Il mondo virtuale. Dove l’imperativo morale va in tilt

Ormai è come se tutti noi, ogni giorno, vivessimo a cavallo tra due mondi.  Il primo è il mondo reale, quello che ci circonda, fatto di oggetti e persone con cui interagiamo nell’ambito di regole e comportamenti convenzionalmente stabiliti per garantire una convivenza sociale quanto più pacifica possibile. Il secondo è quello virtuale al quale accediamo in continuazione per mezzo di diversi dispositivi, nel quale vive la nostra versione immateriale che interagisce con altre e diverse versioni immateriali di esseri umani, nell’ambito di uno spazio in cui, almeno apparentemente, tutto è concesso: anche gli insulti, le discriminazioni e le diffamazioni, perché, in fondo, a chi si fa del male? Non si ledono i sentimenti di un essere umano in carne e ossa ma si attacca una entità inconsistente, un ammasso di lettere e numeri, un nickname. Questo ovviamente, come spiegherò più avanti, non corrisponde al vero. 

Tra i due mondi (o, volendoli considerare come parti di un unico mondo, diremmo tra le due dimensioni) non si tratta, in questa sede, di aggettivare come più “importante” quello reale e meno importante quello virtuale; anche perché non sarebbe corretto, visti gli innumerevoli campi di applicazione della virtualità soprattutto nei casi più gravi di disabilità, ove l’accesso a un mondo virtuale è l’unica finestra sul mondo per quell’essere umano. Ammettiamo che quello in cui viviamo sia il mondo reale e non una simulazione o un sogno (ci apriremmo a un altro vasto argomento). Il mondo (o la dimensione) virtuale, quello creato ex novo dagli uomini per connettere il globo, trasformando gli umani in avatar e facendoli interagire via social network attraverso messaggi e video-chiamate o facendoli gareggiare in videogiochi multiplayer, è una zona in cui spesso si assiste a un blackout dell’imperativo morale categorico di Kantiana memoria

Questa riflessione vuole concentrarsi, seppur brevemente e non in maniera esaustiva, sulla nostra percezione dell’umanità nella virtualità e, di conseguenza, sul rispetto delle regole (morali prima e giuridiche poi) nel mondo virtuale.  

E infatti, se nel mondo reale la vocina dentro di noi dice “Agisci così! (e non così)”, se quella vocina –quantomeno nei confronti della maggioranza di noi – dice che non si deve offendere o discriminare o diffamare il prossimo (e la maggioranza presta ascolto a quella vocina o per paura delle conseguenze legali o perché è composta da persone morali), nel mondo virtuale qualcosa evidentemente va storto. Nella dimensione virtuale, quasi come nella saga cinematografica di Matrix, sembrano esserci altre regole. Un’altra fisica, un’altra forza di gravità. In quella dimensione, alla quale accediamo con un click o con un tap, possiamo offendere pesantemente un’altra persona, denigrarla, discriminarla, fingerci qualcun altro per estorcere informazioni o per truffare qualcuno. Si ha l’impressione che la tastiera sia uno scudo dietro cui nasconderci, una maschera. Quando non si guarda negli occhi il destinatario delle nostre parole, quando non entrano in contatto due anime attraverso lo sguardo, si dà libero sfogo alla parte peggiore di noi, a quella più algida, crudele, disumana. Ma perché ci si comporta così? Forse perché si ha l’impressione che nella dimensione virtuale sia tutto concesso, senza conseguenze nella quotidianità. Ma non è così. Il più delle volte, le azioni commesse nella dimensione virtuale hanno delle conseguenze (anche serie) nel mondo reale. Per un insulto sputato (si legga digitato) nel mondo virtuale, si può finire dentro un Tribunale del mondo reale, quello dove un Giudice, alla fine, scriverà una sentenza di condanna. Questo accade perché il mondo virtuale come zona franca dell’imperativo categorico morale è solo un’illusione.  

Nasce la figura degli odiatori, gli haters. Tempo addietro, il programma televisivo “Le iene”, ha realizzato alcuni servizi in cui dei personaggi pubblici incontravano i loro odiatori, coloro che su internet li avevano ricoperti di insulti. Il risultato? Quelle stesse persone, nel mondo reale, quello in cui non si interagisce per mezzo di una tastiera, non erano in grado di ripetere quanto fatto dietro uno schermo ma, anzi, si sono scusate e vergognate di quello che avevano scritto. Possibile che non si abbia ancora consapevolezza del fatto che il mondo virtuale è governato dalle stesse regole di quello reale? Non si parla (solo) di regole normative, di leggi, ma di regole naturali, umane: in entrambi i mondi interagiamo con persone che in quanto tali hanno dei sentimenti e hanno tutto il diritto di non essere lese nei loro diritti.

 

Andrea Cavalera
Nasce a Gallipoli (Le) il 12 settembre 1992. È un avvocato del Foro di Lecce, fin da piccolo appassionato di Cinema, fumetti e letteratura. Dal 2009 a oggi ha diretto e co-diretto cortometraggi e videoclip musicali.
Nel 2022 partecipa al concorso in magistratura, si iscrive alla Facoltà di Filosofia presso l’Università del Salento ed esordisce in libreria con Lo stalking: cos’è e come difendersi (Capponi Editore).

 

[Photo credit Barefoot Communication via Unsplah]

 

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Inclusività: riconoscerne il privilegio e il merito

Vi siete mai soffermati sulla parola o sul concetto di inclusività?

Per comprenderlo al meglio è necessario fare un passo indietro e considerare il concetto di esclusione.
Generalmente si ritiene che tale fenomeno sia una prerogativa della maggioranza; in realtà si tratta di un processo che viene attuato da qualsiasi gruppo nei confronti di chi appartiene ad un altro. Il motivo risiede nel processo mentale di discriminazione, letteralmente differenziare. Secondo la Treccani: «distinzione, diversificazione o differenziazione operata fra persone» ma anche «diversità di comportamento o di riconoscimento di diritti nei riguardi di determinati gruppi politici, razziali, etnici o religiosi». È un processo in parte inconscio e legato a meccanismi biologici in cui si tende a preferire e proteggere membri dello stesso gruppo, per massimizzare la trasmissione genetica, la quale, tuttavia, necessita di una certa variabilità e di conseguenza concorre anche una componente attrattiva.
Ciò è alla base della sopravvivenza, tuttavia la razionalità del nostro pensiero può portarci oltre.

