Graphic novel come visioni del mondo: al via il Treviso Comic Book Festival 2023

Venerdì 29 settembre si alzerà il sipario sulla 20esima edizione del Treviso Comic Book Festival (TCBF), il Festival Internazionale di Fumetto e Illustrazione che per tre giorni accenderà di colore ed energia il capoluogo veneto. Ad attendere i visitatori ci saranno 13 mostre, X talk con gli autori e X workshop creativi per tutte le età. TCBF è una kermesse che racconta il mondo del fumetto nelle sue sfaccettature contemporanee, tanto a livello estetico quanto concettuale.

In chiave più concettuale possono essere viste alcune delle esposizioni previste in questi giorni. In particolare quella che inaugurerà il 30 settembre a Casa Robegan: Swedish contemporary comics. Questa mostra raccoglie le tavole di tre artisti svedesi Moa Romanova, Bim Eriksson ed Erik Svetoft, fumettisti ma attentissimi osservatori della realtà circostante e crudi illustratori della società in cui vivono. Tre nomi con stili differenti ma accumunati dalla volontà di raccontare con la propria penna gli aspetti più intimi, complessi e, spesso, difficili da accettare dell’essere umano. In scena tre opere recentemente pubblicate in Italia che mettono in luce alcuni risvolti fortemente caratterizzanti della società svedese. Moa Romanova con l’edizione italiana del suo esordio “Goblin Girl” (Add editore), primo fumetto svedese vincitore del prestigioso Eisner Award, parte da sé stessa e dai propri conflitti interiori per affrontare la sua storia personale di ansia e depressione, di dipendenza, di una comunità femminile capace di stringersi e sostenere in un processo di accettazione e di racconto aperto. Bim Eriksson, con la sua prima graphic novel tradotta in italiano, “Baby Blue” (Add editore), si sposta su un mondo distopico, in un futuro immaginario in cui le forze al governo impediscono la tristezza e in cui, anche in questo caso, è salvifica la figura di una comunità coesa e accogliente nella quale rifugiarsi. Una narrazione che ha delle sfaccettature politiche ma che mantiene il focus su una dimensione intima di affermazione e conoscenza di sé. Tra le tre proposte, quella di Erik Svetoft con la sua opera “SPA” (saldaPress), in anteprima proprio al festival e sua prima opera a essere tradotta a livello internazionale, è di certo quella più irriverente. Il suo è un racconto caratterizzato da un umorismo grottesco nel genere horror in cui un luogo pensato per il benessere e la cura personale diventa l’asilo di mostri e creature putrescenti, in una metafora della nostra società e delle nostre aspirazioni e possibilità.

Ma non serve necessariamente andare all’estero per trovare un’analisi sociale profonda e graffiante in formato graphic novel. Sempre domenica 1° ottobre e sempre nella cornice di Casa Robegan inaugurerà la mostra Succede a tutti mamma, che raccoglie alcune opere selezionate di tre artisti della campagna veneta: Eliana Albertini, Iris Biasio e Miguel Vila. Con immagini in grado di mettere in connessione la dimensione esteriore e quella interiore, il visibile e l’invisibile, la produzione di questi artisti pare mirata a renderci consapevoli dell’instabilità dei sentimenti e la complessità dei rapporti (tra) umani. Nell’arco di pochi anni, questi ragazzi dalla personalità ben definita e sensibile ai mutamenti dei luoghi in cui abitano, hanno maturato una cifra stilistica riconoscibile e apprezzata da pubblico e critica, mettendo in scena una folla molto varia di umanità, colta nelle sue manie e nelle sue fragilità. Centro delle loro indagini sono le piccole normalità quotidiane, a volte patetiche, a volte pericolose, altre pittoresche e ambigue.

Questo è forse uno dei più nobili scopi dell’arte, di tutte le arti – quindi fumetto compreso (la nona arte): usare i propri strumenti e la propria grammatica per veicolare un messaggio. A volte si tratta semplicemente di tratteggiare dei contorni crudi e realistici del reale per indurre una riflessione personale. Non sempre, infatti, è necessario dare delle risposte o delle soluzioni: le opere più grandi non ne danno, lasciano che sia il fruitore ad attivare le proprie sinapsi e a riflettere. Questo anche il compito che sembrano essersi dati Moa Romanova, Bim Eriksson, Erik Svetoft, Eliana Albertini, Iris Biasio e Miguel Vila. Le premesse sono quindi ottime, non ci resta che vedere le mostre!

 

Giorgia Favero

 

[Photo credit Treviso Comic Book Festival]

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I volti dell’attesa ne “Il Deserto dei Tartari” di Dino Buzzati

Nella lingua greca classica per definire il Tempo troviamo tre parole: Chronos, Aiòn e Kairòs. Se Chronos va ad indicare la natura quantitativa del tempo, lo scorrere inesorabile dei minuti, Aiòn rappresenta il susseguirsi delle ere, il tempo vitale ma anche il destino; infine abbiamo Kairòs, probabilmente uno degli aspetti più affascinanti del tempo nella sua natura qualitativa: il “momento opportuno”. Kairòs corre veloce proprio come corre via l’occasione propizia che si deve afferrare per non rischiare di perderla per sempre. Nella vita di tutti noi può accadere di avere la percezione di aver incontrato Kairòs, di essere stati nel posto giusto al momento giusto, di aver colto un’occasione irripetibile, di aver compreso che quel momento esatto sarebbe stato il più importante e decisivo della nostra esistenza. D’altro canto possiamo aver sperimentato, però, anche un altro tipo di sentimento rispetto al tempo e al momento propizio, una zona grigia, impalpabile eppure presente: l’attesa. Questo limbo può prendere diverse forme e dimensioni: possiamo aspettare con gioiosa speranza il grande amore o il lavoro dei sogni, possiamo attendere con trepidazione mista ad ansia l’esito di un esame, una svolta nella nostra quotidianità, una notizia. Grandi e piccole forme di attesa, insomma, compongono spesso le nostre esistenze

Proprio questo misterioso e, a tratti, schiacciante tempo sospeso è al centro di uno dei capolavori della letteratura italiana del Novecento: Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati. Sin dall’incipit, Buzzati riesce a far sentire il lettore completamente immerso in quel momento che precede l’evento tanto atteso e in quella sempre imprevedibile reazione che può avere l’animo umano. Infatti l’indimenticabile protagonista Giovanni Drogo, alla notizia che aspettava di ricevere da tempo, non prova quella gioia che potremmo aspettarci da lui:

«Nominato ufficiale, Giovanni Drogo partì una mattina di settembre dalla città per raggiungere la Fortezza Bastiani, sua prima destinazione. […] Era quello il giorno atteso da anni, il principio della sua vera vita. Pensava alle giornate squallide all’Accademia militare, si ricordò delle amare sere di studio quando sentiva fuori nelle vie passare la gente libera e presumibilmente felice […]» (D. Buzzati, Il deserto dei Tartari, 1940).

