Under the light. Luci, ombre e riecheggi platonici

Per un mese, a cavallo tra marzo e aprile, si sono riaperte le porte dell’Arsenale Nord di Venezia – versante meno noto rispetto all’area in cui si svolge la Biennale, ma altrettanto suggestivo – in occasione dell’esposizione delle 240 opere finaliste della sedicesima e diciassettesima edizione di Arte Laguna Prize, il concorso internazionale dedicato all’arte contemporanea.
Questa competizione, una delle più influenti al mondo per artisti e designer emergenti, è aperta a molteplici discipline – arti visive, performative, multimediali, paesaggistiche e digitali – ed è stata creata, ormai diciassette anni fa, per dare l’occasione ai talenti dell’arte, più o meno giovani, di farsi notare dal grande pubblico e dalla giuria composta da importanti nomi del panorama artistico contemporaneo.

Incantata dall’affascinante contesto in cui trovano posto opere similmente sorprendenti, da un mezzobusto raffigurante una povera Greta Thumberg con la testa avvolta da un sacchetto di plastica a uno strano marchingegno, in grado di, una volta compilato un veloce questionario, produrre il profumo adatto alla propria personalità, la mia attenzione si è soffermata su una particolare installazione, intitolata Under the light (2022).

La mano è quella di Dongli Ma, nato in una piccola città della Cina Occidentale, i cui lavori spaziano dai quadri a olio fortemente influenzati dalla pittura tradizione orientale, alle sculture, fino appunto alle più recenti installazioni. È lo stesso artista a dichiarare che nella sua concezione dell’arte ciò che conta sono le idee, ognuna delle quali per manifestarsi al meglio deve essere concretizzata attraverso l’uno o l’altro materiale, la cui scelta conta ed è decisiva. Non importa se esso è costoso, vecchio, nuovo, popolare o no, ciò che conta è che esprima nel miglior modo possibile quello che l’artista intende comunicare

Devo dire che uno schermo luminoso e la luce di mille torce hanno la capacità di veicolare nello spettatore un messaggio e di evocare un’emozione. Queste le due componenti principali di Under the light. Lo schermo, nel momento in cui le torce sono spente, mostra alcune popolari parole chiave che hanno contrassegnato le ricerche online in Cina negli ultimi anni. Quando però mille torce si accendono e mille fasci di luce brillano ogni lettera scompare: lo schermo diventa estremamente luminoso ma vuoto. Avvicinandosi all’accecante parete bianca, i raggi di luce prodotti dalle torce vengono bloccati dal nostro corpo, e improvvisamente, nell’ombra che ne deriva si intravedono alcune frasi. Fra i molti sinogrammi cinesi che esprimono il pensiero di alcuni importanti pensatori orientali, si legge anche qualche espressione in lingua inglese, fra cui la celebre massima kantiana “il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”. 

Ora, senz’altro, questo gioco di luci e ombre correlato alla visione di qualcosa di nuovo, inatteso e sorprendente richiama alla mente l’allegoria probabilmente più nota nel panorama della storia della filosofia occidentale: il mito della caverna di Platone. Se, in un primo momento, quello che riusciamo a vedere sono solo pochi vocaboli sconnessi tra loro, soltanto avvicinandoci e andando in profondità scopriamo celarsi una realtà ignota, composta da vecchie – ma ai nostri occhi nuove – parole.

Così Under the light ci ricorda l’importanza di non fermarci alle apparenze, di oltrepassare le ombre, di alzare gli occhi al cielo e di guardare la luce, per poi rientrare dentro la caverna e raccontare a tutti di un mondo inedito.

 

Chiara Frezza

 

[Immagine tratta dalla pagina del sito ufficiale di Arte Laguna dedicata all’opera, consultabile a questo indirizzo: https://artelaguna.world/sculpture/%E4%B8%8D%E8%A7%81%E4%BB%96%E8%80%85/]

 

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Estate con Sophia: consigli per letture brevi che lasciano il segno

Abbiamo superato la metà dell’estate ma abbiamo ancora tutto agosto da cui trarre il massimo della soddisfazione. Non solo in termini di camminate in montagna, gelati o tuffi tra le onde, ma anche di viaggi da fare… comodamente seduti in poltrona. O sulla sedia a sdraio.

Ecco dunque alcuni consigli di lettura (e non solo) da parte dei nostri redattori, ognuno secondo suo gusto. E così si spazia tra romanzi ed ecologia, grandi classici e psicologia. Ci siamo dati una sola regola: niente mattoni, solo cose brevi ma in grado di lasciare il segno. E voi avete dei buoni consigli per noi?

 

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FRANCESCA

Francesca, professoressa di filosofia e storia, consiglia un romanzo a sfondo storico e un’opera perturbante: Il giardino dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani e I baffi di Emmanuel Carrère. La prima lettura è ambientata a Ferrara all’indomani delle leggi razziali fasciste entrate in vigore in Italia alla fine del 1938. Il protagonista e voce narrante è un giovane ebreo affascinato dalla ricca famiglia dei Finzi-Contini, ebrei anch’essi. I rampolli della famiglia, Alberto e Micol, lo invitano a giocare a tennis nel loro splendido giardino. La storia collettiva si mescola con le storie personali dei personaggi, bisognosi di ritrovare speranza, spensieratezza, amore. I baffi racconta invece di un uomo che decide di tagliarsi i baffi per sorprendere sua moglie. Ma sarà lei – e con lei tutto quello che credeva essere il suo mondo – a sorprenderlo: sembrerebbe, infatti, che i suoi baffi non siano in realtà mai esistiti. Con essi scompaiono anche amici, genitori, ricordi, pezzi di vita. Follia o soprannaturale? 

 

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ALESSANDRO

Cosa c’è di più avvincente di un viaggio nell’interiorità e nelle emozioni umane? Questo almeno è quello che pensa Alessandro e le sue selezioni vanno in questa direzione. Mitezza di Eugenio Borgna ripercorre una delle esperienze umane più importanti eppure così dimenticate. È fondamentale recuperare, a livello individuale e relazionale, la dimensione della mitezza che si lega alla gentilezza, alla tenerezza, alla bontà, all’amicizia e si distanzia radicalmente dalla superbia, dall’orgoglio, dal potere, dall’aggressività e dall’angoscia. La riflessione etica e psicologica sulla mitezza come virtù sociale è a prezioso servizio del singolo e della collettività. Arcipelago N di Vittorio Lingiardi invece ci immerge nelle articolazioni del narcisismo che ci abita – e che non è mai possibile ridurre ad una semplice e univoca definizione – aiutandoci a conoscerne le molteplici sfumature e le diverse declinazioni che oscillano tra le numerose isole dell’insicurezza, della stima di sé, dell’egocentrismo, della vergogna, della rabbia, dell’invidia, della manipolazione e dell’aggressività distruttiva fino alla psicopatia. L’autore conduce con delicatezza e puntualità il lettore a distinguere tra un sano amore di sé e la sua patologica celebrazione, individuandone il confine sottile.

