, colture promiscue, uliveti, pascoli arborati. Tutti questi elementi sono ben rappresentati nell’affresco dell’Allegoria del buono e cattivo governo in campagna di Ambrogio Lorenzetti (1290-1348) a Siena. Pensiamo anche all’idea formale di “giardino all’italiana”, così predominante nel nostro paese, rispetto al “giardino all’inglese”, di origine romantica: nel giardino all’italiana si trattava di dare ordine all’apparente caos della natura, così come la Chiesa romana e le varie famiglie nobiliari davano ordine al mondo e ai territori da loro governati. 

Nel Rinascimento si arricchiscono i significati simbolici ed allegorici degli elementi naturali raffigurati (in particolare quelli legati al mondo vegetale), sempre nascosti o posti sullo sfondo dei personaggi ritratti. Hieronymus Bosch (1450-1516) seguirà  solo in parte questa linea, dando vita ad un immaginario onirico e anti-classico che abbraccia aspetti mostruosi e animalità rimaste confinate per lungo tempo nei vari bestiarii medievali e nei riti neo-pagani; Bosch era fiammingo, ma avrà un seguito importante di seguaci anche in Italia.

Con il Romanticismo verso la metà del XIX secolo, l’uomo non è più al centro del Mundus così come rappresentato nella Cripta di Anagni, ma viene rappresentato spesso in balìa degli elementi così come appare nei dipinti di Caspar David Friedrich oppure in quelli di William Turner: egli diventa piccolo-piccolo tra paesaggi montani, foreste e tempeste, quasi in anticipo rispetto agli attuali cambiamenti climatici. Anche in Italia qualcosa evolve grazie alla circolazione di idee innovative che, seppur siano definite come estranee alla cultura italiana, probabilmente sono solo minoritarie o pionieristiche. Dapprima i Macchiaioli, dipingendo all’aperto ed in opposizione agli ambienti accademici, scoprono nuovi paesaggi e provano a catturare la luce naturale in scene quotidiane ambientate in vari contesti rurali italiani. Lorenzo Delleani (1840-1908), nei suoi paesaggi fluviali, a un certo punto comincerà a mettere in secondo piano le architetture urbane, mentre gli elementi antropici scompariranno poi dalle sue rappresentazioni e rimarrà solo il fiume o il torrente. Giovanni Segantini (1858-1899) nel suo Trittico delle Alpi rappresenterà la vita, la natura e la morte come perfettamente integrate: l’essere umano è in armonia con la natura, fa completamente parte di essa e… i suoi critici lo etichettano come “politeista”.

Per trovare una risposta alla domanda iniziale, che fa da titolo a quest’articolo, formuliamo una nuova domanda lasciando uno spunto: nel film Le otto montagne (tratto dall’omonimo libro diPaolo Cognetti del 2017) il protagonista montanaro dice all’amico cittadino che non esiste la “natura” e che questo termine è stato creato da chi, abitando in città, la cerca; esistono solo i suoi elementi (boschi, torrenti, rocce, pascoli) nei quali si svolge la vita di chi abita la montagna. In un prossimo contributo proveremo ad affrontare la questione dello sguardo sulla natura con un taglio più strettamente antropologico.

 

Paolo Varese e Chiara Bulla
Paolo Varese è laureato in Scienze Naturali all’Università di Nizza – Sophia Antipolis. Ha condotto studi e vita professionale a cavallo tra Italia e Francia. Vive in una valle del Piemonte alpino; attualmente é un  libero professionista e ricercatore freelance nell’ambito delle scienze applicate alla gestione degli ecosistemi e si interessa alle relazioni tra umani e natura, di arti figurative e di musica.
Chiara Bulla nasce a Crespi d’Adda (BG) in una famiglia di medici innamorati d’arte, la cui casa è aperta, come un cenacolo artistico, a musicisti, poeti e pittori. Laureata in Lingue e letterature straniere con una tesi sull’Avanguardia pittorica e letteraria russa, è attualmente docente di tedesco in una scuola secondaria di Bergamo.

 

[Photo credit Maria Teneva via Unsplash]

 

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Le farfalle. Simbologia di un meraviglioso frammento del creato

Come spiega Herman Hesse in Farfalle (1997), questi animali sono diversi dagli altri: dapprima bruco poi crisalide, la farfalla è l’essenza stessa di una forma vivente, un tripudio di vita sempre più intensa, che non vive per cibarsi e invecchiare ma per amare e danzare, leggiadra, seducente e misteriosa, verso la festa della procreazione. Simbolo dell’effimero e dell’eterno, la farfalla suscita un brivido di stupore fanciullesco. Scrive a proposito Murakami:

«Le farfalle hanno una grazia incantevole, ma sono anche le creature più effimere che esistano. Nate chissà dove, cercano dolcemente solo poche cose limitate, e poi scompaiono silenziosamente da qualche parte» (H. Murakami, 1Q84, 2015). 

La vista di una farfalla è – per l’essere umano innamorato della vita e che intrattiene un rapporto spontaneo e corporale con la Natura al pari degli antichi Greci – un’epifania: inconsistente come una divinità, inafferrabile come un’ombra, evanescente come un sogno, la farfalla esalta e atterrisce i sensi umani inebriati per un battito d’ali, un attimo di incantevole grazia in cui si esperisce l’intensità e la labilità della vita. In una lettera d’amore per Fanny Brawne, il poeta John Keats scrive: «Vorrei quasi che fossimo farfalle e vivessimo appena tre giorni d’estate, tre giorni così con te li colmerei di tali delizie che cinquant’anni comuni non potrebbero mai contenere» (J. Keats in A. D’Avenia, Ogni storia è una storia d’amore, 2017).

