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Il bisogno di una “dissidenza” e di pensiero critico

Le narrazioni della società, dal secondo Novecento ad oggi, si sono incentrate, principalmente, su quattro concetti che hanno fortemente influenzato non solo il dibattito specialistico ma anche il linguaggio e la percezione comune. Mi riferisco a un quadrilatero concettuale ai cui vertici possiamo individuare: il rischio, l’incertezza, la paura e la liquidità.
Quattro termini che evocano immediatamente i contributi di Ulrich Beck, con La società del rischio, e di Zygmunt Bauman, con La società dell’incertezza, Modernità liquida e Paura liquida, per rimanere ad alcuni dei principali lavori dei due sociologi. Ma penso anche agli studi di Michel Foucault, Francis Fukuyama, Anthony Giddens, Hans Jonas, Samuel P. Huntington, Jean-Francois Lyotard… che hanno ispirato il dibattito sulla condizione postmoderna e la visione di una realtà frammentata e caotica.

Il periodo pandemico dovuto al Covid-19 ha drammaticamente storicizzato tali visioni, incidendo sulla salute della popolazione, con conseguenze distruttive anche sull’economia, sull’istruzione, sulle comunicazioni, sul lavoro, insomma, su ogni aspetto della vita sociale. La società del Covid è la società globale del rischio, dell’incertezza, della paura, dei legami interrotti.
Nel caos infodemico di questo tempo, abbiamo anche assistito alla tendenza strisciante a demolire e smantellare tutto, anche le competenze tecnico scientifiche diventate bersaglio di fake e dei “si dice che”, indotti da una narrazione paranoica della storia che, nei fatti, attesta ulteriormente la severa difficoltà all’esercizio del pensiero critico che attanaglia la nostra società. Sembrerebbe quasi una fuga dal logos, per rifugiarsi nelle rassicuranti, facili e comode soluzioni prêt-à-porter offerte dal mercato.

È in questo senso che Paolo Ercolani, nel suo libro Figli di un io minore. Dalla società aperta alla società ottusa (Marsilio 2019), parla del rischio di nuova rivoluzione che starebbe attraversando la società, una transizione dalla “società aperta” alla “società ottusa” del sistema tecnico-finanziario. Con la visione della “società ottusa” – o più precisamente della “società misologa”, come afferma Ercolani citando Platone – si scrive una nuova pagina, l’ennesima, della vasta letteratura sulle fisionomie distopiche della società postmoderna, o contemporanea se si vuole. Ma, soprattutto, si prende atto, ancora di più, di quell’eclissi del pensiero critico, quella inibizione del ragionamento e della riflessività, alla quale facevo cenno poco sopra, per cedere spazio all’affermazione dell’intelligenza collettiva creata dalla Rete, delle tecnologie digitali intuitive, della logica del profitto come misura concreta di affermazione individuale, dell’illusione di una libertà senza limiti. Tutto ciò, peraltro, si realizza senza intaccare, in modo alcuno, le sottostanti logiche di potere. 

Nella società misologa muore anche l’utopia dell’innocenza, la speranza dell’intima bontà dell’uomo.
In tutto il periodo pandemico, soprattutto nella cosiddetta prima fase, è apparso chiaro che nella pandemia risiedeva l’opportunità di ripensare il modello di sviluppo globale e di organizzazione sociale, in particolare nelle connessioni relative a individuo-comunità, salute-lavoro, sociale-economia, umanità-pianeta, responsabilità-benessere, sicurezza-libertà, locale-globale. Oggi innanzi all’incomprensibile e drammatica guerra in Ucraina, quella speranza appare ancora di più tristemente ingenua, quasi inconsapevole della lezione impartita dal Novecento: dalle pandemie come dalle guerre non si è mai usciti migliori di prima. L’uomo moderno sembra quasi impreparato ad assumersi questo compito, privato di spazi e di tempi di silenzio, solitudine, interiorità e fraternità. 

Non ne usciremo, dunque, migliori. Ma non possiamo rassegnarci a questo destino. Costruiamo allora la possibilità di uscirne “diversi”! Non mi riferisco solo ai modelli di sviluppo e di organizzazione sociale, ma all’opportunità di ricominciare ripensando alle scelte di fondo, individuali e comunitarie, e alle priorità perseguite, concentrandoci sul significato della nostra presenza in questa storia, impegnandoci ad essere custodi della vita dell’altro e della natura, modificando in profondità i rapporti sociali in vista di un’effettiva centralità della giustizia e della libertà. Una grande opportunità per favorire la formazione di un pensiero critico e di sperimentare la possibilità di una svolta generativa per la società.

Il futuro dipenderà da chi sarà in grado di svegliarsi da questo sonno del pensiero. Svegliandoci «potremmo certamente prendercela con quelle oligarchie che portano un’innegabile responsabilità personale. Ma anche identificando dei nomi, dei volti, capiremmo il doppio filo che lega il loro potere e la loro ricchezza a quelle idee fasulle che milioni di liberi hanno, alla fin fine, condiviso», e allora capiremo che «c’è ancora bisogno di una resistenza. O, meglio, di una “dissidenza”: un avere il coraggio di abbandonare i modelli in cui abbiamo creduto, ma che hanno fallito. Prendendo una strada diversa, piuttosto che accanirci pensando che forse non li abbiamo applicati bene» (C. Giaccardi, M. Magatti, Generativi di tutto il mondo unitevi!, 2014).

 

 

[Photo credit Eduardo Sánchez via Unsplash]

Massimo Cappellano

Massimo Cappellano

frontiera, curiosità, incontro

Vivo a Caltagirone, sono giornalista e bioeticista. Lavoro all’interno dell’Asp di Catania, dove coordino l’Ufficio Stampa interno.  Sono laureato in Storia contemporanea. I miei percorsi di vita e le mie inclinazioni personali mi hanno condotto anche alla Bioetica. Sono autore di diversi saggi sul pensiero moderno e contemporaneo, sulla comunicazione e la bioetica. Per Rubbettino […]

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