Giovanni Drogo è, dunque, finalmente ufficiale, una nomina che aspettava da anni, la luce che rischiara un giorno nuovo, ha nella testa e nel cuore grandi e alte aspettative e sente di meritarle. L’ufficiale, però, non riesce a provare una gioia piena, capisce che il tempo della giovinezza è andato perduto. C’è in lui, fin da subito, un presentimento: 

«Così Drogo fissava lo specchio, vedeva uno stentato sorriso sul proprio volto, che invano aveva cercato di amare. Che cosa senza senso: perché non riusciva a sorridere con la doverosa spensieratezza mentre salutava la madre? […] L’amarezza di lasciare per la prima volta la vecchia casa, dove era nato alle speranze, i timori che porta con sé ogni mutamento, la commozione di salutare la mamma, gli riempivano sì l’animo, ma su tutto ciò gravava un insistente pensiero, che non gli riusciva di indentificare, come un vago presentimento di cose fatali, quasi egli stesse per cominciare un viaggio senza ritorno» (ivi).

Il tempo, per Drogo, si dilata ulteriormente e le attese si moltiplicano fino a diventare un labirinto che sembra non avere fine. Prima la nomina a ufficiale, poi l’arrivo di un nemico che sembra essere più un’ombra che reale. La direzione di Drogo infatti, come sappiamo, è la Fortezza Bastiani che si erge in un deserto il quale, secondo le leggende, era stato teatro delle scorribande dei Tartari. Ora è solo silenzio e vuoto, le giornate scandite da una routine incessante trascorrono tutte identiche. Ad accentuare la sensazione di un’attesa che sembra chiamarne un’altra, è Drogo stesso che, in ogni momento, ha la possibilità di andare via. Eppure rimanda di ora in ora, di giorno in giorno, aspettando quell’assalto, preparandosi ad affrontarlo; anche il più lieve dei rumori ridesta in lui una singolare speranza d’azione che lo porta, inesorabilmente, a restare tra le mura della Fortezza. L’attesa sembra, così, prendere una nuova forma che tutti noi potremmo aver già incontrato nel quotidiano, quella di uno scudo che ci protegge dalla vita e dalle delusioni che potrebbe infliggerci, ma è soltanto cercando di conoscere e capire i tanti volti dell’attesa e del tempo che possiamo imparare ad affrontarli con lucidità e magari accorgerci che quell’agognato “momento opportuno” è proprio lì, davanti ai nostri occhi, ogni giorno.

 

Veronica Di Gregorio Zitella

 

[Photo credits Ryan Cheng via Unsplash]

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A colazione con Marx

Se vi fosse la possibilità di invitare per colazione uno solo tra i pensatori più importanti vissuti nell’Ottocento credo che sceglierei la compagnia di Karl Marx. Magari, visto la dirompente personalità, gli offrirei del caffè decaffeinato o del tè deteinato con dei biscotti rigorosamente fatti in casa. Lui arriverebbe con entrambe le braccia cariche di libri, chiedendomi subito di aggiornarlo sulla classe operaia e io, trattenendomi dal raccontargli a valanga una miriade di cose, gli direi affettuosamente di prendere posto in cucina. 

«Buongiorno dott. Marx, grazie di essere qui!»
«Buongiorno! A dire il vero ho parecchio da fare, ma una pausa dai miei studi mi farà senz’altro bene!» mi risponderebbe Marx, indicandosi con una buffa smorfia barba e capelli.

Dovete sapere, infatti, che Marx fu una persona animata da una profondissima passione per il cambiamento della società. Ricercava e studiava perché voleva assolutamente trovare il modo di dimostrare scientificamente lo sfruttamento dei lavoratori. È come se qualcuno o qualcuna oggi decidesse di impegnarsi a studiare, per proprio conto, tutto l’umanamente possibile allo scopo – ai più, forse un po’ bizzarro – di formulare dei validi argomenti a favore di una società migliore. Il ché fa di Marx una persona che tutti e tutte dovremmo voler ben conoscere. 

«Dott. Marx, il mondo di oggi è molto cambiato ma, in effetti, non ha proprio più smesso di produrre merci! Le va, allora, se parliamo un po’ di alienazione?»
«Certamente!» mi avrebbe risposto subito lui.

Marx aveva a cuore l’auto-realizzazione delle persone. Non riusciva ad accettare che si potesse vendere il proprio impegno per qualcosa come il lavoro nelle fabbriche che non era una attività né libera né creativa. Coloro che vi erano occupati dovevano adattarsi a una pesante realtà produttiva nei confronti della quale non avevano pressoché alcuna voce in capitolo. Oggi – sebbene le condizioni di lavoro, in molti settori, siano migliorate anche per la nostra attenzione alla salute e alla sicurezza – resta a noi spesso preclusa la possibilità di ampliare il senso di questa sua osservazione critica. Noi infatti, generalmente, abbracciamo l’idea dell’auto-realizzazione professionale e in questa coincidenza tra noi e il nostro lavoro, perdiamo la possibilità di valutare con distacco quello che facciamo. Coltivare la nostra persona è invece fondamentale per migliorare la nostra capacità di analisi e di giudizio.

«Dott. Marx, ne ha davvero passate tante… È stato costretto a rifugiarsi a Parigi, a Bruxelles e poi a Londra per le sue idee rivoluzionarie. Cosa la affascinava così tanto del “comunismo”?»
«Bè, allora, una precisazione! Secondo la mia analisi il comunismo sarebbe sorto dalle stesse contraddizioni del capitalismo! Nessuna utopia!>> avrebbe cercato di chiarire Marx.

In fondo, Marx nutriva il sogno di una umanità migliore. L’antagonista principale della sua battaglia era il capitalismo perché, ai suoi occhi, la struttura economica era il bersaglio prioritario del cambiamento. Per il filosofo rivoluzionario intervenire su questa struttura voleva dire cambiare anche la personalità degli esseri umani. Per Marx, infatti, l’organizzazione del lavoro capitalistico le disumanizzava poiché impediva loro l’espressione di un’attività di lavoro libera e completa. Inoltre, egli considerava ingiusto il capitalismo perché accumulava profitto a vantaggio dei soli capitalisti. Profitto che si configurava come l’eccedenza di un valore-lavoro che non veniva corrisposto a chi effettivamente lavorava. Se il salario doveva corrispondere a quanto serviva per la sussistenza dei lavoratori, il sovrappiù che si ricavava dall’organizzazione di produzione capitalistica come e a chi doveva essere distribuito? Questa era la domanda a cui Marx cercava di rispondere. Oggi, per noi, le retribuzioni sono il frutto di una contrattazione collettiva e sono giuste non tanto perché devono pareggiare la nostra sussistenza ma perché accordate tra le parti sociali. Ci resta il proposito di una retribuzione che consenta una vita dignitosa, ma demandando alla rappresentazione sindacale il compito della negoziazione, per noi è giusto ciò che risulta da un conflitto di forze, deboli o forti che siano. In questo, perdiamo il senso di una riflessione sulla comprensione di cosa sia giusto e cosa no e, di conseguenza, la sostanza e la responsabilità delle nostre argomentazioni.

