Digital Gang. Chi ha davvero inventato internet e il metaverso?

Stando a sentire alcuni, la storia delle più grandi invenzioni dell’era digitale potrebbe ispirare una serie tv sulla pirateria intitolata Digital Gang: Bill Gates ai danni di Gary Kildall; Steve Jobs di Douglas Engelbart e William English; Mark Zuckerberg dei gemelli Tyler e Cameron Winklevoos – ok, ma del furto subìto dal povero Giulio Camillo, vogliamo parlarne?!

Camillo era un filosofo italiano vissuto tra il 1480 e il 1544, un nerd totale che aveva dedicato notevoli sforzi alla progettazione del cosiddetto Teatro della Memoria: un teatro di legno diviso in gradinate, passaggi e settori, che davano vita a incroci dove si trovavano porte con impresse immagini che davano accesso a documenti scritti conservati in cassette, scaffaletti o scrigni. Lo scopo era rendere l’intero scibile umano facilmente accessibile, mentalmente come fisicamente: il teatro doveva offrire al visitatore un’esplorazione non solo intellettuale ma anche motoria dell’universo mentale umano, facendone percorrere i meandri e attraversare gli snodi, così da rendere più agevole la memorizzazione dei percorsi del sapere. Il tutto nella convinzione, tipica dell’umanista rinascimentale, che il cosmo mentale corrispondesse fedelmente al cosmo extra-mentale: se passeggiavi in quella strana finzione teatrale era come se stessi passeggiando nel mondo reale. Per raggiungere tale risultato, occorreva rovesciare i canoni teatrali: il visitatore non doveva stare dal lato del pubblico per assistere allo svolgimento di uno spettacolo, ma doveva occupare il centro della scena, agendo in qualità di attore, chiamato a muoversi all’interno di una rappresentazione che gli poteva così girare intorno. Una cosa del genere insomma: https://youtu.be/baO7p3yVYFY .

Tuttavia, a Camillo non bastava ideare simile edificio, cosa che già lo occupava a studiare da matti per preparare documenti e schizzi di ogni tipo, ma voleva a tutti i costi realizzarlo: così, si impegnò – diremmo oggi – in un’intensa attività di fund-raising volta a coinvolgere nell’impresa venture capitalist di alto rango quali Re, Duchi, Marchesi, Condottieri, Governatori e simili. Pare riscosse discreto successo, tanto da riuscire – si narra – a realizzare un primo prototipo della struttura capace di ospitare 1-2 persone: da una lettera del 28/03/1532 scritta a Erasmo da Rotterdam dall’umanista olandese Viglio Zwichem, che lo avrebbe visitato, scopriamo che Camillo chiamava la propria creazione «mente artificiale», «anima artificiale» o «anima provvista di finestre». Bene, ma che c’entra tutto ciò con Digital Gang?

Pensaci bene: Camillo aveva progettato nientemeno che internet, anzi persino il metaverso. Difatti, da un lato internet non è altro che un unico enorme archivio multimediale del sapere umano, da navigare spostandosi da un nodo a un altro e costruendosi così un itinerario personale, anziché semplicemente osservare un percorso dato (un ipertesto non è un testo); dall’altro lato “metaverso” è il nome che oggi diamo alla possibilità che navigare vada oltre allo stare davanti a uno schermo da esplorare cliccando col mouse o dando direttamente ditate, consistendo piuttosto nell’entrarci dentro immersivamente, come se si fosse davvero nel vivo nell’ambiente da esplorare. Insomma, il povero Camillo meriterebbe indubbiamente di fare un giro sul web e godersi un tour nella versione digitale della mente provvista di finestre, per poi indossare un bel visore e muoversi immersivamente nei meandri della mente artificiale: verosimilmente, sarebbe inizialmente entusiasta di fronte al suo sogno diventato realtà, ma poi realizzarebbe stizzito che quello era appunto il suo sogno! Niente profitti né meri ringraziamenti per lui!

Materiale per un’altra puntata della serie, quindi? Tempo per Camillo di far causa per ottenere un bel risarcimento? Se fossi tra i suoi avvocati, in realtà glielo sconsiglierei, perché ripensare oggi alle sue idee visionarie, all’epoca da molti percepite come bizzarre se non deliranti, ci permette piuttosto di avere un piccolo spaccato di come funziona la storia umana: tutto inizia con il sogno di qualcuno, che prefigura qualcosa di estremamente improbabile eppure possibile, prosegue con dei tentativi di dargli corpo, anche soltanto in maniera abbozzata sulla base dei mezzi al momento a disposizione, e culmina con la sua piena realizzazione, magari dopo che quell’idea sembrava sepolta o senza che chi l’ha materializzata sia consapevole del filo rosso che lo lega a quei primi strambi sognatori. Perciò, se da questo momento ti capitasse di dedicargli un pensiero qua e là durante le tue web-scorribande o gite in 3D, sarebbe già un buon modo di rendergli omaggio…

 

Giacomo Pezzano

 

[Photo credit Joshua Sortino via Unsplash]

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La cura all’origine dell’essere umano e fondamento dell’etica solidale

Quando si nasce si dà inizio a un percorso racchiuso in un tempo determinato, che è il limite entro il quale possiamo dare forma al nostro essere e costruire il senso del nostro stare al mondo. Per questo, venire al mondo e trovarsi “gettato” in esso crea un vincolo necessario tra la vita e la cura. Quest’ultima è l’innata e originaria predisposizione ad avere a cuore la vita preoccupandocene, dal momento che essa è precaria e soggetta all’imprevedibile contingenza. Così inteso, il vincolo vita-cura dura quanto la vita stessa ed esige, con eguale necessità, la relazione con gli altri.

In Essere e tempo Martin Heidegger sottolinea che l’essere-nel-mondo, per ciascuno di noi, è un originario mit-sein, un essere-con-gli-altri, un aprirsi a una dinamica relazionale, che si esprime nel vicendevole besorgen, preoccuparsi gli uni degli altri.
La cura ci lega agli altri a motivo della nostra strutturale incompletezza, che ci fa essere in uno stato di continuo bisogno. Se fossimo perfetti vivremmo nella condizione dell’apatheia, dell’imperturbabilità, che secondo Epicuro si confà solo alla divinità. Quest’ultima, calata nell’eternità, permane senza elementi di rottura, ostacoli o imprevisti. Noi uomini, però, come sottolinea anche Spinoza, viviamo calati nel tempo, che sottopone a continui cambiamenti e insidie la nostra vita, mettendola a dura prova, depotenziandola e sfavorendola. E poiché non godiamo dell’autarchia, dell’autosufficienza, e da soli non siamo in grado di affrontare le sfide e sopperire a tutte le esigenze della vita, la cura è essenziale. Essa ci consente di disporre di una forma di sovranità sul nostro tempo fuggevole e variabile, di approntare misure di protezione e di difesa, per portare a compimento il nostro progetto esistenziale e realizzare le nostre possibilità.

