Tutto, ovunque, nello stesso momento: il multiverso

Il fisico americano Hugh Everett III, nel 1957, azzardò un’interpretazione della meccanica quantistica che lui definiva “a molti mondi” (e che chiamiamo multiverso). Riassunta in modo il più possibile chiaro (e perciò impreciso), Everett pensava che l’unico modo per confermare la contemporaneità di stati diversi previsto dalla fisica quantistica fosse contemplare l’esistenza di più mondi paralleli, uno per ogni possibilità.
Considerata più che altro un esempio di fringe science (a metà con la fantascienza), la teoria ha ottenuto popolarità negli anni, sia in campo scientifico, dove una minoranza di fisici la postula come conseguenza della teoria delle stringhe e della teoria delle bolle, sia soprattutto in campo di cultura pop. Romanzi, fumetti, film, videogame e serie tv si sono buttati sul concetto di mondi paralleli come nuova miniera d’oro di idee e trovate narrative.

Quello che viene spesso trascurato, però, è la risultante filosofica della teoria del multiverso, che può rappresentare il colpo di grazia definitivo a un antropocentrismo agonizzante fin dalla rivoluzione copernicana. Col progresso scientifico, l’uomo al centro del mondo e signore della creazione si è scoperto una specie tra tante, abitante di un pianeta minuscolo e marginale che orbita intorno a una stella che è una su miliardi, galleggiante in un universo sterminato, vuoto, oscuro, minaccioso e indifferente. La fisica quantistica toglie anche l’ultimo supporto metafisico alla vita umana: la sua unicità, e quindi il suo senso. Se esiste un universo in cui si realizza ogni mia possibile scelta, che senso ha la mia decisione qui e ora? Se esistono miliardi di miliardi di “me”, che importanza posso avere io come individuo?

A sorpresa, questo è il punto centrale di Everything Everywhere All at Once, il film dei The Daniels (Daniel Kwan e Daniel Scheinert) che ha sbancato all’ultima edizione degli Oscar. Il nodo centrale è uno scontro generazionale, quello tra l’iperattiva, stressata e infelice Michelle Yeoh (Evelyn) e sua figlia in cerca di attenzione e affetto Stephanie Hsu (Joy).
Quest’ultima, o meglio una sua versione alternativa, ha una visione d’insieme sul multiverso che la porta a un disperato e assoluto nichilismo. Ogni cosa e ogni persona, ripetute quantisticamente all’infinito, non hanno valore, e il risultato è un panorama mortificante, un nulla pieno di tutto, un crudele gioco di insensatezza cosmica. In preda a una simile angoscia esistenziale, comprensibilmente, la ragazza cerca conforto dalla mamma.

A Evelyn è chiesto di trovare una risposta impossibile, un barlume di senso in un multiverso spaventoso, sempre più complesso, sempre più oscuro e terrificante… e in qualche modo la trova, complice la natura di fabbrica dei sogni che è il cinema. Tra esplosioni di puro dadaismo e psichedelie surreali, trovate piacevolmente folli che fanno apparire il film come un trip acido particolarmente strutturato, si scava disperatamente alla ricerca di qualcosa da salvare in un cosmo alla deriva. In orizzonti di senso svaniti che portano inevitabilmente all'(auto)annientamento, di fronte all’abisso del nulla, la risposta si trova, nascosta, umile e sofferta, in una quotidianità di affetti che si concretizza nelle relazioni. Di fronte all’abisso, l’amore eroico e ostinato che insiste a valorizzare contro ogni evidenza l’oggetto del proprio affetto è l’unico argine possibile alla disperazione.

Tra le pieghe di citazioni dei Wachowski, Satoshi Kon e Kubrick, parodie di Ratatouille e scene sentimentali tra sassi, dita di wurstel e improbabili inserzioni anali, Everything Everywhere All at Once dimostra un’inaspettata profondità, una consapevolezza acuta e dolorosa di una generazione che chiede alla precedente una sola cosa: di esserci, di condividere per quanto possibile tempo, esperienze, emozioni… e magari di trovare proprio in questo una singola scintilla di senso persa nella sterminata oscurità di un multiverso che non offre alcun punto di riferimento.

 

Giacomo Mininni

 

[Photo credit Greg Rakozy via Unsplash]

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Un’arte per Cutro

A giorni di distanza da quel 26 febbraio non si è ancora spenta la polemica attorno al naufragio di Cutro. Mentre scrivo viene recuperato il corpo della 76esima vittima (un’altra bambina) e ci si accapiglia sul karaoke (comprensibile o inopportuno) della premier con il ministro delle infrastrutture. Passerà ancora del tempo e la contingenza della nostra vita moderna sempre in affrettata metamorfosi metterà questa tragedia nel già ricco cassetto della memoria delle tragedie.

Ma se la cronaca scompare sotto tonnellate di notizie giornaliere, forse tocca di nuovo all’arte il compito di rendere immortale un fatto e il suo pesante bagaglio emotivo. Un’arte che fugga quella che Arendt definiva la «vuota ragione della bellezza» e che secondo le parole di un altro filosofo, Adorno, pronunciate già negli anni Sessanta, «si addentra nell’ignoto, assumendo quel che è orrido e negativo del presente, per trasfigurarlo. Fino a farsi sfida al disincanto, perenne tensione, rinuncia alla serenità, dissonanza proclamata con serietà e inquietudine»1.

Questo il compito dell’arte politica, ovvero dell’arte come «riflesso e tribunale del presente»2, e degli artivisti, che «si fanno interpreti soprattutto del volto più perturbante della cronaca»3, intendendo il perturbante nel senso freudiano di ciò che genera spavento, angoscia e terrore. Come quelle immagini regalateci dalla cronaca di quelle decine di corpi strappati con fatica e sudore dalle onde infrante sulla sabbia di Cutro. Il tema delle migrazioni è appunto uno dei soggetti più indagati dall’arte politica, uscendo però da una chiave d’interpretazione soggettiva per privilegiare una restituzione oggettivo-antropologica in cui lo scopo è quello di responsabilizzare lo sguardo, ovvero dire allo spettatore: se stai guardando, sentiti chiamato in causa in prima persona.