L’inclusività, invece, sempre secondo la Treccani, viene definita come «capacità di includere più soggetti possibili nel godimento di un diritto, nella partecipazione a un’attività o nel compimento di un’azione; più in generale, propensione, tendenza ad essere accoglienti e a non discriminare, contrastando l’intolleranza prodotta da giudizi, pregiudizi, razzismi o stereotipi». Senza ombra di dubbio l’accezione di questa parola – che negli ultimi anni è costantemente al centro del nostro interesse, per rimediare forse ad un’improvvisa consapevolezza e senso di colpa di ciò che abbiamo perpetrato per anni – risuona in positivo. Ma è davvero un processo paritario? È innegabile come emerga un’asimmetria di potere tra chi agisce, chi si reputa “normale”, e chi subisce l’azione, chi è additato come “diverso”.

Dunque certi diritti alle “minoranze” non spettano fin dalla nascita, ma vengono concessi loro dalla “maggioranza”, la quale ha il potere di scegliere quale gruppo meriti dei diritti e che tipo di diritti. Ne segue una coesistenza di “minoranze” ritenute più meritevoli di considerazione e inclusione di altre. Un esempio si trova nella distinzione tra “poveri meritevoli e non”, i primi – famiglie, anziani e lavoratori – ricevono maggior supporto dallo Stato e dal resto della società, mentre i secondi – giovani e migranti – subiscono solamente disprezzo e sono ritenuti responsabili della propria condizione. Altro esempio sta in chi merita il diritto alla genitorialità: inteso sia come diritto ad avere un genitore, e il suo riconoscimento come tale da parte delle istituzioni, sia come diritto ad essere genitore. Il ricorso alle adozioni e alle procedure di PMA non sono appannaggio di tutti. Ma gli esempi di gruppi minoritari esclusi da diritti o dalla struttura sociale, sono da sempre molteplici.

Alla luce di ciò è necessario mettere in discussione l’idea di inclusività portata avanti fino ad ora e il pensiero che questo sia il punto di arrivo per l’uguaglianza. Si potrebbe infatti ritenere che sia più un punto di transizione, una tappa di un percorso molto più lungo, dove è necessario soffermarsi per prendere consapevolezza degli squilibri di potere. Inoltre, scendendo dal gradino del privilegio, si comprende il vero valore della diversità: intesa come sinonimo di varietà, è la variabilità dell’esperienza umana a costituire la natura, non quella “normalità” di recente costruzione dell’uomo, che a questo punto non si rivela altro che una sottocategoria della diversità stessa.

La tappa successiva di questo cammino potrebbe coincidere con la proposta di Fabrizio Acanfora, che nel libro In altre parole. Dizionario minimo di diversità, parla di convivenza delle diversità. Questa azione, effettivamente, si spoglia dell’asimmetria di potere su cui ci siamo concentrati e al contempo si riempie di reciprocità. Tuttavia, per quanto io ritenga meravigliosa questa espressione, sono consapevole della resistenza che si incontra nel mettere in discussione il linguaggio. Perciò sarebbe sufficiente, al momento, rivalutare la comprensione delle parole già in uso nel nostro vocabolario, come diversità e inclusività.

Una strategia, per comprendere meglio la diversità-variabilità e per attribuirgli un nuovo significato, potrebbe essere la teoria dell’intersezionalità, la quale descrive la sovrapposizione di diverse identità sociali e le relative possibili discriminazioni o oppressioni. Gli assi identitari di ognuno di noi sono molteplici e l’incrocio tra questi genera l’autenticità che contraddistingue ogni persona: ciò sottolinea come l’idea di una maggioranza dominante, caratterizzata da un criterio di normalità, non sia che un costrutto sociale e che la società è un puzzle formato da un’infinità di tasselli differenti incastrati tra di loro. Inoltre, in questo modo sarebbe più facile anche guardare con occhi diversi alla parola inclusività e abbracciare l’idea di Vera Gheno, secondo la quale «Diversità è andare alla festa, inclusione è essere membro del comitato che la organizza» (V. Gheno, Chiamami così, 2022).

 

Gaia Giulia Genova
Nata a Monza nel 1997, studia Servizio sociale all’università di Genova. Appassionata di gender studies e amante delle piante e dell’arte. Avida lettrice, per lei, come dice bell hooks, la teoria rappresenta un luogo di cura e guarigione.

 

[Photo credit Helena Lopes via Unsplash]

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Recuperare il vero significato dell’amore

Il tempo presente sembra aver smarrito il vero significato dell’amore, in particolare per quanto riguarda tale dimensione affettiva all’interno della coppia. La crisi di questo sentimento si palesa a coloro che osservano i fenomeni sociali e si occupano di esseri umani in particolare in ambito educativo e nelle professioni d’aiuto. L’amore sembra essersi svuotato di senso in un orizzonte dominato dalla fluidità dei rapporti, dal disimpegno e dalla superficialità che conducono ad instaurare relazioni a partire da una scarsa consapevolezza di sé, della propria storia personale e della propria unicità. A questo si aggiunge la mancata cognizione che le relazioni affettive hanno bisogno di educazione e pazienza per costruirsi, di nutrimento e cura per solidificarsi nel corso del tempo. La relazione di coppia è un’entità in divenire che deve affrontare numerosi compiti evolutivi nel ciclo di vita e che necessita di un costante cammino di conoscenza reciproca, di crescita dei singoli e del Noi che la coppia va a formare. 

Nel conteso contemporaneo, diversamente, sembra essersi smarrita l’importanza imprescindibile di un simile cammino. Questa assenza conduce spesso a criticità che sfociano in atteggiamenti e rivendicazioni talvolta di natura adolescenziale. È possibile far fronte a queste difficoltà di molte coppie anzitutto riconoscendo la complessità del contesto storico, sociale e la precarietà economica del presente ma anche richiamando l’importanza decisiva di un lavoro di conoscenza di sé, crescita personale e coniugale che richiedono l’impegno e la responsabilità di far fiorire la propria umanità. Questo si realizza quando il fondamentale mantenimento e riconoscimento dell’unicità dei singoli si mette a servizio di un progetto comune che dà senso all’esistenza individuale e della coppia

È pertanto necessario recuperare il significato autentico dell’amore. A questo proposito, Viktor Frankl, psichiatra e filosofo viennese, evidenzia tre diversi livelli di amore e di attrazione fra i partner che finiscono per corrispondere a tre diverse modalità di costruzione del rapporto di coppia1. Il primo livello individuato da Frankl è “l’amore fisico” legato alla bellezza esteriore dell’altro che ci colpisce e ci attrae. Questa passione è transitoria e la relazione che si sia fermata solamente a questo livello (che, peraltro, difficilmente conduce a sperimentare una profonda intimità) è destinata a scemare. L’attuale società dei consumi e dei social network fa leva su questa dimensione richiamando l’attenzione esclusivamente sull’attrazione fisica e su una sessualità destituita di ogni elemento di mistero, in nome di un desiderio di godimento destinato a ricercare sempre nuovi incontri. 

