Ascoltare il proprio bisogno di pensare

Sentire la necessità e un vero e concreto bisogno di pensare, ai nostri giorni, potrebbe sembrare ai limiti dell’anacronismo. In un mondo che corre veloce e dentro il quale è facile percepire un senso di caos e smarrimento, desiderare di fermarsi a pensare suona quasi come un capriccio, una posa o un volersi sottrarre dall’attività, dal mondo produttivo, dallo scorrere del tempo ordinario. Ma facciamo un passo indietro: cosa significa pensare? Nel suo significato generico, che possiamo leggere come prima voce di un vocabolario, si tratta di esercitare l’attività del pensiero, cioè l’attività psichica per cui l’uomo acquista coscienza di sé e del mondo in cui vive. Ci aspetteremmo forse un significato maggiormente slegato dalla concretezza e più vicino a qualcosa di immateriale e privato, invece l’atto del pensare e il bisogno di pensare non è solamente legato alla nostra interiorità ma, a ben vedere, le sue implicazioni sono enormemente più vaste e ci consentono di abitare il mondo concreto con coscienza. 

Il momento o i momenti dedicati al pensiero – le ore, gli attimi che possiamo o desideriamo “regalare” a questo esercizio – lungi dall’essere slegati dalla realtà possono, al contrario, aiutarci a decifrare il quotidiano, il nostro tempo, ciò che sentiamo e ciò che amiamo. Allenare la nostra capacità di pensare, dare ascolto a quel bisogno profondo di fermarsi per riflettere e anche difendere questo bisogno non può far altro che migliorarci come esseri umani, perché è il pensiero e soprattutto lo sviluppo del pensiero critico a venirci in soccorso nei momenti di difficoltà, a farci porre un’attenzione particolare non solo a quello che vediamo intorno a noi ma anche a ciò che diciamo e facciamo nella vita di tutti i giorni. Se agire è il pensiero in atto e le nostre azioni sono il riflesso di quel pensare è di fondamentale importanza non mettere a tacere il nostro intimo bisogno di pensare, il desiderio che sentiamo di contemplare, di riflettere, di uscire momentaneamente dal mondo per rientrarci con una nuova difesa che è appunto composta dai nostri pensieri, unici, preziosi e che abbiamo avuto il coraggio di coltivare e veder crescere e svilupparsi. Ovviamente non tutti sentono nella stessa misura questo bisogno ma per quanto di diversa intensità il desiderio di pensare e l’atto stesso del pensare sono qualcosa che trascende l’età, il sesso, la provenienza geografica; è quella caratteristica che ci fa umani e questo lo rende affascinante e, allo stesso tempo (seppur in apparenza non tra i bisogni primari dell’uomo), proprio al vertice di un’immaginaria piramide di elementi non materiali eppure fondamentali per condurre un’esistenza consapevole.

Vito Mancuso, teologo e filosofo, ha intitolato proprio Il bisogno di pensare uno dei suoi libri (Garzanti, 2017). Qui l’autore dialoga con i suoi lettori al fine di risalire alle origini di questo bisogno tanto astratto all’apparenza eppure primordiale che ci rende così diversi da tutte le altre creature del Pianeta. Un bisogno che può anche prendere i connotati di urgenza, e infatti è intimamente legato al desiderio e al sogno. Quando pensiamo, cerchiamo e la nostra ricerca ci fa tendere verso la nostra interiorità, il nostro io più profondo al quale diamo ascolto e con il quale possiamo dialogare alla ricerca di risposte. L’esercizio del pensare è allora anche un esercizio spirituale, seppure si rifletterà sulla nostra esistenza tangibile e quotidiana. È uno strumento unico che può permetterci di non perdere la bussola ma anche fornirci un punto di appoggio per sollevarci quando tutto intorno a noi sembra crollare, ogni certezza farsi vana e, nella nostra esistenza quotidiana, percepiamo un senso di “bassezza”, di incolore uniformità:

«Io vi chiedo quale punto di appoggio avete per sollevare il vostro mondo dalle bassure dell’esistenza quotidiana» (V. Mancuso, Il bisogno di pensare, 2017).