«“Il prendersi cura” del nutrimento, dell’abbigliamento nonché la cura del corpo ammalato sono forme dell’aver cura […]. L’aver cura, com’è ad esempio l’organizzazione sociale assistenziale, si fonda nella costituzione di essere dell’Esserci in quanto con-essere» (M. Heidegger, Essere e tempo, 2006).

Il prendersi cura vicendevolmente risponde a più bisogni, precisa Heidegger, condividendo questa convinzione con gli antichi greci, che utilizzavano termini diversi per esprimere le sfaccettature dell’avere cura.
L’avere cura nel senso di preoccuparsi delle necessità vitali, che i Greci chiamavano mérimna, risponde al bisogno di continuare a vivere e preservare il nostro essere, procacciandoci cibo, mezzi e ripari.
La cura che risana l’essere in caso di malattia, che i Greci nominavano terapéia, è l’insieme delle pratiche assistenzialistiche e mediche che rispondono al bisogno di ripristinare la salute e il nostro benessere fisico e psichico, poiché quando il corpo si ammala e soffre anche l’anima si ammala e soffre.
L’avere cura della vita, però, non si risolve solo nel procurare cose per conservarla o nell’alleviare le sofferenze e guarire le malattie. Poiché l’essere umano viene al mondo “mancante di una forma” e con un’innata tendenza all’autorealizzazione, c’è bisogno anche della cura che gli antichi greci chiamavano epiméleia heautoũ, che è quel prendersi cura di sé, concretizzando la migliore forma di vita possibile, sviluppando e consentendo la massima espressione delle proprie attitudini. La cura così intesa è una necessità esistenziale, in quanto è strettamente legata alla felicità, il sentimento di appagamento che si prova quando si sente la propria vita piena di significato, completa e realizzata.

Distinguendo terminologicamente la kur, la cura in senso medico-biologico, dalla sorge, la cura in senso emotivo-esistenziale, Heidegger sottolinea che anche la sorge, che persegue il fine della felicità, è un’impresa collettiva, presuppone la dimensione del mit-sein, e dunque la preoccupazione intersoggettiva alle sorti degli altri. In quest’ultimo senso la cura ha una connotazione fortemente etica poiché chiama gli altri alla responsabilità di farsi carico del bene e dell’umanità in senso lato, includendo quell’attenzione e partecipazione a rispettare e difendere il diritto altrui a una vita felice.
Lo sviluppo personale, infatti, non dipende solo dalle potenzialità individuali. Esso ha come presupposto un contesto relazione nel quale siano state approntate le condizioni per consentire all’individuo di realizzare la sua identità, favorendone e rispettandone l’autonomia, la libera capacità di espressione e di iniziativa. Si tratta di una forma di assistenza dell’altro che non può e non deve consistere nel «sollevare l’altro dalla “cura” sostituendosi a lui […] intromettendosi al suo posto» (ivi).

Prendersi cura degli altri nel senso della responsabilità etica equivale ad «aiutare l’altro a divenire trasparente nella propria cura e libero per essa» (ivi); vuol dire adoperarsi affinché l’altro giunga a realizzare consapevolmente e liberamente il proprio progetto e la propria umanità. Ciò richiede un’etica della solidarietà e della tutela universale dei diritti che è un cammino in itinere, dal momento che, pur nella sua essenzialità e urgenza, è ancora tutto da percorrere.

 

Marilena Buonadonna

 

[Photo credit Roman Kraft via Unsplash]

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Dal film “Vi presento Joe Black”: dalla Morte all’Amore

Il film Vi presento Joe Black del 1998 mette in scena la personificazione della Morte (Brad Pitt) la quale, affidandosi all’integrità umana del facoltoso Bill Parrish (Anthony Hopkins) decide di sperimentare la vita. La breve esperienza umana della Morte, presentata a tutti con il nome improvvisato di Joe Black, sembra voler rappresentare, contro-intuitivamente, l’arco ideale dell’esistenza umana. Quell’intervallo di tempo, che iniziando in una condizione di innocenza, terminerebbe con il compimento del proprio fondamentale scopo di vita. Infatti Joe, all’inizio della sua bizzarra escursione, si atteggia come un bambino che sperimenta il nuovo, gironzolando, per esempio, nella casa di Bill alla ricerca di qualcosa di imprecisato o mostrandosi goloso e distratto durante la riunione aziendale. Inoltre Joe, sebbene a malincuore, deciderà di terminare la sua avventura proprio dopo la realizzazione del suo obiettivo. Solo dopo aver incontrato e vissuto l’amore con passione, infatti, sarà pronto al definitivo addio.

Se vivere cercando di realizzare ciò che sentiamo essere il nostro scopo principale di vita può consentirci di accettare o di dimenticare, positivamente operosi, l’inesorabilità della nostra stessa morte, quale pensiero può accompagnare a vivere il dolore della morte di una persona che amiamo?

Ora, sebbene il film ruoti intorno al tema della morte e sfiori alcune sue diverse declinazioni – accennando alla sua tragicità nella scena dell’incidente del ragazzo di cui la Morte assumerà le sembianze o alla sua drammaticità nella circostanza dell’anziana donna gravemente malata – in realtà il lungo cortometraggio lascia trapelare dallo sfondo la vulnerabilità umana nei confronti del dolore per la perdita di una persona amata. Lo stesso Bill, che rappresenta un’eccellenza dell’agire umano, rimasto vedovo, confida a Joe la quotidianità di una triste e nostalgica mancanza. Inoltre Joe, al momento della sua partenza, non promette alla sua innamorata Susan (Claire Forlani) l’eccezione dell’eternità bensì l’immunità dal dolore della perdita di chi si ama. Ciò sembra quindi suggerirci che l’aspetto più insostenibile della morte non sia propriamente quello di strappare a noi la vita ma quello di strappare a noi gli affetti.

A questo punto possiamo comprendere allora come il tema della morte e il tema dell’amore siano tra loro profondamente legati. Se l’amore dà senso alla vita – «Fare il viaggio e non innamorarsi profondamente, be’, equivale a non vivere» spiega Bill alla figlia minore Susan in una delle primissime scene del film – vuol dire che, di conseguenza, è proprio l’amore a renderci vulnerabili al dolore della morte. In fondo, l’immensa sofferenza che si prova per l’assenza di chi amiamo altro non è che l’intensità di un amore che collassa – innaturalmente – dentro di noi. Quest’ultima considerazione sull’amore ci rivela quindi tutta l’inadeguatezza di una interpretazione conciliante con la morte. La prospettiva che la concepisce come il termine puntuale, sebbene sempre inatteso, del compimento del proprio fondamentale scopo di vita non dà infatti ragione del grande dolore che si prova per la perdita di chi si ama. Se l’amore dà senso alla vita, è anche vero che quello stesso amore ci rende incomprensibile, se non inaccettabile, la stessa morte, rischiando addirittura di far vacillare l’amore come senso della vita. La morte resta quindi un enigma, la cui conclusiva supremazia manifesta a noi stessi l’evidenza della nostra vulnerabilità.