Un secondo livello d’amore individuato da Frankl è quello erotico. In questo caso a colpirci non è solo la presenza fisica dell’altro ma alcune sue caratteristiche psicologiche di personalità quali per esempio generosità, sensibilità, capacità d’ascolto, intraprendenza. Se anche questo livello, come il primo, è un ingrediente fondamentale, certamente non è sufficiente a sostenere un progetto di coppia. Invero, ci si potrebbe sempre imbattere in una persona più bella (livello fisico) o più empatica, intelligente, intraprendente (livello erotico). Affinché una coppia possa entrare in una relazione profonda che, pur nutrendosi dell’attrazione fisica e psichica non si attesti solamente ad esse, è necessario approdare ad un terzo grado che Frankl definisce “amore spirituale”. 

Tale configurazione dell’amore rimanda alla capacità più profonda d’amare che solo l’essere umano può realizzare come il più alto dei valori. In questo caso l’Io incontra il Tu nella sua unicità e insostituibilità, nel suo “essere così”. A questo livello può iniziare un progetto di coppia condiviso, basato sulla maturazione interiore, sull’ascolto interpersonale, la conoscenza reciproca verso una germogliante intimità. Di un amore vissuto in questo intenso contatto spirituale beneficeranno, conseguentemente, anche la dimensione fisica e quella erotica. In questo modo di vivere e intendere l’amore l’Io si dona al Tu in maniera libera e responsabile riconoscendo a propria volta l’altro come essere unico, libero e responsabile. L’amore così inteso non conosce il desiderio di potere, non genera dipendenza e non inciampa nella manipolazione affettiva

Nel nostro tempo che veicola il messaggio di un surrogato dell’amore e che si ferma alla dimensione fisica o psichica, nel solco della superficialità e del dongiovannismo, la visione frankliana può costituire un antidoto, non moraleggiante, certo, ma capace di offrire alle relazioni significato, stabilità e progettualità con benefiche conseguenze anche rispetto all’esigenza di coesione e coerenza educativa per la crescita di eventuali figli.

La prospettiva frankliana non è un dato definitivo ma s’inserisce nell’idea della relazione come via di piena umanizzazione: l’amore spirituale ama la libertà dell’altro e desidera il suo bene oltre ogni deriva egoistica. Per giungere a questo è indispensabile educarsi e percepirsi in un cammino interminabile di maturazione individuale e di coppia imparando così ad amare pur sapendo che tale è una conquista mai definitivamente raggiunta. Invero, il senso dell’amore riposa nell’arte di coltivare, riparare e custodire l’unicità del legame ogni nuovo giorno.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE
1. Cfr., V. E. FRANKL, Logoterapia e analisi esistenziale, tr. it. di E. Fizzotti , Morcelliana, Brescia, 2005.

 

[Photo credit Mayur Gala via Unsplash]

 

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La cura all’origine dell’essere umano e fondamento dell’etica solidale

Quando si nasce si dà inizio a un percorso racchiuso in un tempo determinato, che è il limite entro il quale possiamo dare forma al nostro essere e costruire il senso del nostro stare al mondo. Per questo, venire al mondo e trovarsi “gettato” in esso crea un vincolo necessario tra la vita e la cura. Quest’ultima è l’innata e originaria predisposizione ad avere a cuore la vita preoccupandocene, dal momento che essa è precaria e soggetta all’imprevedibile contingenza. Così inteso, il vincolo vita-cura dura quanto la vita stessa ed esige, con eguale necessità, la relazione con gli altri.

In Essere e tempo Martin Heidegger sottolinea che l’essere-nel-mondo, per ciascuno di noi, è un originario mit-sein, un essere-con-gli-altri, un aprirsi a una dinamica relazionale, che si esprime nel vicendevole besorgen, preoccuparsi gli uni degli altri.
La cura ci lega agli altri a motivo della nostra strutturale incompletezza, che ci fa essere in uno stato di continuo bisogno. Se fossimo perfetti vivremmo nella condizione dell’apatheia, dell’imperturbabilità, che secondo Epicuro si confà solo alla divinità. Quest’ultima, calata nell’eternità, permane senza elementi di rottura, ostacoli o imprevisti. Noi uomini, però, come sottolinea anche Spinoza, viviamo calati nel tempo, che sottopone a continui cambiamenti e insidie la nostra vita, mettendola a dura prova, depotenziandola e sfavorendola. E poiché non godiamo dell’autarchia, dell’autosufficienza, e da soli non siamo in grado di affrontare le sfide e sopperire a tutte le esigenze della vita, la cura è essenziale. Essa ci consente di disporre di una forma di sovranità sul nostro tempo fuggevole e variabile, di approntare misure di protezione e di difesa, per portare a compimento il nostro progetto esistenziale e realizzare le nostre possibilità.

«“Il prendersi cura” del nutrimento, dell’abbigliamento nonché la cura del corpo ammalato sono forme dell’aver cura […]. L’aver cura, com’è ad esempio l’organizzazione sociale assistenziale, si fonda nella costituzione di essere dell’Esserci in quanto con-essere» (M. Heidegger, Essere e tempo, 2006).

Il prendersi cura vicendevolmente risponde a più bisogni, precisa Heidegger, condividendo questa convinzione con gli antichi greci, che utilizzavano termini diversi per esprimere le sfaccettature dell’avere cura.
L’avere cura nel senso di preoccuparsi delle necessità vitali, che i Greci chiamavano mérimna, risponde al bisogno di continuare a vivere e preservare il nostro essere, procacciandoci cibo, mezzi e ripari.
La cura che risana l’essere in caso di malattia, che i Greci nominavano terapéia, è l’insieme delle pratiche assistenzialistiche e mediche che rispondono al bisogno di ripristinare la salute e il nostro benessere fisico e psichico, poiché quando il corpo si ammala e soffre anche l’anima si ammala e soffre.
L’avere cura della vita, però, non si risolve solo nel procurare cose per conservarla o nell’alleviare le sofferenze e guarire le malattie. Poiché l’essere umano viene al mondo “mancante di una forma” e con un’innata tendenza all’autorealizzazione, c’è bisogno anche della cura che gli antichi greci chiamavano epiméleia heautoũ, che è quel prendersi cura di sé, concretizzando la migliore forma di vita possibile, sviluppando e consentendo la massima espressione delle proprie attitudini. La cura così intesa è una necessità esistenziale, in quanto è strettamente legata alla felicità, il sentimento di appagamento che si prova quando si sente la propria vita piena di significato, completa e realizzata.