La farfalla è un “simbolo” per eccellenza, secondo l’etimologia di tale termine (dal greco “synbàllo” “mettere insieme”): è nell’hic et nunc e contemporaneamente in una dimensione altra, tutta colori, giochi di luce e setosa leggerezza. Microcosmo che racchiude in sé l’arcana perfezione del macrocosmo, così come l’occhio umano, secondo una celebre affermazione di Denis Diderot: «L’occhio e l’ala di farfalla bastano per annientare un ateo» (D. Diderot, Pensées philosphiques, 2017, trad. mia).

Nella Divina Commedia la farfalla ricorre solo in un passo, nel canto X del Purgatorio: il Poeta rivolgendosi ai superbi che vivono nel mondo terreno ricorda loro di essere «vermi / nati a formar l’angelica farfalla» (vv. 124-125). Gli uomini sono cioè come bruchi dai quali si staccherà l’anima che è di natura angelica come una farfalla – e in greco il termine “psyché” ha entrambi i significati di “anima” e “farfalla”.

Simbolo di bellezza e di vita, non è un caso che Farfalla di Dinard (1956) sia il titolo di una raccolta di racconti di Eugenio Montale, che celebra la sua Clizia proprio come un visiting angel di ascendenza stilnovistica che gli appare forse anche in quella farfallina color zafferano che gli faceva visita al caffè della piazzetta ventosa della cittadina bretone di Dinard. Clizia, senhal per l’amata Irma Brandeis, rievoca il mito di Apollo e dell’oceanina Clizia trasformata in girasole, frammento del creato che come la farfalla ha un’origine metamorfica, splendente ed effimero e la cui essenza è connessa con il desiderio di amore e di fusione panica. A tal proposito si pensi anche a una tela di Vincent Van Gogh del 1890: farfalle bianche si librano leggiadre tra papaveri rossi in un’armoniosa danza di sensualità e di purezza, celebrazione della Natura primaverile, del mistero della vita e dell’essenza femminile. La farfalla, simbolo di rinascita, come una fenice, è centrale anche nelle serigrafie dell’artista britannico Damien Hirst sin dalla sua installazione d’esordio nel 1991 In and Out of Love

Esito di una metamorfosi alata del baco da seta, la farfalla ha affascinato i poeti di ogni epoca. Giacomo Lubrano, poeta barocco, ad esempio, in le Scintille poetiche (1690), la paragona per antitesi al poeta: la poesia, operazione fisiologica che avviene all’interno del poeta malinconico, è come quella del verme che trasforma i propri umori in un bozzolo di fili aerei, ma per il poeta l’esito di questo lavorio infinito è un consapevole approssimarsi alla morte, il baco invece risorge alato. In riferimento alla malinconia (in greco: l’atra bile prodotta dalla milza), in uno dei testi-manifesto della Scapigliatura, Dualismo (1864), Arrigo Boito, sulla scia dello Spleen (letteralmente “milza”) e Idéal di Charles Baudelaire, afferma la contraddizione insita nell’essere umano che è al tempo stesso «angelica / farfalla o verme immondo». 

Affascinante anche in ambito scientifico – si pensi alla battuta del film The Butterfly Effect (2004) “Si dice che il minimo battito d’ali di una farfalla sia in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo”- la farfalla è oggetto di studio e di collezione. Concludo citando un estratto da un poemetto di un poeta collezionista di farfalle, Guido Gozzano: 

«tra il grano verdazzurro, […]

ho rivisto l’Antòcari volare
e il cuore mi sobbalza nell’attesa
senza nome che tutte in me resuscita
le primavere dell’adolescenza» (G. Gozzano, Farfalle o Epistole entomologiche, 1914).

 

Rossella Farnese

 

[photocredits Nick Fewings by Unsplash]

 

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Graphic novel come visioni del mondo: al via il Treviso Comic Book Festival 2023

Venerdì 29 settembre si alzerà il sipario sulla 20esima edizione del Treviso Comic Book Festival (TCBF), il Festival Internazionale di Fumetto e Illustrazione che per tre giorni accenderà di colore ed energia il capoluogo veneto. Ad attendere i visitatori ci saranno 13 mostre, X talk con gli autori e X workshop creativi per tutte le età. TCBF è una kermesse che racconta il mondo del fumetto nelle sue sfaccettature contemporanee, tanto a livello estetico quanto concettuale.

In chiave più concettuale possono essere viste alcune delle esposizioni previste in questi giorni. In particolare quella che inaugurerà il 30 settembre a Casa Robegan: Swedish contemporary comics. Questa mostra raccoglie le tavole di tre artisti svedesi Moa Romanova, Bim Eriksson ed Erik Svetoft, fumettisti ma attentissimi osservatori della realtà circostante e crudi illustratori della società in cui vivono. Tre nomi con stili differenti ma accumunati dalla volontà di raccontare con la propria penna gli aspetti più intimi, complessi e, spesso, difficili da accettare dell’essere umano. In scena tre opere recentemente pubblicate in Italia che mettono in luce alcuni risvolti fortemente caratterizzanti della società svedese. Moa Romanova con l’edizione italiana del suo esordio “Goblin Girl” (Add editore), primo fumetto svedese vincitore del prestigioso Eisner Award, parte da sé stessa e dai propri conflitti interiori per affrontare la sua storia personale di ansia e depressione, di dipendenza, di una comunità femminile capace di stringersi e sostenere in un processo di accettazione e di racconto aperto. Bim Eriksson, con la sua prima graphic novel tradotta in italiano, “Baby Blue” (Add editore), si sposta su un mondo distopico, in un futuro immaginario in cui le forze al governo impediscono la tristezza e in cui, anche in questo caso, è salvifica la figura di una comunità coesa e accogliente nella quale rifugiarsi. Una narrazione che ha delle sfaccettature politiche ma che mantiene il focus su una dimensione intima di affermazione e conoscenza di sé. Tra le tre proposte, quella di Erik Svetoft con la sua opera “SPA” (saldaPress), in anteprima proprio al festival e sua prima opera a essere tradotta a livello internazionale, è di certo quella più irriverente. Il suo è un racconto caratterizzato da un umorismo grottesco nel genere horror in cui un luogo pensato per il benessere e la cura personale diventa l’asilo di mostri e creature putrescenti, in una metafora della nostra società e delle nostre aspirazioni e possibilità.