Ecco che, allora, il subire impotenti la perdita di chi amiamo significa attraversare, senza alcuno scudo, la frattura dell’equilibrio affaccendato della nostra ordinarietà. Il nostro dolore, che si dilata come nell’eterno, schiude bruscamente la nostra esigenza di riflessione. E riconoscendoci vulnerabili, in questa sorta di limbo interiore, può forse accompagnarci il pensiero che l’amore che cerchiamo nella nostra vita altro non sia che la naturalezza di un sentimento presente costantemente dentro di noi. L’amore, proprio come la morte, ma in un senso inverso a essa, si trova infatti in noi, sempre, in una condizione di potenzialità. A pensarci, se l’inesorabilità della morte non priva di vigore il nostro impegno a contrastarla nella vita è proprio perché anche l’amore rivendica tutta la sua realizzazione. E il dolore della perdita della persona che amiamo taglia proprio lì: proprio dove l’amore e la morte, dentro di noi, si toccano. Un tocco che resta indecifrabile alla mente ma palpabile al cuore. E in questo dolore dal sapore metamorfico, possiamo forse provare a lasciarci attrarre dall’idea di liberare nell’aria tutto l’amore di cui siamo capaci e vivere il nostro pezzetto di tempo, anche dolcemente distratti, dal sorriso di chi, inconsapevole della nostra profonda ferita, ci passa per un momento accanto.

 

Anna Castagna

 

[Photo credits Luigi Boccardo by Unsplash]

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Tecnologia: dipende da come si usa?

Si dice che il Novecento sia stato il secolo più cruento di sempre. Perché? Cos’ha contraddistinto il Novecento rispetto a tutti i secoli precedenti? La risposta appare ovvia ma imprescindibile: un dispiegamento della tecnologia e dei mezzi tecnologici inaudito, il quale ha inaugurato potenzialità distruttive fino ad allora impensabili. Senza tener conto di ciò non è possibile comprendere le catastrofi del secolo scorso. A questo punto non è difficile l’affacciarsi di una delle più tipiche espressioni d’ingenuità: “Dipende da come la si usa, la tecnologia”. Ora, come modo di dire, come luogo comune, questa frase può essere accettata. Ma è ingenuo pensare con questa semplice proposizione di aver risolto definitivamente il problema, di aver trovato una verità ultima. Occupandosi di filosofia non ci si può accontentare di luoghi comuni o di verità definitive, accettate in modo a-critico.

Perlopiù andiamo avanti ciecamente, senza renderci conto che la tecnologia e il suo sviluppo procede senza curarsi di qualsivoglia argomento. Spesso ci aggrappiamo a quell’unica frase “Dipende da come si usa”. Forse un’efficace smentita di questa visione tanto diffusa sta nel fatto che una delle molle più potenti dell’agire umano sia di «fare qualcosa solo perché si può farla, giusto per dimostrare che la possibilità è realmente possibile» (M. D’Eramo, Il selfie del mondo, 2017). Stando a tale prospettiva, l’uomo (perlomeno l’uomo occidentale post-greco che ha tolto la categoria del “limite”) non sarebbe in grado di dominarsi davanti a un nuovo strumento che gli permetta di accrescere la propria potenza, la propria capacità di incidere sul mondo, che gli permetta di vivere più a lungo, di sentirsi più sicuro etc. Qualunque sia l’arnese, l’apparecchio, il congegno in questione, egli presenterebbe in sé la tendenza intrinseca a estrapolare il massimo possibile dalle potenzialità dello strumento a sua disposizione. Pertanto, una riflessione sull’uso “corretto”, qualora avvenisse, sarebbe solo posteriore, secondaria, fondamentalmente accessoria.

Sembra che man mano si stia rinunciando una volta per tutte a pretendere una legittimazione del potere di quegli apparecchi con i quali sempre più siamo costretti – seppur velatamente – ad avere a che fare. Ma da chi mai si può pretendere la legittimazione del potere di un apparecchio? Se in linea di principio nessun essere umano in carne ed ossa ci costringe a regolare gran parte della nostra esistenza sulla base di algoritmi, di codici e di chissà che altro, allora insorgere contro un uomo o un gruppo di uomini in carne e ossa non rappresenta certo la soluzione. D’altra parte, una mobilitazione luddista nel 2023 apparirebbe anche al più ingenuo degli uomini come assurda, infantile. E allora?

Tutto lascia supporre che, al cospetto di uno sviluppo inesorabile della tecnologia, le armi della critica siano inefficaci. Certo, se ne può discutere all’infinito con argomentazioni magari ben strutturate, ma intanto l’apparato tecnico va potenziandosi sempre di più, come fosse una immane creatura in grado di accrescersi autonomamente e inarrestabilmente. I dati fluttuano qua e là come fossero entità a sé stanti, e si fatica a pensare che tutto sommato ad alimentare tutto ciò siano pur sempre degli uomini. Ci si sofferma mai a pensare che con l’eventuale scomparsa dell’uomo dalla Terra non resterebbero altro che conglobati di plastica, metallo, cemento etc., oggetti incomprensibili a qualsiasi altra creatura? Inoltre è superfluo aggiungere che è proprio per lo sviluppo immane di quest’apparato che via via abbiamo preso una certa dimestichezza con l’idea di una nostra possibile estinzione. Magari è ormai inscritto nel nostro DNA che «il concetto stesso di progresso è divenuto inseparabile da quello di epilogo» (E. Cioran, Squartamento, 1981).

Avanziamo nella nebbia, come sempre accade agli uomini immersi nel loro presente. E continuare a sostenere riguardo allo sviluppo della tecnologia che “dipende da dove lo si indirizza, da come lo si usa” forse non fa che intensificare questa nebbia. O forse l’uomo, che già decenni fa Gunther Anders definiva come “antiquato”, è davvero diventato un pezzo d’antiquariato e, in quanto tale, non più infastidito da quella nebbia che sempre lo ha spinto a porsi le domande ultime, quelle più importanti e vertiginose, quelle filosofiche?

 

Vincenzo Di Puma
Nato in Sicilia nel 1990, vive a Bologna dove ha conseguito la laurea triennale in Filosofia con una tesi su Gerard Genette e quella magistrale in Scienze Filosofiche discutendo una tesi su Jurgen Habermas.