Si tratta di un’arte a 360 gradi che coinvolge istallazioni, cinema, poesia, pittura, suoni, ecc. e proviene anche da artisti molto noti del panorama artistico internazionale. Ci sono opere minute, piccole ferite inferte nelle tenebre come l’intervento di Banksy su una parete di Rio Ca’ Foscari a Venezia: un bambino naufrago avvolto da un giubbotto salvagente con in mano un fumogeno fluorescente (2019). Oppure monumentali come i (discussi) 22 gommoni di salvataggio incastonati nelle bifore di Palazzo Strozzi a Firenze da Ai Weiwei, che provocatoriamente, sempre nel 2016, ricrea con il proprio corpo la famosa foto del piccolo Aylan Kurdi sulla spiaggia di Lesbo. Oppure sono opere da vivere, come la performance VB65 messa in scena da Vanessa Beecroft nel 2009 al PAC di Milano dove a una lunga tavola trasparente non apparecchiata sedevano dodici migranti africani in smoking mentre consumavano con le mani pollo e pane strappati a mani nude.

Quella Cutro è l’ennesima tragedia umana da riporre nel cassetto dei ricordi dolorosi, già particolarmente pieno alla voce “Mediterraneo”, territorio di speranze infrante e promesse non mantenute, sepolcro di quelle che a tutti gli effetti sono «vite di scarto generate dalla globalizzazione»4. Come scriveva Mazzucco, «il mare non dimentica, restituisce e trasforma ciò che non gli appartiene. Quei corpi […] diventeranno ciabatte, monconi e stracci che le onde rumineranno mesi e anni, per poi deporle su qualche spiaggia, come immonde uova di un’umanità infeconda. La nostra»5. Questi “corpi trasformati dal mare” sono per esempio conservati al Museo Porto M di Lampedusa, dove dal 2008 Giacomo Sferlazzo e il collettivo Askavusa raccolgono la memoria collettiva della migrazione sull’isola, fatta di oggetti banali recuperati dai barconi e che racchiudono innumerevoli storie. Ci sono invece gli abiti al centro dell’istallazione di Kader Attia La mer mort del 2015: jeans, magliette, maglioni e vestiti sparsi a terra alla rinfusa con sfondo un’immagine delle onde del mare. Nel 2019 l’artista svizzero Christoph Büchel espone alla Biennale di Venezia Barca nostra, il relitto di un naufragio avvenuto al largo della Libia nel 2015 costato la vita a quasi mille persone: una gigantesca spina nel cuore di una delle principali manifestazioni artistiche mondiali. Gigantesca è anche Porta di Lampedusa – Porta d’Europa di Mimmo Paladino, una scultura che è anche monumento, in ceramica refrattaria e ferro zincato; si staglia per circa 5 metri in altezza e 3 in lunghezza, posizionato nel 2008 sull’ultimo promontorio dell’isola per ricordare chi si è salvato e chi invece è morto.

L’arte da sola non risolverà certo la crisi migratoria, né tantomeno darà un perché a quanto accaduto a Cutro, ma ha il dovere di pungolarci costantemente, anche dove non ce lo aspettiamo, per imporci di non cedere all’oblio: se è vero il motto “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”, è il caso di tenere certi fallimenti del genere umano sempre bene in vista.

 

Giorgia Favero

 

1. T.W. Adorno, È serena l’arte?, Einaudi, Torino 1979, pp. 273-280
2, 3, 4. V. Trione, Artivismo. Arte, politica, impegno, Einaudi, Torino 2022, p. 13, p. 28, p. 50
5. M. Mazzucco, Il mare della pietà perduta, in “La Repubblica”, 15 giugno 2018

[Photo credit Zeno Striga, l’opera di Banksy a Venezia]

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Esercizi di libertà con Jonathan Livingston

Nel nostro quotidiano affannarci cercando di compiere i nostri tanti doveri può capitare che non ci si interroghi affatto sulla libertà né sulla mancanza di essa. Non è affatto semplice, infatti, comprendere se un concetto così bello e, allo stesso tempo, inafferrabile faccia parte della nostra vita e se la libertà che crediamo di avere corrisponda alle nostre più profonde esigenze. In questo senso, forse, sarebbe utile riappropriarci del diritto di comprendere come e dove sentiamo che essa si eserciti affinando la capacità di guardare dentro noi stessi, attività spesso trascurata per mancanza del tempo necessario all’introspezione. Una persona, per esempio, potrebbe sentirsi libera se riesce a dedicarsi ad un’attività che ama senza alcuno scopo preciso oppure se può gestire il proprio tempo in autonomia. Queste e altre innumerevoli forme di libertà, spesso, provengono da una ricerca individuale durante la quale, probabilmente, sorgeranno spontanee alcune domande “preliminari”: io sento di essere libero? Ho un mio spazio libero? O, in una fase successiva, dove si è cacciata la mia libertà che sento di aver perduto?

Esattamente a questo genere di domande si trova a rispondere il famigerato gabbiano Jonathan Livingston nel romanzo di Richard Bach che, riletto oggi, appare davvero illuminante. il gabbiano, infatti, rivendica una libertà particolare: la libertà di chi desidera con tutto se stesso seguire una voce altra che non è quella del gruppo sociale al quale, comunque, appartiene ma è una voce interiore, alla quale sente di non poter resistere:

«A un miglio dalla costa un peschereccio arrancava verso il largo. E fu data voce allo Stormo. E in men che non si dica lo Stormo Buonappetito si adunò, si diedero a giostrare ed accanirsi per beccare qualcosa da mangiare. Cominciava così una nuova dura giornata.
Ma lontano di là solo soletto, lontano dalla costa e dalla barca, un gabbiano si stava allenando per suo conto: era il gabbiano Jonathan Livingston. […] La maggior parte dei gabbiani non si danno la pena di apprendere, del volo, altro che le nozioni elementari: gli basta arrivare dalla costa a dov’è il cibo e poi tornare a casa. […] A quel gabbiano lì, invece, non importava tanto procurarsi il cibo, quanto volare. Più di ogni altra cosa al mondo, a Jonathan Livingston piaceva librarsi nel cielo» (R. Bach, Il gabbiano Jonathan Livingston, 1977).