Ma non serve necessariamente andare all’estero per trovare un’analisi sociale profonda e graffiante in formato graphic novel. Sempre domenica 1° ottobre e sempre nella cornice di Casa Robegan inaugurerà la mostra Succede a tutti mamma, che raccoglie alcune opere selezionate di tre artisti della campagna veneta: Eliana Albertini, Iris Biasio e Miguel Vila. Con immagini in grado di mettere in connessione la dimensione esteriore e quella interiore, il visibile e l’invisibile, la produzione di questi artisti pare mirata a renderci consapevoli dell’instabilità dei sentimenti e la complessità dei rapporti (tra) umani. Nell’arco di pochi anni, questi ragazzi dalla personalità ben definita e sensibile ai mutamenti dei luoghi in cui abitano, hanno maturato una cifra stilistica riconoscibile e apprezzata da pubblico e critica, mettendo in scena una folla molto varia di umanità, colta nelle sue manie e nelle sue fragilità. Centro delle loro indagini sono le piccole normalità quotidiane, a volte patetiche, a volte pericolose, altre pittoresche e ambigue.

Questo è forse uno dei più nobili scopi dell’arte, di tutte le arti – quindi fumetto compreso (la nona arte): usare i propri strumenti e la propria grammatica per veicolare un messaggio. A volte si tratta semplicemente di tratteggiare dei contorni crudi e realistici del reale per indurre una riflessione personale. Non sempre, infatti, è necessario dare delle risposte o delle soluzioni: le opere più grandi non ne danno, lasciano che sia il fruitore ad attivare le proprie sinapsi e a riflettere. Questo anche il compito che sembrano essersi dati Moa Romanova, Bim Eriksson, Erik Svetoft, Eliana Albertini, Iris Biasio e Miguel Vila. Le premesse sono quindi ottime, non ci resta che vedere le mostre!

 

Giorgia Favero

 

[Photo credit Treviso Comic Book Festival]

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Under the light. Luci, ombre e riecheggi platonici

Per un mese, a cavallo tra marzo e aprile, si sono riaperte le porte dell’Arsenale Nord di Venezia – versante meno noto rispetto all’area in cui si svolge la Biennale, ma altrettanto suggestivo – in occasione dell’esposizione delle 240 opere finaliste della sedicesima e diciassettesima edizione di Arte Laguna Prize, il concorso internazionale dedicato all’arte contemporanea.
Questa competizione, una delle più influenti al mondo per artisti e designer emergenti, è aperta a molteplici discipline – arti visive, performative, multimediali, paesaggistiche e digitali – ed è stata creata, ormai diciassette anni fa, per dare l’occasione ai talenti dell’arte, più o meno giovani, di farsi notare dal grande pubblico e dalla giuria composta da importanti nomi del panorama artistico contemporaneo.

Incantata dall’affascinante contesto in cui trovano posto opere similmente sorprendenti, da un mezzobusto raffigurante una povera Greta Thumberg con la testa avvolta da un sacchetto di plastica a uno strano marchingegno, in grado di, una volta compilato un veloce questionario, produrre il profumo adatto alla propria personalità, la mia attenzione si è soffermata su una particolare installazione, intitolata Under the light (2022).

La mano è quella di Dongli Ma, nato in una piccola città della Cina Occidentale, i cui lavori spaziano dai quadri a olio fortemente influenzati dalla pittura tradizione orientale, alle sculture, fino appunto alle più recenti installazioni. È lo stesso artista a dichiarare che nella sua concezione dell’arte ciò che conta sono le idee, ognuna delle quali per manifestarsi al meglio deve essere concretizzata attraverso l’uno o l’altro materiale, la cui scelta conta ed è decisiva. Non importa se esso è costoso, vecchio, nuovo, popolare o no, ciò che conta è che esprima nel miglior modo possibile quello che l’artista intende comunicare

Devo dire che uno schermo luminoso e la luce di mille torce hanno la capacità di veicolare nello spettatore un messaggio e di evocare un’emozione. Queste le due componenti principali di Under the light. Lo schermo, nel momento in cui le torce sono spente, mostra alcune popolari parole chiave che hanno contrassegnato le ricerche online in Cina negli ultimi anni. Quando però mille torce si accendono e mille fasci di luce brillano ogni lettera scompare: lo schermo diventa estremamente luminoso ma vuoto. Avvicinandosi all’accecante parete bianca, i raggi di luce prodotti dalle torce vengono bloccati dal nostro corpo, e improvvisamente, nell’ombra che ne deriva si intravedono alcune frasi. Fra i molti sinogrammi cinesi che esprimono il pensiero di alcuni importanti pensatori orientali, si legge anche qualche espressione in lingua inglese, fra cui la celebre massima kantiana “il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”. 