 

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ANNA

Una Barca nel Bosco di Paola Mastrocola è la storia di uno studente appassionato, che si trova inserito in un contesto che non lo valorizza, in un momento complesso come l’età adolescenziale. Un libro che spinge a riflettere sul rapporto tra noi stessi e il mondo che ci circonda, su quello che vogliamo e sul sentirsi fuori posto o in accordo con gli altri. Consigliato a tutti coloro che amano immergersi all’interno delle dinamiche formative contemporanee, cogliendone gli aspetti contradditori e percependo la necessità di cambiamento di questo mondo, nonché a tutti quelli che sono perennemente alla ricerca di se stessi. Sempre di solitudine parla Tutto Chiede Salvezza di Daniele Mencarelli, questa volta una solitudine profonda ed esistenziale che si intreccia alla malattia del protagonista, durante il soggiorno in un centro psichiatrico. Un’opera per certi versi cruda, ma che lascia al lettore molto su cui riflettere e ci trasporta in quei luoghi dove nessuno vorrebbe mai recarsi.

 

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MASSIMILIANO

Massimiliano consiglia una graphic novel di Zerocalcare, Kobane calling, reportage del viaggio dell’autore tra i curdi del Rojava. Allo stile ironico e tagliente del fumettista romano si sommano la sua sensibilità e l’umanità della situazione critica che racconta. Un libro che strappa sorrisi, lacrime e tiene incollati fino all’ultimo baloon. Altro consiglio è Autunno tedesco dello svedese Stig Dagerman: serie di appassionanti reportage nella sconfitta Germania del 1946, scritti con un occhio lucidissimo e in controtendenza rispetto agli inviati dell’epoca, che si limitavano a sottolineare il prezzo che i tedeschi dovevano pagare per il Nazismo. Dagerman mette in luce la complessità che sempre riguarda gli ambiti umani, a maggior ragione quelli in cui si lotta per la vita ogni giorno, mostrando i lati oscuri di una denazificazione di facciata e le contraddizioni della Germania post-bellica; moniti e analisi validi anche oggi.

 

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GIORGIA

Giorgia ha appena compiuto 31 anni e quindi è in piena crisi dei trenta (+1) anni, crisi profonda creativa alla Jonathan Larson in Tick, tick… boom!, per intendersi. E quindi ha adorato pagina dopo pagina l’ultimo romanzo di Paolo Giordano, Tasmania: l’universale e i temi caldi dell’attualità si mescolano allo strettamente personale di Giordano, o meglio del protagonista del libro, nel quale – tra smarrimento e masochismo – è davvero facile rispecchiarsi. Sullo sfondo lo spettro incombente dei cambiamenti climatici sui quali si apre un unico, piccolo spiraglio di salvezza: la Tasmania, appunto. E se l’ecoansia non avrà ancora avuto la meglio su di voi, passate pure a un bellissimo saggio, La nazione delle piante di Stefano Mancuso. L’ormai noto in tutto il mondo neurobiologo vegetale immagina una Costituzione “scritta” dalla nazione più popolosa della Terra – gli alberi, che sono ben 3mila miliardi! Tra riflessioni globali e confessioni intimistiche, tra nozioni scientifiche e spunti filosofici, cercheremo di capire insieme a Mancuso perché questo pianeta è così commoventemente unico e perché forse vale la pena tornare a conviverci.

 

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GIACOMO

Si dice che il giallo sia l’ideale per passare un po’ di tempo rilassati sotto l’ombrellone, e anche la filosofia sa attrezzarsi in questo senso. Per un po’ di mystery in salsa filosofica Giacomo consiglia Notti a Serampore di Mircea Eliade, un romanzo breve, suggestivo e incisivo che risale ai tempi in cui l’autore viveva e studiava in India. Un giallo avvincente, che attraversa le epoche e sfida l’idea stessa di tempo. Se il genere piace, si può approfittare dei cinema all’aperto per recuperare il bel L’ultima notte di Amore di Andrea Di Stefano, un poliziesco come non se ne vedevano da anni in Italia. Con un bravissimo Pierfrancesco Favino a interpretare il classico poliziotto a pochi giorni dalla pensione, il film si rivela un noir incalzante, tesissimo, profondo nella sua cupissima visione di una Milano mai così aliena e sconosciuta.

 

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LUCA

Leggere racconti sull’estate in estate. Questo è quello che si fa se ci addentriamo ne Le piccole vacanze, il libro che ha iniziato la grandiosa carriera di scrittore di Alberto Arbasino. L’autore ci accompagna con il suo stile visionario in mezzo alle giornate estive fatte di primi amori, desideri, strade e abitudini dei ragazzi degli anni ‘50 in un’Italia che reinventava se stessa, per farci scoprire quanto siano senza tempo le estati di ogni epoca. Per chi cercasse atmosfere e sensazioni simili ai racconti di Arbasino ma trasposte su schermo, non si può non citare l’acclamato Chiamami col tuo nome, film del 2017 di Luca Guadagnino che incastona la turbolenta storia di due giovani ragazzi nell’estate italiana di una provincia silenziosa ma ricca di speranze.

 

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CHIARA

Chiara ha pensato per le vostre vacanze a due proposte di lettura, che sia in riva al mare o in cima a una montagna. Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Mark Haddon, è un romanzo che racconta il problematico rapporto tra il mondo esterno e Christopher, un ragazzo di quindici anni che soffre della sindrome di Asperger. Un’opera di finzione che ci aiuta a sviluppare un particolare tipo di empatia: quella nei confronti di chi si arrabbia se i mobili di casa vengono spostati o se tutte le finestre non sono chiuse, verso chi detesta che ci siano due persone con lo stesso nome nella medesima stanza o che non riesce a mangiare dal piatto in cui zucchine e salmone si sfiorano. Anche un saggio può aiutarci a vedere le cose da un altro punto di vista, e lo sguardo di Shitao, un monaco e pittore cinese di fine ‘600 è alquanto originale. Discorsi sulla pittura del monaco zucca amara si presenta non solo come un’ottima introduzione all’estetica orientale, ma invita il lettore a guardare l’incontro tra uomo e natura, tra arte e vita con occhi nuovi.

 

Non ci resta che augurarvi buona lettura!

 

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Platone tra mitologia e fantascienza: “Gattaca” e il mito delle stirpi

 

