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Il canto delle sirene. Gramsci e la resistenza alla guerra

«Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita».

Con queste parole Antonio Gramsci – e ancora di più con l’incisivo «Odio gli indifferenti» – impronta alcuni scritti che, lungi dalla sterile lamentela, vogliono testimoniare l’Italia del primo dopoguerra, tristemente inascoltata. Ed è proprio nella raccolta di tali scritti, curata da Sergio Caprioglio per Giulio Einaudi Editore, che si rinviene uno dei più affascinanti e penetranti brani vergati dalla penna del fondatore del partito Comunista italiano contro la guerra. L’interrogativo principe con cui il testo si apre guarda al perché un certo momento della storia e non un altro veda lo scoppio di una guerra. Riecheggiando Eraclito, la guerra si presenta come un conflitto che esiste perenne ma non è un fatto costante e quotidiano. C’è un momento in cui la guerra viene chiamata, un momento in cui viene reputata necessaria hic et nunc. Ogni società o comunità sembra vantare le sue sirene della guerra, coloro che sono impegnati a vivacizzare le ceneri del conflitto, a vivificarlo ogniqualvolta esso appaia utile e proficuo. Gettano sale sulle ferite generando dubbi tra il popolo. Essi sono come le sirene omeriche che

«con limpida voce
ammaliano, sedute tra i fiori di un prato;
alti biancheggiano intorno cumuli d’ossa
umane con pelli disfatte» (Omero, Odissea).

È insufficiente proclamarsi contro la guerra, essere contrari ad ogni comportamento che induce irreparabilmente al conflitto. È indispensabile, come ben intuì Gramsci, che la ragione non sia mai dormiente e non generi mostri, per citare Goya. È necessario che ogni individuo insieme agli altri, in concerto, costruisca un muro critico tale per cui ad ogni vociferare di potenziali conflitti la complessa macchina umana inneschi gli ingranaggi per evitare che una guerra abbia effettivamente luogo. Solo una mente che ha allenato i propri muscoli, che ha fatto un atto volontario di formarsi per avere la capacità e la fermezza di contrapporsi in maniera attiva, e non solo con futili dichiarazioni di principio, ad ogni potenziale guerra può, se unita agli Altri, scovare i trucchi, polverizzare ogni copione bellico, «sventando le trame dei seminatori di panico, degli stipendiati dell’industria bellica, degli stipendiati delle industrie che domandano le protezioni doganali per la guerra economica» (A. Gramsci, Odio gli indifferenti, 2018). Eppure ciò che manca è proprio l’avvedutezza di munirsi di cera con cui tapparsi le orecchie e di corda con cui legarsi per resistere al seducente canto di chi invoca la necessità della guerra hic et nunc.

Così come Circe ammonì Ulisse che assecondare il canto delle sirene gli avrebbe impedito di rivedere Penelope e Telemaco tra la pietrosa Itaca, anche l’essere umano è esortato ad assumere tutte le misure necessarie per evitare qualunque spreco di vita e di felicità. Eppure, riconoscere i sobillatori non sembra essere così agevole. Al contrario, i loro intenti vengono celati, dissimulati da ragioni di facciata. Non è, quindi, immediato il loro riconoscimento. Men che meno lo è per una mente non allenata e predisposta ad assecondare qualunque notizia o proposta ascolti, purché il propinatore risulti un buon oratore. Di qui discende l’importanza che Gramsci attribuisce nello scritto al rafforzare le difese del pensiero critico, al predisporlo a vagliare qualunque affermazione professi la necessità di una guerra. Solo in questo modo non ci vedremo riflessi nella favola di Fedro dell’albero di quercia abitato da tre famiglie.

Racconta Fedro che vi era un albero di quercia che ospitava tre famiglie di animali appartenenti a specie differenti. In alto, lungo i suoi rami, un’aquila aveva costruito il proprio nido e covato le uova. Un cinghiale si era, invece, scavato un rifugio tra le radici di esso. Infine, un gatto aveva trovato in un punto mediano dell’albero il suo rifugio. Per molto tempo l’aquila e il cinghiale condussero le proprie vite ignorandosi vicendevolmente. Fu il gatto a mettere lo zampino e a salire fino al nido dell’aquila per confidarle dei perversi piani del cinghiale. Questi, a detta del gatto, era intento a indebolire le radici della quercia al fine di divorare i piccoli aquilotti. L’aquila, onde evitare ciò, avrebbe dovuto agire il prima possibile uccidendo i piccoli di cinghiale e interrompendo qualunque lavoro sotterraneo. Poi il gatto andò dal cinghiale e gli raccontò come la posizione dell’aquila, in cima all’albero, fosse particolarmente favorevole per quest’ultima per cibarsi dei suoi piccoli. Il cinghiale, per salvare i suoi cuccioli, avrebbe dovuto scavare sotto le radici e far cadere l’albero. Seminando così il panico, né il cinghiale né l’aquila osarono più lasciare incustodito il proprio rifugio e morirono di fame. Alla fine, il gatto divorò i corpi e, per qualche giorno, non dovette più cacciare.

 

Sonia Cominassi

 

[Photo credit Hasan Almasi via Unsplash]

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