Distinguendo terminologicamente la kur, la cura in senso medico-biologico, dalla sorge, la cura in senso emotivo-esistenziale, Heidegger sottolinea che anche la sorge, che persegue il fine della felicità, è un’impresa collettiva, presuppone la dimensione del mit-sein, e dunque la preoccupazione intersoggettiva alle sorti degli altri. In quest’ultimo senso la cura ha una connotazione fortemente etica poiché chiama gli altri alla responsabilità di farsi carico del bene e dell’umanità in senso lato, includendo quell’attenzione e partecipazione a rispettare e difendere il diritto altrui a una vita felice.
Lo sviluppo personale, infatti, non dipende solo dalle potenzialità individuali. Esso ha come presupposto un contesto relazione nel quale siano state approntate le condizioni per consentire all’individuo di realizzare la sua identità, favorendone e rispettandone l’autonomia, la libera capacità di espressione e di iniziativa. Si tratta di una forma di assistenza dell’altro che non può e non deve consistere nel «sollevare l’altro dalla “cura” sostituendosi a lui […] intromettendosi al suo posto» (ivi).

Prendersi cura degli altri nel senso della responsabilità etica equivale ad «aiutare l’altro a divenire trasparente nella propria cura e libero per essa» (ivi); vuol dire adoperarsi affinché l’altro giunga a realizzare consapevolmente e liberamente il proprio progetto e la propria umanità. Ciò richiede un’etica della solidarietà e della tutela universale dei diritti che è un cammino in itinere, dal momento che, pur nella sua essenzialità e urgenza, è ancora tutto da percorrere.

 

Marilena Buonadonna

 

[Photo credit Roman Kraft via Unsplash]

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Brevemente, sull’amore

Esiste un ormone nel corpo umano definito “ormone dell’amore”. Si tratta dell’ossitocina, un ammasso di amminoacidi che permette di amplificare le esperienze emozionali che viviamo, riempendole di entusiasmo e trepidazione.

In realtà sarebbe più corretto definire questa componente dell’individuo, come “ormone dell’innamoramento”, perché è proprio questa fase dei rapporti interpersonali, che suscita fervore e passione. Si tratta di un periodo che può manifestarsi più volte nell’esistenza di una persona, ma che può durare pochi mesi o, nelle situazioni che hanno uno sviluppo più lento, fino a tre anni. La differenza tra innamorarsi e amare risiede, dunque, in questo: lasciarsi travolgere dall’istinto e, al contrario, decidere di stare accanto ad una persona. Due fasi spesso accomunate, ma in realtà opposte, che presuppongono due tipi diversi di predisposizione, che possono susseguirsi, ma mai sostituirsi.

Ci troviamo nell’epoca in cui esse vengono confuse, spesso abbandonando la nave poco prima che ci si possa ritrovare nello stadio della responsabilità, della scelta, dell’amore. Il confronto – talvolta scontro – che Hegel poneva alla base della crescita dell’Io attraverso l’altro, viene considerato come superfluo, come un qualcosa di nefasto da tenere debitamente lontano. Ci si rifugia in considerazioni, quali: “la vita è già difficile, perché dover lottare anche per amore?” Quasi come se l’amore fosse un residuo, una sorta di tertium non datur dopo il lavoro e gli impegni personali; chi me la fa fare?

La risposta la si potrebbe trovare ne L’amore ai tempi del colera, in Jane Eyre, o più semplicemente parlando con i propri nonni o i propri genitori. Tuttavia il confronto ha lasciato spazio all’individualismo, in base al quale ognuno sa badare a sé e nessuno ha bisogno di nessuno. La conseguenza non è un mondo più perfettibile, bensì una vera e propria castrazione di emozioni. Ci siamo resi fautori di strumenti e di istituti che – a guardare indietro – viene da chiedersi come si potesse vivere senza. Si pensi al divorzio, all’aborto, alla possibilità di cambiare città in pochissimo tempo; forse, però, ci siamo al contempo dimenticati della parte “positiva” della vita, laddove il termine in questione fa riferimento alla sua naturale etimologia e che – dal latino ponĕre, ci regala il significato di “porre”, “fare”, “aggiungere”. Ci siamo dimenticati di come si ama. Sono forse le priorità ad essere cambiate?

Galimberti, eccelso pensatore e scrittore, parla di questa come dell’ “epoca della revocabilità”; un’epoca in cui si «sviluppa un concetto di libertà come assoluta revocabilità di tutte le scelte, che non implicano più impegni e conseguenze perché tutto, dalla scelta di un amico a quella di un amante, dalla scelta di una gravidanza o di una carriera, può essere suscettibile di una cancellazione immediata, non appena si offrono opportunità all’apparenza più gratificanti.» Ed allora risulta più proficuo vivere il momento, cullarsi nel “qui ed ora”.
Nulla quaestio se, nel rapportarsi in tal modo ad un’altra persona, si comunica in modo diretto e trasparente questo mood prescelto di vita. Ma cosa succede se si ingenerano aspettative, se offuscati, magari da quell’ossitocina che spesso annebbia le menti, non si rende edotto l’altro, del proprio non essere capaci di amare, cioè di “desiderare in modo totale” (dal sanscrito “kama”)?

Il mondo che stiamo costruendo risulta sempre più caratterizzato da un’egosintonia dell’anaffettività, in cui ognuno trova quiete solo nel rapporto con sé stesso, nel prefiggersi continui obiettivi di formazione o di lavoro, tralasciando il lato della medaglia che attiene all’investimento nei rapporti umani. La creazione di un “nido” viene vista come anacronistica, quasi come un affronto alle tante battaglie femministe – a partire dal 1800 con il movimento delle Suffragette – verso la conquista del diritto di voto, di condizioni migliori nei luoghi di lavoro, dell’accesso all’università, dell’uguaglianza uomo – donna. Ma oggigiorno siamo molto distanti da quello che, successivamente, anche nel 1900, Simone de Beauvoir sosteneva e creava, in una Francia colpita dalla seconda guerra mondiale, iniziando dalle menti dei suoi studenti, da un mondo accademico che – nonostante le morti e la disperazione – aveva sete di rinnovamento. Una libération des femmes che chiedeva di aggiungere, di ottenere, di possedere un valore concreto all’interno di una società ancora troppo maschilista e patriarcale per poterne accettare le regole.

Oggi si chiede di poter togliere, abdicare, venir meno. L’ideale è stato per lo più sostituito da un programma giornaliero personale, che non contempla l’altro. In questo contesto, delineare un sentimento in fattezze non evanescenti, diviene un’impresa ardua, che confligge col disperato bisogno di essere protagonisti, di rivestire sempre il ruolo di “figli”, in un mondo con sempre meno genitori.