Potremmo dire, quindi, che la fase più delicata, importante ed emozionante nella ricerca della propria libertà sia proprio accorgersi della mancanza di essa, solo avendone la percezione, infatti, si può agire concretamente per riconquistarla nonostante non sia sempre semplice. Per conquistare l’agognata libertà potrebbe essere necessario operare delle scelte anche drastiche e, spessissimo, si rischia di non venir compresi dagli altri. Jonathan Livingston stesso prova l’esperienza dell’emarginazione dal gruppo sociale perché nessuno dei suoi simili riesce a comprendere la sua inquietudine e le sue idee che, di fatto, se fossero accolte romperebbero un equilibrio, un ordine costituito, una serie di riti già ben collaudati. Per questo motivo, al nostro gabbiano non resta che recidere, almeno temporaneamente, alcuni legami e andar via verso un mondo nuovo dove troverà altri simili a lui coi quali confrontare le proprie idee, perfezionare le tecniche di volo che ama tanto e tramandare la sua idea di libertà, ovvero trarre felicità e soddisfazione personale nel compiere un atto senza un fine concreto«In capo a sei mesi, Jonathan aveva sei allievi, tutti esuli e reietti, ma pieni di passione. E curiosi di quella novità: volare per la gioia di volare!» (ivi).

Ed ecco come, pur nella sua brevità, il romanzo di Bach ci invita a cercare con tutte le nostre forze quella libertà che fa parte di noi, anche quando ci sembra di averla smarrita. Nelle ultime pagine il cerchio va a chiudersi per non finire mai: sarà un altro gabbiano a portare avanti lo slancio ideale di Jonathan Livingston e, forse, ha proprio ragione quando ricorda al suo adepto (e a noi) che: «Per tutte le cose, Fletcher, è questione d’esercizio!» (ivi).
Sarebbe davvero importante, per tutti noi, accogliere questo monito ed esercitarci a ritrovare la nostra peculiare libertà, regalandoci anche il diritto quasi dimenticato di praticarla. Nella nostra quotidianità dovremmo provare a dedicarci all’ascolto interiore, così da far emergere i nostri bisogni anche quando temiamo che quest’attività possa rubare tempo ad altri impegni più “concreti”. Tendere l’orecchio e mettersi nella condizione di riuscire ad ascoltare la propria voce più profonda potrebbe rivelarsi, infatti, il dono più bello e prezioso da fare a noi stessi.

 

Veronica Di Gregorio Zitella

 

[immagine tratta da Unsplash]

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Incomunicabilità: tra Crossroads di Franzen e Gorgia

Crossroads (Einaudi, 2021) è il sesto romanzo dello scrittore statunitense Jonathan Franzen. Come in altri suoi libri (Le correzioni, Libertà), Franzen esplora le complicate, delicate e a tratti surreali dinamiche di una famiglia americana, gli Hildebrandt, all’inizio degli anni Settanta. Il capofamiglia è Russ, pastore della chiesa locale in crisi su vari livelli esistenziali, sposato con Marion, una donna infelice, insoddisfatta del proprio aspetto fisico, intrappolata nei ruoli di moglie devota e madre presente – gli Hildebrandt hanno quattro figli. Crossroads è il gruppo giovanile della parrocchia di Russ, dal quale però lui è stato estromesso perché osteggiato dai giovani membri. Rick Ambrose, giovane seminarista, minaccia di prendere il posto di Russ – lo ha già preso all’interno di Crossroads ed è l’idolo di tutti i ragazzi.
Il matrimonio di Russ e Marion, nel frattempo, naufraga. Lei va segretamente da una psichiatra, e durante una seduta emergono esperienze traumatiche vissute in gioventù che aveva rimosso e di cui non ha mai avuto il coraggio di parlare al coniuge.
Nel corso del romanzo, Franzen travolge il lettore con le storie dell’infanzia e dell’adolescenza di Russ e Marion: due vite agli antipodi. Ma il vero protagonista di questo coinvolgente romanzo è l’ incomunicabilità che connota i rapporti tra Marion e Russ, che vivono come due estranei, chiusi nelle loro routine e fantasticherie: Russ pensa a Frances, una parrocchiana vedova e attraente per la quale prova qualcosa; Marion pensa alla ragazza che era e al suo passato movimentato, così diverso dalla vita monotona e inquadrata che conduce.

Nella storia della filosofia occidentale, i sofisti sono stati i primi a individuare una scissione tra realtà e linguaggio, parlando anche di incomunicabilità. Comunicare ciò che la realtà è attraverso il linguaggio è arduo, a tratti impossibile, perché ogni forma di comunicazione è in fin dei conti un’interpretazione. Eppure, come rilevano i sofisti, il linguaggio ci costituisce, costruisce mondi, è potente, persuade, ammalia. Ma può anche distruggere: i personaggi di Franzen tacciono esperienze fondanti delle loro esistenze, dando così vita a rapporti falsi e inconsistenti, e lo fanno per paura di mostrarsi, perché ciò che veramente sono e desiderano non sembra essere “dicibile” né accettabile.
Marion, come Russ (ex mennonita fuggito, in gioventù, dalla famiglia e dalla comunità), si ritrova, giovanissima, senza alcun appoggio o legame con la sua famiglia d’origine. Finisce per innamorarsi di un uomo sposato per cui sviluppa un’ossessione, che fa emergere in lei gravi problemi psichiatrici. Finisce in una clinica, poi in mano a un uomo depravato e senza scrupoli; infine approda a Russ, buono e generoso, inesperto dell’amore e del sesso, che perde la testa per lei. Ma la Marion “pre-Russ” viene da lei stessa relegata in un posto così lontano e inaccessibile, all’interno della sua mente, che finisce per essere inesistente, persino inconoscibile, e in ultima analisi incomunicabile.

Proprio come sostiene Gorgia nella sua opera Sul non essere. Sono celebri le sue tre tesi nichiliste:

  • Nulla esiste

  • Anche se qualcosa esistesse, non sarebbe conoscibile

  • Anche se qualcosa fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile

Marion tace se stessa a Russ – come se non ci fosse nulla da comunicare. È impossibile raccontare a un uomo buono e devoto il suo passato depravato, il suo vero io. E allora nulla di ciò che lei veramente era e ha fatto prima di conoscerlo, è mai esistito. Ma quel nulla è il nucleo fondante della personalità di Marion, e a un certo punto emerge prepotentemente esprimendosi con folle rabbia, con gesti che le erano familiari, ma che sono sconosciuti e incomprensibili per Russ.
Anche lui tace sulla sua curiosità sessuale: Marion è stata la sua prima e unica donna, ha deciso di sposarla troppo in fretta, e altrettanto in fretta l’ha trasformata in madre amorevole e moglie consigliera, spogliandola di quel fascino e di quel mistero, di quel lato selvaggio che la caratterizzavano. Anche Russ ha rinchiuso la realtà di quella Marion in un cassetto della sua mente, gettando poi via la chiave. Quella Marion non esiste, non la si può esperire, non la si può raccontare a parole. E allora Russ si rifugia in una realtà diversa, rappresentata da Frances.