 

[Photo credit Ales Nesetril via Unsplash]

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La comprensione della storia e la ricerca del consulente filosofico

<p>Immagine di una protesta per l'aborto a Washington</p>

La consulenza filosofica nasce nel ‘9001 per avvicinare la filosofia alla quotidianità di ogni uomo, nasce per essere al servizio del reale e anche nell’analisi della storia non può sottrarsi da questa sua natura.
Studiare la storia dell’uomo vuol dire studiarlo antropologicamente nei suoi mutamenti sociali e culturali, studiare un evento storico vuol dire studiarne la politica che ha segnato quella data popolazione e come questa abbia influito sulle ideologie di quel dato popolo: se si pensa, ad esempio alla seconda guerra mondiale, risulta impossibile non tenere conto della diffusione delle teorie sulla razza ed oggi, se si pensa alla Russia,  risulta impossibile non tenere conto della forte presa della religione e del ruolo politico che gioca nella visione di concetti fondamentali come Patria, Nazione e di popolo straniero.

Se si guarda alla storia con occhio critico si possono rintracciare degli avvenimenti simili nelle epoche, ma dettati da contingenze diverse e in questo senso la consulenza filosofica può essere utile nell’analisi: si possono tracciare delle somiglianze e delle dissomiglianze nelle epoche attraverso un metodo di studio trasversale. Per essere più chiari: i movimenti di protesta delle suffragette verso fine ‘800 ed inizi ‘900 possono essere in qualche modo collegati ai movimenti di protesta delle donne negli anni ’60-70 per il diritto all’aborto. È inevitabile pensare ad un passo indietro nella storia quando la corte suprema degli Stati Uniti a inizio luglio 2022 ha nuovamente negato il diritto costituzionale all’aborto; ciò ha dato vita a nuovi movimenti di protesta per prendere posizione contro questa decisione che in un sol momento ha cancellato anni di lotte e proteste.

La somiglianza tra i due eventi che si può cogliere è la lotta per dei diritti, i quali dovrebbero essere tutelati giorno dopo giorno, perché nessun diritto può essere dato per scontato, come ci è stato dimostrato; la dissomiglianza è nei mezzi e nella comunicazione, nell’espansione del movimento fomentato dalla globalizzazione e da Internet che connette milioni di persone.
Un’altra dissomiglianza potrebbe essere trovata nella velocità con cui questi movimenti si formano e si rigenerano: sicuramente in passato è stata molto più graduale la loro formazione e azione. Ad oggi, grazie all’iper connessione che ci permette di connetterci in qualunque momento ed in qualsiasi luogo, tutto è più istantaneo e veloce (a volte meno pianificato e meno efficace, altre più efficace per il grande numero di persone che vi partecipano e apportano il loro contributo alla protesta).

In pratica, la domanda da porsi è come la consulenza filosofica possa aiutarci nella vita di tutti giorni. Potrebbe sembrare solo un esercizio teorico ma non lo è: avere uno sguardo critico nella vita di tutti i giorni significa comprendere il passato e correggere il futuro; vuol dire domandarci se i valori che la società propina sono equi per tutti e se qualcosa è davvero cambiato rispetto al passato. Il metodo filosofico insegna consapevolezza, apertura e ci spinge ad avere uno sguardo nuovo sul mondo pensandosi moltitudine e non singolarità. Applicando l’analisi fornitaci dalla consulenza filosofica risulta difficile differenziare nettamente la nostra epoca dalle altre. In realtà, infatti – per quanto oggi si parli di accettazione, inclusione e di nuovi diritti per cui combattere – resta un sottofondo culturale difficile da cancellare. Ancora oggi, chi è diverso per etnia o religione o orientamento sessuale spesso è ostacolato in molti ambiti della sua vita, questo anche perché c’è una falla nelle istituzioni democratiche e soprattutto nell’istruzione: se la consulenza filosofica deve guidarci a tracciare analisi trasversali della storia facendo sì che questa si avvicini anche alla nostra vita quotidiana e possa fornici aiuto nella comprensione del presente, l’istruzione dovrebbe a sua volta contribuire fornendo un valido metodo di analisi critica. La scuola dovrebbe essere il luogo del confronto proficuo, il luogo in cui ci si allontana da sé stessi per poter arrivare a comprendere l’altro: l’orizzonte dovrebbe allargarsi e contemplare ogni angolatura del reale, dovremmo imparare a guardarci come parte di una realtà più grande e complessa.

È per questo che la consulenza filosofica potrebbe essere un’utile guida alla comprensione del presente e volgere il nostro sguardo al futuro; senza, però, dimenticare il passato che diventa monito e altrettanto guida.

Francesca Peluso

NOTE
1. Il fondatore della consulenza filosofica come Philosophische Praxis è Gerd. B. Achenbach (1947), il cui intento era servirsi del metodo analitico filosofico per riavvicinare la filosofia ad ogni ambito del reale per farsi ancella della vita dell’uomo e fornirgli un supporto pratico nell’azione.

[Photo credit Gayatri Malhotra via Unsplash]

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Roald Dahl: Willy Wonka e la fabbrica del revisionismo

<p>Una pila dei libri di Roald Dahl</p>

La fabbrica di cioccolato, Il GGG, Gli Sporcelli, Le streghe, Matilde, James e la pesca gigante: sono solo alcune delle storie che hanno accompagnato da ottant’anni a questa parte la crescita di milioni di bambini in tutto il mondo. L’autore è uno, Roald Dahl, scrittore indubbiamente eccentrico, dalla fantasia esuberante quanto la sua personalità.

La Roald Dahl Story Company, detentrice dei diritti dei romanzi, delle raccolte di racconti e di poesie e in generale di tutto il materiale mai prodotto da Dahl, è stata recentemente venduta dagli eredi dello scrittore a Netflix, il colosso delle piattaforme streaming on-demand in vena di espansione trans-mediale, e i risultati non hanno tardato a farsi notare. Non è di molto tempo fa la notizia che le prossime ristampe dei classici di Dahl saranno modificati da Puffin Books “per venire incontro alla sensibilità delle nuove generazioni”, con interventi mirati su termini considerati oggi esclusivi, offensivi, politicamente scorretti, che vanno dalla rimozione di aggettivi come “ciccione” e di sostantivi come “padre” e “madre” (sostituiti dal più neutro “genitori”) alla riscrittura di interi passaggi e all’aggiunta di nuovo materiale che addomestichi commenti troppo salaci o descrizioni irrispettose.

La questione non è certo trascurabile, e per più motivi: si pone intanto uno scomodissimo precedente nell’intervento sul lavoro di un autore scomparso, che non può certo dire la sua e che tra l’altro, a detta dell’amica e collaboratrice Amelia Foster, “avrebbe trovato ripugnante tutto ciò che oggi è politicamente corretto”. Secondo le leggi vigenti sul diritto d’autore, poi, l’opera di un autore è considerata un’estensione della sua persona, e la sua integrità va (teoricamente) tutelata come tale.