Ora, senz’altro, questo gioco di luci e ombre correlato alla visione di qualcosa di nuovo, inatteso e sorprendente richiama alla mente l’allegoria probabilmente più nota nel panorama della storia della filosofia occidentale: il mito della caverna di Platone. Se, in un primo momento, quello che riusciamo a vedere sono solo pochi vocaboli sconnessi tra loro, soltanto avvicinandoci e andando in profondità scopriamo celarsi una realtà ignota, composta da vecchie – ma ai nostri occhi nuove – parole.

Così Under the light ci ricorda l’importanza di non fermarci alle apparenze, di oltrepassare le ombre, di alzare gli occhi al cielo e di guardare la luce, per poi rientrare dentro la caverna e raccontare a tutti di un mondo inedito.

 

Chiara Frezza

 

[Immagine tratta dalla pagina del sito ufficiale di Arte Laguna dedicata all’opera, consultabile a questo indirizzo: https://artelaguna.world/sculpture/%E4%B8%8D%E8%A7%81%E4%BB%96%E8%80%85/]

 

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A lezione di libertà con il film “Mona Lisa Smile”

Nella pellicola cinematografica Mona Lisa Smile del 2003 si racconta la storia di una docente di Storia dell’Arte che, giungendo dalla California nel Massachusetts, inizia a insegnare presso l’istituto femminile Wellesley College. Qui, fin dalla prima lezione, l’insegnante Katherine Ann Watson (Julia Roberts) si accorge dell’ottima preparazione nozionistica delle sue allieve. Colta un po’ alla sprovvista dalla dinamica della lezione, che si conclude con la decisione delle allieve di proseguire nello studio per proprio conto, escogita una diversa strategia formativa alla seconda lezione. Questo perché l’obiettivo educativo fondamentale della docente sembra essere quello di voler insegnare alle ragazze a ragionare con la propria testa.
Ma questo ambizioso proposito che cosa davvero significa? In fondo, è veramente possibile insegnare a ragionare liberamente? E se sì come? 

Iniziamo con il cercare di rispondere alla prima domanda e al riguardo, notiamo subito che molte conversazioni del film ruotano intorno al tema dell’Arte che possiamo considerare, in un duplice senso, occasione ed eccellenza dell’espressività umana. L’opera artistica, infatti, rappresenta non soltanto la testimonianza della singolarità dell’artista, ma offre anche a chi la osserva la possibilità di rintracciare, rispetto all’opera, il proprio personale sentire. Cosicché la disciplina dell’Arte può rappresentare una perfetta opportunità didattica per una lezione sulla libertà espressiva attraverso l’unicità di chi esegue e di chi osserva l’opera artistica. Non a caso, l’insegnante Katherine sollecita più volte le sue allieve a esprimere una propria opinione intorno a un dipinto e a soffermarsi a riflettere per poter esplicitare a parole il proprio pensiero, il proprio sentire. Ciò sembra quindi suggerirci che il ragionare con la propria testa significhi mostrare di saper riconoscere ed esprimere ad altri l’autenticità del proprio sentimento e della propria sensibilità.

Passiamo ora al secondo quesito che ci invita a riflettere sull’apparente paradosso della pretesa pedagogica di Katherine ben espresso dal docente di Italiano Bill Dunbar (Dominic West). Nella scena del film che sancisce la rottura della loro relazione, Bill, infatti, con aspra franchezza, le dice: Tu non sei venuta qui per aiutare le persone a trovare la propria strada, ma per aiutare le persone a trovare la tua strada!” 

Katherine non è sposata, è economicamente indipendente e nell’America degli anni Cinquanta, che vede nel matrimonio la piena realizzazione della donna, Katherine rappresenta l’opposto del modello femminile tradizionale. L’accusa di Bill allude quindi al rischio di Katherine di imporre alle ragazze il suo stile di vita, confondendo il suo obiettivo educativo alla libertà con l’aspettativa di essere da loro emulata.
In realtà, la vicenda dell’allieva Joan (Julia Stiles), che sceglie di sposarsi e rinunciare agli studi universitari, ci suggerisce che Katherine ha sì indirizzato Joan al modello femminile dell’auto-realizzazione professionale, aiutandola per esempio nella compilazione della domanda universitaria, ma che sembra anche essere riuscita, in qualche modo, a far emergere nella giovane studentessa la fermezza della sua personale decisione.

A questo punto, allora, possiamo considerare il terzo quesito che ci spinge a riflettere su come sia possibile insegnare a ragionare liberamente. In questo caso è la vicenda di una altra alunna a suggerirci una possibile risposta. Betty (Kirsten Dunst), che rappresenta l’aspirazione femminile al matrimonio, tradita dal marito, finirà per chiedere il divorzio, rifiutandosi di fingere una felicità d’apparenza così come le viene invece indicato dalla madre. L’atteggiamento di Betty, quindi, si capovolge nel corso del film: da sostenitrice imperterrita della tradizione culturale a donna che riesce a dare legittimità al suo sentire senza avvertire la necessità di una approvazione che non sia esattamente la sua. In questo cambiamento interiore Betty riconosce l’importanza della testimonianza della sua insegnante Katherine, dedicandole l’ultimo suo articolo al Wellesley College. Katherine, quindi, è riuscita a far maturare in Betty la consapevolezza di sé stessa; e lo ha fatto, non attraverso uno scontro diretto con lei, ma attraverso l’argomentazione in aula della sua profonda delusione per il fraintendimento del suo insegnamento, accusato di sovvertire il ruolo naturale delle donne. 

