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Catalunya e Veneto: da referendum a referendum

Il referendum che si è appena concluso in Catalunya − avendoci vissuto qualche mese non riesco a chiamarla Catalogna − ha visto votare meno della metà degli aventi diritto, ottenendo però, anche tra blocchi, requisizioni e violenze da parte della Guardia Civil il 90% di Sì per l’indipendenza della regione, con due milioni e duecentomila voti favorevoli. L’esito del referendum dovrebbe implicare la votazione per fare partire il processo di scissione della Catalunya dalla Spagna, fino a portarla a diventare uno stato autonomo sotto forma di repubblica. Il cammino però è tortuoso e sarebbe una decisione unilaterale del governo indipendentista della regione autonoma in quanto il referendum è stato dichiarato illegale dalla corte suprema spagnola. La Spagna ha già dichiarato che userà tutti i mezzi che la legge (e la costituzione) concede per bloccare l’indipendenza catalana. Quello che succederà lo si scoprirà nei prossimi mesi, quello su cui voglio concentrarmi è la funzione che secondo me e secondo molti ha avuto questo referendum nella vita politica catalana e sulle similitudini e differenze con la votazione che interesserà le regioni di Veneto e Lombardia il prossimo 22 ottobre.

A prescindere dal merito, cioè sul diritto o meno che ha ogni regione a potersi separare dal paese a cui appartiene e che non è normata dal diritto internazionale, il referendum catalano alla luce dei fatti di domenica primo ottobre è apparso un pasticcio in molti sensi. La votazione è stata una sconfitta per la Spagna e per il suo presidente Mariano Rajoy, che ha fatto una bruttissima figura sulla scena internazionale, e per la politica in generale. Sembra infatti impossibile che il dibattito sia stato così sterile da rifiutare dialogo e compromessi, tanto da arrivare a voler fermare il referendum all’ultimo istante delegando il potere alle forze dell’ordine e strappando di mano le schede agli elettori. Appare ingiustificato e inutile il ricorso alla forza da parte del governo di Madrid, come appare ben lontano della legalità un referendum auto indetto seguendo modalità non trasparenti.

Dalla giornata di domenica se c’è qualcuno che esce rafforzato è il popolo catalano che chiede l’indipendenza e il diritto di votare, generando simpatia e appoggio trasversale. Subito in Italia gli esponenti più autonomisti (secessionisti si diceva un tempo, e federalisti fino all’altro giorno) sono subito corsi a garantire il loro appoggio verbale ai catalani, sostenendo il loro diritto all’autodeterminazione e bollando le misure attuate dalla Spagna come “atti gravissimi, degni del franchismo”1. In Veneto e in Lombardia c’è chi deve essersi sfregato le mani per la vicinanza tra il referendum in Catalunya e quello del 22 ottobre con il quale le due regioni chiederanno ai propri abitanti se ritengono opportuno che lo Stato conceda maggiore autonomia alle regioni stesse, competenze ora delegate allo stato, e anche più soldi in definitiva (come succede già in quelle a statuto speciale). Un bello spot per tutti i movimenti autonomisti è stato quello dei catalani in fila per ore davanti ai seggi, che sfidano polizia e governo per far sentire la propria voce. Ne sono usciti anche un po’ vittime (centinaia i feriti accertati, due gravi), e questo non guasta. Hanno avuto l’attenzione del mondo e ora Maroni e Zaia sperano di averla di riflesso.

Sta di fatto però che al di là della vuota retorica e della propaganda non c’è mezza cosa che accomuni le due consultazioni popolari. Innanzitutto la forma: il referendum italiano non è in alcun modo osteggiato dal governo e non è vincolante ma solo consultivo (lo Stato avrà l’ultima parola sulle concessioni da fare). Poi, una consultazione di questo genere non è indispensabile per le richieste che le due regioni fanno allo Stato: l’Emilia Romagna ha avviato lo stesso processo per conquistare più autonomia ma senza spendere i milioni di euro che invece spenderanno Veneto e Lombardia.

Se poi i catalani sono mossi, al netto sempre della propaganda, da orgoglio, cultura e tradizioni comuni, ragioni storiche e amministrative e un po’ di maltrattamenti ricevuti, i nordisti ex secessionisti no. A parte l’auspicio per i propri elettori di avere un po’ di “schei” in più per loro, che non prendano la strada caritatevole del meridione, non si vede ombra di programma. Né appunto ci sono regioni storico-sociali valide. E allora cosa c’è di accomunabile tra la Lega Nord e la coalizione Junts pel Sì in Catalunya, promotori delle due consultazioni? La propaganda, appunto.

Azzardo, ma sono dell’opinione che le due formazioni politiche abbiano capito che tirare in ballo la volontà popolare e il diritto del popolo ad autodeterminarsi, in qualsiasi forma lo faccia, al momento sia una delle cose più spendibili ultimamente. Basti guardare al fiorire di movimenti indipendentisti e autonomisti, più o meno xenofobi poi, in giro per l’Europa. La Lega è dagli anni Novanta che dà voce al popolo del nord Italia che si sente oppresso dallo stato e nello stato non si riconosce a suon di secessione e federalismo; solo ora si scontra con la linea di estrema destra di Salvini. Comunque sia ha rappresentato e (scusate la bruttissima parola) fidelizzato un territorio con il miraggio, l’obiettivo ultimo della divisione dallo stato italiano in maniera almeno federale.

Molti commentatori hanno notato questo anche in Catalunya, e cioè che il sentimento indipendentista si sia rinfocolato prepotentemente in concomitanza con la crisi economica del 2008, cavalcato da molte formazioni politiche. La gente ha trovato nel progetto di uno stato catalano libero (Catalunya lliure) una speranza e un obiettivo per cui lottare, e il dibattito politico si è così azzerato, appiattito sul tema dell’indipendenza, portando montagne di voti ai suoi promotori. Adesso l’indipendentismo probabilmente non è ancora maggioritario in Catalunya, ma è molto convinto, chiassoso e sicuro di sé. Di certo è trasversale e molto più integralista di prima e può camminare con le sue gambe. Le proporzioni con l’indipendentismo nostrano sono ridicole, ma non si sa mai che la promessa di qualche soldo in più in saccoccia in un momento ancora non facile per la nostra autonomia non riesca a far serrare le fila anche qui. Sicuramente il referendum del 22 ottobre sarà vinto a larghissima maggioranza dal Sì e la Lega la trasformerà in una sua vittoria esclusiva, anche questa spendibile politicamente.

Tommaso Meo

[Immagine tratta da google Immagini]

NOTE:

1. Queste parole sono state proferite dal governatore del Veneto Luca Zaia all’interno della trasmissione In mezz’ora andata in onda il 01/10/2017.

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