«La ringrazio molto della sua disponibilità!» direi a Marx salutandolo all’uscita. «Ah, aspetti! Un’ultima cosa: il nostro primo articolo costituzionale sottolinea l’importanza del lavoro!» esclamerei un po’ sbrigativamente.
«Hai visto… Sono proprio arrivato dappertutto!» sorriderebbe Marx; ora, a mani vuote.
I suoi libri, tutti in pila, lasciati in cucina; ecco, da oggi avrò meno tempo per preparare biscotti!

 

Anna Castagna

 

[Photo credit Hennie Stander via Unsplash]

 

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Il paradosso delle donne. La longevità femminile significa più malattie

Oramai dovrebbe essere questione piuttosto condivisa che la medicina debba avere una declinazione attenta al sesso e al genere che sta prendendo in cura. Ma, guardando cosa dicono i dati, forse non è cosa ancora sufficientemente nota. L’ISTAT, nell’annuario statistico italiano Sanità e salute 2019 ci informa che, in Italia, la donna ha un’aspettativa di vita di 5 anni superiore all’uomo (vita media degli uomini: 79,9 anni – delle donne: 84,4 anni) ma questi 5 anni di surplus sono prevalentemente di malattia e disabilità. Ci sono diversi motivi per cui questa situazione, al contempo sanitaria ed etica, si avvera. Il principale è che si continua troppo spesso ad utilizzare il paradigma dell’entità “uomo”, che riguarda il 50% dell’umanità, come modello per il 100% dell’umanità. Un po’ come ci si ostina a fare ancora con il linguaggio, quando si dice o si scrive “uomo” ma si intendono anche le donne, perché usare altri termini è faticoso e rompe con una tradizione linguistica sedimentata nell’abitudine e ignara di quanto questa visione abbia nuociuto e continui tuttora a farlo. Infatti, dire uomo e sottintendere anche donna è quello che è accaduto per millenni di ricerca scientifica e pratica medica.

Il presupposto di partenza è questo: le stesse malattie si comportano diversamente a seconda che siano maschili o femminili, eppure sono sempre state studiate per come si presentano sugli uomini. Un caso eclatante? La diagnosi di infarto del miocardio arriva più tardiva quando colpisce le donne, perché i loro sintomi sono diversi da quelli classici degli uomini e vengono spesso mal interpretati (spesso finiscono nell’orbita dei disturbi gastrici o psichici). Il risultato? Nonostante l’infarto del miocardio sia meno frequente nelle donne, esse muoiono più facilmente degli uomini, a causa del ritardo nelle cure. Un altro punto cruciale, tra i tanti, è la farmacoterapia, in quanto gli studi farmacologici sono stati a lungo effettuati solo su maschi (animali prima e uomini poi) con il risultato che effetti e dosaggi non danno gli stessi risultati nelle donne, che sono colpite più frequentemente da maggiori effetti collaterali e minore efficacia.
Non bastasse, ci sono studi che ci informano che le donne sono più stressate degli uomini, soprattutto perché ovunque nel mondo si fanno più carico dei ruoli di care-giver (American Psychological Association, Stress in America: The State of Our Nation, 2017). Questo incrementa la loro vulnerabilità alle malattie ma influisce anche sull’effetto dei farmaci e delle varie cure.
Eppure va detto che le carenze della medicina, sebbene procurino numerosi svantaggi alla salute delle donne lungo tutta la loro vita, finiscono anche per penalizzare alcuni uomini, soprattutto in alcune malattie. È il caso, non unico, dell’osteoporosi, che è stata a lungo considerata una malattia che colpisce principalmente le donne caucasiche in post-menopausa. Questo presupposto ha modellato il suo screening, la sua diagnosi e il suo trattamento sul modello femminile, cosicché se l’osteoporosi ce l’ha un uomo, finisce che le complicanze sono maggiori a causa, perlopiù, della latenza di diagnosi.

La storia della medicina è molto coinvolta nelle ragioni delle grandi difficoltà a declinare la pratica medica a seconda di sesso e genere. Colpevole è certamente una cultura del sapere che fin dalle sue origini ha escluso le donne dalla formazione e le ha oggettificate senza tenere conto del loro contributo nemmeno come pazienti. Persino la storia dell’anatomia, che si è realizzata sulle autopsie dei cadaveri, ha dovuto accontentarsi di rari cadaveri femminili (precludendo l’approfondimento delle diversità anatomiche femminili). L’ostinazione a relegare il sapere nelle menti di una selettiva e parziale fetta di umanità ha procurato molta sofferenza e continua a produrre ancora molte ingiustizie per quanto riguarda diagnosi, prevenzione, prognosi e terapie.

Oggi, almeno per quanto riguarda i paesi occidentali, abbiamo molte donne, addirittura la maggioranza, oramai su quasi tutti i settori delle professioni sanitarie e in buona parte anche sul fronte della ricerca. Questo fatto depone favorevolmente al cambiamento che attendiamo.
È vero che le donne sono da tempo immemore il sesso debole, ma non perché nascono così, anzi, la natura della longevità è piuttosto una evidente dimostrazione della loro forza; ma l’essere state in balia di cure declinate esclusivamente al maschile e allo stesso tempo escluse dal sapere attorno quelle cure le ha rese tremendamente vulnerabili. Ora la conoscenza degli errori e la presenza delle donne all’ecclesia del sapere potrà essere finalmente una possibilità per smantellare le enormi ingiustizie che ancora affliggono molte persone nel momento più vulnerabile della loro esistenza, cioè quando soffrono e hanno bisogno di essere curate.

Pamela Boldrin

[Photo credit Towfiqu Barbhuiya via Unsplash]

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Under the light. Luci, ombre e riecheggi platonici

Per un mese, a cavallo tra marzo e aprile, si sono riaperte le porte dell’Arsenale Nord di Venezia – versante meno noto rispetto all’area in cui si svolge la Biennale, ma altrettanto suggestivo – in occasione dell’esposizione delle 240 opere finaliste della sedicesima e diciassettesima edizione di Arte Laguna Prize, il concorso internazionale dedicato all’arte contemporanea.
Questa competizione, una delle più influenti al mondo per artisti e designer emergenti, è aperta a molteplici discipline – arti visive, performative, multimediali, paesaggistiche e digitali – ed è stata creata, ormai diciassette anni fa, per dare l’occasione ai talenti dell’arte, più o meno giovani, di farsi notare dal grande pubblico e dalla giuria composta da importanti nomi del panorama artistico contemporaneo.