L’episodio tocca il cuore della cosiddetta cancel culture e ne evidenzia i suoi aspetti più problematici. Per quanto brutale, l’intervento è ben difeso da chi approva il modificare libri, ma anche film e testi musicali, per adattarli a un più avanzato e raffinato (?) senso morale, limando gli spigoli degli anni di origine, aprendo all’inclusività parole e concetti all’epoca non sufficientemente “evoluti”.

Opporsi a un’operazione di questo tipo, però, non è necessariamente un’istanza da conservatorismo fine a se stesso, casomai il contrario: saper riconoscere il bello nel diverso, il valore in ciò che ci è lontano per epoca, per geografia o per sensibilità, è la base di qualsiasi dialogo interculturale e di qualsiasi coabitazione “inclusiva” e “rispettosa”. Ci emozioniamo ancora con i versi dell’Iliade, anche se non viviamo più in una società guerriera come quella che ha ispirato i valori cardine dell’opera. Ci appassioniamo ai romanzi di Jane Austen, anche se le regole sociali sono fortunatamente cambiate. Possiamo immergerci nella lettura di Moby Dick anche se gli inserti “scientifici” sono al più risibili con le conoscenze di oggi, e seguiamo le avventure di Robinson Crusoe nonostante il notevole retrogusto colonialista.

C’è un episodio esemplificativo nel Mahabharata, testo sacro induista, che vede l’eroe Arjuna da solo nella foresta. A un tratto gli appare il mostro Navagunjara, una chimera composta da parti di animali diversi: spaventato, Arjuna solleva l’arco per colpirlo, ma nota poi che, tra le varie parti che lo compongono, Navagunjara ha una mano umana. Basta questo dettaglio per creare un ponte tra i due, terreno comune su cui ritrovarsi: l’eroe non uccide il mostro, che si rivela come una manifestazione di Vishnu, che lo stava mettendo alla prova.

L’incapacità di vedere il valore nell’altro-da-sé, di apprezzare il bello anche in sensibilità che ci sono distanti, di trovare un punto di incontro al di là di ciò che distingue, è un preoccupante segno dei tempi, segno del trionfo del narcisismo delle piccole differenze che frammentano la società in tanti microcosmi non comunicanti (con l’intento dichiarato, invece, di fare spazio a tutti). Cancellare il passato – o, peggio ancora, riscriverlo per far finta che la propria “illuminata sensibilità” sia sempre esistita – non è solo un’idea stupida e arrogante, è anche e soprattutto un colpo di mano totalitario e miope che impoverisce l’esperienza umana, che da sempre si arricchisce con il confronto e la compenetrazione delle differenze.

Di questo passo, si finisce solo con l’annientare quella stessa diversità che su carta si vorrebbe difendere.

 

Giacomo Mininni

 

[Photo credit Nick Sewing’s via Unsplash]

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Clima, ecoansia e bias cognitivi: intervista a Luca Mercalli

Ciò che sta accadendo in Emilia Romagna è certamente tragico, ma è una conseguenza di una serie di azioni e inazioni umane che a livello collettivo dobbiamo deciderci ad affrontare se vogliamo davvero evitare che si ripetano, se vogliamo davvero dare dignità e valore al dolore e alla disperazione che stanno attraversando le persone colpite da questo evento estremo causato dalla crisi climatica. Alle persone che hanno perso la vita o che hanno perso la casa, la macchina e degli affetti dobbiamo almeno questo: la presa di coscienza della verità e una concreta azione conseguente.

Proprio su questi temi abbiamo recentemente dialogato con Luca Mercalli, meteorologo e climatologo, presidente della Società Meteorologica Italiana, responsabile dell’Osservatorio Meteorologico del Real Collegio Carlo Alberto di Moncalieri e docente in varie università. È direttore della rivista “Nimbus” e collabora con testate giornalistiche come “Il fatto quotidiano”. La sua attività di divulgazione scientifica l’ha portato alla pubblicazione di molti libri, ad essere ospite assiduo del programma RAI di Fabio Fazio Che tempo che fa e conduttore di un suo programma, Scala Mercalli, andato in onda nel 2015-16 su RAI 3.

 

Giorgia Favero – Ondate di caldo in febbraio e poi ritorno repentino del freddo, improvvisi e continui temporali e poi ritorno a settimane di calma piatta e arida; “bombe” d’acqua e siccità, caldo e freddo accostati come sulle montagne russe. È facile a volte per i giornali titolare con l’espressione ormai classica “meteo pazzo”: ma non sarà che, più che il meteo, siamo noi i pazzi?

Luca Mercalli – Certamente è una definizione anche un po’ di tradizione storica: “il tempo è impazzito” lo si diceva anche prima del riscaldamento globale nei momenti in cui si verificavano fenomeni anomali. Questo andava bene finché si trattava di essere spettatori di una variabilità naturale: la nostra vita è breve – soprattutto in un tempo passato in cui non c’erano osservazioni satellitari e banche dati – quindi è chiaro che la memoria storica di una vita poteva essere al massimo di un secolo e di conseguenza riscontrare anomalie che ogni tanto si ripetono giustificava quest’espressione: il tempo è pazzo. Oggi sappiamo che oltre che alla normale variabilità del tempo per motivi naturali – che ci sta per motivi naturali –, si è sovrapposta una variazione nuova indotta dalle attività umane: il riscaldamento globale. Direi quindi che ci dovremmo interrogare sulle sue cause, e questo significa prendere coscienza del danno che le attività umane stanno compiendo su tutti i processi che governano il pianeta, non solo sul tempo atmosferico. Certamente le attività umane cambiano il clima, ma cambiano purtroppo anche tutti gli altri processi che governano la natura: la perdita di biodiversità, l’inquinamento, la plastica negli oceani, la cementificazione, la deforestazione… sono tutti fenomeni che poi si traducono in cambiamenti irreversibili che portano effettivamente a qualcosa di nuovo sotto il sole rispetto a queste definizioni di “meteo pazzo” che potevano andare bene come battuta fino a un secolo fa, oggi sono da analizzare con maggiore responsabilità individuale. Adesso infatti abbiamo una parte di responsabilità relativamente a questa pazzia, e si chiama Antropocene

 

GF – Nella sua duratura e preziosa attività di divulgazione relativa al cambiamento climatico, ha parlato più volte di bias cognitivi che ci ingabbiano puntualmente nella sottovalutazione dei rischi, dunque una vera e propria distorsione nella nostra capacità di ragionare di fronte a una situazione. Quali sono questi bias cui accenna?