Tutto questo ci predispone a comprendere il valore pedagogico di una autentica testimonianza di libertà di pensiero e di vita. Testimonianza che ha il duplice scopo di rafforzare in noi ciò che vi è di simile e, parimenti, di sfidare ciò che, al contrario, ne è diverso. Insegnare a ragionare con la propria testa significa, allora, distendere la trama del possibile. Imparare a farlo vuol dire, per questo, avvertire vibrare i propri confini. La libertà è l’elasticità del nostro dettaglio che scopre la singolarità del suo slancio attraverso l’unicità delle piccole e grandi opere del mondo.

 

Anna Castagna

 

[immagine tratta da un fermo immagine del film]

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Il mondo-limite: la sconfinata ricerca della New Media Art

La New Media Art, come tutto ciò che ibrida figure e saperi, vive fin dalla sua nascita in uno stato perenne di confine. Provata ad essere inglobata nel classico mondo dell’arte contemporanea, essa ha subito nel suo percorso tanti fallimenti e critiche. Il suo dinamismo intrinseco, però, le ha permesso di sopravvivere, anzi di evolversi, dagli anni Sessanta fino ad oggi. La miccia che ha fatto esplodere questo nuovo mondo dell’arte si deve al progresso tecnico-scientifico, alla rivoluzione digitale e all’invenzione/introduzione di nuovi media. Questi elementi sono stati usati all’interno dei processi artistici, trasformando il concetto di arte, di figura dell’artista, di valore dell’opera d’arte (mercato ed economia dell’arte) e di cura e conservazione delle opere.

La vitalità che si coltiva nella New Media Art è la ragione del suo esserci e delle sue variegate testimonianze. Non è, quindi, fonte di sorpresa immaginare che la New Media Art, concepita come fruibile e vivibile, non più come fine a sé stessa, sia il prodotto di interazioni e collaborazioni tra scienziati (all’inizio, perlopiù, ingegneri informatici) e artisti.

La riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, come già fatto notare negli anni Trenta del Novecento da Walter Benjamin, ha messo in crisi l’aura dell’opera d’arte, ossia l’attribuzione di valore:

«Mentre l’autentico mantiene la sua piena autorità di fronte alla riproduzione manuale, che di regola viene da esso bollata come un falso, ciò non accade nel caso della riproduzione tecnica» (W. Benjamin, l’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, 1998).

Certo, la questione intorno alla riproducibilità è chiaramente antica – fin dall’invenzione della stampa nel Medioevo – ma si è rinnovata nel tempo a fianco del progresso tecnologico. Con la rivoluzione digitale, infatti, il medium ha assunto un’importanza valoriale sopra ad ogni aspettativa, portando all’introduzione di due concetti fino a quel momento assenti: la connettività e l’economia dell’attenzione.

Come afferma Derrick De Kerckhove:

«Il nostro pensiero è ipertestuale. Attraverso il web, noi proiettiamo all’esterno tale modalità del pensiero. La Rete porta la connettività dentro la collettività e, contemporaneamente, dentro l’individualità» (A. Buffardi, D. De Kerckhove, Il sapere digitale. Pensiero ipertestuale e conoscenza connettiva, 2011).

La pratica del networking (connettività), tipica della New Media Art, è cresciuta dal campo fisico al campo digitale, permettendo agli artisti provenienti dai luoghi più disparati di scambiare idee e creare nuove prospettive artistiche, influenzando il pubblico e influenzandosi tra di loro.

Nel 1969 Herbert Simon introdusse il concetto di economia dell’attenzione, che collegandosi al precedente, lo completa e ci testimonia come la società industriale abbia ceduto il passo alla società dell’informazione, in cui la mole gigantesca di informazioni a cui è sottoposto il pubblico determina un’inevitabile perdita di attenzione, che a sua volta diventa la meta da conquistare per chi produce contenuti e opere.

Se prima, quindi, esisteva una certa distanza tra l’opera d’arte e l’osservatore, i nuovi media producono quello che viene definito da Manovich, riprendendo il pensiero di Paul Virilio, big optics

«[…] l’era post-industriale elimina totalmente la dimensione dello spazio. Quantomeno in linea di principio, tutti i punti della Terra sono ormai accessibili istantaneamente da qualunque altro punto del pianeta» (L. Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, 2002).

Sebbene questo annullamento della lontananza tra osservatore e osservato rappresenti in senso negativo una perdita di focus attentivo da parte del primo, diventa paradossalmente un punto forte su cui poggia la struttura della New Media Art. Il pubblico non si sente più lontano dall’opera d’arte, ne è prossimo; anzi, ancor di più, interagisce con essa, affinché diventi parte integrante dell’opera stessa.

L’instancabile dinamicità e il continuo bisogno di interattività della New Media Art sono gli ingredienti che la rendono una fabbrica di creatività e di svariate forme di arte che vanno dalla computer graphic, all’animazione, dal video alle installazioni, passando per la realtà aumentata e per quella virtuale. Sebbene sia un’arte considerata spesso effimera per la sua esistenza breve e mutevole, essa rappresenta, in conclusione, la sfida contro ogni genere di convenzione e la possibilità sia per gli artisti sia per il pubblico di esplorare tematiche così diverse tra di loro, in modi che probabilmente sarebbero stati impossibili con i mezzi tradizionali.

 

Ilaria Turrisi
Siciliana di annata 1992, appassionata di temi di attualità e dell’interazione multi- e interdisciplinare tra le branche del sapere, ha conseguito con lode la laurea magistrale in filosofia contemporanea presso l’Università degli studi di Messina. Oltre alla lettura, alla scrittura, al cinema e alla musica, si diletta nel lavoro a maglia e nella ideazione e creazione di collage analogici e digitali.