 

Chiara Savazzi

 

Classe ’93. Laureata in giurisprudenza a Bologna, è dottoranda di ricerca in diritto penale a Catanzaro, dove si occupa principalmente di neuroscienze e imputabilità. Ha un master in diritto di famiglia ed è Coordinatrice Genitoriale, perchè crede che le parole – ancor prima dei tribunali – possano molto. Pubblica su svariate riviste giuridiche e non (Pacini Giuridica, Sole 24 Ore, Il Mulino, ecc), su opere collettanee e su libri di diritto. È specializzanda in criminologia investigativa.
Il suo amore per la scrittura nasce a sei anni e mezzo con la prima poesia “Il sole ride” e, da allora, scrive sempre i suoi contributi a mano, prima di ricopiarli al computer.
Il suo cuore è costantemente diviso: fra due città; fra cane e gatto; fra diritto e letteratura. Ama: i viaggi in solitaria, le persone leali, i mercatini vintage.

 

[Immagine tratta da Unsplash.com]

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La potenzialità segreta dello scontro secondo Hegel

Scorrendo qualche riga di filosofia hegeliana, può accadere che ci venga in mente la seguente immagine: un soldatino che forte della sua armatura si contrappone al mondo, brandendo fieramente la spada. Pur essendo una scelta forse singolare per rappresentare il sistema del celebre pensatore tedesco, ne suggerisce perlomeno un concetto chiave: la necessità dello scontro nel processo di compimento della Tesi.

Questo particolare aspetto può rievocare a tratti la trama travagliata ma a lieto fine delle favole di quando eravamo bambini: ci è presentata inizialmente una piccola Tesi ignara del mondo circostante che, quando si stufa di giocare nella sua campana di vetro e decide di sfondarne le pareti, per la prima volta viene a contatto con la durezza e l’asperità della realtà. Costretta a fronteggiarsi con forze avverse, Tesi determina finalmente se stessa attraverso la sua Antitesi. Per la coppia protagonista, e per tutte le altre che analogamente si combattono, è guerra aperta: in una violenta contrapposizione, ogni tesi è negata dal suo contrario e costretta a un costante confronto-scontro per rivendicare la propria identità. Ciononostante una volta che tali scontri saranno terminati, ogni tesi scoprirà una sé dall’autoconsapevolezza e forza rinnovate.

Immaginiamo di convertire la visione di quelle piccole tesi che si negano reciprocamente in una folla brulicante di esseri umani, ciascuno intento a scoprire e a difendere la propria strada: se si ripetesse la favola hegeliana?
Qualcosa che inizialmente appariva puramente astratto – il sistema cardine dell’idealismo – si rivela fecondo di insegnamenti oggi, io credo, particolarmente importanti: è differente una relazione significativa da una che invece è solo passeggera, magari fondata su un mutuo interesse utilitario? È possibile smantellare il mito che ritiene valide solo le relazioni sempre armoniose, pacifiche? E se l’armonia non coincidesse con un percorso perennemente lineare ma assomigliasse, invece, a un sentiero faticoso e irto di spine?

La risposta affermativa di Hegel sembrerebbe condensarsi proprio nella figura triplice della Tesi, dell’Antitesi e della Sintesi: i rapporti veri nascono dallo scontro con l’altro e sono sempre fertili, dove “fertile” esprime un apprendere costante, e dove “apprendere” è contemporaneamente assorbire e trasmettere.
L’autentico rapporto umano è dunque uno scontro-scambio, in cui l’urto di partenza sfocia in un “aggancio spirituale” dei soggetti interagenti, ma la fusione finale è paradossale, in quanto si realizza nella lacerazione personale: confrontarci con la realtà esterna è frantumare la campana di vetro. Possiamo intraprendere un reale percorso di rafforzamento interiore solo nel momento in cui accettiamo di squarciare le nostre sicurezze e le nostre difese e di metterci in discussione da capo a piedi, una volta e un’altra volta ancora, per poter accogliere ciò che di vivo e di arricchente ci offre il mondo circostante e infondere in esso ciò che di unico dentro di noi custodiamo.

Immaginiamo un contesto distopico nel quale un bambino viene chiuso fin dalla nascita in una stanzetta, senza venire mai a contatto con la realtà esterna: egli non ha stimoli fisici di nessun tipo, è completamente abbandonato alla sua interiorità. Come, cosa sarebbe dieci anni dopo? O venti, o quaranta? Che persona sarebbe sul punto di morire? Io credo un guscio vuoto: un seme cavo e spoglio, insanabile.
Le relazioni interpersonali sono ciò che ci sostanziano, perché in esse definiamo la nostra identità: che esse avvengano per lo più attraverso lo schermo di un computer, le pagine di un libro o di persona, rimangono fondamentali per la nostra evoluzione spirituale; e il loro contributo, sia esso positivo o negativo, si rivela determinante nell’alimentare un processo interiore che non ha mai fine e che si rinforza di ogni singolo contatto, fisico e non fisico.

Ogni contatto con l’esterno ci consente di sopravvivere, ma quello che ci pungola alla vita – perché ci spinge a lottare per noi stessi e a sviluppare ed affermare la nostra identità – è il tipo di relazione rappresentato da Hegel: la relazione-conflitto. Con essa il filosofo si riferisce non ai conflitti di per sé, come le guerre o i genocidi, ma alla lotta minuta e personale che si instaura tra due esseri umani all’interno di una relazione neofita o anche già consolidata.
La filosofia di Hegel ci suggerisce che il conflitto con la vita e più in generale con le persone che ci circondano sia un’indispensabile base di crescita. Aprirci all’altro e costruire una relazione significativa implica sì la lotta – e le ferite di quella lotta, e il dolore di quelle ferite e il tempo del loro rimarginarsi – ma non esisterebbero maturazione personale o arricchimento reciproco, non esisterebbe Sintesi senza il rinnovamento quotidiano del confronto con la realtà esterna e la puntuale rimessa in discussione di noi stessi.

 

Cecilia Volpi

 

[Photo credit drown_ in_city via Unsplash]

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La follia abita l’amore: spunti dal mondo antico

Un passo del Simposio di Platone recita così: «Gli amanti che passano la vita insieme non sanno dire cosa vogliono l’uno dall’altro. Non si può certo credere che solo per il commercio dei piaceri carnali essi provano una passione così ardente a essere insieme. È allora evidente che l’anima di ciascuno vuole altra cosa che non è capace di dire, e perciò la esprime  con vaghi presagi, come divinando da un fondo enigmatico e buio». Ogni giorno vediamo coppie innamorate tenersi per mano, scambiarsi baci, dirsi “ti amo”, ma ci sfugge la vera essenza dell’amore. Cosa vuol dire “ti amo”? Cosa significa parlare d’amore?