Incantata dall’affascinante contesto in cui trovano posto opere similmente sorprendenti, da un mezzobusto raffigurante una povera Greta Thumberg con la testa avvolta da un sacchetto di plastica a uno strano marchingegno, in grado di, una volta compilato un veloce questionario, produrre il profumo adatto alla propria personalità, la mia attenzione si è soffermata su una particolare installazione, intitolata Under the light (2022).

La mano è quella di Dongli Ma, nato in una piccola città della Cina Occidentale, i cui lavori spaziano dai quadri a olio fortemente influenzati dalla pittura tradizione orientale, alle sculture, fino appunto alle più recenti installazioni. È lo stesso artista a dichiarare che nella sua concezione dell’arte ciò che conta sono le idee, ognuna delle quali per manifestarsi al meglio deve essere concretizzata attraverso l’uno o l’altro materiale, la cui scelta conta ed è decisiva. Non importa se esso è costoso, vecchio, nuovo, popolare o no, ciò che conta è che esprima nel miglior modo possibile quello che l’artista intende comunicare

Devo dire che uno schermo luminoso e la luce di mille torce hanno la capacità di veicolare nello spettatore un messaggio e di evocare un’emozione. Queste le due componenti principali di Under the light. Lo schermo, nel momento in cui le torce sono spente, mostra alcune popolari parole chiave che hanno contrassegnato le ricerche online in Cina negli ultimi anni. Quando però mille torce si accendono e mille fasci di luce brillano ogni lettera scompare: lo schermo diventa estremamente luminoso ma vuoto. Avvicinandosi all’accecante parete bianca, i raggi di luce prodotti dalle torce vengono bloccati dal nostro corpo, e improvvisamente, nell’ombra che ne deriva si intravedono alcune frasi. Fra i molti sinogrammi cinesi che esprimono il pensiero di alcuni importanti pensatori orientali, si legge anche qualche espressione in lingua inglese, fra cui la celebre massima kantiana “il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”. 

Ora, senz’altro, questo gioco di luci e ombre correlato alla visione di qualcosa di nuovo, inatteso e sorprendente richiama alla mente l’allegoria probabilmente più nota nel panorama della storia della filosofia occidentale: il mito della caverna di Platone. Se, in un primo momento, quello che riusciamo a vedere sono solo pochi vocaboli sconnessi tra loro, soltanto avvicinandoci e andando in profondità scopriamo celarsi una realtà ignota, composta da vecchie – ma ai nostri occhi nuove – parole.

Così Under the light ci ricorda l’importanza di non fermarci alle apparenze, di oltrepassare le ombre, di alzare gli occhi al cielo e di guardare la luce, per poi rientrare dentro la caverna e raccontare a tutti di un mondo inedito.

 

Chiara Frezza

 

[Immagine tratta dalla pagina del sito ufficiale di Arte Laguna dedicata all’opera, consultabile a questo indirizzo: https://artelaguna.world/sculpture/%E4%B8%8D%E8%A7%81%E4%BB%96%E8%80%85/]

 

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Estate con Sophia: consigli per letture brevi che lasciano il segno

Abbiamo superato la metà dell’estate ma abbiamo ancora tutto agosto da cui trarre il massimo della soddisfazione. Non solo in termini di camminate in montagna, gelati o tuffi tra le onde, ma anche di viaggi da fare… comodamente seduti in poltrona. O sulla sedia a sdraio.

Ecco dunque alcuni consigli di lettura (e non solo) da parte dei nostri redattori, ognuno secondo suo gusto. E così si spazia tra romanzi ed ecologia, grandi classici e psicologia. Ci siamo dati una sola regola: niente mattoni, solo cose brevi ma in grado di lasciare il segno. E voi avete dei buoni consigli per noi?

 

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FRANCESCA

Francesca, professoressa di filosofia e storia, consiglia un romanzo a sfondo storico e un’opera perturbante: Il giardino dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani e I baffi di Emmanuel Carrère. La prima lettura è ambientata a Ferrara all’indomani delle leggi razziali fasciste entrate in vigore in Italia alla fine del 1938. Il protagonista e voce narrante è un giovane ebreo affascinato dalla ricca famiglia dei Finzi-Contini, ebrei anch’essi. I rampolli della famiglia, Alberto e Micol, lo invitano a giocare a tennis nel loro splendido giardino. La storia collettiva si mescola con le storie personali dei personaggi, bisognosi di ritrovare speranza, spensieratezza, amore. I baffi racconta invece di un uomo che decide di tagliarsi i baffi per sorprendere sua moglie. Ma sarà lei – e con lei tutto quello che credeva essere il suo mondo – a sorprenderlo: sembrerebbe, infatti, che i suoi baffi non siano in realtà mai esistiti. Con essi scompaiono anche amici, genitori, ricordi, pezzi di vita. Follia o soprannaturale? 

 

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ALESSANDRO

Cosa c’è di più avvincente di un viaggio nell’interiorità e nelle emozioni umane? Questo almeno è quello che pensa Alessandro e le sue selezioni vanno in questa direzione. Mitezza di Eugenio Borgna ripercorre una delle esperienze umane più importanti eppure così dimenticate. È fondamentale recuperare, a livello individuale e relazionale, la dimensione della mitezza che si lega alla gentilezza, alla tenerezza, alla bontà, all’amicizia e si distanzia radicalmente dalla superbia, dall’orgoglio, dal potere, dall’aggressività e dall’angoscia. La riflessione etica e psicologica sulla mitezza come virtù sociale è a prezioso servizio del singolo e della collettività. Arcipelago N di Vittorio Lingiardi invece ci immerge nelle articolazioni del narcisismo che ci abita – e che non è mai possibile ridurre ad una semplice e univoca definizione – aiutandoci a conoscerne le molteplici sfumature e le diverse declinazioni che oscillano tra le numerose isole dell’insicurezza, della stima di sé, dell’egocentrismo, della vergogna, della rabbia, dell’invidia, della manipolazione e dell’aggressività distruttiva fino alla psicopatia. L’autore conduce con delicatezza e puntualità il lettore a distinguere tra un sano amore di sé e la sua patologica celebrazione, individuandone il confine sottile.

 

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ANNA

Una Barca nel Bosco di Paola Mastrocola è la storia di uno studente appassionato, che si trova inserito in un contesto che non lo valorizza, in un momento complesso come l’età adolescenziale. Un libro che spinge a riflettere sul rapporto tra noi stessi e il mondo che ci circonda, su quello che vogliamo e sul sentirsi fuori posto o in accordo con gli altri. Consigliato a tutti coloro che amano immergersi all’interno delle dinamiche formative contemporanee, cogliendone gli aspetti contradditori e percependo la necessità di cambiamento di questo mondo, nonché a tutti quelli che sono perennemente alla ricerca di se stessi. Sempre di solitudine parla Tutto Chiede Salvezza di Daniele Mencarelli, questa volta una solitudine profonda ed esistenziale che si intreccia alla malattia del protagonista, durante il soggiorno in un centro psichiatrico. Un’opera per certi versi cruda, ma che lascia al lettore molto su cui riflettere e ci trasporta in quei luoghi dove nessuno vorrebbe mai recarsi.