Qui l’autore paragona il pensiero alla nota leva di Archimedeo. Il pensiero, in effetti, ci innalza ed è espressione di amore; quando si riconosce il proprio bisogno di pensare e lo si esercita, invero, si sta compiendo anche un atto d’amore, anzi più di uno: amore per la conoscenza, per l’approfondimento, per le domande, forse soprattutto per quelle che non avranno mai una risposta. Vale dunque la pena strappare dalle nostre giornate momenti da dedicare al pensiero e difendere quel bisogno prezioso, non soffocarlo e lasciarlo invece andare; sarà bello vedere dove ci porterà.

 

Veronica Di Gregorio Zitella

 

[Photo credit prottoy hassan via Unsplash]

 

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I volti dell’attesa ne “Il Deserto dei Tartari” di Dino Buzzati

Nella lingua greca classica per definire il Tempo troviamo tre parole: Chronos, Aiòn e Kairòs. Se Chronos va ad indicare la natura quantitativa del tempo, lo scorrere inesorabile dei minuti, Aiòn rappresenta il susseguirsi delle ere, il tempo vitale ma anche il destino; infine abbiamo Kairòs, probabilmente uno degli aspetti più affascinanti del tempo nella sua natura qualitativa: il “momento opportuno”. Kairòs corre veloce proprio come corre via l’occasione propizia che si deve afferrare per non rischiare di perderla per sempre. Nella vita di tutti noi può accadere di avere la percezione di aver incontrato Kairòs, di essere stati nel posto giusto al momento giusto, di aver colto un’occasione irripetibile, di aver compreso che quel momento esatto sarebbe stato il più importante e decisivo della nostra esistenza. D’altro canto possiamo aver sperimentato, però, anche un altro tipo di sentimento rispetto al tempo e al momento propizio, una zona grigia, impalpabile eppure presente: l’attesa. Questo limbo può prendere diverse forme e dimensioni: possiamo aspettare con gioiosa speranza il grande amore o il lavoro dei sogni, possiamo attendere con trepidazione mista ad ansia l’esito di un esame, una svolta nella nostra quotidianità, una notizia. Grandi e piccole forme di attesa, insomma, compongono spesso le nostre esistenze

Proprio questo misterioso e, a tratti, schiacciante tempo sospeso è al centro di uno dei capolavori della letteratura italiana del Novecento: Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati. Sin dall’incipit, Buzzati riesce a far sentire il lettore completamente immerso in quel momento che precede l’evento tanto atteso e in quella sempre imprevedibile reazione che può avere l’animo umano. Infatti l’indimenticabile protagonista Giovanni Drogo, alla notizia che aspettava di ricevere da tempo, non prova quella gioia che potremmo aspettarci da lui:

«Nominato ufficiale, Giovanni Drogo partì una mattina di settembre dalla città per raggiungere la Fortezza Bastiani, sua prima destinazione. […] Era quello il giorno atteso da anni, il principio della sua vera vita. Pensava alle giornate squallide all’Accademia militare, si ricordò delle amare sere di studio quando sentiva fuori nelle vie passare la gente libera e presumibilmente felice […]» (D. Buzzati, Il deserto dei Tartari, 1940).

Giovanni Drogo è, dunque, finalmente ufficiale, una nomina che aspettava da anni, la luce che rischiara un giorno nuovo, ha nella testa e nel cuore grandi e alte aspettative e sente di meritarle. L’ufficiale, però, non riesce a provare una gioia piena, capisce che il tempo della giovinezza è andato perduto. C’è in lui, fin da subito, un presentimento: 

«Così Drogo fissava lo specchio, vedeva uno stentato sorriso sul proprio volto, che invano aveva cercato di amare. Che cosa senza senso: perché non riusciva a sorridere con la doverosa spensieratezza mentre salutava la madre? […] L’amarezza di lasciare per la prima volta la vecchia casa, dove era nato alle speranze, i timori che porta con sé ogni mutamento, la commozione di salutare la mamma, gli riempivano sì l’animo, ma su tutto ciò gravava un insistente pensiero, che non gli riusciva di indentificare, come un vago presentimento di cose fatali, quasi egli stesse per cominciare un viaggio senza ritorno» (ivi).

