Esercizi di libertà con Jonathan Livingston

Nel nostro quotidiano affannarci cercando di compiere i nostri tanti doveri può capitare che non ci si interroghi affatto sulla libertà né sulla mancanza di essa. Non è affatto semplice, infatti, comprendere se un concetto così bello e, allo stesso tempo, inafferrabile faccia parte della nostra vita e se la libertà che crediamo di avere corrisponda alle nostre più profonde esigenze. In questo senso, forse, sarebbe utile riappropriarci del diritto di comprendere come e dove sentiamo che essa si eserciti affinando la capacità di guardare dentro noi stessi, attività spesso trascurata per mancanza del tempo necessario all’introspezione. Una persona, per esempio, potrebbe sentirsi libera se riesce a dedicarsi ad un’attività che ama senza alcuno scopo preciso oppure se può gestire il proprio tempo in autonomia. Queste e altre innumerevoli forme di libertà, spesso, provengono da una ricerca individuale durante la quale, probabilmente, sorgeranno spontanee alcune domande “preliminari”: io sento di essere libero? Ho un mio spazio libero? O, in una fase successiva, dove si è cacciata la mia libertà che sento di aver perduto?

Esattamente a questo genere di domande si trova a rispondere il famigerato gabbiano Jonathan Livingston nel romanzo di Richard Bach che, riletto oggi, appare davvero illuminante. il gabbiano, infatti, rivendica una libertà particolare: la libertà di chi desidera con tutto se stesso seguire una voce altra che non è quella del gruppo sociale al quale, comunque, appartiene ma è una voce interiore, alla quale sente di non poter resistere:

«A un miglio dalla costa un peschereccio arrancava verso il largo. E fu data voce allo Stormo. E in men che non si dica lo Stormo Buonappetito si adunò, si diedero a giostrare ed accanirsi per beccare qualcosa da mangiare. Cominciava così una nuova dura giornata.
Ma lontano di là solo soletto, lontano dalla costa e dalla barca, un gabbiano si stava allenando per suo conto: era il gabbiano Jonathan Livingston. […] La maggior parte dei gabbiani non si danno la pena di apprendere, del volo, altro che le nozioni elementari: gli basta arrivare dalla costa a dov’è il cibo e poi tornare a casa. […] A quel gabbiano lì, invece, non importava tanto procurarsi il cibo, quanto volare. Più di ogni altra cosa al mondo, a Jonathan Livingston piaceva librarsi nel cielo» (R. Bach, Il gabbiano Jonathan Livingston, 1977).

Potremmo dire, quindi, che la fase più delicata, importante ed emozionante nella ricerca della propria libertà sia proprio accorgersi della mancanza di essa, solo avendone la percezione, infatti, si può agire concretamente per riconquistarla nonostante non sia sempre semplice. Per conquistare l’agognata libertà potrebbe essere necessario operare delle scelte anche drastiche e, spessissimo, si rischia di non venir compresi dagli altri. Jonathan Livingston stesso prova l’esperienza dell’emarginazione dal gruppo sociale perché nessuno dei suoi simili riesce a comprendere la sua inquietudine e le sue idee che, di fatto, se fossero accolte romperebbero un equilibrio, un ordine costituito, una serie di riti già ben collaudati. Per questo motivo, al nostro gabbiano non resta che recidere, almeno temporaneamente, alcuni legami e andar via verso un mondo nuovo dove troverà altri simili a lui coi quali confrontare le proprie idee, perfezionare le tecniche di volo che ama tanto e tramandare la sua idea di libertà, ovvero trarre felicità e soddisfazione personale nel compiere un atto senza un fine concreto«In capo a sei mesi, Jonathan aveva sei allievi, tutti esuli e reietti, ma pieni di passione. E curiosi di quella novità: volare per la gioia di volare!» (ivi).

Ed ecco come, pur nella sua brevità, il romanzo di Bach ci invita a cercare con tutte le nostre forze quella libertà che fa parte di noi, anche quando ci sembra di averla smarrita. Nelle ultime pagine il cerchio va a chiudersi per non finire mai: sarà un altro gabbiano a portare avanti lo slancio ideale di Jonathan Livingston e, forse, ha proprio ragione quando ricorda al suo adepto (e a noi) che: «Per tutte le cose, Fletcher, è questione d’esercizio!» (ivi).
Sarebbe davvero importante, per tutti noi, accogliere questo monito ed esercitarci a ritrovare la nostra peculiare libertà, regalandoci anche il diritto quasi dimenticato di praticarla. Nella nostra quotidianità dovremmo provare a dedicarci all’ascolto interiore, così da far emergere i nostri bisogni anche quando temiamo che quest’attività possa rubare tempo ad altri impegni più “concreti”. Tendere l’orecchio e mettersi nella condizione di riuscire ad ascoltare la propria voce più profonda potrebbe rivelarsi, infatti, il dono più bello e prezioso da fare a noi stessi.