Io non possiedo l’altro, l’altro è qualcosa di estraneo a me da cui non si dipende perché l’incontro è tra due unità e non tra due metà. Questa è la premessa dell’amore e di una relazione sana: accettare che l’altro è qualcosa che sta ed esiste oltre e al di fuori di me. Il secondo passo è non idealizzare l’altro e non plasmarlo secondo le proprie aspettative. Ci illudiamo di amare l’altra persona per quella che è ma in realtà amiamo l’immagine che ci siamo creati nella nostra mente proiettandola all’esterno e privando l’altro della libertà di esprimersi per quello che autenticamente è.

Si tende spesso a creare ciò che si ama. «Diventa così evidente quello che la nostra storia ha sempre saputo e taciuto, e cioè che anche nelle cose d’amore l’uomo ama solo la sua creazione, quindi non la natura, ma quella natura coltivata che siamo soliti chiamare cultura» (U. Galimberti, Le cose dell’amore, 2004).

Umberto Galimberti ha fatto una ricca riflessione a proposito, e mette in luce come l’amore sia quando l’altro ti disarma, ti toglie le difese e ti mostra la tua fragilità e quella parte di te che tu non hai ancora riconosciuto.  Di conseguenza ci innamoriamo dell’altro perché cattura la nostra intima essenza prima che noi ci mettiamo a nudo. È un disvelamento dell’anima che richiede il collasso dell’Io. Non bisogna mantenere le difese, non ci deve essere controllo. L’amore non è faccenda dell’Io, ma piuttosto dell’Es: infatti è da lì che scaturiscono le scelte razionalmente inspiegabili.

L’amore mette in crisi le nostre certezze, crediamo di avere il controllo su noi stessi e sulla nostra emotività fino a quando non arriva l’amore a svegliarci dal torpore dell’illusione in cui dormivamo. La condizione sine qua non, secondo il mio punto di vista, per amare ed essere amati, è accettare di non avere il pieno controllo del proprio inconscio e soprattutto di non avere il controllo dell’altro. L’anima di una persona innamorata vive una continua tensione tra forza e fragilità, una continua lacerazione dell’Io.  

Spesso, erroneamente, si fa coincidere l’amore con la passione e l’uomo moderno, alla ricerca perpetua di emozioni forti per sentirsi vivo, non appena il fuoco della passione è meno ardente mette fine ad una storia d’amore. Si continua a desiderare, sempre di più, in una corsa senza meta. L’amore invece è figlio della stabilità e dell’eternità, il contrario del desiderio che richiede continui stimoli e novità. Amore non è fuoco che brucia in un istante fulmineo, ma luce che dura e che abita la durata.

Penso che l’amore faccia paura a molti perché non è facile entrare in contatto con la parte di sé più autentica che spesse volte è anche quella più vulnerabile e più facilmente feribile. Amare è un atto di volontà che richiede impegno, dedizione, fiducia, reciprocità, affidamento. Si sa che non è semplice perché l’amore è una minaccia all’integrità del proprio Io ed è per questo che bisogna avere il coraggio (etimologicamente “avere cuore”) di perdersi per ritrovarsi riflessi negli occhi dell’altro che ci mostra per quello che siamo. Socrate ha descritto l’amore come una relazione con l’altra parte di noi stessi e non tanto come rapporto con l’altro. Per questo motivo affidarsi all’altro ha a che fare più con una scommessa che con una vittoria certa, ma vale la pena giocarla perché in fondo l’amore è abitato dalla follia e tutti noi siamo un po’ folli.

 

Matilde Zerman

 

Sono Matilde Zerman, laureata magistrale in Psicologia. Amo leggere, stare all’aria aperta e stare in compagnia delle persone per me importanti. Mi pongo tante domande e per la maggior parte non ho risposte, ma è questo che mi affascina della vita, che tutto sia un mistero da scoprire e conoscere.

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Desiderare: abitare il cuore per incontrare l’altro

Nella società odierna, ossessionati dai profitti e dai trend economici, abbiamo creduto sempre più che ciò che abbia il potere di muovere ogni nostro processo, dandogli una garanzia di riuscita, dipenda esclusivamente da fattori esterni, necessari ma spesso non sufficienti, perché ciò che davvero conta esiste fuori solo nella misura in cui è presente già dentro di noi.

Tra questi, un ruolo importante spetta al desiderio, motore propulsivo della nostra vita ma, allo stesso tempo, luogo esistenziale poco abitato. Desiderare, nel senso comune, è prefigurarsi un arrivo, è avere degli obiettivi da raggiungere, è realizzare un sogno, essendo molto spesso inteso più come un evento che debba avverarsi da sé piuttosto che come un cammino da dover percorrere in prima persona.
La culla del desiderio è, infatti, il cuore, poiché esso non nasce da un calcolo o da un ragionamento logico, ma è frutto di un’intuitio cordis che prende vita prima nel cuore e solo dopo, forse, nel mondo. Nessun desiderio è sinonimo di casualità né di coincidenza, bensì proviene dalla nostra esperienza personale e si attiva nel momento stesso in cui viene intuito.

Pascal avrebbe detto che «Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce»1, intendendo che ogni realtà – cuore o ragione – segue un proprio ordine, un modo tutto singolare di conoscere le cose. Ed è proprio vero.
Il desiderio è però spesso totalmente identificato nel suo oggetto: “Cosa desideri in questo momento?” ci viene chiesto, ma di rado sentiamo dire: “Stai desiderando davvero qualcosa?. Riprendendo Heidegger e la sua celebre domanda metafisica, potremmo dire che la questione dovrebbe passare dal piano dell’ente al piano dell’essere2, dando maggiore risalto a un processo interiore che ha, in potenza, la funzione di accompagnare l’intero percorso della nostra vita.

Effettivamente, ciò che ci cambia nel profondo non è solo il desiderio ma soprattutto il desiderare, fatto di attese e di speranze – tutt’altro che effimere – che si concretizzano attraverso le nostre decisioni ed i nostri passi quotidiani. Nel processo del desiderare, infatti, spesso maturiamo e orientiamo il nostro sguardo a tutto quello che è davvero essenziale nella nostra vita e, non a caso, a volte siamo noi stessi che, desiderando, mettiamo a fuoco il desiderio sotto una luce diversa e lo vediamo per ciò che realmente è. Di conseguenza, diventerà allora controproducente focalizzarsi, come accade nella nostra ordinarietà, molto di più su un non ancora, dall’essenza incerta, che sposta pericolosamente le nostre attenzioni esclusivamente su un orizzonte temporale futuro che non siamo in grado di controllare del tutto.