Il tempo, per Drogo, si dilata ulteriormente e le attese si moltiplicano fino a diventare un labirinto che sembra non avere fine. Prima la nomina a ufficiale, poi l’arrivo di un nemico che sembra essere più un’ombra che reale. La direzione di Drogo infatti, come sappiamo, è la Fortezza Bastiani che si erge in un deserto il quale, secondo le leggende, era stato teatro delle scorribande dei Tartari. Ora è solo silenzio e vuoto, le giornate scandite da una routine incessante trascorrono tutte identiche. Ad accentuare la sensazione di un’attesa che sembra chiamarne un’altra, è Drogo stesso che, in ogni momento, ha la possibilità di andare via. Eppure rimanda di ora in ora, di giorno in giorno, aspettando quell’assalto, preparandosi ad affrontarlo; anche il più lieve dei rumori ridesta in lui una singolare speranza d’azione che lo porta, inesorabilmente, a restare tra le mura della Fortezza. L’attesa sembra, così, prendere una nuova forma che tutti noi potremmo aver già incontrato nel quotidiano, quella di uno scudo che ci protegge dalla vita e dalle delusioni che potrebbe infliggerci, ma è soltanto cercando di conoscere e capire i tanti volti dell’attesa e del tempo che possiamo imparare ad affrontarli con lucidità e magari accorgerci che quell’agognato “momento opportuno” è proprio lì, davanti ai nostri occhi, ogni giorno.

 

Veronica Di Gregorio Zitella

 

[Photo credits Ryan Cheng via Unsplash]

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Tra le interazioni solitarie nella comunicazione quotidiana con Renato Guttuso

Ogni giorno ognuno di noi ha a che fare con la comunicazione nel senso più ampio del termine. Viviamo, in effetti, in un’epoca nella quale comunicare sembra essere diventata una necessità assoluta e, allo stesso tempo, il nostro pane quotidiano. Soprattutto la comunicazione on-line regna sovrana sulle nostre giornate, il suo trono fatto di aggiornamenti e di notifiche campeggia in un regno nel quale il flusso di notizie non ha più argini e, come un fiume in piena, fluisce senza sosta con buona pace di orologi e calendari. Le notizie, in questo modo, sembrano rincorrersi vorticosamente fino quasi a fagocitarsi l’una con l’altra in un grande caos. La sensazione per gli utenti è, spesso, di essere in ritardo o in bilico, come tanti funamboli sul filo degli hashtag in tendenza. Così si affaccia il dubbio, a volte timido, a volte più forte, della qualità di questo tipo di comunicazione che coinvolge anche il nostro modo di comunicare con le altre persone, siano esse conoscenti, sconosciuti o amici intimi. Infatti, non importa se il calendario indichi con un colore diverso dal nero i giorni festivi, tentando, maldestramente, di farci interrompere le nostre ritualità e separarci dalle nostre routine, compresa quella digitale: siamo, tutti, sempre e comunque, perennemente connessi. Varrebbe forse la pena, a questo punto, di chiederci: esattamente con chi siamo connessi? Stiamo, davvero, perennemente comunicando?

La riflessione sul paradosso tra la grande quantità di mezzi a nostra disposizione e le difficoltà nel comunicare con gli altri e uscire dalla solitudine sembra essere tutta dei nostri tempi. In particolare, dopo la pandemia molti sono stati i dibattiti intorno a questo tema e, i più giovani, sono stati e sono tuttora oggetto d’attenzione in questo senso. Infatti l’altra faccia dell’ipercomunicazione si è rivelata essere molto più problematica di quanto si potesse immaginare, restituendoci un quadro a tinte piuttosto fosche di un’intera generazione che fa i conti con lunghe ore di solitaria interazione. In verità, però, questo tipo di riflessione ha radici lontane e anche l’arte pittorica l’ha rappresentata, in modi diversi, soprattutto lungo il ‘900. A tal proposito mi ha sempre affascinata, tanto da diventare per me quasi ipnotica, un’opera di Renato Guttuso. Si tratta di un quadro, del 1980, probabilmente molto meno conosciuto rispetto ad altri lavori di uno dei più importanti artisti italiani del XX secolo. Il titolo è, già di per sé, emblematico: Telefoni (o l’Incomunicabilità); qui Guttuso si ritrae di schiena e la postura sembrerebbe indicare una certa tensione fisica, l’artista tiene la cornetta di un telefono ben attaccata all’orecchio mentre di fronte a lui altri telefoni creano con i loro fili, tutti staccati così come le cornette, un groviglio caotico. Il tentativo che compie – cioè quello di mettersi in contatto con qualcuno – sembra vano, come a voler suggerire che non sarà la moltiplicazione dei mezzi di comunicazione a spazzare via le problematiche legate alla comunicazione stessa tra gli esseri umani. La figura al centro del dipinto resta, così, “appesa”: impossibilitata nello stabilire un contatto; solitaria pur tra tanti colori.