C’è uno iato, secondo i sofisti, tra physis (natura, realtà) e nomos (legge, tradizione, linguaggio): tra ciò che la realtà è e ciò che diventa grazie ai filtri della tradizione, della legge, delle convenzioni sociali e religiose, delle parole. Come sappiamo, Gorgia non voleva negare l’esistenza di ogni cosa, bensì dimostrarci che arrivare ad un principio ultimo, assoluto e metafisico della realtà, è impossibile: non possiamo conoscerlo, non possiamo dirlo.
Ma, tornando agli Hildebrandt, si evince che qualcosa andrebbe detto, invece: non per mascherare, bensì per tentare di comunicare loro stessi e la loro realtà meglio che possono – e tutti noi dovremmo farlo. Sbaglieremo, perché comunicando interpretiamo sempre, storpiamo. Ma dobbiamo tentare, cercare di imparare la lingua dell’altro, cercare di far sì che anche l’altro impari la nostra: per ritrovarci, conoscerci, entrare veramente in contatto.
Il linguaggio resta, così come la nostra capacità conoscitiva (della realtà in generale e della realtà dell’altro), manchevole. Ma è l’unico mezzo a nostra disposizione per dire una realtà che per ognuno di noi è tangibile, concreta. Dobbiamo costantemente cercare di ridurre o di stare in quello iato tra realtà e linguaggio, oppure tentare di superarlo: tentativi forse impossibili, ma necessari per comunicare.

 

Francesca Plesnizer

 

[Photo via Pixabay]

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“Grazie ragazzi”: nell’attesa di Beckett uno slancio di vita

Un lavoro, un/a compagno/a di vita, una vacanza, la laurea o il diploma, un’uscita con gli amici, un aumento in busta paga, un figlio, la concessione del mutuo, l’inizio di una nuova attività, un abbraccio o un bacio, il Natale, un successo sportivo, una risposta, la fine di qualcosa, la guarigione, la morte, la vita. Passiamo la nostra esistenza ad aspettare – o meglio, forse, sono tante le cose che attendiamo giorno per giorno, a volte in modo ossessivo, a volte vano. Nessuno meglio dei prìncipi dell’attesa della cultura occidentale può raccontarcelo: Estragone e Vladimiro, protagonisti (presenti) del capolavoro di Samuel Beckett Aspettando Godot (1952), le cui riflessioni apparentemente (o veramente) senza senso continuano ancora oggi a pungolarci.

Siamo nel teatro dell’assurdo, una scenografia scarna con pochi personaggi sul palco che non fanno altro che aspettare questo signor Godot, sulla cui identità – fuori dalla sceneggiatura – da decenni ormai le teorie si sprecano – Dio? Impersonificazione della fortuna? Della morte? –, liquidate tutte fin da subito da Beckett stesso che diceva che non sapeva neanche lui chi fosse Godot. Ed è forse proprio questo il punto che rende l’opera così universale.

Di recente se n’è appropriato anche il cinema italiano con Grazie ragazzi di Riccardo Milani (2023), uscito nelle sale da poche settimane e trasposizione dell’originale francese che racconta la storia vera di un attore svedese. La storia di un gruppo di detenuti al quale viene proposto un laboratorio di teatro per mettere in scena proprio l’opera di Beckett. Chi del resto meglio dei carcerati – vuole convincerci l’attore-insegnante di teatro Antonio Albanese – può interpretare al meglio l’attesa continua? L’attesa “del pasto, dei colloqui, dell’ora d’aria, del giorno dopo”, ma soprattutto del giorno della libertà, la madre di tutte le attese.

E così quattro uomini tra loro assai diversi vestono i panni dei quattro principali personaggi di Beckett, mettendo in scena quei dialoghi magistralmente assurdi proferiti per ingannare l’attesa – o meglio proprio perché ne sono intrappolati. Su quel palco l’esistenza perde e riassume valoreCi suicidiamo oggi o domani?», e poi «Troviamo sempre qualcosa, vero, Didi, per darci l’impressione di esistere?»), si alternano momenti di calma e di tensione, d’ilarità e di rabbia, ritorna puntualmente il tema della memoria: «Sono infelice», «Ma no! Da quando?», «Me n’ero dimenticato», «Sono scherzi che ci fa la memoria». I personaggi dimenticano cos’hanno fatto ieri, non sanno se ricorderanno domani cos’hanno fatto oggi («non ricordo di aver incontrato nessuno, ieri. Ma domani non ricorderò di aver incontrato nessuno oggi»), addirittura si dimenticano quello che stanno facendo, cioè aspettare Godot («Che facciamo adesso?», «Aspettiamo Godot.», «Già, è vero»). Presi talvolta da un’apatia di vita, ogni giorno è sempre uguale nell’attesa.

Così in carcere. In una commedia che strappa più di una risata, Grazie ragazzi ci ricorda il potere salvifico dell’arte, la sua capacità di fare breccia nelle mura dell’isolamento, di un’arroganza e menefreghismo costruiti, riportandoci lì dove vogliamo stare, nelle relazioni autentiche e nella bellezza della vita; l’arte che prova a darci una seconda chance o che semplicemente allevia le nostre sofferenze, ci apre una prospettiva nuova. Però ci fa rivalutare anche il sapore del sole sul viso e di un orizzonte ampio, la possibilità di aprire qualsiasi porta e di andare dove vogliamo: in altre parole, della libertà. Una libertà a volte davvero molto fragile e che quando negata ci rinchiude in questo vortice d’attesa. Il film non indugia nel raccontarci perché Damiano, Mignolo, Diego e Radu (con l’unica eccezione di Aziz) sono in carcere, affinché il nostro giudizio possa andare oltre l’evidente fatto, seppur non trascurabile, che hanno compiuto un gesto illegale, inducendoci a non trascurare nemmeno l’umanità che resta al di là delle azioni. Un’umanità nella quale possiamo ancora a sentirci fratelli. Scevro da pietismo e buonismo, il monologo finale di Albanese vuole parlarci dritti al cuore proprio per non lasciarci inermi di fronte allo scorrere del tempo e della vita, e per non voltare lo sguardo lontano dalle tragedie dell’esistenza e della società, arroccati nel pregiudizio. Soprattutto in vista della conclusione del film, un po’ amara ma reale, svincolata dagli happy ending da commedia per restare aderente alla storia originale e anche a un senso di giustizia terrena.