Il film del 1997 Gattaca, del regista Andrew Niccol, con Ethan Hawke e Uma Thurman (probabilmente galeotto fu il film, dato che i due si sono sposati l’anno successivo e hanno avuto una figlia, la Maya Hawke di Stranger Things) ci parla di un futuro distopico in cui la società è immersa in una feroce lotta di classe.
Il protagonista è Vincent Freeman (nomen omen), interpretato da Ethan Hawke. Nel suo mondo le persone si distinguono tra validi e non validi: egli è un non valido, in quanto i suoi genitori hanno scelto di concepirlo in modo naturale, senza intervenire sul suo patrimonio genetico. Vincent ha un’anomalia cardiaca, una propensione alla miopia e, secondo i test effettuati alla nascita, un’aspettativa di vita di trent’anni.
Per il secondo figlio dunque, i suoi genitori decidono di affidarsi alla scienza, che interviene sui geni del neonato affinché sia valido, geneticamente perfetto: non predisposto a malattie, fisicamente forte e resistente. Vincent cresce con un fratello valido, Anthony, con cui instaura una continua competizione. Vincent, pur essendo un non valido, è estremamente intelligente e ambizioso: sogna di diventare astronauta. I suoi genitori però, lo mettono in guardia: per quanto potrà studiare e allenare il suo fisico, a causa della sua anomalia cardiaca non potrà mai partire per lo spazio.
Così, Vincent accetta di lavorare come inserviente a Gattaca, una sorta di Nasa fantascientifica che gestisce i viaggi spaziali. Ma la sua ambizione è viva più che mai, e accetta di diventare un pirata genetico: assume l’identità di un valido, tale Jerome Morrow, interpretato da Jude Law. Jerome era un atleta dal corredo genetico impeccabile, ma ha avuto un incidente che l’ha reso paraplegico. Vende, dunque, la sua identità a Vincent ma anche, giornalmente, il suo sangue, la sua urina, le sue cellule epiteliali. Vincent, a sua volta, si sottopone a estenuanti allenamenti e a operazioni chirurgiche pur di assomigliare il più possibile a Jerome – i due hanno già in comune una vaga somiglianza fisica.
A questo punto, Vincent-Jerome può entrare a Gattaca occupando una posizione di prestigio: supera senza problemi i test attitudinali e, il più importante, quello anti-droga. È questo, infatti, l’espediente (non ortodosso) che le grandi aziende e corporation utilizzano per escludere i non validi da posizioni lavorative di alto livello – poiché con un test antidroga sono in grado di controllare il patrimonio genetico.

C’è un parallelismo tra questa storia e il mito delle stirpi narrato da Platone nel III libro della Repubblica, un racconto di derivazione fenicia che Platone utilizza per far capire come gli esseri umani siano al contempo uguali e diversi, in base ai ruoli sociali. Il mito narra che, un tempo, la madre terra tenne nel suo grembo gli esseri umani per poi farli nascere. Il racconto dice, rivolgendosi alla specie umana:

«voi […] siete tutti fratelli, ma la divinità, mentre vi plasmava, a quelli tra voi che hanno attitudine al governo mescolò […] dell’oro, e perciò altissimo è il loro prego; agli ausiliari [i guerrieri] l’argento; ferro e bronzo agli agricoltori e agli altri artigiani» (Platone, Repubblica, 2023).

Il mito si comprende meglio grazie alla teoria platonica della tripartizione dell’anima: l’animo umano consta di una parte razionale, una irascibile (rappresentata dal coraggio, dall’impeto ad agire per il bene) e una concupiscibile (gli istinti, la parte emozionale e meno virtuosa). Una parte prevale in ciascuna delle tre diverse tipologie di persone, che a loro volta danno vita alle tre classi sociali che Platone immagina per il suo Stato utopico, un archetipo a cui ispirarsi.
Coloro in cui prevale la parte razionale sono i filosofi, aventi un’anima aurea. Poiché conoscono il bene, la giustizia, la vera realtà e il vero essere (che per Platone, lo ricordiamo, si trova in un mondo trascendente, detto delle idee o Iperuranio), essi dovranno governare. Vi sono poi gli irascibili, ossia i guerrieri: forti, valorosi, pronti a difendere lo Stato, ad agire per compiere il bene – sono le anime argentee.
Infine, i lavoratori, coloro in cui istinti ed emozioni hanno la meglio: hanno anima ferrea e bronzea, producono e mandano avanti lo Stato, sono indispensabili come tutti gli altri, ma vanno domati, comandati.

La rigida visione deterministica di Platone sembra avere una forte analogia con il mondo di Gattaca, con i suoi validi e non validi. Platone, in realtà, pensava che il passaggio da una classe sociale all’altra non fosse impossibile. Egli esorta a «non custodire nulla con tanto impegno quanto i figli, osservando attentamente quale tra questi metalli si trova mescolato nelle anime loro» (ivi). Nel suo feroce determinismo c’è uno spiraglio: parafrasando, chi era davvero straordinario e “aureo”, poteva aspirare alla classe sociale più prestigiosa, quella dei filosofi-governanti, anche se era nato da anime d’argento o di ferro e bronzo. Qualcuno come Vincent di Gattaca: nel film, ad un certo punto, egli viene scoperto, perché, per quanto si possa fingere di essere qualcun altro, la nostra natura, anche sotto forma di “reperti” fisici, tende a emergere. Eppure, l’ambizione di Vincent e la sua tenacia, lo porteranno lontano, verso mete che credeva insperate.
Non conta come o da chi siamo nati, né con quali caratteristiche genetiche: poco importa se dentro abbiamo oro, argento, bronzo o ferro. Ciò che conta è quello che vogliamo, che desideriamo: quello è il nostro vero propulsore, ciò che ci definisce e ci conduce verso il posto che è davvero nostro.

 

Francesca Plesnizer

 

[Photo Credits Salvatore Andrea Santacroce via Unsplash]

 

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Una Buildung story a più rami: “And then we danced” – suggestioni

Ci troviamo a bordo di un autobus molto affollato; gli unici suoni sono dei frammenti di parole, lo stridore degli pneumatici, il cigolio del mezzo; un ragazzo si sta cambiando con la divisa da lavoro: due mani estranee lo sostengono gentilmente contro gli scossoni, gli aggiustano il colletto là dove le sue dita inciampano goffamente; Merab si volta un istante e scambia un sorriso muto con la sconosciuta. Con queste inquadrature si apre And then we danced (2019)1, variazione a sfondo lgbt+ di bildung romance: iniziazione al sentimento, esplorazione della propria sessualità, rivendicazione della propria individualità compongono il fil rouge di una densa storia di crescita.

Merab (Levan Gelbakhiani) è un giovane danzatore georgiano che da anni si allena per entrare nel National Georgian Ensemble, quando l’arrivo nel corpo di ballo del talentuoso Irakli non muove le carte in maniera imprevista: tra i due nasce dapprima una sottile rivalità, destinata a evolversi in un sentimento più tenero, sfumato e ambiguo, specialmente da parte di Merab, e a metterne in discussione l’orientamento sessuale.

Fin da quelle prime immagini sull’autobus si svela una sottotraccia alla vicenda di Merab che ci racconta una dimensione dei rapporti umani speciale: una sub story di collaborazione disinteressata e vicinanza al prossimo ben lontana da quella di individualismo diffuso che abitiamo oggi, sempre più allenati a coltivare e a difendere la capacità di bastarsi da sé, in assoluta indipendenza dall’altro.

Ci troviamo in una sala da ballo: una coppia si esibisce in una coreografia georgiana tradizionale; qualche rapido scorcio ci mostra il volto corrucciato dell’insegnante, che a un certo punto ordina bruscamente ai ragazzi di fermarsi; avvicinandosi a Merab l’uomo lo rimprovera aspramente, rinfacciandogli di essere troppo morbido nei movimenti e di allontanarsi dalla durezza granitica prevista per il maschio dai balli della tradizione.