Per tornare ai nostri giorni, quell’immagine pare rappresentare molto bene l’impotenza e l’impossibilità di sentirci realmente connessi e in comunicazione con qualcuno, una sensazione che potrebbe coglierci proprio avendo, di fronte a noi, sterminati mezzi di comunicazione. Soprattutto se pensiamo ai social network: da un lato, la percezione è quella di avere tra le mani un potere nuovo (siamo infatti padroni di un’esperienza senza precedenti, in fondo possiamo scegliere cosa comunicare, cosa eliminare quasi totalmente dai nostri profili, costruirci un piccolo universo a nostro piacimento e così via); dall’altro, potremmo sentire una sorta di smarrimento nella difficoltà di riuscire, realmente, a comunicare in maniera sincera davvero qualcosa. Restare in contatto facilmente con conoscenti e sconosciuti nello stesso, pressoché identico, modo potrebbe, paradossalmente, portare a sentirci molto soli nonché isolati, ognuno nella sua bolla di confortevole alienazione. Le cerchie intorno a noi, intanto, non fanno che estendersi inglobando parenti, amici di vecchia data, persone che frequentiamo ogni giorno, personaggi famosi, influencer, completi sconosciuti ecc., e noi ci sentiamo sempre più muti, fermi sulla soglia dell’incomunicabile. È importante non ignorare questa sensazione ma prenderne atto e cercare delle possibili soluzioni; non si tratta di condannare né le vecchie né le nuove forme di comunicazione quanto di affinare la capacità di non smettere di interrogarci, di capire cosa va bene per noi come individui nella società e continuare la nostra indagine quotidiana dentro e fuori di noi.

 

Veronica Di Gregorio Zitella

 

[Photo credit Volodymyr Hryshchenko via Unsplash]

 

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Esercizi di libertà con Jonathan Livingston

Nel nostro quotidiano affannarci cercando di compiere i nostri tanti doveri può capitare che non ci si interroghi affatto sulla libertà né sulla mancanza di essa. Non è affatto semplice, infatti, comprendere se un concetto così bello e, allo stesso tempo, inafferrabile faccia parte della nostra vita e se la libertà che crediamo di avere corrisponda alle nostre più profonde esigenze. In questo senso, forse, sarebbe utile riappropriarci del diritto di comprendere come e dove sentiamo che essa si eserciti affinando la capacità di guardare dentro noi stessi, attività spesso trascurata per mancanza del tempo necessario all’introspezione. Una persona, per esempio, potrebbe sentirsi libera se riesce a dedicarsi ad un’attività che ama senza alcuno scopo preciso oppure se può gestire il proprio tempo in autonomia. Queste e altre innumerevoli forme di libertà, spesso, provengono da una ricerca individuale durante la quale, probabilmente, sorgeranno spontanee alcune domande “preliminari”: io sento di essere libero? Ho un mio spazio libero? O, in una fase successiva, dove si è cacciata la mia libertà che sento di aver perduto?

Esattamente a questo genere di domande si trova a rispondere il famigerato gabbiano Jonathan Livingston nel romanzo di Richard Bach che, riletto oggi, appare davvero illuminante. il gabbiano, infatti, rivendica una libertà particolare: la libertà di chi desidera con tutto se stesso seguire una voce altra che non è quella del gruppo sociale al quale, comunque, appartiene ma è una voce interiore, alla quale sente di non poter resistere:

«A un miglio dalla costa un peschereccio arrancava verso il largo. E fu data voce allo Stormo. E in men che non si dica lo Stormo Buonappetito si adunò, si diedero a giostrare ed accanirsi per beccare qualcosa da mangiare. Cominciava così una nuova dura giornata.
Ma lontano di là solo soletto, lontano dalla costa e dalla barca, un gabbiano si stava allenando per suo conto: era il gabbiano Jonathan Livingston. […] La maggior parte dei gabbiani non si danno la pena di apprendere, del volo, altro che le nozioni elementari: gli basta arrivare dalla costa a dov’è il cibo e poi tornare a casa. […] A quel gabbiano lì, invece, non importava tanto procurarsi il cibo, quanto volare. Più di ogni altra cosa al mondo, a Jonathan Livingston piaceva librarsi nel cielo» (R. Bach, Il gabbiano Jonathan Livingston, 1977).