 

[Photo credit Zach Key via Unsplash]

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I monocromi: una riflessione sull’ “assenza di”

Davanti a una tela coperta da strati più o meno omogenei monocromatici può anche sorgere spontaneo dire “e che ci vuole”. È chiaro che il saper fare manuale è molto importante in questo ambito, ma questo scritto si vuole soffermare ancora sull’altra componente, non unica e nemmeno necessariamente dominante, forse quella più interessante: l’idea. Il concetto. Lo scopo. Non a caso, l’arte contemporanea è ricca di monocromi e questo tipo di opera punteggia alcuni momenti importanti del corso del Novecento, coinvolgendo artisti che attraverso di esso hanno espresso una tendenza, una volontà di ricerca di annullamento del quadro stesso.

Uno dei primi ad essercisi avvicinato è Kazimir Malevič, esponente del Suprematismo, il cui scopo era manifestare «la supremazia della sensibilità pura nell’arte»: in altre parole, il quadro di per sé non ha significato. Era il 1915 e i tempi non erano ancora maturi per un vero e proprio monocromo ma è certo che Malevič ne ha segnato il punto di partenza, congiuntamente a puntualizzare un momento di forte cambiamento nel mondo dell’arte. In principio era un quadrato nero su sfondo bianco – anzi, un quadrangolo, perché aveva i lati leggermente sgangherati, e non era nemmeno veramente nero perché risultato da una somma di altri colori. Un quadro che per Malevič stesso era «un primo passo verso la creazione pura in arte», ovvero arrivare allo zero e riuscire a superarlo, resettare l’arte dalla sua oggettività e farla rinascere: un’arte che, da quel punto zero, sboccia in forme geometriche che vivono ed esistono, nient’altro.

                      malevic-quadrato-nero_la-chiave-di-sophia          piero-manzoni-achrome_la-chiave-di-sophia

Dal nero quasi nero si è arrivati al bianco: il quadrato bianco su sfondo bianco di Malevič (del 1918) trova alcuni fratelli non proprio gemelli nel corso del Novecento, come per esempio gli Achromes di Piero Manzoni, e siamo ormai nel 1958. Monocromi senza colore, a-chromes appunto, bianchi. Una superficie di caolino o gesso stesa sulla tela lasciata asciugare e nell’asciugarsi assumere un suo disegno – grinze, pieghe, rigonfiamenti, scanalature: oltre al colore, allora, manca anche il gesto dell’artista, perché l’opera è autosufficiente, autodeterminata, puro significante, nessun senso esterno e nascosto, imposto. Solo la materia lasciata a sé stessa.

Non molti anni dopo Manzoni, dei nuovi monocromi si sono affacciati nel mondo dell’arte italiana: quelli di Mario Schifano. Di nuovo il monocromo diventa punto di partenza: tabula rasa della pittura informale a cui era dedito fino al fatidico 1961, il rosso era il colore privilegiato ma mai steso in modo uniforme, anzi, a tratti con un pennello più secco, oppure al contrario con goccioloni di colore. 

                monocromo-rosso-schifano_la-chiave-di-sophia       lucio-fontana_la-chiave-di-sophia

Vale la pena citare anche un altro illustre amico di Manzoni, Lucio Fontana, anche se la sua ricerca artistica l’ha portato fin da subito oltre il monocromo: monocromi con i tagli. Andare “al di là” del quadro, stavolta in senso letterale (non a caso lui chiama queste opere concetti spaziali). Così come del resto è ancora diverso il caso di Mark Rothko, poiché i suoi non sono veri e propri monocromi e inoltre, tanto per fare un esempio, la valenza del colore nel suo caso acquisisce un’importanza nella relazione tra le tonalità e non nel colore stesso, unico, solitario, autosufficiente. Ma tanti, tanti altri sono gli artisti che potremmo citare.

Finisco però con lui. Così noto per i suoi monocromi da essere diventato famoso come “Yves le Monochrome”. Erano gli stessi anni di Mario Schifano ma Yves Klein non voleva fare tabula rasa, né lasciare tutto lo spazio alla materia. Voleva aprire il mondo dell’assoluto. Dopo il rosso di Schifano e il bianco di Manzoni, il suo colore era il blu, anche se non un blu qualsiasi: se l’è brevettato lui, lo IKB, “l’espressione più perfetta del blu”. Lo scopo era la totale immersione nel colore, di quell’intensità quasi accecante e pervasiva che non era solo materia, come lo erano gli Achromes per Manzoni: i monocromi di Klein sono aspirazione all’infinito, all’immateriale. Il blu è “l’invisibile che diventa visibile” e il quadro una sorta di ponte per una nuova dimensione.

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In queste opere, tutti questi artisti hanno messo in scena, a modo loro, il gioco di pieno e vuoto, concetti sbadatamente considerati opposti dalla tradizione occidentale ma in realtà entità unica nella concezione orientale che per esempio Yves Klein, dall’alto della sua cintura nera e quarto Dan, conosceva bene. I monocromi sono quadri apparentemente semplici, solo apparentemente finiti all’interno del loro quadrato e del loro codice cromatico, ma spesso, come ben ci ricorda Antoine de Saint Exupéry, l’essenziale è invisibile agli occhi. Con gli occhi con cui dunque si guarda la tela, con intensità, con una mente attenta, bisogna anche andare oltre la mera e nuda superficie (letteralmente) e indagare cosa ci sfugge, perché a volte – e questo succede spesso nella vita – la noncuranza, la velocità e la superficialità ci fanno smettere di chiedere quei perché che ci portano in profondità nelle cose, nelle relazioni, nelle emozioni. Niente infatti è mai così semplice, nemmeno una tela quadrata blu. E quindi quando ci troviamo davanti a un vuoto, a una mancanza – di suono, di colore, di attività, di persone –, proviamo a chiederci se è veramente un male, se davvero è qualcosa che va riempito o forse va goduto per sé stesso, per quello che è, così com’è.