Le inquadrature molto movimentate ci parlano, oltre che della naturale tensione del momento, anche delle emozioni del maestro, in particolare come di una paura: il timore che i ragazzi attraverso il ballo possano comunicare se stessi più di quanto la tradizione ammetta per resistere uguale a se stessa, che la evolvano in qualcos’altro attraverso il proprio contributo spontaneo e personale, segnando un cambiamento imprevedibile nelle radici identitarie georgiane.

Dall’episodio traspare un’altra sottotraccia ancora del film: il conflitto tra la generazione di Merab e le precedenti, insieme al bisogno, legittimo e destinato a trionfare, di manifestare la propria unicità. Merab arriverà infatti a elaborare criticamente l’eredità del maestro e a rivendicare la sua personalità nel ballo, attraverso una coreografia improvvisata da cui trapelano in fluidità il suo stile personale di movimento, il suo sentire, la delicatezza con cui si approccia al mondo.

Se da un lato la danza diventa strumento con cui rivendicare la propria identità, dall’altro la sua relazione clandestina con Irakli è destinata a sciogliersi; e forse è proprio in quest’ultima sequenza che si delinea con più vigore un fil rouge del film: la delicatezza dei sentimenti, l’autenticità degli affetti e il loro potere di illuminare e di dare forza, come testimonia l’ultimo scambio di battute tra Merab e il fratello e come ci mostrano anche le scene finali, quando alla performance di Merab davanti alla commissione del corpo di ballo un’amica si commuove per la gioia di vedere una persona che ama raggiungere un sofferto traguardo: la consapevolezza della propria unicità e il coraggio di esprimerla.

La storia di Merab può parlarci in maniera potente: attraverso il doppio binario della sua crescita, di immersione nel sentimento da una parte e di riscatto della propria distintività dall’altra, sembra richiamarci alla necessità di compiere la fatica di conoscere noi stessi, di stabilire un contatto con quel nocciolo presente in ognuno di noi in grado di definirci come individui unici e irripetibili; e anche di stabilire un compromesso tra questo nocciolo e le nostre radici.

Iniziazione al sentimento, scesa a patti con la tradizione, rivendicazione della propria unicità e della possibilità di esprimerla; e infine umanità delle relazioni, delicatezza degli affetti: un insieme di suggestioni che si colgono lungo tutto il film e che appaiono come disseminati dalla mano del regista con noncuranza – ma con noncuranza significativa – come a dire che la spontaneità e bellezza di un gesto o di un momento tra persone può emergere e vedersi in qualsiasi luogo e momento.Uno stimolo a riconoscere e preservare – in un mondo dalle strutture e dinamiche sempre più instabili e alienanti, tendente vorticosamente alla sterilità delle interazioni umane e alla loro rifunzionalizzazione in chiave utilitaristica – il valore dei rapporti interpersonali.

 

Cecilia Volpi

NOTE
1. Il regista è Levan Akin; il film è uscito in Georgia nel novembre del 2019 e poi al festival di Cannes nel 2020.

 

[Photo Credits Ahmad Odeh via  Unspash]

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Dal film “Vi presento Joe Black”: dalla Morte all’Amore

Il film Vi presento Joe Black del 1998 mette in scena la personificazione della Morte (Brad Pitt) la quale, affidandosi all’integrità umana del facoltoso Bill Parrish (Anthony Hopkins) decide di sperimentare la vita. La breve esperienza umana della Morte, presentata a tutti con il nome improvvisato di Joe Black, sembra voler rappresentare, contro-intuitivamente, l’arco ideale dell’esistenza umana. Quell’intervallo di tempo, che iniziando in una condizione di innocenza, terminerebbe con il compimento del proprio fondamentale scopo di vita. Infatti Joe, all’inizio della sua bizzarra escursione, si atteggia come un bambino che sperimenta il nuovo, gironzolando, per esempio, nella casa di Bill alla ricerca di qualcosa di imprecisato o mostrandosi goloso e distratto durante la riunione aziendale. Inoltre Joe, sebbene a malincuore, deciderà di terminare la sua avventura proprio dopo la realizzazione del suo obiettivo. Solo dopo aver incontrato e vissuto l’amore con passione, infatti, sarà pronto al definitivo addio.

Se vivere cercando di realizzare ciò che sentiamo essere il nostro scopo principale di vita può consentirci di accettare o di dimenticare, positivamente operosi, l’inesorabilità della nostra stessa morte, quale pensiero può accompagnare a vivere il dolore della morte di una persona che amiamo?

Ora, sebbene il film ruoti intorno al tema della morte e sfiori alcune sue diverse declinazioni – accennando alla sua tragicità nella scena dell’incidente del ragazzo di cui la Morte assumerà le sembianze o alla sua drammaticità nella circostanza dell’anziana donna gravemente malata – in realtà il lungo cortometraggio lascia trapelare dallo sfondo la vulnerabilità umana nei confronti del dolore per la perdita di una persona amata. Lo stesso Bill, che rappresenta un’eccellenza dell’agire umano, rimasto vedovo, confida a Joe la quotidianità di una triste e nostalgica mancanza. Inoltre Joe, al momento della sua partenza, non promette alla sua innamorata Susan (Claire Forlani) l’eccezione dell’eternità bensì l’immunità dal dolore della perdita di chi si ama. Ciò sembra quindi suggerirci che l’aspetto più insostenibile della morte non sia propriamente quello di strappare a noi la vita ma quello di strappare a noi gli affetti.

A questo punto possiamo comprendere allora come il tema della morte e il tema dell’amore siano tra loro profondamente legati. Se l’amore dà senso alla vita – «Fare il viaggio e non innamorarsi profondamente, be’, equivale a non vivere» spiega Bill alla figlia minore Susan in una delle primissime scene del film – vuol dire che, di conseguenza, è proprio l’amore a renderci vulnerabili al dolore della morte. In fondo, l’immensa sofferenza che si prova per l’assenza di chi amiamo altro non è che l’intensità di un amore che collassa – innaturalmente – dentro di noi. Quest’ultima considerazione sull’amore ci rivela quindi tutta l’inadeguatezza di una interpretazione conciliante con la morte. La prospettiva che la concepisce come il termine puntuale, sebbene sempre inatteso, del compimento del proprio fondamentale scopo di vita non dà infatti ragione del grande dolore che si prova per la perdita di chi si ama. Se l’amore dà senso alla vita, è anche vero che quello stesso amore ci rende incomprensibile, se non inaccettabile, la stessa morte, rischiando addirittura di far vacillare l’amore come senso della vita. La morte resta quindi un enigma, la cui conclusiva supremazia manifesta a noi stessi l’evidenza della nostra vulnerabilità.