Qualcosa di particolarmente importante però ci distingue da Estragone e Vladimiro e dagli inaspettati attori del film di Milani, ed è questo: loro restano e noi ci muoviamo. Il duo di Beckett rimane accanto all’albero, immobile, mentre noi sfogliamo l’ultima pagina e chiudiamo il libro; Diego, Damiano, Aziz, Radu e Mignolo (attenzione, spoiler!) tornano in carcere mentre noi ci alziamo dalla nostra poltrona comoda e usciamo dalla sala. Abbiamo la nostra occasione di raccogliere tutte le riflessioni del caso e andarcene, farne qualcosa, non vanificare attese e speranze. Inseguendo con rinnovata grinta Godot, oppure lasciandolo finalmente andare.

 

Giorgia Favero

 

[photo credit Felix Mooneeram via Unsplash]

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Eroi umani, troppo umani: tra forza e fragilità

Avevo 17 anni quando ho letto Un uomo di Oriana Fallaci. La giornalista era riuscita magistralmente a trasmettere anche a me la fascinazione e il trasporto che lei, in quanto compagna di Alèxandros Panagulis, provava per lui. A quell’età, non ancora del tutto disincantata sul mondo e sulla vita, avevo trovato in lui un eroe.

Sventurata è la terra che ha bisogno di eroi”, scriveva Brecht in una delle sue opere teatrali. E perché mai? Cosa c’è di male in un eroe?, potremmo chiederci. Il senso è che l’attesa dell’eroe, del deus ex machina che piomba nel caos e vi mette ordine, spoglia l’individuo della sua azione e della sua creatività. Se l’umanità ha bisogno di eroi, significa che è un’umanità che aspetta senza agire. Ecco perché Alèxandros Panagulis era un eroe così credibile: perché era del tutto eroico e del tutto imperfetto.

Frequentavo il liceo classico e di eroi ne sapevo qualcosa. La letteratura antica infatti ha regalato moltissime figure impegnate in eroiche missioni causate da dèi avversi – penso ad Aiace, Ettore, Eracle; eroi che muoiono ma in qualche modo restano invincibili. E poi c’è l’eroe degli eroi, Odisseo: il distruttore di Troia, l’impeccabile mente. Lui qualche debolezza la mostra: piange al ricordo dei compagni perduti, si strugge di nostalgia per Itaca; questo perché è umano e l’incipit dell’Odissea lo spiega subito chiaramente iniziando proprio con quella parola, “uomo”1. I tempi cambiano in Grecia soprattutto con l’Ellenismo, quando decadono i valori classici e tutto è in balia di una nuova divinità, la tùche, la sorte. In questo periodo si affaccia una nuova lettura dell’eroe Giasone, quella di Apollonio Rodio nelle Argonautiche. Il nuovo Giasone è amèchanos, “privo di risorse”, nella stessa misura in cui Odisseo per Omero è polùtropos, “dall’ingegno multiforme”: non si tira fuori dal pericolo da solo, sono gli dèi e una donna, Medea, a salvarlo in varie situazioni mentre lui, letteralmente, “non sa cosa fare”. Questo Giasone del 245 a.C. sembra proprio “un eroe che ha bisogno di eroi”, un eroe che dubita delle sue capacità; antieroe classico ma proprio per questo eroe ellenistico. Un uomo in preda alla sorte.

C’è poi un’altra rilettura dell’eroe classico meritevole d’esser considerata: l’Ulisse di James Joyce. Il libro omonimo esce nel 1922, dopo una guerra che ha ridisegnato i profili del mondo e gli orizzonti valoriali, nonché nel pieno sviluppo delle teorie psicanalitiche. Lo scopo è proprio quello di creare un parallelo tra l’eroe e un qualsiasi uomo della modernità. Lui, così come la moglie Molly (parallelo di Penelope) e Stephen Dedalus (parallelo di Telemaco), racchiudono alcune fragilità tipiche umane quali la diffidenza, l’infedeltà, la passività; la loro eroicità sta nel resistere alle soffocanti sovrastrutture sociali, alle convenzioni e alle aspettative, pur nelle loro debolezze.

Anche Alèxandros Panagulis, rivoluzionario che fa della liberazione della Grecia dalla dittatura (1967-1974) la sua ragione di vita, sfoggia numerose ombre. Inizialmente il suo personaggio sembra molto chiaro: stoicamente eroico sopporta anni di carcere, torture e umiliazioni. È proprio con la scarcerazione e il ritorno nella società che la facciata comincia a spaccarsi e il sogno a infrangersi: scopre che la sua Grecia non ha più bisogno di eroi e si accontenta della nuova, falsa democrazia in comando e comincia a perdere fiducia nel popolo, cade nell’alcool, nell’infedeltà sistematica, cede alla rabbia. I Greci non lo vedono più come un eroe e lui non si sente un eroe. Finché, “misteriosamente”, la sua auto si schianta contro un muro a pochi giorni da un suo discorso in parlamento in cui avrebbe svelato alcuni documenti segreti. La Grecia si sveglia nuovamente e il suo funerale, il 5 maggio del 1976, è seguito da mezzo milione di persone che invadono Atene al grido “Alekos zi zi zi” (“Alekos vive vive vive”). Scrive Oriana Fallaci: «Ecco perché sorridevi tanto misteriosamente ora che calavi dentro la fossa dove il Gran Sacerdote […] ruzzolava grottesco […] calpestando la statua di marmo, credendo che soltanto quella restasse di un sogno, di un uomo».

Durante il lockdown causato dal Covid-19 ho assistito improvvisamente a un mondo che riversava ogni dove quella parola, eroe, a proposito degli operatori sanitari. In che cosa sono diversi da noi questi eroi? In che cosa vi assomigliamo? Tra le tante domande e risposte provvisorie, continuo a ricordare in quanti in quei giorni hanno detto “Non sono un eroe, faccio semplicemente il mio lavoro”; eppure li ignoriamo, continuiamo a considerarli eroe. Provo una certa desolazione nel constatare quanto ci venga spontaneo credere che l’abnegazione nei confronti degli altri, l’altruismo e il rispetto, possano appartenere soltanto a degli umani speciali, e non a tutti noi, chiunque di noi, noi umani.

 

Giorgia Favero

 

NOTE:
1.“Andra moi ennepe, Mouse, polutropon” racconta Omero, in italiano: “Cantami, o Musa, dell’uomo multiforme”. Andra significa appunto “uomo” ed è la primissima parola di tutta l’Odissea.