Luca Mercalli – Ci sono due elementi quando parliamo di clima che ci allontanano dalla presa di coscienza: uno è legato al fatto che dei cambiamenti climatici cominciamo a vedere i sintomi ma i danni peggiori li vedranno probabilmente le generazioni più giovani, coloro che verranno dopo di noi. Come sempre, quando c’è un rischio a lungo termine, proprio la fenomenologia del comportamento umano è quello di rimuoverlo. Lo vedo spesso anche in situazioni più semplici, banali e individuali, come quella del fumatore. Chi fuma, anche se avvertito dall’impatto che il fumo ha sui polmoni, tende a ignorare questa prevenzione perché il momento nel quale sperimenterà il danno sanitario è molto lontano nel tempo. Con il clima è ancora peggio perché i tempi possono essere più lontani ancora rispetto alla possibile formazione di un tumore per un fumatore e il clima è anche più astratto rispetto al fumo. Se già il malanno da fumo non convince il fumatore a smettere di fumare, pur essendo un danno su se stesso, a maggior ragione il clima convince ancora meno a prendersi delle responsabilità perché è un danno fuori da se stessi.
Il secondo motivo è invece al contrario legato alla dimensione del problema. Il problema è così grande e così globale che spesso il bias cognitivo è un modo di rimuoverlo. È qualcosa di così fuori dalla mia portata che è meglio ignorare: lo ignoro così non ho un’ansia o una nuova responsabilità generata dal prenderne coscienza.
Questi sono i due grandi elementi che fanno sì che le persone o ignorano il problema, quindi ne sono indifferenti, o addirittura lo negano con grande veemenza. Pensiamo infatti al negazionismo climatico, è una forma di difesa interiore, o almeno per chi non lo fa per interessi economici: sappiamo benissimo che c’è anche un negazionismo mosso da una precisa difesa degli interessi di parte, ma ce n’è anche uno molto più banale che è legato al tentativo dell’individuo di rimuovere e allontanare da sé un’ansia.

 

GF – Sul versante opposto c’è anche chi la gravità della situazione l’ha compresa e non solo riesce a individuare la follia di uno stile di vita totalmente incurante del pericolo imminente – direi già presente – ma ha sviluppato quella che oggi chiamiamo “ecoansia”, un termine coniato attorno al 2009 ma accolto solo nel 2021 nel lessico dell’autorevole American Psychological Association. Ritiene che questo fenomeno, che oltretutto riguarda soprattutto la popolazione più giovane, sia destinato ad aumentare?

Luca Mercalli – Tenga presente che io studio il clima e non ho certamente le competenze e la conoscenza per giudicare con i mezzi di chi studia la psiche umana, anche se questi diventano via via dei temi che sto cercando anche io di comprendere. Posso solo osservare che l’ecoansia può essere di due tipi: c’è un’ecoansia paralizzante e una che invece promuove l’azione. Io penso che un po’ di ansia sia necessaria, perché se non ci rendiamo conto della dimensione enorme del problema che abbiamo davanti poi è anche facile non occuparsene. Se tutto è sotto controllo, se non appare grave come realmente è, io non prendo dei provvedimenti, perché è molto più facile pensare che ci sarà qualcun altro a risolvere questo problema, oppure pensare che non sia così grande e urgente da risolvere. Io credo che sia necessario un livello minimale di ansia e di preoccupazione che però non deve essere panico, non deve essere qualcosa che blocca o che produce depressione o disfattismo. Una via di mezzo. Quella che vivo su me stesso: anche io ho un’ecoansia ma diciamo che l’ho mutata in azione, nel compiere concretamente delle scelte che migliorino il mio bilancio ambientale. Se ho fatto l’isolamento termico della casa e ho messo i pannelli solari credo di aver fatto qualcosa di giusto e utile a me stesso e alla collettività, quindi ho anche diminuito la mia ecoansia, perché ho potuto trasformarla in un atto concreto. Ho comprato la macchina elettrica e la carico con i miei pannelli solari, ho installato una cisterna per la raccolta dell’acqua piovana (invece della piscina), non utilizzo più l’aereo, mangio meno carne. Queste sono le cose che sono alla portata di un individuo. Sull’ecoansia legata alle decisioni sbagliate dei leader mondiali non ci possiamo fare molto: non siamo eroi. La psicologia ci insegna anche che dobbiamo essere consapevoli pure dei nostri limiti, altrimenti ci facciamo sopraffare dall’impotenza. Io dico, la via di mezzo è: comincia a fare tu quello che puoi.

 

GF – Nel suo libro Non c’è più tempo. Come reagire agli allarmi ambientali (Einaudi, 2020) scrive che in una ipotetica realtà parallela in cui lei fosse il Presidente del Consiglio promuoverebbe «un grande sforzo di sintesi tra scienze dure e scienze umane, con un nuovo ruolo della filosofia». Quale dovrebbe essere questo ruolo?

Luca Mercalli – Proprio quello che abbiamo detto finora. Tutta la nostra conversazione di adesso mette insieme questi mondi. Io in fondo rappresento più il mondo delle scienze naturali, però, chiedo e mi piacerebbe, l’aiuto delle scienze umane. Mi piacerebbe parlare di queste cose con l’antropologo, con lo psicologo sociale, con il sociologo e con il filosofo e trovare insieme delle soluzioni.

 

Grazie davvero a Luca Mercalli per questa chiacchierata!

 

Giorgia Favero

 

[Photo credits Wikimedia Commons]

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Rughe e odierni tabù: l’attesa, le soglie e la finitudine

Al giorno d’oggi conosciamo sempre meno soglie.
Non concepire soglie significa, innanzitutto, non dover aspettare – per nulla al mondo. Temporeggiare  è, a quanto pare, del tutto inutile. E tale constatazione non può che essere un dato di fatto nell’era di  Amazon che, a ben guardare, è probabilmente il più grande “demolitore di soglie” mai esistito: qualche  tasto, un click ed è fatta, avremo ciò desiderato senza alzarci dal nostro letto: grassi sovrani costantemente già seduti al liscio “tavolo delle merci”, del quale basta tirare un po’ la tovaglia per poter avere  tutto.
Da impazienti cronici quali siamo, l’unico momento in cui accettiamo di dover aspettare è, forse, davanti alla porta di casa di un nostro caro amico, ma con i mezzi odierni di calcolo e comunicazione,  probabilmente non aspetteremo neanche davanti a tale porta, che quasi sempre troveremo già aperta – oramai i navigatori calcolano perfettamente le tempistiche dei nostri spostamenti, e i messaggi via  rete non tardano ad arrivare: perché attendere?
E non è che ce ne siamo dimenticati: la società attuale sembra che proprio non voglia più conoscere soglia o impedimento che non le siano opportuni e necessari, o in qualche modo utili. Si fa di tutto  per eliminarle. L’unico motivo per cui, anche davanti alla casa del nostro amico, potremmo accettare  di dover aspettare è il raro caso di una nostra visita a sorpresa. 