 

Veronica Di Gregorio Zitella

 

[immagine tratta da Unsplash]

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Un diverso fato. Il potere della riscrittura

Negli ultimi mesi mi ha incuriosita il successo di una forma di scrittura certamente non nuova ma che sembra conoscere una grande rinascita: la riscrittura. Si tratta del retelling (letteralmente “raccontare di nuovo”) e, più nello specifico, del retelling mitologico e della letteratura classica sia greca che latina. Un fenomeno non solo italiano ma internazionale, al centro del quale ci sono moltissime autrici: Madeline Miller, per esempio, che con La canzone di Achille (2011) e Circe (2019) ha scalato le classifiche anche grazie al passaparola generatosi sui social, che non sembra essersi esaurito in un breve lasso temporale, come talvolta succede nel mondo dell’editoria, ma che continua ad attirare lettori e lettrici di ogni età. Al di là delle possibili operazioni di marketing, che senza dubbio esistono, viene da chiedersi, però, a quale necessità questi libri rispondano.

Come mai nel 2022 tante persone, così differenti tra loro, desiderano immergersi in storie che attingono la loro forza dal mito e nelle quali tornano figure sicuramente affascinanti ma anche in qualche modo “datate” come dèi, eroi, eroine, e temi almeno apparentemente abusati come amori e lotte? A ben vedere sembrerebbe evidente che questo tipo di narrazione non risponda solo a un bisogno di evasione ma anche ad una esigenza più profonda: riappropriarsi liberamente di alcune storie che continuano a parlarci, travalicando le epoche, donando ai loro personaggi una nuova linfa vitale e, ancor di più, una voce inedita. Attraverso la scrittura e la lettura di questi romanzi, infatti, si costruisce un diverso immaginario collettivo nel quale i personaggi, pur restando fedeli ad alcune precise caratteristiche sembrano spiccare il volo, rendersi davvero protagonisti di una vicenda che riesce ad oltrepassare quel destino già segnato che, invece, si rivela modificabile. Inoltre, l’operazione della riscrittura conferisce importanza a personaggi che, per secoli, sono stati secondari strappandoli, da un lato, ad un ruolo marginale e quasi di comparsa e, dall’altro, al loro stesso fato. Quando leggiamo un testo di questo tipo, effettivamente, ci sembra di compiere un’operazione di riconsacrazione verso figure che ci sono molto familiari, che abbiamo amato e per le quali avremmo desiderato un epilogo differente. Inoltre, soprattutto nella riscrittura da parte di autrici, vediamo emergere un’attenzione inedita verso le protagoniste ed il loro peculiare punto di vista.

Il potere della riscrittura in questo senso mi è sembrato particolarmente evidente ne L’Eneide di Didone di Marilù Oliva, edito quest’anno, che pone al centro della sua narrazione appunto Didone, una regina forte e determinata che in Virgilio si toglie la vita tragicamente per Enea, un uomo che, alla fine dei conti, è solo di passaggio a Cartagine:

«Siamo quasi tutti/e rimasti delusi per il modo in cui una regina dal carattere così risoluto abbia posto fine alla sua vita e abbia abbandonato il progetto per cui si era impegnata verso il suo popolo. Certo, Didone nell’Eineide è figura funzionale a una storia, imperniata su un uomo, che ha come scopo principale celebrare il più importante impero dell’antichità, secondo la veduta romanocentrica: Cartagine funge da area di sosta all’interno di un viaggio impegnativo e la sua regina – che dunque è soltanto una pedina di una scacchiera che per utilitas la contempla – potrebbe addirittura diventare un ostacolo per l’eroe, se non venisse in qualche modo eliminata. […] quindi quale migliore escamotage letterario per estromettere una personalità scomoda, se non il suicidio?» (M. Oliva, L’Eneide di Didone, 2022)

Il gesto di Didone nell’Eneide appare, dunque, funzionale alla storia e molto lontano dalla sua forte personalità ed è proprio qui che interviene la riscrittura a restituire a Didone una voceGraz, e a far sì che un altro destino sia possibile donando ai lettori e alle lettrici la possibilità di immaginare un’eroina libera di essere l’artefice del proprio destino.

La parola scritta e l’atto della scrittura appaiono, allora, armi potentissime capaci di modificare il corso degli eventi e di offrire non solo un nuovo finale ma anche un nuovo inizio. Un potere che dovremmo provare ad esercitare anche nel nostro quotidiano per liberare la mente da schemi precostituiti che, a volte, non osiamo superare ritrovandoci intrappolati in una storia in apparenza già conclusa, dimenticando che la penna per riscriverla è proprio lì, sotto ai nostri occhi.

 

Veronica Di Gregorio Zitella

Veronica Di Gregorio Zitella è nata a Popoli (PE) l’08/04/1989. Lettrice vorace, si è laureata in Lettere e Filosofia alla Sapienza di Roma e si occupa di comunicazione digitale.