Spesso ascoltiamo storie affascinanti sui desideri, su chi ha compiuto grandi imprese pur di realizzarli; altre volte, invece, il desiderio diventa supremazia, affermazione del proprio ego ed esclusione dell’altro. Proprio a tal proposito sorge una questione: è giusto utilizzare ogni mezzo per realizzare un proprio desiderio? A primo impatto, molti risponderanno in modo negativo, ma se tale desiderio personale fosse orientato all’altro, come nel caso di voler rendere felice una persona a noi cara, sarebbe ancora illecito ricorrere ad ogni metodo pur di raggiungerlo? Qui forse la risposta non sarebbe così scontata. È necessario affermare però che nessuno può imporre i propri desideri, nonostante i nobili intenti e per quanto si possa intuire il bene dell’altro, perché quel bene deve essere sempre frutto di una scelta personale. Emmanuel Lévinas direbbe, in termini più precisi, che il carattere dell’altro è l’«infinito»3, ed è quindi erroneo rinchiuderlo nelle nostre categorie mentali. L’altro è, piuttosto, il luogo in cui abbiamo la possibilità di abbandonare il nostro egoismo – consapevole o inconsapevole – per entrare nella reciprocità, vera dimora del noi, incontro tra libertà.
Bisognerà quindi considerare che, anche qualora il proprio desiderio fosse la felicità altrui, non si potrà, a priori, dare un’idea di felicità – rischiando di proiettare la nostra prospettiva su quella dell’altro –, ma si dovrà capire e chiedere a chi si ha davanti quale sia il suo bene. Solo allora, ed in tali circostanze, si potrà pensare di sostituire, alla logica dell’imposizione, la volontà di regalare il proprio desiderio, sperimentando la possibilità esistente e poco usuale di desiderare nel desiderio di chi amiamo.

Il cuore diventa, così, la nostra officina dei desideri: spesso vi siamo già dentro, tante altre volte vi entriamo per riparare i desideri degli altri. Perché, a volte, è nell’atto stesso del desiderare che vi è già un desiderio realizzato.

 

Agnese M.C. Giannino

 

Agnese Giannino è una dottoressa in Scienze Filosofiche.  Dopo la laurea triennale in Filosofia presso l’Università degli Studi di Catania, consegue cum laude, nel medesimo Ateneo, il titolo magistrale in Scienze Filosofiche, presentando una tesi in ambito bioetico. Appassionata di etica ed innamorata dell’insegnamento, ha lavorato nella formazione e, ad oggi, continua ad approfondire i propri studi.

 

NOTE:
1. B. Pascal, Pensieri, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1996, pensiero 277, p. 218.
2. Cfr. M. Heidegger, Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano, 2001.
4. E. Lévinas, Totalità e infinto, Jaca Book, Milano, 1980, p. 47.

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Gilles Deleuze e il problema della differenza

Nel mondo che ci circonda, la diversità sembra attraversare il nostro sguardo da ogni lato; la differenza sembra la cifra della nostra nuova identità, aperta e multiculturale; e l’altro, anziché starci a guardare da lontano, sembra essersi insediato dentro di noi. Ecco allora che il problema del diverso e della diversità è oggigiorno un problema imprescindibile che ci tocca sempre più da vicino, mostrando e dimostrando la nostra difficoltà ad accettare ciò che eccede le nostre certezze identitarie. Tale problema ha degli innegabili risvolti politici e sociali, che sono facilmente osservabili nella quotidianità delle nostre azioni. Tuttavia una riflessione filosofica seria non può soffermarsi solo su queste manifestazioni esteriori; essa deve cercare di dare una fondazione logica e una spiegazione razionale della natura dell’altro e della differenza. Ed è proprio di questa fondazione che vi vorrei parlare.  

Il problema della differenza non è un problema privato, al contrario rappresenta un problema umano e filosofico, poiché della differenza anche i maggiori filosofi hanno avuto paura, poiché anche loro hanno sentito la necessità di proteggersi di fronte al mistero caotico che genera la scoperta del diverso. Lo hanno fatto sicuramente nel modo a loro più accessibile, ovvero controllando l’altro attraverso la logica. Per essere più precisi, essi si sono oltremodo sforzati di ridurre il concetto di differenza a un semplice derivato del concetto di identità, in modo tale che la differenza per poter essere compresa dovrebbe legarsi a questo concetto (d’identità), il solo che avrebbe potuto giustificarla nelle sue diverse sfumature. Platone e Aristotele, Cartesio e Spinoza, Leibniz e Hegel sono tutti ugualmente esempi della signoria dell’identità sul nostro mondo dispersivo; tutti loro ritengono che l’identità di una cosa con se stessa sia la condizione necessaria perché si diano oggetti diversi tra loro. E se mancasse questa fondamentale identità con sé, allora non potrebbe neanche più esserci la differenza con tutte le altre cose. Perciò l’alterità diventa un misero surrogato, la banale conseguenza della percezione errata che ho di me stesso.

Eppure il filosofo dovrebbe distinguersi per avere il coraggio di guardare in faccia il “mostro”, che in questo caso è la differenza dell’altro. Ma chi tra tutti questi sedicenti eruditi è realmente riuscito a lasciar vivere l’altro in sé? Sembra che la risposta a questa domanda sia nessuno. Sembra, però, soltanto nessuno, perché la filosofia ha il grande pregio di capire i suoi errori e di imparare da loro, e, infatti, la contemporaneità ha saputo smuovere un po’ le acque e attraverso il genio di Gilles Deleuze ha saputo ascoltare profondamente la melodia caotica della differenza, facendola esplodere in accordi stridenti. Egli è riuscito a scrivere la vera storia della differenza, perché ha compreso che i termini della questione (identità e differenza) andavano invertiti: è in realtà l’identità che deriva dalla differenza e non il contrario. Come ciò sia possibile è sicuramente il problema da porsi, poiché solo questo “come” permette alla filosofia di trascendere la sua attrazione per l’identità. Tuttavia, realizzarlo non è assolutamente semplice e, infatti, Deleuze deve allontanarsi dalla logica e avvicinarsi alla matematica per raggiungere il suo scopo, poiché quest’ultima è la sola che può condurci lungo il cammino della scoperta dell’altro. Anche se è piuttosto tedioso esporre la teoria matematica a capo del nuovo concetto della differenza, resta però necessario esporre il significato di questa rivoluzione di prospettiva introdotta da Deleuze e le conseguenze che essa comporta per la percezione di noi stessi. Deleuze quindi prende la matematica, perché la matematica ci insegna che la relazione viene prima di tutto, ovvero c’è prima relazione e rapporto e poi identità o diversità. Le persone che entrano in un rapporto non hanno un’identità prestabilita, che devono confermare durante questo rapporto. Al contrario la loro identità è assolutamente indeterminata prima di esso; solo la relazione può dargli consistenza, cosicché soltanto la relazione permane al di là dei suoi elementi, continuando a sussistere anche quando essi cambiano. L’identità di sé allora non è l’originario; essa deve essere ribaltata nel suo significato autentico, così da mostrarsi com’è in verità, come una semplice conseguenza di rimando. E questo perché la relazione opera prima della nostra capacità di pensarla ed esprimerla. L’identità allora non si dà come già fatta e non può esistere come identità pienamente attuata, perché essa è da sempre un divenire che è un divenire altro.