Ecco che, allora, il subire impotenti la perdita di chi amiamo significa attraversare, senza alcuno scudo, la frattura dell’equilibrio affaccendato della nostra ordinarietà. Il nostro dolore, che si dilata come nell’eterno, schiude bruscamente la nostra esigenza di riflessione. E riconoscendoci vulnerabili, in questa sorta di limbo interiore, può forse accompagnarci il pensiero che l’amore che cerchiamo nella nostra vita altro non sia che la naturalezza di un sentimento presente costantemente dentro di noi. L’amore, proprio come la morte, ma in un senso inverso a essa, si trova infatti in noi, sempre, in una condizione di potenzialità. A pensarci, se l’inesorabilità della morte non priva di vigore il nostro impegno a contrastarla nella vita è proprio perché anche l’amore rivendica tutta la sua realizzazione. E il dolore della perdita della persona che amiamo taglia proprio lì: proprio dove l’amore e la morte, dentro di noi, si toccano. Un tocco che resta indecifrabile alla mente ma palpabile al cuore. E in questo dolore dal sapore metamorfico, possiamo forse provare a lasciarci attrarre dall’idea di liberare nell’aria tutto l’amore di cui siamo capaci e vivere il nostro pezzetto di tempo, anche dolcemente distratti, dal sorriso di chi, inconsapevole della nostra profonda ferita, ci passa per un momento accanto.

 

Anna Castagna

 

[Photo credits Luigi Boccardo by Unsplash]

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Lungo la Via Appia: fenomenologia del viaggio di Paolo Rumiz

È la primavera del 2015, quando Paolo Rumiz, insieme a un manipolo di amici, parte da Roma alla  volta di Brindisi per un’impresa eccezionale, il sogno di un visionario: ripercorrere l’Appia antica, ricalcando le orme dell’iter brundisinum intrapreso, nel 37 a.C., dal poeta Orazio con Virgilio e  Mecenate. La cronistoria del viaggio è l’intenso libro di Rumiz dal titolo Appia (2016), un dettagliato reportage dei luoghi e delle emozioni, ma soprattutto l’appassionato resoconto di una missione: «ritrovare» la  Regina Viarum, facendola «riemergere sotto le suole», ripercorrendola «coi piedi, nobilissimi organi  di senso». (Appia, Feltrinelli, 20161). La decisione dell’andare “errando” è alimentata da una forte esigenza gnoseologica: Rumiz sa che  «per capire bisogna andare a piedi», perché «chi viaggia rasoterra non ha difese, ma vede la verità  dei luoghi».

Così, zaino in spalla e senza auto d’appoggio, assecondando la vocazione nomade insita nella radice del suo cognome, Rumiz dà inizio all’atto eversivo dell’attraversamento a piedi dell’antico tracciato di  basalto, con il fare dell’archeologo che è appagato dal vivido vedere, dal toccare con mano, e con la  determinazione di chi si sente investito di «un mandato degli antenati da assolvere». 

L’intero viaggio è un’avventura magnifica e terribile insieme, che si sviluppa tra i due poli dialettici  dell’incanto e dell’indignazione: ripercorrere l’Appia antica è come immergersi in «un immenso museo all’aperto» di bellezze paesaggistiche e monumentali. Tuttavia l’incanto da subito deve convivere con l’indignazione alla vista di tanta bellezza soffocata e oltraggiata da brutture, scempi e soprusi. Appena fuori la Capitale, le terre di Gomorra e dei fuochi delineano lo scenario di un  desolante «Far West», di «un pugno allo stomaco»: monumenti semidistrutti giacciono abbandonati in  mezzo a campi incolti; cartelloni elettorali contendono lo spazio ad altari votivi, abitazioni private si  fanno posto all’interno di un antico anfiteatro, una secolare iscrizione funeraria sormonta la porta di  un bar, tra antichi ruderi troneggia una stazione di servizio. Si scorgono «pezzi di lastricato romano  disinvoltamente esposti nel prato inglese di un giardino, capitelli incastrati nei muri, reperti  medievali piazzati a segnare il confine tra poderi, ville con sontuosi musei illegali», testimonianze del malcostume, di una cinica indifferenza, di tollerate illegalità e di un indiscriminato abusivismo edilizio. 

Inoltre, i coraggiosi viandanti devono «combattere duramente fin dal primo miglio per conquistarsi  la bellezza», sobbarcandosi di «un po’ di lavoro sporco», perché se in alcuni tratti l’antica via è visibile e facilmente percorribile, in altri per recuperare ciò che il tempo e l’incuria hanno sepolto devono creare «buchi nella rete» di filo spinato, avventurarsi in «guadi selvaggi», sfoltire rovi a «colpi di roncola», ma anche desistere, perché «a volte per restituire l’accessibilità al tracciato dell’Appia non sarebbero state sufficienti le ruspe». La missione diviene il viaggio dell’amara presa di coscienza dello spaventoso vuoto di memoria della nazione nei confronti della madre delle strade europee, e della triste constatazione che «a dilapidare il Paese non sono stati i barbari, ma gli italiani stessi».

La dialettica bellezza-bruttezza ricorre negli incontri casuali con la gente dei luoghi attraversati e vissuti. I viandanti sono sorpresi dall’inattesa generosità di semplici agricoltori, dalla pratica saggezza di pastori filosofi, dalla sincera fede di pie donne e dalla spiazzante ospitalità di ostesse che rallegrano cuore e palato con i sapori della tradizione. Il viaggio riserva anche spiacevoli corpo a corpo con automobilisti maleducati e albergatori malfidenti. E addentrarsi ne «l’osso dello stivale» offre incontri con occhi mesti e volti rigati dalla rassegnazione di uomini che, ripetendo il leitmotiv «le colombe scappano i corvi restano», denunciano il destino, oramai passivamente subito, di un Sud che invecchia, perché privo di prospettive per i giovani.  

Tra i rassegnati c’è chi, però, ha deciso di resistere e reagire: un esercito di resilienti sinceramente  innamorati del suolo natìo, che riaccendono un’inattesa e ottimistica speranza. Sono intellettuali che, a dispetto dei tanti addii, hanno deciso di ritornare al Sud per raccontare in musica e in prosa la bellezza della loro terra, e battagliere archeologhe, «le studiose delle pietre, temute più della peste per l’intralcio che rappresentano al mercato degli appalti», che, titani nel deserto dell’indifferenza, guerreggiano in difesa della «bella donna vestita di stracci».

Qui a Rumiz si palesa il vero senso della sua missione: assumersi il dovere civico di raccontare per  scuotere le coscienze. Non c’è solo il Colosseo, «l’Hollywood d’Italia». La realtà italiana è fatta di tante piccole meraviglie, sparse su tutto il territorio e custodite nello scrigno prezioso dell’Appia antica.
Nell’Italia lacerata dalla forbice dei divari, quel «filo d’Arianna», ripercorso da Rumiz lungo lo stivale, diviene un monito a gettare il seme di qualcosa di duraturo, una prospettiva per il Sud e un nuovo senso di appartenenza e d’unità, un’esortazione a creare un progetto comune: ripristinare l’antica via, facendone una sorta di «Cammino di Santiago» laico e tutto italiano. 

Oggi, a distanza di otto anni da quel viaggio, la Via Appia è stata candidata a entrare nella Lista del  Patrimonio Mondiale Unesco.

 

Marilena Buonadonna

NOTE
1. Tutte le citazioni che seguono sono tratte da quest’opera.