Come per le rughe, non vogliamo soglie.
Vogliamo un mondo liscio come la nostra pelle: «La levigatezza è il segno distintivo del nostro tempo. È  ciò che accomuna le sculture di Jeff Koons, l’iPhone e la depilazione brasiliana» (B.C. Han, La salvezza del bello, 2019). Come un vastissimo  piano, sempre più levigato ed ininterrotto, appare la nostra esistenza. Su una superficie così levigata,  senza attriti, tutto è ed appare a nostra disposizione. La continuità piallata del piano ci permette di non  attendere mai più dell’istante, un po’ per tutto: dagli acquisti agli spostamenti, passando per le cose da  dirsi nel privato come in pubblica piazza, per arrivare fino ai sentimenti, dai più frivoli ai più profondi.
Levighiamo, e non vogliamo rughe – superuomini imbellettati.
Troppo spesso però, ci scordiamo che questo piano sul quale viviamo la nostra vita è sempre e comunque il corpo di un grandissimo scivolo, che è divertente proprio in quanto ha un termine, ha una fine. Qualsiasi caratteristica e lunghezza abbia la parte in discesa, solo sapendo della sua terminazione – cioè della soglia finale, che non è “nient’altro” che la nostra, umana morte – possiamo rendercene veramente conto e “viverla”.
«Le soglie, come passaggi, ritmano, articolano e raccontano […]. Sono, le soglie, passaggi temporalmente intensi, che oggi vengono abbattuti a favore di una comunicazione e di una produzione accelerate, prive di fratture» (B.C. Han, La scomparsa dei riti, 2021): disabituati a queste, perdiamo la coscienza dei momenti di cesura rispetto al piallato ordinario, che in primo luogo sono quelli del dolore

Proseguendo su questa scìa, anche nella lettura di Marc Augé il discorso intorno alla morte fa propri i termini “spaziali” della soglia o, più precisamente, della frontiera: «Il rispetto delle frontiere è dunque un  pegno di pace. Non è un caso che gli incroci e i limiti […] siano stati oggetto di un’intensa attività rituale.  Non è un caso che gli esseri umani abbiano dispiegato ovunque un’intensa attività simbolica per pensare il passaggio dalla vita alla morte come una frontiera» (M. Augé, Nonluoghi, 2020).
E il fulcro del discorso sta nell’inizio di ciò appena ripreso: così come, per Augé, geopoliticamente  l’accettazione delle frontiere è un “pegno di pace”, ciò vale anche nella trasposizione macabra del discorso. L’accettazione della finitudine della vita è il pegno per la nostra, interiore, pace. Il discorso intorno alla morte è così, anche, un discorso di soglie.
A ben vedere, aveva ragione l’americano Geoffrey Gorer quando, esattamente sessant’anni fa, nel 1963, profetizzò proprio la morte come odierno – già per l’epoca – e futuro grande tabù nella nostra  società: la morte, diceva, sta prendendo il posto del sesso1.

Il momento del dolore – e, come evento estremo, la morte dell’Altro-conosciuto, se non addirittura  amato, o la morte di Sé – è un momento temporalmente intenso. È una ruga – e la vorremmo piallare, ma non si può: disperati, non sappiamo che fare. Vorremmo che tutto si risolvesse in un click, invano.
Di fronte alla morte, al dolore e al lutto, non c’è peggior difetto d’essere impazienti. Ed eccoci qui.

 

Tommaso Antiga
Nato a Conegliano nel 1998, è Architetto e Dottorando di Ricerca presso l’Università degli Studi di Trieste, precedentemente laureatosi al corso di Laurea Magistrale in Architettura presso l’Università degli Studi di Udine con una tesi in forma di discorso sul tema della morte e dei suoi luoghi, portato avanti con il Prof. Giovanni La Varra. Da sempre appassionato anche di arte e filosofia e, nel tempo libero, aspirante scrittore.

 

NOTE
1. Cfr. G. Gorer, The Pornography of Death, in Appendice a Id., Death, Grief and Mourning, 1963.

 

[Photo credit  via Unsplash]

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Tra le interazioni solitarie nella comunicazione quotidiana con Renato Guttuso

Ogni giorno ognuno di noi ha a che fare con la comunicazione nel senso più ampio del termine. Viviamo, in effetti, in un’epoca nella quale comunicare sembra essere diventata una necessità assoluta e, allo stesso tempo, il nostro pane quotidiano. Soprattutto la comunicazione on-line regna sovrana sulle nostre giornate, il suo trono fatto di aggiornamenti e di notifiche campeggia in un regno nel quale il flusso di notizie non ha più argini e, come un fiume in piena, fluisce senza sosta con buona pace di orologi e calendari. Le notizie, in questo modo, sembrano rincorrersi vorticosamente fino quasi a fagocitarsi l’una con l’altra in un grande caos. La sensazione per gli utenti è, spesso, di essere in ritardo o in bilico, come tanti funamboli sul filo degli hashtag in tendenza. Così si affaccia il dubbio, a volte timido, a volte più forte, della qualità di questo tipo di comunicazione che coinvolge anche il nostro modo di comunicare con le altre persone, siano esse conoscenti, sconosciuti o amici intimi. Infatti, non importa se il calendario indichi con un colore diverso dal nero i giorni festivi, tentando, maldestramente, di farci interrompere le nostre ritualità e separarci dalle nostre routine, compresa quella digitale: siamo, tutti, sempre e comunque, perennemente connessi. Varrebbe forse la pena, a questo punto, di chiederci: esattamente con chi siamo connessi? Stiamo, davvero, perennemente comunicando?

La riflessione sul paradosso tra la grande quantità di mezzi a nostra disposizione e le difficoltà nel comunicare con gli altri e uscire dalla solitudine sembra essere tutta dei nostri tempi. In particolare, dopo la pandemia molti sono stati i dibattiti intorno a questo tema e, i più giovani, sono stati e sono tuttora oggetto d’attenzione in questo senso. Infatti l’altra faccia dell’ipercomunicazione si è rivelata essere molto più problematica di quanto si potesse immaginare, restituendoci un quadro a tinte piuttosto fosche di un’intera generazione che fa i conti con lunghe ore di solitaria interazione. In verità, però, questo tipo di riflessione ha radici lontane e anche l’arte pittorica l’ha rappresentata, in modi diversi, soprattutto lungo il ‘900. A tal proposito mi ha sempre affascinata, tanto da diventare per me quasi ipnotica, un’opera di Renato Guttuso. Si tratta di un quadro, del 1980, probabilmente molto meno conosciuto rispetto ad altri lavori di uno dei più importanti artisti italiani del XX secolo. Il titolo è, già di per sé, emblematico: Telefoni (o l’Incomunicabilità); qui Guttuso si ritrae di schiena e la postura sembrerebbe indicare una certa tensione fisica, l’artista tiene la cornetta di un telefono ben attaccata all’orecchio mentre di fronte a lui altri telefoni creano con i loro fili, tutti staccati così come le cornette, un groviglio caotico. Il tentativo che compie – cioè quello di mettersi in contatto con qualcuno – sembra vano, come a voler suggerire che non sarà la moltiplicazione dei mezzi di comunicazione a spazzare via le problematiche legate alla comunicazione stessa tra gli esseri umani. La figura al centro del dipinto resta, così, “appesa”: impossibilitata nello stabilire un contatto; solitaria pur tra tanti colori.