 

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MASSIMILIANO

Massimiliano consiglia una graphic novel di Zerocalcare, Kobane calling, reportage del viaggio dell’autore tra i curdi del Rojava. Allo stile ironico e tagliente del fumettista romano si sommano la sua sensibilità e l’umanità della situazione critica che racconta. Un libro che strappa sorrisi, lacrime e tiene incollati fino all’ultimo baloon. Altro consiglio è Autunno tedesco dello svedese Stig Dagerman: serie di appassionanti reportage nella sconfitta Germania del 1946, scritti con un occhio lucidissimo e in controtendenza rispetto agli inviati dell’epoca, che si limitavano a sottolineare il prezzo che i tedeschi dovevano pagare per il Nazismo. Dagerman mette in luce la complessità che sempre riguarda gli ambiti umani, a maggior ragione quelli in cui si lotta per la vita ogni giorno, mostrando i lati oscuri di una denazificazione di facciata e le contraddizioni della Germania post-bellica; moniti e analisi validi anche oggi.

 

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GIORGIA

Giorgia ha appena compiuto 31 anni e quindi è in piena crisi dei trenta (+1) anni, crisi profonda creativa alla Jonathan Larson in Tick, tick… boom!, per intendersi. E quindi ha adorato pagina dopo pagina l’ultimo romanzo di Paolo Giordano, Tasmania: l’universale e i temi caldi dell’attualità si mescolano allo strettamente personale di Giordano, o meglio del protagonista del libro, nel quale – tra smarrimento e masochismo – è davvero facile rispecchiarsi. Sullo sfondo lo spettro incombente dei cambiamenti climatici sui quali si apre un unico, piccolo spiraglio di salvezza: la Tasmania, appunto. E se l’ecoansia non avrà ancora avuto la meglio su di voi, passate pure a un bellissimo saggio, La nazione delle piante di Stefano Mancuso. L’ormai noto in tutto il mondo neurobiologo vegetale immagina una Costituzione “scritta” dalla nazione più popolosa della Terra – gli alberi, che sono ben 3mila miliardi! Tra riflessioni globali e confessioni intimistiche, tra nozioni scientifiche e spunti filosofici, cercheremo di capire insieme a Mancuso perché questo pianeta è così commoventemente unico e perché forse vale la pena tornare a conviverci.

 

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GIACOMO

Si dice che il giallo sia l’ideale per passare un po’ di tempo rilassati sotto l’ombrellone, e anche la filosofia sa attrezzarsi in questo senso. Per un po’ di mystery in salsa filosofica Giacomo consiglia Notti a Serampore di Mircea Eliade, un romanzo breve, suggestivo e incisivo che risale ai tempi in cui l’autore viveva e studiava in India. Un giallo avvincente, che attraversa le epoche e sfida l’idea stessa di tempo. Se il genere piace, si può approfittare dei cinema all’aperto per recuperare il bel L’ultima notte di Amore di Andrea Di Stefano, un poliziesco come non se ne vedevano da anni in Italia. Con un bravissimo Pierfrancesco Favino a interpretare il classico poliziotto a pochi giorni dalla pensione, il film si rivela un noir incalzante, tesissimo, profondo nella sua cupissima visione di una Milano mai così aliena e sconosciuta.

 

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LUCA

Leggere racconti sull’estate in estate. Questo è quello che si fa se ci addentriamo ne Le piccole vacanze, il libro che ha iniziato la grandiosa carriera di scrittore di Alberto Arbasino. L’autore ci accompagna con il suo stile visionario in mezzo alle giornate estive fatte di primi amori, desideri, strade e abitudini dei ragazzi degli anni ‘50 in un’Italia che reinventava se stessa, per farci scoprire quanto siano senza tempo le estati di ogni epoca. Per chi cercasse atmosfere e sensazioni simili ai racconti di Arbasino ma trasposte su schermo, non si può non citare l’acclamato Chiamami col tuo nome, film del 2017 di Luca Guadagnino che incastona la turbolenta storia di due giovani ragazzi nell’estate italiana di una provincia silenziosa ma ricca di speranze.

 

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CHIARA

Chiara ha pensato per le vostre vacanze a due proposte di lettura, che sia in riva al mare o in cima a una montagna. Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Mark Haddon, è un romanzo che racconta il problematico rapporto tra il mondo esterno e Christopher, un ragazzo di quindici anni che soffre della sindrome di Asperger. Un’opera di finzione che ci aiuta a sviluppare un particolare tipo di empatia: quella nei confronti di chi si arrabbia se i mobili di casa vengono spostati o se tutte le finestre non sono chiuse, verso chi detesta che ci siano due persone con lo stesso nome nella medesima stanza o che non riesce a mangiare dal piatto in cui zucchine e salmone si sfiorano. Anche un saggio può aiutarci a vedere le cose da un altro punto di vista, e lo sguardo di Shitao, un monaco e pittore cinese di fine ‘600 è alquanto originale. Discorsi sulla pittura del monaco zucca amara si presenta non solo come un’ottima introduzione all’estetica orientale, ma invita il lettore a guardare l’incontro tra uomo e natura, tra arte e vita con occhi nuovi.

 

Non ci resta che augurarvi buona lettura!

 

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Inclusività: riconoscerne il privilegio e il merito

Vi siete mai soffermati sulla parola o sul concetto di inclusività?

Per comprenderlo al meglio è necessario fare un passo indietro e considerare il concetto di esclusione.
Generalmente si ritiene che tale fenomeno sia una prerogativa della maggioranza; in realtà si tratta di un processo che viene attuato da qualsiasi gruppo nei confronti di chi appartiene ad un altro. Il motivo risiede nel processo mentale di discriminazione, letteralmente differenziare. Secondo la Treccani: «distinzione, diversificazione o differenziazione operata fra persone» ma anche «diversità di comportamento o di riconoscimento di diritti nei riguardi di determinati gruppi politici, razziali, etnici o religiosi». È un processo in parte inconscio e legato a meccanismi biologici in cui si tende a preferire e proteggere membri dello stesso gruppo, per massimizzare la trasmissione genetica, la quale, tuttavia, necessita di una certa variabilità e di conseguenza concorre anche una componente attrattiva.
Ciò è alla base della sopravvivenza, tuttavia la razionalità del nostro pensiero può portarci oltre.