[Photo credits Unsplash-com]

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Inconscio e arte in Hieronymus Bosch

Hieronymus Bosch, pittore olandese attivo tra fine 1400 e inizio 1500, è noto per la complessità delle sue opere. Il suo linguaggio artistico è sicuramente singolare, caratterizzato da figure oniriche e luoghi curiosi, popolati da creature fantastiche e mostruose. Questo artista eclettico è protagonista di una mostra a Palazzo Reale (Milano) in quanto emblema di un Rinascimento alternativo, contrapposto al Rinascimento che fa perno sul mito della classicità. L’altro Rinascimento di Bosch è composto da mondi onirici, composizioni affollate, in cui loci amoeni, ovvero luoghi incantevoli, sono dipinti vicino a città incendiate e sono popolati da mostriciattoli, uomini con volti spaventosi e ibridi animali. Nonostante ciò, da lontano le sue creazioni possono sembrare ordinari dipinti rinascimentali.

Bosch è un artista davvero enigmatico: la sua vita tranquilla di uomo religioso si contrappone a un’arte in cui vengono alla luce demoni con sembianze di uomini, animali e/o oggetti. Queste figure informi passano dalla mente dell’artista alla tavola, immersi in ambienti fantasiosi e inquietanti, e sono figure che ben si inseriscono nella cultura del tempo di Bosch: rappresentano speranze e timori che si respiravano in un Medioevo agli sgoccioli. Il pittore mette in scena un mondo la cui unica certezza era la miseria di ogni singolo individuo, dovuta a una morale sempre conflittuale. Questo conflitto interno non è, però, legato solamente agli uomini di quel periodo, ma è presente in ciascuno di noi come continua guerra tra bene e male. Quello di Bosch è un monito: il male non è qualcosa di relegato all’aldilà, bensì è presente nella nostra realtà. La follia dell’umanità ci ricorda e il peccato e il male sono abissi in cui chiunque può cadere. Bosch, dunque, rappresenta le conseguenze di una vita totalmente lasciva e dedita al male, come vediamo nel Trittico del Giardino delle delizie (1480-1490).

Al di là delle motivazioni razionali che legano Bosch alla sua arte, non possiamo non pensare che egli sia un perfetto esempio di alcune riflessioni della psicanalisi sull’arte. Freud, per esempio, dedica una serie di saggi all’arte come sublimazione e come terapia. Il processo di sublimazione consiste nel rendere i nostri impulsi, anche quelli più infimi, attraverso un veicolo socialmente accettato. Gli aspetti dei processi creativi non sono mai sotto controllo cosciente dell’artista proprio perché l’arte permette di rappresentare le proprie pulsioni, anche quelle più profonde, come afferma Dalton Peggy, psicoterapeuta contemporanea. L’artista prende sempre ispirazione dal suo inconscio creando un mondo di finzione, quasi fosse un gioco infantile. E quale esempio migliore di mondi di finzione creati dall’arte se non le opere boschiane?

L’arte è, dunque, una sorta di terapia, sia per l’artista che per noi spettatori, poiché possiamo interfacciarci con il nostro io, toccando corde nascoste ed emozioni spesso messe a tacere. Freud usa il termine perturbante per descrivere ciò che si prova fruendo un’opera d’arte. Si percepisce, cioè, qualcosa di spaventoso e familiare, per usare un ossimoro caro al fondatore della psicoanalisi: si vuole tenere lontana l’opera ma, allo stesso tempo, si è attratti da essa perché rappresenta il nostro io, più nascosto e più vero. Questa contraddizione spiega chiaramente le sensazioni provate di fronte a un’opera boschiana. Bosch, infatti, è – come ciascun artista o ciascuna persona che crei arte, anche solo per piacere – «uomo che si distacca dalla realtà poiché non riesce ad adattarsi alla rinuncia al soddisfacimento pulsionale che la realtà inizialmente esige, e lascia che i suoi desideri di amore e di gloria si realizzino nella vita della fantasia» (S. Freud, Precisazione sui due principi dell’accadere psichico, 1911). L’arte di Bosch ci ha lasciato, dunque, diverse eredità: il legame tra arte e sogno o incubo ha colpito i surrealisti, che si sono ispirati particolarmente alle opere boschiane, tanto che il pittore olandese viene considerato precursore del movimento. Inoltre, grazie al suo rappresentare vizi e conflitti interiori, Bosch ci permette di riflettere sulla funzione dell’arte, soprattutto in stretto legame con le nostre pulsioni.

 

Andreea Elena Gabara

 

[Photo credit Johannes Plenio via Unsplash]

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Sull’importanza dello studio come nostra attività quotidiana

C’è un brevissimo scambio di battute nel film “Vento di Passioni” del 1994 di cui vorrei avvalermi per introdurre e discutere un tema, quello della formazione e dell’istruzione, sempre più cruciale a molte questioni irrisolte della nostra contemporaneità. 

La scena cinematografica è quella che vede il Colonnello Ludlow (Anthony Hopkins) e la futura nuora Susannah (Julia Ormond) condividere la loro cena in cucina con la famiglia incaricata dei servizi domestici della casa. Durante la conversazione a tavola, il Colonnello, accorgendosi delle lacune educative della tredicenne Isabel (Sekwan Auger), offre ai genitori la sua disponibilità a occuparsi personalmente della sua istruzione. Il padre Decker (Paul Desmond) si rivolge quindi alla moglie (Tantoo Cardinal) per un suo parere, e subito dopo, con franchezza e senza fronzoli, pone al Colonnello la seguente domanda: «E che ci farà con tutta questa istruzione?» Al ché il Colonnello Ludlow, in un misto di sorpresa e ovvietà, gli risponde: «Avrà una vita più ricca e più piena!»

Questa risposta rapida e concisa sembra però lasciare un po’ perplesso il padre di Isabel. La sua esclamazione, in pronta battuta, sulla peculiarità d’origine della figlia sembra infatti esprimere il dubbio che l’educazione offerta dal Colonnello possa essere, in qualche modo, inadatta o inappropriata rispetto alle realistiche opportunità future di Isabel.