 

[immagine tratta da Unsplash]

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A lezione di libertà con il film “Mona Lisa Smile”

Nella pellicola cinematografica Mona Lisa Smile del 2003 si racconta la storia di una docente di Storia dell’Arte che, giungendo dalla California nel Massachusetts, inizia a insegnare presso l’istituto femminile Wellesley College. Qui, fin dalla prima lezione, l’insegnante Katherine Ann Watson (Julia Roberts) si accorge dell’ottima preparazione nozionistica delle sue allieve. Colta un po’ alla sprovvista dalla dinamica della lezione, che si conclude con la decisione delle allieve di proseguire nello studio per proprio conto, escogita una diversa strategia formativa alla seconda lezione. Questo perché l’obiettivo educativo fondamentale della docente sembra essere quello di voler insegnare alle ragazze a ragionare con la propria testa.
Ma questo ambizioso proposito che cosa davvero significa? In fondo, è veramente possibile insegnare a ragionare liberamente? E se sì come? 

Iniziamo con il cercare di rispondere alla prima domanda e al riguardo, notiamo subito che molte conversazioni del film ruotano intorno al tema dell’Arte che possiamo considerare, in un duplice senso, occasione ed eccellenza dell’espressività umana. L’opera artistica, infatti, rappresenta non soltanto la testimonianza della singolarità dell’artista, ma offre anche a chi la osserva la possibilità di rintracciare, rispetto all’opera, il proprio personale sentire. Cosicché la disciplina dell’Arte può rappresentare una perfetta opportunità didattica per una lezione sulla libertà espressiva attraverso l’unicità di chi esegue e di chi osserva l’opera artistica. Non a caso, l’insegnante Katherine sollecita più volte le sue allieve a esprimere una propria opinione intorno a un dipinto e a soffermarsi a riflettere per poter esplicitare a parole il proprio pensiero, il proprio sentire. Ciò sembra quindi suggerirci che il ragionare con la propria testa significhi mostrare di saper riconoscere ed esprimere ad altri l’autenticità del proprio sentimento e della propria sensibilità.

Passiamo ora al secondo quesito che ci invita a riflettere sull’apparente paradosso della pretesa pedagogica di Katherine ben espresso dal docente di Italiano Bill Dunbar (Dominic West). Nella scena del film che sancisce la rottura della loro relazione, Bill, infatti, con aspra franchezza, le dice: Tu non sei venuta qui per aiutare le persone a trovare la propria strada, ma per aiutare le persone a trovare la tua strada!” 

Katherine non è sposata, è economicamente indipendente e nell’America degli anni Cinquanta, che vede nel matrimonio la piena realizzazione della donna, Katherine rappresenta l’opposto del modello femminile tradizionale. L’accusa di Bill allude quindi al rischio di Katherine di imporre alle ragazze il suo stile di vita, confondendo il suo obiettivo educativo alla libertà con l’aspettativa di essere da loro emulata.
In realtà, la vicenda dell’allieva Joan (Julia Stiles), che sceglie di sposarsi e rinunciare agli studi universitari, ci suggerisce che Katherine ha sì indirizzato Joan al modello femminile dell’auto-realizzazione professionale, aiutandola per esempio nella compilazione della domanda universitaria, ma che sembra anche essere riuscita, in qualche modo, a far emergere nella giovane studentessa la fermezza della sua personale decisione.

A questo punto, allora, possiamo considerare il terzo quesito che ci spinge a riflettere su come sia possibile insegnare a ragionare liberamente. In questo caso è la vicenda di una altra alunna a suggerirci una possibile risposta. Betty (Kirsten Dunst), che rappresenta l’aspirazione femminile al matrimonio, tradita dal marito, finirà per chiedere il divorzio, rifiutandosi di fingere una felicità d’apparenza così come le viene invece indicato dalla madre. L’atteggiamento di Betty, quindi, si capovolge nel corso del film: da sostenitrice imperterrita della tradizione culturale a donna che riesce a dare legittimità al suo sentire senza avvertire la necessità di una approvazione che non sia esattamente la sua. In questo cambiamento interiore Betty riconosce l’importanza della testimonianza della sua insegnante Katherine, dedicandole l’ultimo suo articolo al Wellesley College. Katherine, quindi, è riuscita a far maturare in Betty la consapevolezza di sé stessa; e lo ha fatto, non attraverso uno scontro diretto con lei, ma attraverso l’argomentazione in aula della sua profonda delusione per il fraintendimento del suo insegnamento, accusato di sovvertire il ruolo naturale delle donne. 

Tutto questo ci predispone a comprendere il valore pedagogico di una autentica testimonianza di libertà di pensiero e di vita. Testimonianza che ha il duplice scopo di rafforzare in noi ciò che vi è di simile e, parimenti, di sfidare ciò che, al contrario, ne è diverso. Insegnare a ragionare con la propria testa significa, allora, distendere la trama del possibile. Imparare a farlo vuol dire, per questo, avvertire vibrare i propri confini. La libertà è l’elasticità del nostro dettaglio che scopre la singolarità del suo slancio attraverso l’unicità delle piccole e grandi opere del mondo.

 

Anna Castagna

 

[immagine tratta da un fermo immagine del film]

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Il mondo-limite: la sconfinata ricerca della New Media Art

La New Media Art, come tutto ciò che ibrida figure e saperi, vive fin dalla sua nascita in uno stato perenne di confine. Provata ad essere inglobata nel classico mondo dell’arte contemporanea, essa ha subito nel suo percorso tanti fallimenti e critiche. Il suo dinamismo intrinseco, però, le ha permesso di sopravvivere, anzi di evolversi, dagli anni Sessanta fino ad oggi. La miccia che ha fatto esplodere questo nuovo mondo dell’arte si deve al progresso tecnico-scientifico, alla rivoluzione digitale e all’invenzione/introduzione di nuovi media. Questi elementi sono stati usati all’interno dei processi artistici, trasformando il concetto di arte, di figura dell’artista, di valore dell’opera d’arte (mercato ed economia dell’arte) e di cura e conservazione delle opere.

La vitalità che si coltiva nella New Media Art è la ragione del suo esserci e delle sue variegate testimonianze. Non è, quindi, fonte di sorpresa immaginare che la New Media Art, concepita come fruibile e vivibile, non più come fine a sé stessa, sia il prodotto di interazioni e collaborazioni tra scienziati (all’inizio, perlopiù, ingegneri informatici) e artisti.

La riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, come già fatto notare negli anni Trenta del Novecento da Walter Benjamin, ha messo in crisi l’aura dell’opera d’arte, ossia l’attribuzione di valore:

«Mentre l’autentico mantiene la sua piena autorità di fronte alla riproduzione manuale, che di regola viene da esso bollata come un falso, ciò non accade nel caso della riproduzione tecnica» (W. Benjamin, l’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, 1998).

Certo, la questione intorno alla riproducibilità è chiaramente antica – fin dall’invenzione della stampa nel Medioevo – ma si è rinnovata nel tempo a fianco del progresso tecnologico. Con la rivoluzione digitale, infatti, il medium ha assunto un’importanza valoriale sopra ad ogni aspettativa, portando all’introduzione di due concetti fino a quel momento assenti: la connettività e l’economia dell’attenzione.

Come afferma Derrick De Kerckhove:

«Il nostro pensiero è ipertestuale. Attraverso il web, noi proiettiamo all’esterno tale modalità del pensiero. La Rete porta la connettività dentro la collettività e, contemporaneamente, dentro l’individualità» (A. Buffardi, D. De Kerckhove, Il sapere digitale. Pensiero ipertestuale e conoscenza connettiva, 2011).