L’inclusività, invece, sempre secondo la Treccani, viene definita come «capacità di includere più soggetti possibili nel godimento di un diritto, nella partecipazione a un’attività o nel compimento di un’azione; più in generale, propensione, tendenza ad essere accoglienti e a non discriminare, contrastando l’intolleranza prodotta da giudizi, pregiudizi, razzismi o stereotipi». Senza ombra di dubbio l’accezione di questa parola – che negli ultimi anni è costantemente al centro del nostro interesse, per rimediare forse ad un’improvvisa consapevolezza e senso di colpa di ciò che abbiamo perpetrato per anni – risuona in positivo. Ma è davvero un processo paritario? È innegabile come emerga un’asimmetria di potere tra chi agisce, chi si reputa “normale”, e chi subisce l’azione, chi è additato come “diverso”.

Dunque certi diritti alle “minoranze” non spettano fin dalla nascita, ma vengono concessi loro dalla “maggioranza”, la quale ha il potere di scegliere quale gruppo meriti dei diritti e che tipo di diritti. Ne segue una coesistenza di “minoranze” ritenute più meritevoli di considerazione e inclusione di altre. Un esempio si trova nella distinzione tra “poveri meritevoli e non”, i primi – famiglie, anziani e lavoratori – ricevono maggior supporto dallo Stato e dal resto della società, mentre i secondi – giovani e migranti – subiscono solamente disprezzo e sono ritenuti responsabili della propria condizione. Altro esempio sta in chi merita il diritto alla genitorialità: inteso sia come diritto ad avere un genitore, e il suo riconoscimento come tale da parte delle istituzioni, sia come diritto ad essere genitore. Il ricorso alle adozioni e alle procedure di PMA non sono appannaggio di tutti. Ma gli esempi di gruppi minoritari esclusi da diritti o dalla struttura sociale, sono da sempre molteplici.

Alla luce di ciò è necessario mettere in discussione l’idea di inclusività portata avanti fino ad ora e il pensiero che questo sia il punto di arrivo per l’uguaglianza. Si potrebbe infatti ritenere che sia più un punto di transizione, una tappa di un percorso molto più lungo, dove è necessario soffermarsi per prendere consapevolezza degli squilibri di potere. Inoltre, scendendo dal gradino del privilegio, si comprende il vero valore della diversità: intesa come sinonimo di varietà, è la variabilità dell’esperienza umana a costituire la natura, non quella “normalità” di recente costruzione dell’uomo, che a questo punto non si rivela altro che una sottocategoria della diversità stessa.

La tappa successiva di questo cammino potrebbe coincidere con la proposta di Fabrizio Acanfora, che nel libro In altre parole. Dizionario minimo di diversità, parla di convivenza delle diversità. Questa azione, effettivamente, si spoglia dell’asimmetria di potere su cui ci siamo concentrati e al contempo si riempie di reciprocità. Tuttavia, per quanto io ritenga meravigliosa questa espressione, sono consapevole della resistenza che si incontra nel mettere in discussione il linguaggio. Perciò sarebbe sufficiente, al momento, rivalutare la comprensione delle parole già in uso nel nostro vocabolario, come diversità e inclusività.

Una strategia, per comprendere meglio la diversità-variabilità e per attribuirgli un nuovo significato, potrebbe essere la teoria dell’intersezionalità, la quale descrive la sovrapposizione di diverse identità sociali e le relative possibili discriminazioni o oppressioni. Gli assi identitari di ognuno di noi sono molteplici e l’incrocio tra questi genera l’autenticità che contraddistingue ogni persona: ciò sottolinea come l’idea di una maggioranza dominante, caratterizzata da un criterio di normalità, non sia che un costrutto sociale e che la società è un puzzle formato da un’infinità di tasselli differenti incastrati tra di loro. Inoltre, in questo modo sarebbe più facile anche guardare con occhi diversi alla parola inclusività e abbracciare l’idea di Vera Gheno, secondo la quale «Diversità è andare alla festa, inclusione è essere membro del comitato che la organizza» (V. Gheno, Chiamami così, 2022).

 

Gaia Giulia Genova
Nata a Monza nel 1997, studia Servizio sociale all’università di Genova. Appassionata di gender studies e amante delle piante e dell’arte. Avida lettrice, per lei, come dice bell hooks, la teoria rappresenta un luogo di cura e guarigione.

 

[Photo credit Helena Lopes via Unsplash]

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Nietzsche e la storia al servizio della vita “pratica” dell’uomo

Nel 1874 Nietzsche pubblica la Seconda inattuale ossia Sull’utilità e il danno della storia per la vita, uno scritto che è destinato a far discutere e che si pone come intento anche quello di fornire una risposta ad alcune domande fondamentali: c’è progresso nella storia? La storia in che modo può giovare alla vita dell’uomo? Nietzsche afferma che in primo luogo la storia serve per la vita e soprattutto per l’azione, evidenziandone il suo aspetto di utilità pratico:

«Certo, noi abbiamo bisogno di storia, ma ne abbiamo bisogno in modo diverso da come ne ha bisogno l’ozioso raffinato nel giardino del sapere, ne abbiamo bisogno per la vita e per l’azione, non per il comodo ritirarci dalla vita e dall’azione, o addirittura per l’abbellimento della vita egoistica e dell’azione vile e cattiva. Solo in quanto la storia serva la vita, vogliamo servire la storia» (F Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, 1974).

La Seconda inattuale è figlia del suo tempo, un momento di incertezza politica e culturale, in cui le istituzioni democratiche vacillano e vi era una crisi di valori sui quali la Germania aveva costruito la sua unità nazionale; una crisi dettata dalla presenza sempre più ingombrante del progresso tecnologico e del capitalismo che aveva modificato tutti i rapporti interni ed esterni tra gli Stati. In questo clima di incertezza l’uomo, afferma Nietzsche, cerca di trovare conforto nella storia o, meglio, cerca di trovare una spiegazione, una giustificazione del suo presente nei grandi personaggi del passato, mitizzando pericolosamente la propria cultura e innalzando falsi idoli che non permettono di studiare oggettivamente il presente. L’uomo, allora, sintetizza Nietzsche ha utilizzato la storia concependola come monumentale, antiquaria e critica

Chi ha concepito la storia come monumentale (ossia gli storicisti positivisti dell’800), afferma il filosofo, ha visto nel passato esempi da venerare anche nel presente; cerca di intravedere negli eventi del passato i prodomi di quello che è il presente, vedendo nel passato solo il fasto e la grandezza degli eventi, senza considerarne le contingenze politiche e sociali che li resero possibili. La storia sembra divenire un rimedio contro la rassegnazione e grazie al passato si cerca di stimolare un’idea di progresso possibile rivivendo il passato nel presente; ma c’è un grave pericolo: abbellendo, infatti, i fasti del passato e non scovando le reali dissomiglianze e somiglianze con il reale, criticamente non si fa altro che generare un’analisi erronea non creatrice, ma solo veneratrice.

