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La Cantatrice Chauve di Eugène Ionesco

Sessant’anni e qualche mese fa, l’11 maggio 1950, a Parigi, al Théâtre de Noctambules, veniva rappresentata per la prima volta la pièce di Eugène Ionesco (1909-1994) La cantatrice chauve composta nel medesimo anno – la pièce o meglio l’anti-pièce, come lo stesso autore la definisce, emblema di quel genere teatrale che va sotto l’etichetta di “teatro dell’assurdo” coniata dal critico Martin Esslin nel saggio The Theatre of the Absurd (1961).

Enigmatica e sorprendente, innovativa e provocatoria, La cantatrice chauve, che rende presenti, con un linguaggio sclerotizzato e disarticolato, il vuoto e il non-senso dell’esistenza, lasciò perplessi gli spettatori e la sua prima messinscena fu tutt’altro che un successo. Di certo, si divertì invece l’autore franco-rumeno nell’imparare l’inglese, notando la banalità delle frasi contenute nel manuale di conversazione, e nel leggere il romanzo Cluny Brown (in francese La Folle ingénue) di Margery Sharp, apparso nel 1944, vedendo poi nel 1946 la versione cinematografica eponima adattata da Ernst Lubitsch. Nuovamente inscenata nel 1955 al Théâtre de la Huchette la pièce riscosse questa volta un enorme successo e dal 16 febbraio 1957 La cantatrice chauve è sinonimo di Quartier Latin dove, al Théâtre de la Huchette tutte le sere – dal martedì al sabato a partire dalle ore 19 – viene ininterrottamente rappresentata nella messa in scena di Nicolas Bataille, alternata a un’altra pièce di Ionesco, La leçon, nella messa in scena di Marcel Cuvelier.

Perché leggere questa pièce e assistere a una sua messa in scena, vi starete chiedendo? Perché vi strapperà numerose risate e al tempo stesso vi spiazzerà – in francese si userebbe il verbo bouleverser cioè vi sconvolgerà facendovi uscire dalla sala o chiudere il libro rivoltati come un calzino – perché ha un effetto catartico, tra quelle righe o su quel palco infatti ci siamo noi tutti eppure non è possibile che siamo noi, e, a parer mio, per il personaggio della bonne, la domestica.

In un décor borghese inglese, sei personaggi, due coppie, gli Smith e i Martin, un pompiere anonimo e la cameriera Mary, attraverso la desolante banalità del quotidiano, si esprimono in dialoghi vuoti, franti, convenzionali, parlano per non dire nulla, si ripetono, si contraddicono e sono in realtà la rappresentazione drammatica dell’incomunicabilità, del non senso della vita, della solitudine assoluta, dell’impossibilità di conoscere davvero l’altro, dell’assurdità della condizione umana – si pensi al crescendo in anafora della Scena IV con cui i coniugi Martin si riconoscono («Come è bizzarro, curioso, strano! Allora signora abitiamo nella medesima camera e dormiamo nel medesimo letto, cara signora. Potrebbe forse essere lì che ci siamo incontrati!»).

Un’anti-pièce che nel rispettare le regole di scrittura del teatro convenzionale – scambio di battute tra personaggi e materia ripartita in undici scene – ne fa parodia: se l’azione del teatro tradizionale è infatti dinamica, ricca di capovolgimenti e conduce a un epilogo che ne è il logico risultato, nel teatro di Ionesco invece l’azione è inesistente e la pièce si struttura attorno a interminabili conversazioni sconnesse e statiche.

Data l’inesistenza dell’azione nella pièce non vi è nessuna esposizione dei fatti e le informazioni fornite sono ambigue sin dal titolo: la cantatrice chauve infatti non esiste e di lei vi è solo un breve accenno nella scena X.

Vero soggetto dell’opera di Ionesco è la banalità delle parole: l’opera poggia infatti sul linguaggio e se nel teatro tradizionale il linguaggio è un efficace mezzo di comunicazione che permette ai personaggi di rivelare i loro pensieri nel teatro di Ionesco è invece disintegrato, vacuo, franto per mostrare la difficoltà di comunicare. Le battute sono generalmente brevi: frasi nominali si alternano a numerosi silenzi che regolarmente scandiscono il dialogo – cui i personaggi si sentono costretti dalle convezioni sociali – e traducono l’impossibilità di elaborare idee logiche perché non si ha da dire nulla. I personaggi chiusi in un luogo unico, il cui arredamento descritto succintamente – con accessori rigorosamente inglesi, qualificativo ripetuto assurdamente a oltranza in modo simbolico, umoristico e caricaturale ‒ è composto da poltrone inglesi, un focolare inglese e una pendola inglese che scandisce il tempo, sono bloccati all’interno di osservazioni stereotipate sottomesse ai luoghi comuni e all’evidenza. Privato di contenuto il linguaggio si riduce a suoni giustapposti in rima, onomatopee che riflettono il non-senso fino al frenetico finale in cui le due coppie ripetono «c’est pas par là, c’est par ici» prima che l’azione venga ripresa esattamente dall’inizio con i Martin che pronunciano le medesime battute degli Smith in un universo di noia dove tutto si assomiglia: i personaggi sono interscambiabili e il linguaggio ha perso il suo ruolo di intermediazione tra gli esseri umani.

 

Rossella Farnese

 

[Photo credit Rob Laughter su unsplash.com]

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