La pratica del networking (connettività), tipica della New Media Art, è cresciuta dal campo fisico al campo digitale, permettendo agli artisti provenienti dai luoghi più disparati di scambiare idee e creare nuove prospettive artistiche, influenzando il pubblico e influenzandosi tra di loro.

Nel 1969 Herbert Simon introdusse il concetto di economia dell’attenzione, che collegandosi al precedente, lo completa e ci testimonia come la società industriale abbia ceduto il passo alla società dell’informazione, in cui la mole gigantesca di informazioni a cui è sottoposto il pubblico determina un’inevitabile perdita di attenzione, che a sua volta diventa la meta da conquistare per chi produce contenuti e opere.

Se prima, quindi, esisteva una certa distanza tra l’opera d’arte e l’osservatore, i nuovi media producono quello che viene definito da Manovich, riprendendo il pensiero di Paul Virilio, big optics

«[…] l’era post-industriale elimina totalmente la dimensione dello spazio. Quantomeno in linea di principio, tutti i punti della Terra sono ormai accessibili istantaneamente da qualunque altro punto del pianeta» (L. Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, 2002).

Sebbene questo annullamento della lontananza tra osservatore e osservato rappresenti in senso negativo una perdita di focus attentivo da parte del primo, diventa paradossalmente un punto forte su cui poggia la struttura della New Media Art. Il pubblico non si sente più lontano dall’opera d’arte, ne è prossimo; anzi, ancor di più, interagisce con essa, affinché diventi parte integrante dell’opera stessa.

L’instancabile dinamicità e il continuo bisogno di interattività della New Media Art sono gli ingredienti che la rendono una fabbrica di creatività e di svariate forme di arte che vanno dalla computer graphic, all’animazione, dal video alle installazioni, passando per la realtà aumentata e per quella virtuale. Sebbene sia un’arte considerata spesso effimera per la sua esistenza breve e mutevole, essa rappresenta, in conclusione, la sfida contro ogni genere di convenzione e la possibilità sia per gli artisti sia per il pubblico di esplorare tematiche così diverse tra di loro, in modi che probabilmente sarebbero stati impossibili con i mezzi tradizionali.

 

Ilaria Turrisi
Siciliana di annata 1992, appassionata di temi di attualità e dell’interazione multi- e interdisciplinare tra le branche del sapere, ha conseguito con lode la laurea magistrale in filosofia contemporanea presso l’Università degli studi di Messina. Oltre alla lettura, alla scrittura, al cinema e alla musica, si diletta nel lavoro a maglia e nella ideazione e creazione di collage analogici e digitali.

 

[Photo credit Zach Key via Unsplash]

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I monocromi: una riflessione sull’ “assenza di”

Davanti a una tela coperta da strati più o meno omogenei monocromatici può anche sorgere spontaneo dire “e che ci vuole”. È chiaro che il saper fare manuale è molto importante in questo ambito, ma questo scritto si vuole soffermare ancora sull’altra componente, non unica e nemmeno necessariamente dominante, forse quella più interessante: l’idea. Il concetto. Lo scopo. Non a caso, l’arte contemporanea è ricca di monocromi e questo tipo di opera punteggia alcuni momenti importanti del corso del Novecento, coinvolgendo artisti che attraverso di esso hanno espresso una tendenza, una volontà di ricerca di annullamento del quadro stesso.

Uno dei primi ad essercisi avvicinato è Kazimir Malevič, esponente del Suprematismo, il cui scopo era manifestare «la supremazia della sensibilità pura nell’arte»: in altre parole, il quadro di per sé non ha significato. Era il 1915 e i tempi non erano ancora maturi per un vero e proprio monocromo ma è certo che Malevič ne ha segnato il punto di partenza, congiuntamente a puntualizzare un momento di forte cambiamento nel mondo dell’arte. In principio era un quadrato nero su sfondo bianco – anzi, un quadrangolo, perché aveva i lati leggermente sgangherati, e non era nemmeno veramente nero perché risultato da una somma di altri colori. Un quadro che per Malevič stesso era «un primo passo verso la creazione pura in arte», ovvero arrivare allo zero e riuscire a superarlo, resettare l’arte dalla sua oggettività e farla rinascere: un’arte che, da quel punto zero, sboccia in forme geometriche che vivono ed esistono, nient’altro.

                      malevic-quadrato-nero_la-chiave-di-sophia          piero-manzoni-achrome_la-chiave-di-sophia

Dal nero quasi nero si è arrivati al bianco: il quadrato bianco su sfondo bianco di Malevič (del 1918) trova alcuni fratelli non proprio gemelli nel corso del Novecento, come per esempio gli Achromes di Piero Manzoni, e siamo ormai nel 1958. Monocromi senza colore, a-chromes appunto, bianchi. Una superficie di caolino o gesso stesa sulla tela lasciata asciugare e nell’asciugarsi assumere un suo disegno – grinze, pieghe, rigonfiamenti, scanalature: oltre al colore, allora, manca anche il gesto dell’artista, perché l’opera è autosufficiente, autodeterminata, puro significante, nessun senso esterno e nascosto, imposto. Solo la materia lasciata a sé stessa.

Non molti anni dopo Manzoni, dei nuovi monocromi si sono affacciati nel mondo dell’arte italiana: quelli di Mario Schifano. Di nuovo il monocromo diventa punto di partenza: tabula rasa della pittura informale a cui era dedito fino al fatidico 1961, il rosso era il colore privilegiato ma mai steso in modo uniforme, anzi, a tratti con un pennello più secco, oppure al contrario con goccioloni di colore. 

                monocromo-rosso-schifano_la-chiave-di-sophia       lucio-fontana_la-chiave-di-sophia

Vale la pena citare anche un altro illustre amico di Manzoni, Lucio Fontana, anche se la sua ricerca artistica l’ha portato fin da subito oltre il monocromo: monocromi con i tagli. Andare “al di là” del quadro, stavolta in senso letterale (non a caso lui chiama queste opere concetti spaziali). Così come del resto è ancora diverso il caso di Mark Rothko, poiché i suoi non sono veri e propri monocromi e inoltre, tanto per fare un esempio, la valenza del colore nel suo caso acquisisce un’importanza nella relazione tra le tonalità e non nel colore stesso, unico, solitario, autosufficiente. Ma tanti, tanti altri sono gli artisti che potremmo citare.