La storia è in costante mutamento e cercare di ergere dei pilastri universali non è altro che un anacronismo che non aiuta nell’azione l’uomo: la storia, come afferma il filosofo, deve guidare l’uomo nella vita e nell’azione, il suo compito non è solo pedagogico, ma politico ed esistenziale. L’uomo deve creare grazie alla storia, con la storia, e non deve venerarla vivendo nel passato ed ecco che Nietzsche ci fornisce un ulteriore esempio: la storia antiquaria. Essa, a differenza della monumentale, non è più un rimedio verso il presente, anzi diventa un modello statico da venerare: si venerano i modelli passati rinnegando il presente. Questo tipo di storia, secondo il filosofo, è la più insidiosa perché porta a galla ideali immutati del passato nel presente: per fare un esempio concreto si può citare il fascismo. Esso, infatti, ha riportato alla luce ideali nocivi come quello di Patria, Nazione cercando di fare leva sul ricordo di quello che era stata l’Antica Roma e il suo Impero, creando un pericoloso anacronismo storico. Infatti, riportando ideali e concetti senza adeguarli al tempo in cui si vive, non si genera altro che una nuova idolatria del passato che non è capace di generare nulla di nuovo e che a lungo andare non riesce a adeguarsi al presente ed i suoi nuovi orizzonti.
Il vero storico deve mirare a ragionare sui concetti contestualizzandoli e puntano a guardare il presente sempre con occhio creatore. La storia non è il punto di arrivo dell’analisi per la vita dell’uomo, ma deve esserne il punto di partenza.

L’ultimo tipo di storia di cui ci parla Nietzsche è la storia critica: la storia che si fa critica del passato e che volge il suo sguardo al futuro, un tipo di storia che vuole crearsi ex-novo liberandosi del peso degli eventi passati ed essa si serve solo della potenza creatrice. Anche in questo caso il pericolo è che l’uomo cada nell’oblio, ossia dimentichi ciò che è stato e lo possa ricreare.
La storia, come afferma Nietzsche, non è una scienza e non può essere studiata oggettivamente, ma grazie all’antropologia e la politica deve essere un punto di partenza per uno studio totale sull’uomo, uno studio che gli sia di aiuto pratico.
L’uomo, infine, nella vita pratica ha bisogno necessariamente di conoscersi per agire, ha bisogno di comprendersi per poter comprendere l’altro e riscoprirsi parte di una realtà complessa: quest’analisi è fornita dal metodo filosofico che si mette al servizio dell’uomo e del reale, tornando a ricoprire dopo anni il suo ruolo primario, aiutando l’uomo a riconoscersi attraverso la società e la sua natura.

Francesca Peluso

[Photo credit Thomas Kelley via Unsplash]

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Il mondo dei bambini: è ora di cambiarlo!

La notizia del ritrovamento, dopo ben quaranta giorni nella foresta amazzonica colombiana, dei quattro fratelli di anni 13, 9, 4 e 11 mesi appartenenti alla comunità degli indigeni Uitoto, unici sopravvissuti a un disastro aereo, ha illuminato il mondo e acceso l’attenzione di chi dedica la propria ricerca alla questione dello sviluppo autonomo dei bambini. L’emergere dei dettagli su come siano riusciti a resistere senza la loro madre alle difficili condizioni della natura di quei luoghi, spinge a paragonare i bambini indigeni e quelli del mondo “occidentalizzato” e a chiedersi cosa abbia permesso ai primi di farcela in totale autonomia.
Una possibile risposta a questa domanda è da individuarsi nella competenza ambientale in possesso di questi bambini, competenza fondamentale per chi vive in stretto legame con la natura e la sua caratteristica selettiva. Ma non solo: altro aspetto determinante è l’approccio genitoriale, che sta alla base della relazione familiare, e la sua impronta educativa in favore dell’autonomia. Stabilire con i bambini il momento di svezzamento cognitivo-emotivo è una strategia vincente sul piano comportamentale. Trasmettere le istruzioni utili per riuscire ad associare a una situazione problematica le giuste soluzioni facilita la costruzione dell’autostima e migliora il rapporto di fiducia bambino-genitore. 

Ma i bambini che vivono in un ambiente fortemente antropizzato, che conoscenze hanno del mondo che li circonda? Sono sufficientemente autonomi per riuscire a cavarsela da soli?
Nella nostra parte di mondo diventa sempre più raro vedere i bambini e le bambine protagonisti della loro autonomia, così come dei loro diritti alla partecipazione attiva – sanciti peraltro dalla Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e adolescenza del 1989 – e questo non per una loro scelta ma per la prospettiva adultocentrica sul mondo infantile e per l’eccessiva protezione genitoriale che costantemente monitora il comportamento dei propri figli. 

In Italia, come sottolinea il pedagogista Francesco Tonucci, diventa sempre più raro vedere i bambini muoversi o giocare in autonomia nelle città. La trasformazione degli spazi urbani, sempre in favore delle esigenze degli adulti, è causa ed effetto dei cambiamenti sociali che a loro volta hanno trasformato i bisogni dei bambini e la percezione del ruolo genitorialeI genitori, infatti, tendono a sottostimare le capacità dei propri figli e a limitare al minino le loro occasioni di autonomia, risolvendo puntualmente ogni loro esigenza. Questo perché, da un lato, non li ritengono all’altezza e, dall’altro, perché soffrono il giudizio altrui sulle loro scelte parentali, specialmente temendo di essere considerati cattivi genitori se “aiutano i figli a fare da soli”. Ma è proprio il non mettere il bambino alla prova ad alimentare questa logica di dipendenza, nonostante da numerosi studi emerga quanto sia benefico promuovere l’autonomia – e specialmente quella di spostamento – per sviluppare una migliore conoscenza ambientale (mappe mentali), una maggiore capacità di problem solving e l’autorganizzazione. Impedire ai bambini di riappropriarsi del rapporto con l’ambiente impatta sulla sana crescita delle life skills e sulla loro identità individuale e comunitaria. 