 

[Photo credit Aaron Burden via Unsplash]

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La gestione del dolore tra Ragione e Sentimento seguendo Jane Austen

La maggior parte di noi ha incontrato Jane Austen durante gli anni scolastici, un’autrice spesso liquidata piuttosto frettolosamente e della quale, in seguito, magari non ci si ricorda. Eppure i temi trattati dall’autrice sono molto più attuali di quello che potrebbe sembrare in apparenza. I personaggi di Jane Austen e, in particolare, le sue eroine sono spesso in bilico tra volontà e necessità, sogni e realtà, piaceri e doveri come emerge così chiaramente sin dal titolo in Ragione e Sentimento. Il romanzo, pubblicato anonimo nel 1811, ci presenta due figure che sembrerebbero incarnare perfettamente questa eterna lotta che ognuno di noi si è trovato ad affrontare, anche più di una volta, nella vita. Elinor e Marianne Dashwood, pur essendo sorelle, hanno caratteri opposti: se la maggiore, Elinor, si staglia come implacabile ma anche ironica paladina della Ragione, la più giovane, Marianne, è posseduta da passioni tumultuose impersonificando il Sentimento. A ben vedere, però, nel romanzo esse non sono sempre in contrapposizione venendosi, anzi, in soccorso a vicenda. Il Sentimento, con le parole e le movenze di Marianne, interviene per lambire l’animo di Elinor e farla, almeno in parte, capitolare sognante e a tratti malinconica allo stesso tempo; la Ragione, grazie al suo potere di penetrare nell’oscurità delle passioni, lenisce l’animo di Marianne, la riconduce su una via meno tortuosa, in qualche modo la protegge.

«Elinor trovava ogni giorno tempo libero a sufficienza per pensare a Edward e al comportamento di Edward, con tutta la varietà che il mutevole stato del suo spirito poteva produrre in diversi momenti: con tenerezza, pietà, censura e dubbio» (J. Austen, Ragione e Sentimento, 2004).

La difficoltà di scelta tra la ragione e il sentimento, apparentemente sempre in lotta tra loro, si traduce anche nella complessa gestione del dolore; perché se è vero che le sorelle si comportano in maniera diversa nella vita di tutti i giorni ed hanno interessi differenti, il punto focale è la loro reazione ai dolori, nello specifico a due tipi di dolore entrambi legati alla sfera dell’amore. Elinor, innamorata di Edward Ferrars, il fratello della cognata Fanny, rinuncia alla speranza di potersi sposare con lui e lavora mentalmente per poter gestire questo dolore in maniera razionale, facendo appello a quello che, genericamente, potremmo chiamare buon senso. Marianne, invece, viene sedotta e abbandonata da John Willoughby che sceglie un matrimonio più conveniente; in questo caso la gestione del dolore è del tutto opposta a quella di Elinor e Marianne si abbandona alla più totale disperazione fino ad ammalarsi gravemente.  Anche qui, però, si possono notare delle sfumature più sottili: Elinor non sembra indifferente allo stato d’animo della sorella quanto piuttosto una custode, pronta a farla riflettere maggiormente e a non abbandonarsi del tutto all’impulsività. Nelle domande che le rivolge sembra esserci anche un implicito richiamo alla coscienza e all’amor proprio:

«Ma, mia cara Marianne, non cominci a dubitare dell’indiscrezione della tua condotta, adesso che ti ha già esposto ad alcune osservazioni molto pungenti?» (ibidem).

Nella nostra vita, allora, la Ragione non appare solo come qualcosa di rigido ed austero ma anche come aiuto concreto nell’affrontare la quotidianità delle giornate, con le sue gioie e i suoi dolori. Allo stesso tempo, il Sentimento non è solamente irrazionalità ma anche passione, tumulto benefico dell’animo, entusiasmo e curiosità. È proprio grazie alla delicata commistione tra i due elementi, quindi, che riusciamo a reagire ai dolori, alle delusioni, ai piccoli e grandi tormenti ed è, perciò, necessario appellarsi ad entrambi, Ragione e Sentimento, lasciarli dialogare per cercare un equilibrio senza soffocare né l’una né l’altra parte; in fondo Marianne non potrebbe vivere senza Elinor e viceversa. Come fratelli, Ragione e Sentimento, possono sostenerci soprattutto in un periodo storico come questo, fatto di contraddizioni enormi, fragilità ormai evidenti e crisi che sembrano moltiplicarsi di giorno in giorno. Affinché lo sconforto non prenda il sopravvento, dobbiamo davvero fare appello a questi due fratelli così da poter sì analizzare, comprendere, informarci, agire con raziocinio, ma senza perdere quella tenerezza che ci fa umani e che, pure, ci rende capaci di andare avanti senza paura di scoprire il cuore. Imparando a dar voce a entrambi, dopo un primo momento che potrebbe apparire confuso, riusciremo ad ascoltarli e a cogliere il meglio dell’uno e dell’altro.

 

Veronica Di Gregorio Zitella

 

[photo credit Piret Ilver via Unsplash]

la chiave di sophia 2022