 

Giorgia Favero

 

[Immagine di copertina: dettaglio di uno dei monochrome di Yves Klein, 1959]

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L’Urlo di Munch e il grido degli “scartati”

L’Urlo di Munch compie 130 anni. Salvato, negli anni scorsi, dall’umidità che ne ha messo a rischio l’intenso cromatismo, l’opera continua a attrarre e a sorprendere, non solo per l’immenso valore e per ciò che rappresenta nella storia dell’arte. Munch dipinse L’Urlo per la prima volta, in una composizione da ritenersi del tutto embrionale, nel 1893. Un pastello su cartone. La versione definitiva, quella più celebre, fu realizzata nello stesso anno, sempre su cartone, con tecnica mista olio, tempera e pastello. Nel 1895 l’artista realizzò una terza versione, e nel 1910, una quarta.

L’opera, per l’impatto espressivo, per l’utilizzo magistrale dei colori, i segreti che custodisce, la narrazione esistenziale che riverbera, le sensazioni che provoca negli osservatori… è considerata dai più l’allegoria dell’uomo moderno, espressione della solitudine, di un contesto che non avverte più l’esigenza della mediazione, ma che vive il contrasto fra il sogno e la realtà, che vive la perdita dell’armonia con il cosmo, allo stesso modo in cui vive la perdita del rapporto con gli altri.
Nell’intenso linguaggio dell’immagine, l’artista vive e comunica un dolore universale. Il volto è divorato dall’angoscia e dallo smarrimento. Il tempo interiore trasfigura la realtà, le relazioni, la storia. 

Lo stesso movimento è reso da Franz Rosenzweig nel testo Il grido (1918). Nel colloquio fra anima e corpo il contrasto si concilia nel grido, «il grido che invoca eternità e unicità» (F. Rosenzweig, Il grido, 2003) e che rappresenta «il dramma che ha luogo in grande nella realtà fra uomo e mondo nel triangolo della creazione» (ivi).

Il grido è anche sotteso in tutta l’opera di Kierkegaard. Il filosofo esprime il disagio profondo di un’epoca che cercando la libertà si trova ad essere ingabbiata nei rigidi schemi di filosofie sistemiche e di progetti politici ed economici.
Anche in Dostoevskij si avverte il grido disperato dell’uomo che cammina su un sentiero di cresta tra due abissi: «la lucidità autodistruttiva dell’egotismo in un mondo senza amore o la mistificazione della santità in un mondo senza speranza» (P. Prini, Storia dell’esistenzialismo, da Kierkegaard a oggi, 1991).
In un certo senso, il grido è anche il mezzo figurativo del senso tragico della vita utilizzato da Nietzsche o da Sartre.

Nel pensiero moderno, con toni molto accentuati rispetto al passato, la realtà sembra sia avvertita in una sorta di radicale inconciliabilità con il sentimento di umanità.

Nel 2021, nel corso di alcune ricerche condotte in occasione del trasferimento dell’Urlo nel nuovo Museo nazionale norvegese, il dipinto rivelò ai ricercatori un nuovo segreto. Nell’angolo in alto a sinistra dell’opera del 1893, una iscrizione a matita, attribuita allo stesso artista, commenta: Can only have been painted by a madman (“Può essere stato dipinto solo da un pazzo”)Un “pazzo” che dopo 130 anni richiama ancora al senso di responsabilità. Mi riferisco alla responsabilità delle immagini nella società dell’immagine, ma anche alla responsabilità di tutti quei «gesti mancati» (E. Borgna, Le parole che ci salvano, 2017). Penso a quei passanti ritratti nel quadro che rimangono indifferenti alla scena. I “gesti mancati” sono quelle azioni che se avessimo compiuto avrebbero potuto dire la nostra capacità di partecipare alle gioie e ai dolori degli altri. Penso a una stretta di mano, un sorriso, un abbraccio.

L’Urlo svela così un nuovo registro ermeneutico. In esso Munch raffigura anche il grido di uomini feriti e oppressi; il grido dei più fragili, degli emarginatiLa responsabilità, le relazioni mancate e le scissioni, la sofferenza degli ultimi: ci sono anche questi temi nell’Urlo di Munch.

È forse venuto il momento di ritornare a sostare davanti a quest’opera, monumento e documento di un’epoca, abbandonando il punto di vista dell’uomo adulto, ostaggio delle contraddizioni e delle interruzioni della modernità, per ascoltare, invece, con attenzione e compassione, il punto di vista dei poveri e degli oppressi, dei folli e dei reietti, che continuano a gridare “fino a quando”. 

L’Urlo di Munch ci invita a posare lo sguardo sulle guerre, le malattie, gli abbandoni, sulle violenze e lo sfruttamento dei deboli, sulla dignità umana calpestata, per conoscere la storia e la memoria degli oppressi, degli umiliati, degli sconfitti, dei moribondi, troppo a lungo cancellata o repressa dalle narrazioni dei vincitori. Il soggetto di quest’altra storia sono tutti gli “scartati”. E per raccontare questa storia-altra, si inizia con il silenzio e il rispetto, come sulle spiagge di Cutro, oppure davanti al velo che copre il corpo di un bimbo martoriato in ogni parte del mondo.