Il bambino, privato dell’esperienza sociale della sua infanzia, è un bambino privato dell’esperienza conoscitiva del mondo e della messa alla prova della sua intelligenza in relazione ai problemi che si presentano. Un altro errore di questa parte di mondo è ritenere il bambino quasi esclusivamente un soggetto da proteggere, dimenticando che in realtà è un soggetto competente e attivo fin dalla nascita, come sottolineato anche nel testo di J. Juul Il bambino è competente (1995). Vygostki riconosce l’importanza della trasmissione degli strumenti culturali per favorire la crescita mentale del bambino, e la storia di questi bambini indigeni evidenzia l’efficacia di questa riflessione. Come afferma Maria Montessori, «per aiutare un bambino, dobbiamo fornirgli un ambiente che gli consenta di svilupparsi liberamente» (M. Montessori, La scoperta del bambino, 2022) e la realizzazione di questa condizione si concretizza se il genitore (o l’adulto in generale) abbandona una cultura della paura e della sorveglianza per sostituirla con un lavoro sull’equilibrio dei valori di fiducia e competenza. Quanto accaduto ai bambini indigeni non va letto come se fosse una favola, anche se ne ha il sapore, perché farlo limiterebbe la profondità dell’analisi a cui questa storia realmente accaduta può portarci. Cosa ci insegna questa storia? Se al bambino non viene data la possibilità di esprimere la sua autonomia, allora scomparirà ai nostri occhi la sua visione di mondo, di quel mondo che contribuiamo a costruire per lui e non con lui. Questi quattro bambini sono la testimonianza che dobbiamo avere il coraggio di metterci alla prova e iniziare a cambiare rotta limitando il nostro compito nell’orientarli. Ai bambini lasciamo la bussola in mano.

 

Marica Notte
Laureata in Filosofia all’Università La Sapienza di Roma, da quattro anni collabora nel gruppo di ricerca internazionale del progetto “La città dei bambini e delle bambine” dell’ISTC-CNR di Roma.

 

[Photo credit Artem Kniaz via Unsplash]

 

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Recuperare il vero significato dell’amore

Il tempo presente sembra aver smarrito il vero significato dell’amore, in particolare per quanto riguarda tale dimensione affettiva all’interno della coppia. La crisi di questo sentimento si palesa a coloro che osservano i fenomeni sociali e si occupano di esseri umani in particolare in ambito educativo e nelle professioni d’aiuto. L’amore sembra essersi svuotato di senso in un orizzonte dominato dalla fluidità dei rapporti, dal disimpegno e dalla superficialità che conducono ad instaurare relazioni a partire da una scarsa consapevolezza di sé, della propria storia personale e della propria unicità. A questo si aggiunge la mancata cognizione che le relazioni affettive hanno bisogno di educazione e pazienza per costruirsi, di nutrimento e cura per solidificarsi nel corso del tempo. La relazione di coppia è un’entità in divenire che deve affrontare numerosi compiti evolutivi nel ciclo di vita e che necessita di un costante cammino di conoscenza reciproca, di crescita dei singoli e del Noi che la coppia va a formare. 

Nel conteso contemporaneo, diversamente, sembra essersi smarrita l’importanza imprescindibile di un simile cammino. Questa assenza conduce spesso a criticità che sfociano in atteggiamenti e rivendicazioni talvolta di natura adolescenziale. È possibile far fronte a queste difficoltà di molte coppie anzitutto riconoscendo la complessità del contesto storico, sociale e la precarietà economica del presente ma anche richiamando l’importanza decisiva di un lavoro di conoscenza di sé, crescita personale e coniugale che richiedono l’impegno e la responsabilità di far fiorire la propria umanità. Questo si realizza quando il fondamentale mantenimento e riconoscimento dell’unicità dei singoli si mette a servizio di un progetto comune che dà senso all’esistenza individuale e della coppia

È pertanto necessario recuperare il significato autentico dell’amore. A questo proposito, Viktor Frankl, psichiatra e filosofo viennese, evidenzia tre diversi livelli di amore e di attrazione fra i partner che finiscono per corrispondere a tre diverse modalità di costruzione del rapporto di coppia1. Il primo livello individuato da Frankl è “l’amore fisico” legato alla bellezza esteriore dell’altro che ci colpisce e ci attrae. Questa passione è transitoria e la relazione che si sia fermata solamente a questo livello (che, peraltro, difficilmente conduce a sperimentare una profonda intimità) è destinata a scemare. L’attuale società dei consumi e dei social network fa leva su questa dimensione richiamando l’attenzione esclusivamente sull’attrazione fisica e su una sessualità destituita di ogni elemento di mistero, in nome di un desiderio di godimento destinato a ricercare sempre nuovi incontri. 

Un secondo livello d’amore individuato da Frankl è quello erotico. In questo caso a colpirci non è solo la presenza fisica dell’altro ma alcune sue caratteristiche psicologiche di personalità quali per esempio generosità, sensibilità, capacità d’ascolto, intraprendenza. Se anche questo livello, come il primo, è un ingrediente fondamentale, certamente non è sufficiente a sostenere un progetto di coppia. Invero, ci si potrebbe sempre imbattere in una persona più bella (livello fisico) o più empatica, intelligente, intraprendente (livello erotico). Affinché una coppia possa entrare in una relazione profonda che, pur nutrendosi dell’attrazione fisica e psichica non si attesti solamente ad esse, è necessario approdare ad un terzo grado che Frankl definisce “amore spirituale”. 

Tale configurazione dell’amore rimanda alla capacità più profonda d’amare che solo l’essere umano può realizzare come il più alto dei valori. In questo caso l’Io incontra il Tu nella sua unicità e insostituibilità, nel suo “essere così”. A questo livello può iniziare un progetto di coppia condiviso, basato sulla maturazione interiore, sull’ascolto interpersonale, la conoscenza reciproca verso una germogliante intimità. Di un amore vissuto in questo intenso contatto spirituale beneficeranno, conseguentemente, anche la dimensione fisica e quella erotica. In questo modo di vivere e intendere l’amore l’Io si dona al Tu in maniera libera e responsabile riconoscendo a propria volta l’altro come essere unico, libero e responsabile. L’amore così inteso non conosce il desiderio di potere, non genera dipendenza e non inciampa nella manipolazione affettiva

Nel nostro tempo che veicola il messaggio di un surrogato dell’amore e che si ferma alla dimensione fisica o psichica, nel solco della superficialità e del dongiovannismo, la visione frankliana può costituire un antidoto, non moraleggiante, certo, ma capace di offrire alle relazioni significato, stabilità e progettualità con benefiche conseguenze anche rispetto all’esigenza di coesione e coerenza educativa per la crescita di eventuali figli.

La prospettiva frankliana non è un dato definitivo ma s’inserisce nell’idea della relazione come via di piena umanizzazione: l’amore spirituale ama la libertà dell’altro e desidera il suo bene oltre ogni deriva egoistica. Per giungere a questo è indispensabile educarsi e percepirsi in un cammino interminabile di maturazione individuale e di coppia imparando così ad amare pur sapendo che tale è una conquista mai definitivamente raggiunta. Invero, il senso dell’amore riposa nell’arte di coltivare, riparare e custodire l’unicità del legame ogni nuovo giorno.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE
1. Cfr., V. E. FRANKL, Logoterapia e analisi esistenziale, tr. it. di E. Fizzotti , Morcelliana, Brescia, 2005.

 

[Photo credit Mayur Gala via Unsplash]

 

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