Potremmo dire, quindi, che la fase più delicata, importante ed emozionante nella ricerca della propria libertà sia proprio accorgersi della mancanza di essa, solo avendone la percezione, infatti, si può agire concretamente per riconquistarla nonostante non sia sempre semplice. Per conquistare l’agognata libertà potrebbe essere necessario operare delle scelte anche drastiche e, spessissimo, si rischia di non venir compresi dagli altri. Jonathan Livingston stesso prova l’esperienza dell’emarginazione dal gruppo sociale perché nessuno dei suoi simili riesce a comprendere la sua inquietudine e le sue idee che, di fatto, se fossero accolte romperebbero un equilibrio, un ordine costituito, una serie di riti già ben collaudati. Per questo motivo, al nostro gabbiano non resta che recidere, almeno temporaneamente, alcuni legami e andar via verso un mondo nuovo dove troverà altri simili a lui coi quali confrontare le proprie idee, perfezionare le tecniche di volo che ama tanto e tramandare la sua idea di libertà, ovvero trarre felicità e soddisfazione personale nel compiere un atto senza un fine concreto«In capo a sei mesi, Jonathan aveva sei allievi, tutti esuli e reietti, ma pieni di passione. E curiosi di quella novità: volare per la gioia di volare!» (ivi).

Ed ecco come, pur nella sua brevità, il romanzo di Bach ci invita a cercare con tutte le nostre forze quella libertà che fa parte di noi, anche quando ci sembra di averla smarrita. Nelle ultime pagine il cerchio va a chiudersi per non finire mai: sarà un altro gabbiano a portare avanti lo slancio ideale di Jonathan Livingston e, forse, ha proprio ragione quando ricorda al suo adepto (e a noi) che: «Per tutte le cose, Fletcher, è questione d’esercizio!» (ivi).
Sarebbe davvero importante, per tutti noi, accogliere questo monito ed esercitarci a ritrovare la nostra peculiare libertà, regalandoci anche il diritto quasi dimenticato di praticarla. Nella nostra quotidianità dovremmo provare a dedicarci all’ascolto interiore, così da far emergere i nostri bisogni anche quando temiamo che quest’attività possa rubare tempo ad altri impegni più “concreti”. Tendere l’orecchio e mettersi nella condizione di riuscire ad ascoltare la propria voce più profonda potrebbe rivelarsi, infatti, il dono più bello e prezioso da fare a noi stessi.

 

Veronica Di Gregorio Zitella

 

[immagine tratta da Unsplash]

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Un diverso fato. Il potere della riscrittura

Negli ultimi mesi mi ha incuriosita il successo di una forma di scrittura certamente non nuova ma che sembra conoscere una grande rinascita: la riscrittura. Si tratta del retelling (letteralmente “raccontare di nuovo”) e, più nello specifico, del retelling mitologico e della letteratura classica sia greca che latina. Un fenomeno non solo italiano ma internazionale, al centro del quale ci sono moltissime autrici: Madeline Miller, per esempio, che con La canzone di Achille (2011) e Circe (2019) ha scalato le classifiche anche grazie al passaparola generatosi sui social, che non sembra essersi esaurito in un breve lasso temporale, come talvolta succede nel mondo dell’editoria, ma che continua ad attirare lettori e lettrici di ogni età. Al di là delle possibili operazioni di marketing, che senza dubbio esistono, viene da chiedersi, però, a quale necessità questi libri rispondano.