 

Massimo Cappellano

 

[immagine tratta da Unsplash]

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Un’arte per Cutro

A giorni di distanza da quel 26 febbraio non si è ancora spenta la polemica attorno al naufragio di Cutro. Mentre scrivo viene recuperato il corpo della 76esima vittima (un’altra bambina) e ci si accapiglia sul karaoke (comprensibile o inopportuno) della premier con il ministro delle infrastrutture. Passerà ancora del tempo e la contingenza della nostra vita moderna sempre in affrettata metamorfosi metterà questa tragedia nel già ricco cassetto della memoria delle tragedie.

Ma se la cronaca scompare sotto tonnellate di notizie giornaliere, forse tocca di nuovo all’arte il compito di rendere immortale un fatto e il suo pesante bagaglio emotivo. Un’arte che fugga quella che Arendt definiva la «vuota ragione della bellezza» e che secondo le parole di un altro filosofo, Adorno, pronunciate già negli anni Sessanta, «si addentra nell’ignoto, assumendo quel che è orrido e negativo del presente, per trasfigurarlo. Fino a farsi sfida al disincanto, perenne tensione, rinuncia alla serenità, dissonanza proclamata con serietà e inquietudine»1.

Questo il compito dell’arte politica, ovvero dell’arte come «riflesso e tribunale del presente»2, e degli artivisti, che «si fanno interpreti soprattutto del volto più perturbante della cronaca»3, intendendo il perturbante nel senso freudiano di ciò che genera spavento, angoscia e terrore. Come quelle immagini regalateci dalla cronaca di quelle decine di corpi strappati con fatica e sudore dalle onde infrante sulla sabbia di Cutro. Il tema delle migrazioni è appunto uno dei soggetti più indagati dall’arte politica, uscendo però da una chiave d’interpretazione soggettiva per privilegiare una restituzione oggettivo-antropologica in cui lo scopo è quello di responsabilizzare lo sguardo, ovvero dire allo spettatore: se stai guardando, sentiti chiamato in causa in prima persona.

Si tratta di un’arte a 360 gradi che coinvolge istallazioni, cinema, poesia, pittura, suoni, ecc. e proviene anche da artisti molto noti del panorama artistico internazionale. Ci sono opere minute, piccole ferite inferte nelle tenebre come l’intervento di Banksy su una parete di Rio Ca’ Foscari a Venezia: un bambino naufrago avvolto da un giubbotto salvagente con in mano un fumogeno fluorescente (2019). Oppure monumentali come i (discussi) 22 gommoni di salvataggio incastonati nelle bifore di Palazzo Strozzi a Firenze da Ai Weiwei, che provocatoriamente, sempre nel 2016, ricrea con il proprio corpo la famosa foto del piccolo Aylan Kurdi sulla spiaggia di Lesbo. Oppure sono opere da vivere, come la performance VB65 messa in scena da Vanessa Beecroft nel 2009 al PAC di Milano dove a una lunga tavola trasparente non apparecchiata sedevano dodici migranti africani in smoking mentre consumavano con le mani pollo e pane strappati a mani nude.

Quella Cutro è l’ennesima tragedia umana da riporre nel cassetto dei ricordi dolorosi, già particolarmente pieno alla voce “Mediterraneo”, territorio di speranze infrante e promesse non mantenute, sepolcro di quelle che a tutti gli effetti sono «vite di scarto generate dalla globalizzazione»4. Come scriveva Mazzucco, «il mare non dimentica, restituisce e trasforma ciò che non gli appartiene. Quei corpi […] diventeranno ciabatte, monconi e stracci che le onde rumineranno mesi e anni, per poi deporle su qualche spiaggia, come immonde uova di un’umanità infeconda. La nostra»5. Questi “corpi trasformati dal mare” sono per esempio conservati al Museo Porto M di Lampedusa, dove dal 2008 Giacomo Sferlazzo e il collettivo Askavusa raccolgono la memoria collettiva della migrazione sull’isola, fatta di oggetti banali recuperati dai barconi e che racchiudono innumerevoli storie. Ci sono invece gli abiti al centro dell’istallazione di Kader Attia La mer mort del 2015: jeans, magliette, maglioni e vestiti sparsi a terra alla rinfusa con sfondo un’immagine delle onde del mare. Nel 2019 l’artista svizzero Christoph Büchel espone alla Biennale di Venezia Barca nostra, il relitto di un naufragio avvenuto al largo della Libia nel 2015 costato la vita a quasi mille persone: una gigantesca spina nel cuore di una delle principali manifestazioni artistiche mondiali. Gigantesca è anche Porta di Lampedusa – Porta d’Europa di Mimmo Paladino, una scultura che è anche monumento, in ceramica refrattaria e ferro zincato; si staglia per circa 5 metri in altezza e 3 in lunghezza, posizionato nel 2008 sull’ultimo promontorio dell’isola per ricordare chi si è salvato e chi invece è morto.

L’arte da sola non risolverà certo la crisi migratoria, né tantomeno darà un perché a quanto accaduto a Cutro, ma ha il dovere di pungolarci costantemente, anche dove non ce lo aspettiamo, per imporci di non cedere all’oblio: se è vero il motto “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”, è il caso di tenere certi fallimenti del genere umano sempre bene in vista.

 

Giorgia Favero

 

1. T.W. Adorno, È serena l’arte?, Einaudi, Torino 1979, pp. 273-280
2, 3, 4. V. Trione, Artivismo. Arte, politica, impegno, Einaudi, Torino 2022, p. 13, p. 28, p. 50
5. M. Mazzucco, Il mare della pietà perduta, in “La Repubblica”, 15 giugno 2018

[Photo credit Zeno Striga, l’opera di Banksy a Venezia]

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