La nostra identità noi la costruiamo giorno dopo giorno nella relazione con gli altri, tutti gli altri ma soprattutto i veramente altri da noi, per opinione, cultura e tradizione. Non nasciamo mai con un marchio impresso che ci dice chi siamo e a chi apparteniamo. Al contrario, in ogni singolo momento la nostra cosiddetta identità si fa e si rifà, si forma e si deforma in un moto continuo che, se osservato attentamente, incanta come lo scorrere di fiume in piena.

 

Gaia Ferrari

 

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Il riconoscimento: l’alterità in trappola

“Ti riconosco”. Questa è una espressione che, secondo Luce Irigaray, permetterebbe il riconoscimento dell’altro: «io riconosco che tu sei, che tu esisti, che tu divieni»1. Questo altro, non con la lettera maiuscola, come ad esempio l’Altro in Lévinas, è una persona, un corpo sessuato e quindi sottoposto alla legge biologica del genere.

Eppure in questa lettura, nell’espressione “Io ti riconosco” si nasconde una trappola, la quale farebbe ricadere il pensiero dell’alterità nella cosiddetta logica dell’identità. Perché?

Mi servirò di alcune espressioni della lingua comune, vera miniera per un’analisi filosofica, poiché, in qualche modo, mostra il pensare e il sentire comune, mettendo in risalto le strutture nascoste del pensiero occidentale.

“Ti riconosco”. Partiamo da questa frase. A una prima occhiata sembrerebbe che Irigaray abbia ragione nel vedere qui una legittimazione dell’esistenza dell’altro, l’annullamento di qualsiasi gerarchia: ci si può sbarazzare del peso della dialettica padrone-servitù. Io ti sto riconoscendo, ti sto dando spazio in questa relazione, ti permetto di entrare in comunicazione: ho aperto un canale che ci farà avere una relazione. Tuttavia, come già accennato, c’è il trucco. C’è un tranello, un inganno oppure la volontà di non vedere come sia perfido il linguaggio. Dicendo “Ti riconosco” il soggetto che parla sta ponendo la base ontologica per l’evento dell’altro: in quanto io ti riconosco, ti sto riconoscendo, allora, tu esisti. Senza questa mia azione, tu non saresti.

C’è di più. Si può allargare l’enunciato ed esclamare: “Ora, ti riconosco! Ecco il mio Pinco Pallino!”. In questa frase, che è un passo ulteriore rispetto a quella precedente, uscendo dal confronto con la Irigaray, vediamo che quell’“ora” è di fondamentale importanza. L’altro con cui ci andiamo a confrontare, con cui dialoghiamo, dopo aver espresso questo enunciato, scompare. Difatti, queste parole, non significano altro che la rappresentazione dell’altro e non la sua vera presenza. Esso è un fantasma, una proiezione. L’elemento temporale vuol significare che “adesso” sei la persona che conosco, mentre prima, per motivi che hanno scosso l’edificio delle certezze del soggetto che parla, non eri tu: come avresti potuto? Se il Pinco Pallino che conosco ha sempre avuto certe abitudini, certi comportamenti, è ovvio che quello che prima eri tu, in realtà, non potevi esser tu. Solo adesso che sei tornato – da dove? – in te – prima, ricordiamoci che non esistevi – io ti riconosco.

Altra frase ricorrente è questa: “Sei sempre il solito!”. Normalmente viene utilizzata in due modi: per scherzo, quando qualcuno commette un atto che denota la personalità di un individuo, oppure, con astio, quando sempre quel qualcuno agisce in maniera errata, a conferma del suo carattere, del suo ethos. Se si va a scavare nel significato filosofico di questo enunciato, è possibile vedere come il primato del soggetto sia ancora visibile, presente: esso viene rassicurato dal permanere dei modi dell’altro, delle sue parole, delle sue azioni, dei gesti, così da poter mettere in atto delle difese, delle contromisure, che lo portano a porre il proprio controllo sulla realtà. L’altro è solo “un rompicapo da poter risolvere con gli strumenti del paradigma”, come potrebbe dire Kuhn.

Il linguaggio, la parola, mette una barriera tra due individui, perché è  sempre espressione di una soggettività virile, che vuole possedere, controllare, amministrare. Essere confortata. Confortarsi.

Tuttavia, è necessario che questa soggettività sia, invece, sconvolta dall’altro, che sfugga a qualsiasi categoria, così da poter sempre rimettere in gioco le carte, non dar nulla per scontato.

Quello che l’altro dovrebbe suscitare in me, costantemente, è quella strana sensazione che si prova quando si è innamorati, quando siamo colpiti da Eros: un desiderio dettato dalla distanza, mai percorribile interamente, che ci lasci con ancora la voglia di poter scoprire l’altro. Di trasformarci pur di poterlo acciuffare, con il risultato di venire a nostra volta cacciati. Ma anche quando si sarà arrivati alla nudità, al corpo dell’altro, esso ci rimarrà per sempre estraneo: sia per la sua conformazione sessuata, per dirla con Irigaray, sia per quella individuale, dove ogni corpo è impersonato. Ciò non vuol dire che vi sia un’anima, bensì che il corpo è vivo, pulsante, fremente e mai uguale a quello di un altro. Alla frase della Irigaray, “Ti riconosco”, bisognerebbe, invece, sostituire: “Per fortuna che ancora non ti conosco”. Nell’amore, nel sesso, nella carezza, nei gesti che continuamente ci scambiamo, in un linguaggio silenzioso, c’è tutta l’incapacità di conoscere. L’altro non lo vogliamo conoscere, non dobbiamo conoscerlo. Non lo vogliamo ri-conoscere, ma viverlo. L’alterità è il mistero dell’esistenza.

 

Edoardo Poli

 

Nato a Velletri il 14 febbraio 1996, mi sono diplomato al Campus dei Licei “Massimiliano Ramadù”, ad indirizzo scientifico.
Vivo a Pisa e mi sono laureato presso la Facoltà di Filosofia dell’Università di Pisa. Ho pubblicato un libro di poesie nel 2015, attualmente scrivo per altre riviste, tra cui “Artspecialday” e “Momus”; fortemente interessato ad argomenti sia scientifici che umanistici, secondo quella unificazione della cultura umanistica e scientifica, tipica dell’approccio complesso.

 

NOTE:

1. L. Irigaray, In tutto il mondo siamo sempre in due, Baldini Castoldi Dalai Editore, Milano 2006, p. 39

 

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