Come mai nel 2022 tante persone, così differenti tra loro, desiderano immergersi in storie che attingono la loro forza dal mito e nelle quali tornano figure sicuramente affascinanti ma anche in qualche modo “datate” come dèi, eroi, eroine, e temi almeno apparentemente abusati come amori e lotte? A ben vedere sembrerebbe evidente che questo tipo di narrazione non risponda solo a un bisogno di evasione ma anche ad una esigenza più profonda: riappropriarsi liberamente di alcune storie che continuano a parlarci, travalicando le epoche, donando ai loro personaggi una nuova linfa vitale e, ancor di più, una voce inedita. Attraverso la scrittura e la lettura di questi romanzi, infatti, si costruisce un diverso immaginario collettivo nel quale i personaggi, pur restando fedeli ad alcune precise caratteristiche sembrano spiccare il volo, rendersi davvero protagonisti di una vicenda che riesce ad oltrepassare quel destino già segnato che, invece, si rivela modificabile. Inoltre, l’operazione della riscrittura conferisce importanza a personaggi che, per secoli, sono stati secondari strappandoli, da un lato, ad un ruolo marginale e quasi di comparsa e, dall’altro, al loro stesso fato. Quando leggiamo un testo di questo tipo, effettivamente, ci sembra di compiere un’operazione di riconsacrazione verso figure che ci sono molto familiari, che abbiamo amato e per le quali avremmo desiderato un epilogo differente. Inoltre, soprattutto nella riscrittura da parte di autrici, vediamo emergere un’attenzione inedita verso le protagoniste ed il loro peculiare punto di vista.

Il potere della riscrittura in questo senso mi è sembrato particolarmente evidente ne L’Eneide di Didone di Marilù Oliva, edito quest’anno, che pone al centro della sua narrazione appunto Didone, una regina forte e determinata che in Virgilio si toglie la vita tragicamente per Enea, un uomo che, alla fine dei conti, è solo di passaggio a Cartagine:

«Siamo quasi tutti/e rimasti delusi per il modo in cui una regina dal carattere così risoluto abbia posto fine alla sua vita e abbia abbandonato il progetto per cui si era impegnata verso il suo popolo. Certo, Didone nell’Eineide è figura funzionale a una storia, imperniata su un uomo, che ha come scopo principale celebrare il più importante impero dell’antichità, secondo la veduta romanocentrica: Cartagine funge da area di sosta all’interno di un viaggio impegnativo e la sua regina – che dunque è soltanto una pedina di una scacchiera che per utilitas la contempla – potrebbe addirittura diventare un ostacolo per l’eroe, se non venisse in qualche modo eliminata. […] quindi quale migliore escamotage letterario per estromettere una personalità scomoda, se non il suicidio?» (M. Oliva, L’Eneide di Didone, 2022)

Il gesto di Didone nell’Eneide appare, dunque, funzionale alla storia e molto lontano dalla sua forte personalità ed è proprio qui che interviene la riscrittura a restituire a Didone una voceGraz, e a far sì che un altro destino sia possibile donando ai lettori e alle lettrici la possibilità di immaginare un’eroina libera di essere l’artefice del proprio destino.

La parola scritta e l’atto della scrittura appaiono, allora, armi potentissime capaci di modificare il corso degli eventi e di offrire non solo un nuovo finale ma anche un nuovo inizio. Un potere che dovremmo provare ad esercitare anche nel nostro quotidiano per liberare la mente da schemi precostituiti che, a volte, non osiamo superare ritrovandoci intrappolati in una storia in apparenza già conclusa, dimenticando che la penna per riscriverla è proprio lì, sotto ai nostri occhi.

 

Veronica Di Gregorio Zitella

Veronica Di Gregorio Zitella è nata a Popoli (PE) l’08/04/1989. Lettrice vorace, si è laureata in Lettere e Filosofia alla Sapienza di Roma e si occupa di comunicazione digitale.

 

[Photo credit Aaron Burden via Unsplash]

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La gestione del dolore tra Ragione e Sentimento seguendo Jane Austen