Per tornare ai nostri giorni, quell’immagine pare rappresentare molto bene l’impotenza e l’impossibilità di sentirci realmente connessi e in comunicazione con qualcuno, una sensazione che potrebbe coglierci proprio avendo, di fronte a noi, sterminati mezzi di comunicazione. Soprattutto se pensiamo ai social network: da un lato, la percezione è quella di avere tra le mani un potere nuovo (siamo infatti padroni di un’esperienza senza precedenti, in fondo possiamo scegliere cosa comunicare, cosa eliminare quasi totalmente dai nostri profili, costruirci un piccolo universo a nostro piacimento e così via); dall’altro, potremmo sentire una sorta di smarrimento nella difficoltà di riuscire, realmente, a comunicare in maniera sincera davvero qualcosa. Restare in contatto facilmente con conoscenti e sconosciuti nello stesso, pressoché identico, modo potrebbe, paradossalmente, portare a sentirci molto soli nonché isolati, ognuno nella sua bolla di confortevole alienazione. Le cerchie intorno a noi, intanto, non fanno che estendersi inglobando parenti, amici di vecchia data, persone che frequentiamo ogni giorno, personaggi famosi, influencer, completi sconosciuti ecc., e noi ci sentiamo sempre più muti, fermi sulla soglia dell’incomunicabile. È importante non ignorare questa sensazione ma prenderne atto e cercare delle possibili soluzioni; non si tratta di condannare né le vecchie né le nuove forme di comunicazione quanto di affinare la capacità di non smettere di interrogarci, di capire cosa va bene per noi come individui nella società e continuare la nostra indagine quotidiana dentro e fuori di noi.

 

Veronica Di Gregorio Zitella

 

[Photo credit Volodymyr Hryshchenko via Unsplash]

 

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Il dolore fisico, questo grande maestro

Nelle nostre occupazioni quotidiane ci sono momenti che vorremmo far durare a lungo, attimi di gioia, traguardi raggiunti che ci fanno sentire invincibili e fieri di noi stessi. Ci sono poi le sconfitte e i fallimenti, che a fatica sosteniamo e che spesso abbattono ogni nostra sicurezza. Quello che molte volte dimentichiamo, però, è la condizione necessaria perché tutto questo avvenga, ossia il benessere del corpo e della mente. Noi pensiamo di essere padroni delle nostre decisioni, siamo convinti di avere pieno possesso delle nostre facoltà, ma diventiamo estremamente fragili e impotenti di fronte alla sofferenza fisica. Quando il dolore impedisce le ordinarie attività, il nostro io si ritira in se stesso e ogni prospettiva cambia.
Anche la persona più cinica, di fronte al dolore, è costretta a rivedere le sue priorità. Questo perché la nostra attenzione viene completamente assorbita da esso. Tutto si cancella, ogni cosa scivola in secondo piano e l’unico obiettivo che vediamo è la fine del patimento. Quello che prima ritenevamo indispensabile per la nostra felicità, ora si fa corollario. C’è un prima di cui dobbiamo occuparci.

Nel suo breve scritto La serata col Signor Teste (in P. Valery, Monsieur Teste, 1961), il filosofo e scrittore francese ci regala uno scorcio di vita estremamente realistica e al tempo stesso fortemente simbolica di un personaggio letterario, che incarna la piena coscienza di sé, un uomo che «quando parlava non alzava mai né un dito né un braccio: che aveva ucciso la marionetta» (ivi), ma che si trova a combattere con la sofferenza del corpo.
Il signor Teste è un cervello senza limiti, una creatura eccezionale nata dal bisogno di Valery di costruirsi un linguaggio puro, di sfiorare la perfezione. Ma il breve scritto evolve in maniera inaspettata. Questo personaggio apparentemente imperturbabile, nell’atto di uscire dal teatro dove ha trascorso una serata con l’amico (che poi è lo stesso Valery), comincia a parlare in modo strano, a fare discorsi incomprensibili. «Improvvisamente tacque. Soffriva», si legge nel testo.

Nel corso dell’opera, monsieur Teste diventa via via meno personaggio e più uomo. Egli invita l’amico a salire nel suo appartamento e a stare lì con lui finché non si sarà addormentato. L’uomo dall’attenzione profonda cede pian piano il passo al bambino impaurito e bisognoso di vicinanza. Emerge dal racconto un velo di malinconia che accompagna i due fino all’interno della casa. «Il mio ospite esisteva nel più generico degli interni. Pensai alle ore che passava in questa poltrona. Ebbi paura dell’infinita tristezza possibile in quel luogo puro e banale» (ivi). L’appartamento del signor Teste è lo specchio della sua interiorità. Piccolo, spoglio, svuotato di ogni possibile abbellimento perché la sofferenza del corpo annulla ogni bellezza esteriore e concentra lo sguardo su di sé.

«Che cosa può l’uomo?»chiede a un certo punto il signor Teste al suo interlocutore.

«Io combatto tutto – tranne le sofferenze del mio corpo, oltre una certa dimensione. Proprio di lì tuttavia dovrei cominciare ad affondare in me stesso. Perché soffrire significa dare a qualcosa un’attenzione suprema» (ivi).

Ecco lo spiraglio di luce da cui ripartire. La sofferenza del corpo annienta, ma amplifica la capacità di attenzione. I dolori catturano il nostro sguardo e ci portano completamente dentro di noi. Si accendono come si accende un’idea, permettendoci di comprendere. È quasi un’esperienza mistica. Il dolore fisico può diventare un mezzo per sottrarre da noi ogni distrazione e farci tornare in noi stessi rinnovati. Da lì si può intraprendere una conoscenza più profonda e più vera. Infatti, quando si soffre e si deve rinunciare alle abituali attività, il nostro io ha una grande opportunità: incontrare se stesso. Sfruttando la luminosità che la sofferenza del corpo ha prodotto, possiamo illuminare un problema, una questione, e trovare le risposte che cercavamo da tempo.
Il dolore, inoltre, è un bravo maestro perché ci riporta a uno stato primordiale, ci fa ripartire dal primo gradino della scala e ci mostra come la felicità possa trovarsi già nel gradino successivo e non necessariamente in cima a essa. Si ridimensionano le aspettative, tutto diventa più lineare. La stessa posizione corporea ti pone in un’altra prospettiva; da seduto o da sdraiato molte attività non le puoi fare, quindi riscopri la bellezza di attendere, di leggere, di progettare. La prima passeggiata, allora, avrà davvero il gusto delle prime volte, così come un incontro con gli amici o il ritorno sul posto di lavoro, una volta guariti.

 

Erica Pradal

 

[Photo credit Mitchel Hollander via Unsplash]

 

 

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