Il film è ambientato nel Nord-America durante gli anni dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, quindi all’incirca poco più che cent’anni fa, ma la domanda del padre di Isabel supera la contingenza temporale cinematografica, qualificandosi piuttosto come un interrogativo tra i più comuni. Chi di noi non si è mai chiesto almeno una volta il senso e il motivo dell’utilità pratica dello studiare

Ora, se è del tutto normale investire il proprio impegno di studio in previsione di una più o meno specifica occupazione professionale è altrettanto vero che la selezione formativa e conoscitiva operata dalla nostra scelta rischia di circoscrivere l’importanza dello studio esclusivamente a una funzione preparatoria e per questo tacitamente a termine.

Ecco che allora la risposta del Colonnello Ludlow ci offre l’occasione di riflettere più in profondità sul senso dello studio. La sua affermazione infatti esprime la convinzione che l’educazione culturale in senso lato, abbia un valore a prescindere da qualsiasi posizione o possibile contesto sociale. Quello studio infatti permetterà a Isabel di vivere «una vita più ricca e più piena» indipendentemente da un suo riconoscimento generale o una sua remunerazione materiale poiché l’importanza dell’impegno e dell’esercizio allo studio sta innanzitutto nel rafforzamento della propria interiorità e personalità. Infatti, attraverso esso, noi impariamo a interrogare il nostro pensiero, ad assumere momentaneamente la prospettiva di altri e ad acquisire, per questo, una maggiore capacità e volontà espressiva. 

Queste considerazioni lineari, apparentemente prive di implicazioni pratiche, sfidano, in realtà, almeno due nostre impostazioni culturali piuttosto assodate.

La prima è quella che tende a identificare lo sviluppo della persona con la competenza di una professionalità specifica e contingente nonostante non ci siano evidenze empiriche di una coincidenza al dettaglio tra le funzioni gerarchiche sociali e la diversificazione di ciò che chiamiamo “talento”. Se, dal punto di vista pratico e realistico, sembra più che ottimale una selezione conoscitiva di tipo funzionale, è di certo discutibile l’idea, a essa troppo spesso implicita, di uno sviluppo della nostra persona coincidente e mai abbastanza eccedente la competenza acquisita di una mansione generica o specializzata. Ciò a maggior ragione oggi che le nostre attività occupazionali tendono a subire un dinamismo capace di renderle obsolete. 

La seconda, tanto antica quanto imbarazzante, è quella che accorda al sapere l’attributo del potere e che, parimenti, accetta senza riserve la necessità organizzativa delle proprie strutture economiche come criterio elettivo e selettivo del proprio personale patrimonio conoscitivo, determinando un rapporto inverso, e quasi sempre definitivo, tra volume conoscitivo e status sociale. Situazione particolarmente paradossale oggi che la funzionalità dei nostri compiti sembra esonerarci da osservazioni e riflessioni di più ampio respiro.

Per queste ragioni lo studio non è da intendersi come una attività meramente scolastica finalizzata al superamento di un esame e all’ottenimento di un titolo specifico ma come una nostra attività fondamentale da coltivare con libero interesse e ordinarietà. La sua importanza sta nel sostenere la nostra voce che si caratterizza imparando a legittimare l’esigenza di espressività che spunta e muove dalla singolarità della propria vita.  

Riuscirà la cultura del nostro secolo a riconoscere il valore dello studio, a tradurlo in pratiche quotidiane e a fiorire grazie all’uso democratico e alla costruzione partecipata della conoscenza? 

 

Anna Castagna

 

[Photo credit Alexander Grey via Unsplah]

 

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Arte e Psiche: come rappresentare la realtà?

La relazione tra un artista e la sua psiche è imprescindibile per ben comprendere le sue opere d’arte. Possiamo, e dobbiamo, pensare ad artisti, come Vincent Van Gogh, Joan Mirò e Paul Cézanne, che fecero della loro psiche, intesa come l’insieme di funzioni emotive, relazionali e cerebrali, l’anima della loro arte. Possiamo anche pensare alla psicoanalisi, tramite la quale il legame tra arte e psiche viene studiato in modo approfondito sin da Freud e Jung.

Cosa intendiamo precisamente con relazione tra artista e psiche? Patrick McGrath in Follia (1996) parla di questo legame e ce ne fornisce una lettura. Ci racconta di un artista che riflette i turbamenti e le alterazioni del suo carattere nelle sue sculture, in un’ottica diversa da quella che ci immagineremmo. Questo artista è Edgar, protagonista di una relazione molto complessa con Stella, moglie del vice direttore del manicomio, in cui lo stesso Edgar Stark è detenuto per uxoricidio. I turbamenti di Edgar e la sua malattia si riflettono nella relazione d’amore e nella sua arte, data la sua abitudine a scolpire i visi delle donne amate.

«Dopotutto era un artista, e in ogni artista si annida un bambino sperduto e indifeso» (P. McGrath, Follia, 1996).

Così viene descritto Edgar. In effetti, notiamo che il suo isolamento sociale è evidente, proprio come quello di Stella, e può essere ritenuto una delle cause della loro dipendenza affettiva. Un isolamento, il loro, in cui lei si lasciava ritrarre e lui dava sfogo alla sua psiche sotto forma di materia. Lui rappresentava Stella, ne scolpiva la testa ma lasciava trasparire dalle sue opere un animo mosso da sentimenti forti. «Succede abbastanza spesso agli artisti e credo che dipenda dalla natura del loro lavoro. Vivere per lunghi periodi in solitudine e poi esibirsi di fronte a un pubblico, col rischio di esserne respinti, porta a instaurare col partner una relazione di un’intensità abnorme» (ivi). L’arte di Edgar, dunque, scaturisce da un isolamento dal resto del mondo, da una relazione complessa e dai sentimenti che tutto ciò può portare. La sua arte è una valvola di sfogo e lui non può assolutamente rinunciarvi, perché è il suo modo di cercare la realtà. Cosa intendiamo con l’espressione ricercare la realtà? Edgar e Stella discutono proprio di quella che è, secondo lui, la funzione dell’arte.