La maggior parte di noi ha incontrato Jane Austen durante gli anni scolastici, un’autrice spesso liquidata piuttosto frettolosamente e della quale, in seguito, magari non ci si ricorda. Eppure i temi trattati dall’autrice sono molto più attuali di quello che potrebbe sembrare in apparenza. I personaggi di Jane Austen e, in particolare, le sue eroine sono spesso in bilico tra volontà e necessità, sogni e realtà, piaceri e doveri come emerge così chiaramente sin dal titolo in Ragione e Sentimento. Il romanzo, pubblicato anonimo nel 1811, ci presenta due figure che sembrerebbero incarnare perfettamente questa eterna lotta che ognuno di noi si è trovato ad affrontare, anche più di una volta, nella vita. Elinor e Marianne Dashwood, pur essendo sorelle, hanno caratteri opposti: se la maggiore, Elinor, si staglia come implacabile ma anche ironica paladina della Ragione, la più giovane, Marianne, è posseduta da passioni tumultuose impersonificando il Sentimento. A ben vedere, però, nel romanzo esse non sono sempre in contrapposizione venendosi, anzi, in soccorso a vicenda. Il Sentimento, con le parole e le movenze di Marianne, interviene per lambire l’animo di Elinor e farla, almeno in parte, capitolare sognante e a tratti malinconica allo stesso tempo; la Ragione, grazie al suo potere di penetrare nell’oscurità delle passioni, lenisce l’animo di Marianne, la riconduce su una via meno tortuosa, in qualche modo la protegge.

«Elinor trovava ogni giorno tempo libero a sufficienza per pensare a Edward e al comportamento di Edward, con tutta la varietà che il mutevole stato del suo spirito poteva produrre in diversi momenti: con tenerezza, pietà, censura e dubbio» (J. Austen, Ragione e Sentimento, 2004).

La difficoltà di scelta tra la ragione e il sentimento, apparentemente sempre in lotta tra loro, si traduce anche nella complessa gestione del dolore; perché se è vero che le sorelle si comportano in maniera diversa nella vita di tutti i giorni ed hanno interessi differenti, il punto focale è la loro reazione ai dolori, nello specifico a due tipi di dolore entrambi legati alla sfera dell’amore. Elinor, innamorata di Edward Ferrars, il fratello della cognata Fanny, rinuncia alla speranza di potersi sposare con lui e lavora mentalmente per poter gestire questo dolore in maniera razionale, facendo appello a quello che, genericamente, potremmo chiamare buon senso. Marianne, invece, viene sedotta e abbandonata da John Willoughby che sceglie un matrimonio più conveniente; in questo caso la gestione del dolore è del tutto opposta a quella di Elinor e Marianne si abbandona alla più totale disperazione fino ad ammalarsi gravemente.  Anche qui, però, si possono notare delle sfumature più sottili: Elinor non sembra indifferente allo stato d’animo della sorella quanto piuttosto una custode, pronta a farla riflettere maggiormente e a non abbandonarsi del tutto all’impulsività. Nelle domande che le rivolge sembra esserci anche un implicito richiamo alla coscienza e all’amor proprio:

«Ma, mia cara Marianne, non cominci a dubitare dell’indiscrezione della tua condotta, adesso che ti ha già esposto ad alcune osservazioni molto pungenti?» (ibidem).

Nella nostra vita, allora, la Ragione non appare solo come qualcosa di rigido ed austero ma anche come aiuto concreto nell’affrontare la quotidianità delle giornate, con le sue gioie e i suoi dolori. Allo stesso tempo, il Sentimento non è solamente irrazionalità ma anche passione, tumulto benefico dell’animo, entusiasmo e curiosità. È proprio grazie alla delicata commistione tra i due elementi, quindi, che riusciamo a reagire ai dolori, alle delusioni, ai piccoli e grandi tormenti ed è, perciò, necessario appellarsi ad entrambi, Ragione e Sentimento, lasciarli dialogare per cercare un equilibrio senza soffocare né l’una né l’altra parte; in fondo Marianne non potrebbe vivere senza Elinor e viceversa. Come fratelli, Ragione e Sentimento, possono sostenerci soprattutto in un periodo storico come questo, fatto di contraddizioni enormi, fragilità ormai evidenti e crisi che sembrano moltiplicarsi di giorno in giorno. Affinché lo sconforto non prenda il sopravvento, dobbiamo davvero fare appello a questi due fratelli così da poter sì analizzare, comprendere, informarci, agire con raziocinio, ma senza perdere quella tenerezza che ci fa umani e che, pure, ci rende capaci di andare avanti senza paura di scoprire il cuore. Imparando a dar voce a entrambi, dopo un primo momento che potrebbe apparire confuso, riusciremo ad ascoltarli e a cogliere il meglio dell’uno e dell’altro.

 

Veronica Di Gregorio Zitella

 

[photo credit Piret Ilver via Unsplash]

la chiave di sophia 2022