Finisco però con lui. Così noto per i suoi monocromi da essere diventato famoso come “Yves le Monochrome”. Erano gli stessi anni di Mario Schifano ma Yves Klein non voleva fare tabula rasa, né lasciare tutto lo spazio alla materia. Voleva aprire il mondo dell’assoluto. Dopo il rosso di Schifano e il bianco di Manzoni, il suo colore era il blu, anche se non un blu qualsiasi: se l’è brevettato lui, lo IKB, “l’espressione più perfetta del blu”. Lo scopo era la totale immersione nel colore, di quell’intensità quasi accecante e pervasiva che non era solo materia, come lo erano gli Achromes per Manzoni: i monocromi di Klein sono aspirazione all’infinito, all’immateriale. Il blu è “l’invisibile che diventa visibile” e il quadro una sorta di ponte per una nuova dimensione.

             mark-rothko_la-chiave-di-sophia       yves-klein-monochrome-bleu_la-chiave-di-sophia

In queste opere, tutti questi artisti hanno messo in scena, a modo loro, il gioco di pieno e vuoto, concetti sbadatamente considerati opposti dalla tradizione occidentale ma in realtà entità unica nella concezione orientale che per esempio Yves Klein, dall’alto della sua cintura nera e quarto Dan, conosceva bene. I monocromi sono quadri apparentemente semplici, solo apparentemente finiti all’interno del loro quadrato e del loro codice cromatico, ma spesso, come ben ci ricorda Antoine de Saint Exupéry, l’essenziale è invisibile agli occhi. Con gli occhi con cui dunque si guarda la tela, con intensità, con una mente attenta, bisogna anche andare oltre la mera e nuda superficie (letteralmente) e indagare cosa ci sfugge, perché a volte – e questo succede spesso nella vita – la noncuranza, la velocità e la superficialità ci fanno smettere di chiedere quei perché che ci portano in profondità nelle cose, nelle relazioni, nelle emozioni. Niente infatti è mai così semplice, nemmeno una tela quadrata blu. E quindi quando ci troviamo davanti a un vuoto, a una mancanza – di suono, di colore, di attività, di persone –, proviamo a chiederci se è veramente un male, se davvero è qualcosa che va riempito o forse va goduto per sé stesso, per quello che è, così com’è.

 

Giorgia Favero

 

[Immagine di copertina: dettaglio di uno dei monochrome di Yves Klein, 1959]

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Cosa possiamo imparare dalla narrativa? Il romanzo come fonte storica

Siamo soliti acquisire nozioni relative al passato, più o meno recente, attraverso i manuali di storia. Questa pare essere la via “istituzionale”, quella verso cui siamo stati indirizzati fin da bambini. Ma se ci fosse un metodo alternativo, in cui a unirsi sono utile e dilettevole, per arricchire il nostro bagaglio storico? 

Per esempio, leggendo Guerra e Pace di Tolstoj ci viene data la possibilità di procurarci delle conoscenze in merito all’aristocrazia russa del XIX secolo, o ancora, Per chi suona la campana, di Hemingway, potrebbe dirci qualcosa a riguardo della guerra civile che ha dilaniato la Spagna tra il 1936 e il 1939. Questi testi, oltre a essere di argomento storico, hanno però un’altra e, aggiungerei, primaria (con un’accezione più ontologica che temporale) caratteristica comune: appartengono al genere letterario del romanzo, sono quindi opere narrative, composte principalmente da proposizioni finzionali e non da locuzioni assertive.

Sorge spontaneo chiederci se un prodotto finzionale, scritto con uno scopo diverso da quello della divulgazione scientifica, possa davvero essere dotato di un valore epistemico. Questa domanda prevede una risposta, almeno in parte, affermativa; d’altronde anche gran parte della tradizione umanista ammetteva la possibilità dell’acquisizione di un qualche tipo di informazione sul mondo (passato o contemporaneo a chi scrive) derivata specificatamente dall’esperienza letteraria – Aristotele poneva il piacere di imparare all’origine dell’ars poetica e Orazio definiva la poesia dulce et utile.

Prima di chiarire il motivo per cui un’opera finzionale è in grado di assolvere una funzione didattico-cognitiva, è doveroso mettere in guardia il lettore, esplicitando la modalità operativa di uno scrittore di narrativa, la quale, senz’altro, si differenzia da quella di uno storico. Leggendo un testo narrativo possiamo acquisire un’enorme quantità di dati empirici; tuttavia, non dobbiamo essere ingenui nel considerare valida ogni asserzione che sembra comunicarci qualcosa di fattuale. Gli eventi raccontati sono modellati dall’autore, e in particolare dal punto di vista che egli sceglie di adottare. Le narrazioni di un romanzo possono essere paragonate alla finestra di una stanza dalla quale osserviamo il mondo, ma tale finestra ha un vetro opaco, popolato da figure viste non attraverso ma sul vetro. Essa, quindi, è in realtà un dipinto, frutto dell’atto intenzionale e consapevole dell’artista di rappresentare il mondo, ma non necessariamente raffigurante eventi veramente accaduti e personaggi realmente esistiti.

Allargando il concetto di fonte a ogni tipo di lascito umano del passato, è possibile considerare testimonianze storiche più o meno attendibili, anche opere appartenenti al genere della letteratura finzionale, e in questo modo, un romanzo, anche se alienato dal suo uso originario (quello della fruizione estetica), può essere analizzato in vista di una conoscenza altra. 

In un testo narrativo si possono cercare informazioni dirette su eventi storici ma un impiego di questo tipo comporta che le notizie derivate dai romanzi vengano attentamente confrontate con altra documentazione, di altra natura; tale confronto consente di verificare ciò che – in un’opera di fiction – vi è di attendibile e ciò che, invece, deriva dal puro lavoro di invenzione. Un lettore leggendo un romanzo storico si trova sicuramente stimolato a chiamare in causa le proprie conoscenze in merito a una realtà determinata e a incrementarle con le immagini formatesi in seguito a tale lettura. È possibile quindi riscontrare una sorta di ampliamento cognitivo relativamente a un dato periodo, fatto o personaggio storico. Tuttavia, le credenze derivate in questo modo si configurano come particolari immagini mentali, plasmate da specifici dispositivi linguistici e da determinate strutture di rappresentazione comuni alla narrativa finzionale, e per questo non possono raggiungere il grado di scientificità richiesto dalle testimonianze storiche.

In secondo luogo, un romanzo può essere indagato non tanto in vista della ricerca di informazioni sull’epoca in cui l’opera è ambientata, ma come prodotto culturale che riflette la mentalità, i pensieri, i problemi e i gusti del periodo storico in cui l’autore vive e scrive. L’opera, in questo modo, deve essere messa in relazione alla biografia del suo autore, al ruolo assunto rispetto ad altri testi dello stesso periodo e alla risposta dei lettori. Un romanzo può diventare quindi una fonte primaria rispetto alla storia della mentalità in quanto documentazione fondamentale e una fonte secondaria in riferimento alla storia più generale se esaminato in riferimento alle strutture sociali e agli ambienti culturali. In breve, potremmo dire che I Promessi sposi risultano storiograficamente rilevanti non tanto in relazione alla realtà storica del 1600, periodo in cui è ambientata l’opera, ma piuttosto a quella del 1800, secolo in cui visse e operò Manzoni.

Quello che sicuramente fanno i romanzi, a prescindere dal loro grado di “storicità”, è aiutarci a esercitare la nostra immaginazione, estendendola a diverse situazioni e a nuovi punti di vista, che spesso si dimostrano illuminanti. Le storie ci aiutano a pensarci come fossimo un altro e questa è una capacità umana fondamentale, indispensabile nell’esperienza estetica ed etica, e di conseguenza anche nella vita di tutti i giorni.

 

Chiara Frezza

 

[Photo credit Mikolaj via Unsplash]

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