Edgar, infatti, ritrae la testa di Stella ma ritiene di non riuscire a plasmare quello che si agita nella sua mente, ciò che lo tormenta. Stella gli chiede come mai la sua scultura non abbia i contorni e lo chiede perché l’assenza di contorni le sembra indicare una non conoscenza, come se lui non sapesse chi lei è. L’artista, però, le risponde che proprio ciò che non vuole è vedere Stella, vederla come si vede lei allo specchio o come la vedono gli altri. Vuole semplicemente cercare un’immagine realistica, la realtà. Stella non riesce a capire cosa intenda.
Lui, però, sa bene come definire la realtà: la realtà è ciò che meramente vede, liberata da ciò che sente. Questa è la realtà, e la verità. Non sappiamo quanto di vero ci sia nel dialogo, visto che, dopo aver detto queste cose, Edgar scoppia a ridere, ma possiamo immaginare che l’artista voglia liberarsi da ciò che sente e dai tumultuosi istinti che ha, dalla sua paranoia e dalla sua malattia. Possiamo immaginare che la realtà per lui sia senza contorni, senza linee definite esattamente come lo è la sua psiche. La scultura indefinita, dunque, rappresenterebbe sia la realtà esterna, spoglia di sensazioni, sia quella interna, frammentata e indecifrabile.

Ecco che il cerchio si chiude e noi comprendiamo come l’arte sia riflesso della psiche: in questo caso l’artista non trasmette i contenuti della sua anima, i suoi turbamenti, ma piuttosto il modo in cui percepisce la sua psiche, caotica e sfocata, agitata e anche ambigua. La realtà, dunque, oggetto della sua arte, altro non è che la cornice in cui l’identità dell’oggetto della sua arte e l’entità delle sue emozioni sono sfocate e indecifrabili.

 

Andreea Elena Gabara

 

[immagine tratta da Unsplash]

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Fino all’ultimo respiro, ricordando Jean-Luc Godard

È morto il 13 settembre 2022, il 3 dicembre avrebbe compiuto 92 anni: Jean-Luc Godard, nato a Parigi nel 1930, una delle più importanti personalità della Storia del Cinema, uno dei maggiori esponenti della Nouvelle Vague, ma soprattutto un uomo, che ha scelto di inserire la parola fin in quel lungometraggio o – come avrebbe forse detto uno dei suoi amici dei Cahiers du Cinèma e fondatori della medesima corrente cinematografica, François Truffaut – in quel tourbillon che è la vita. Tra i suoi capolavori che hanno segnato la storia del cinema ricordiamo: À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro) del 1961 con Jean Seberg e Jean Paul Belmondo, considerato uno dei manifesti della Nouvelle Vague; Le mépris (Il disprezzo), del 1963, basato sull’omonimo romanzo di Alberto Moravia, con Michel Piccoli e Brigitte Bardot; Bande à part, del 1964 con la celeberrima corsa al Louvre ripresa nel 2003 nell’altrettanto celeberrima scena di The Dreamers di Attilio Bertolucci.

Una morte programmata quella del regista: un suicidio assistito avvenuto in Svizzera a Rolle, in secondo piano, sullo sfondo, nelle pieghe del montaggio, come uno di quei rumori di strada o di una macchia di luce che caratterizzano le inquadrature della Nouvelle Vague che puntano a catturare l’anima delle cose. In primo piano in quei giorni, invece, i riflettori erano puntati su un altro addio, quello di e a una donna, la Regina Elisabetta.

«-Fra il dolore e il nulla io scelgo il dolore. E tu, cosa sceglieresti?
-Il dolore è idiota. Io scelgo il nulla. Non è meglio… ma il dolore è un compromesso. O tutto o niente».

All’indomani della morte di Jean-Luc Godard riecheggiano inevitabilmente queste celebri battute di À bout de souffle, scambiate tra Patricia e Michel e a loro volta citazione dal romanzo Palme selvagge (1939) del Premio Nobel William Faulkner. Artista e uomo rivoluzionario, ribelle e anticonformista, anche Jean-Luc Godard ha scelto il nulla: in quanto regista ha diretto la propria vita fino all’ultimo respiro e di fronte al dilemma, in quanto uomo, del dolore e del nulla, ha scelto il nulla. Kierkegaardianamente scagliato nell’esistenza, eliminato Dio come figura deterministica, paternalistica e consolatrice, e consapevole – come affermava Jean-Paul Sartre celebre nella conferenza L’existentialisme est un humanisme (1945) – che «L’uomo è condannato a essere libero», ha scelto il nulla ed è stato questo il suo addio, per alludere a un refrain di Million Dollar Baby (2005) di Clint Eastwood: «Tra le querce e i cedri dispersi tra il nulla e l’addio».

Jean-Luc Godard è stato un regista totale, in continua sperimentazione e contraddizione, fondatore nel 1969 di un collettivo di estrema sinistra, il Gruppo Dziga Vertov, e per il quale il cinema è prima di tutto montaggio e dovrebbe mostrare quello che non succede e che non si può vedere da nessun altra parte, neppure su Facebook – come lui stesso aveva dichiarato durante una Conferenza Stampa del Festival di Cannes nel 2018 in occasione della presentazione del suo ultimo lavoro, Le livre d’images. Il suo ultimo respiro arriva da un oltretomba lontano: i titoli dei giornali e le rapide notizie televisive sulla sua morte si sono stagliate come un frame dal buio proprio come in questo suo ultimo radicale e innovativo oggetto cinematografico.

Immagino Godard in parte come il Napoleone de Il Cinque maggio manzoniano: un uomo fatale, un uomo che ha incarnato e che ha orientato lo spirito del proprio tempo e che per questo si è paradossalmente eternato; ma comunque un uomo, un uomo nella propria finitezza e un uomo disarmato di fronte al mistero della morte, cui sceglie però di andare incontro, come quel celebre treno dei fratelli Lumière in arrivo alla stazione della Ciotat andava incontro agli spettatori.

Immagino la vita di Godard sia come la celebre corsa del piccolo Antoine Doinel nel finale di uno dei manifesti della Nouvelle Vague, Les 400 coups (I 400 colpi) del 1959 di François Truffaut, sia come quel celebre tourbillon de la vie cantato da Jeanne Moreau in un altro manifesto di tale corrente cinematografica del medesimo regista, Jules et Jim del 1962, tra leggiadria e malinconia, tra spensieratezza e fatale determinazione: la vita come un lungo piano sequenza verso un capolinea e la vita come un gomitolo la cui armonia è proprio il caos. La vita che – sia in una dimensione lineare sia in una dimensione circolare, sia in una qualche prospettiva ultraterrena sia in una prospettiva materialista – è movimento, in greco “kìnesis”. Il “cinema” ha proprio a che fare etimologicamente con la vita e questa è stata la vita di Jean-Luc Godard, da cui mi piace congedarmi affidandomi alle parole conclusive di Il grande Gatsby, «Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato».

 

Rossella Farnese

 

[Photo credit Jeremy Yap via Unsplash]

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