Tommaso d’Acquino: “Credo per capire, capisco per credere”

Tommaso d’Aquino (1225-1274) fu l’esponente principale della filosofia Scolastica medievale. La questione più affrontata era quella del rapporto tra fede e ragione. Il pensatore più influente del Medioevo, Agostino (354-430), aveva sostenuto che ragione e fede non potessero che essere inseparabili: “credo per capire, capisco per credere”. Lo studioso spagnolo musulmano Averroè (1126-1198) aveva invece reintrodotto nell’occidente cristiano il pensiero del filosofo greco pagano Aristotele, ed era giunto ad una conciliazione tra religione e filosofia. Egli sosteneva le due discipline perseguissero due strade diverse per raggiungere un stessa verità: la fede conduceva ad una verità religiosa indimostrabile ma non richiedeva difficoltà per capirla, mentre la ragione conduceva ad una realtà filosofica appannaggio dei pochi intellettuali in grado di capirla. Tuttavia le due verità infine coincidevano.

Tommaso d’Aquino fu erede del pensiero agostiniano come di quello averroista e della filosofia greca classica. Nell’affrontare il problema di ragione e fede, Tommaso elaborò una visione originale rispetto a quella di Averroè. Per San Tommaso, la fede cristiana conduceva ad una verità superiore a quella della ragione, ma la ragione non poteva essere in contrasto con la verità. In altre parole, ragione e fede possono proseguire di pari passo. Solo quando ragione e filosofia si mostrano inefficienti è il momento di cedere il passo alle sole fede e teologia. Tommaso opera in sostanza una rivalutazione della ragione e della filosofia, di cui la teologia era l’esempio più importante per via dei contenuti divini affrontati.

Il pensiero di Tommaso, il tomismo, fu centrale in tutti i secoli dominati dalla filosofia scolastica, al punto che fu proclamato santo già nel 1323. A partire dalla metà del Trecento, e ancor più man mano che veniva meno l’unità della Cristianità, gli ultimi uomini medievali mostrarono sempre più sfiducia verso la possibilità di unire fede e ragione, e il pensiero dell’Aquinate fu spesso trascurato. Con l’età moderna e la riforma protestante assisteremo invece ad un Martin Lutero che condannava le tesi tomistiche e ad una Chiesa cattolica che lo proclamò dottore della Chiesa nel 1567. La fine dell’evo moderno e l’avvento della contemporaneità videro cessare l’odio tra protestanti e cattolici e lo sviluppo del pensiero scientifico e dell’inchiesta razionale. Con essi rinacque un interesse per il pensiero tomistico che perdura tutt’oggi, nel pensiero scientifico come in quello più ortodosso.

San Tommaso ebbe anche il privilegio di essere annoverato da Dante Alighieri tra gli spiriti sapienti nel quarto cerchio del Paradiso. Tutta la struttura dottrinale della Divina Commedia poggia infatti sul pensiero dell’Aquinate.

Umberto Mistruzzi

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Nietzsche e Mann: una rottura tra epoche, una rottura dell’artista

La florida stagione del Romanticismo tedesco, da Goethe in poi, aveva visto formarsi un’unità tra pubblico letterato e borghesia. Alla metà dell’Ottocento l’arrivo della modernità e il tramonto dei vecchi movimenti artistici portrono alla fine di questa armonica unicità. In Germania lo stacco fu particolarmente sentito, e s’individuò come punto di rottura la fondazione dell’Impero Tedesco nel 1871, cui seguì un grande sviluppo economico ed una cultura di massa.

Il filosofo tedesco Friederich Nietzsche (1844-1900) fu autore di una delle più influenti critiche al mondo culturale a lui contemporaneo. Egli descrisse la cultura moderna come una décadence in cui l’arte si è separata dalla vita e il pubblico dallo scrittore. La modernità ha portato all’eclettismo, al predominio dei principi di utilità e di guadagno, al legame tra opera d’arte e pubblico di massa. L’arte era stata una più che degna occupazione degli spiriti elevati, ora diventava uno svago cui potevano dedicarsi solo gli uomini laboriosi con l’energia rimasta dal lavoro vero e proprio o individui pigri e oziosi senza scrupoli di coscienza per l’improduttività della loro vita. Per sopravvivere, la grande arte dovette camuffarsi da mezzo consumo e di intrattenimento: l’artista si trovò trasformato in demagogo, l’arte in strumento di seduzione delle masse. Nietzsche individuò come elementi chiave di questo nuovo corso il ruolo di spicco che ricoprivano gli attori, le cui pretese artistiche erano considerate vanesie e infantili dal filosofo tedesco, e l’enorme successo del compositore Richard Wagner (1813-1883), precedentemente ammirato dal giovane Nietzsche e poi ridimensionato a presuntuoso affabulatore di masse. Questa era la visione nietzschiana della società moderna: artisti sviliti e masse bisognose di piccola arte per evadere dal malessere della vita come un drogato in cerca di droga.

Thomas Mann (1875-1955), premio Nobel per la letteratura nel 1929, fu uno degli infiniti eredi del pensiero di Nietzsche, elaborandolo in maniera originale nella sua opera giovanile. Scrittore di estrazione borghese, Mann si vedeva come un artista che non concedeva nulla alla demagogia ma che allo stesso tempo aveva la consapevolezza di essere, come lo era stato Wagner, sedotto dal bisogno di attrarre a sé anche “la grande massa dei semplici” e non solo un ristretto pubblico colto. Mann si sentiva dunque diviso tra due mondi senza appartenere intimamente a nessuno di essi. Se nel suo monumentale romanzo I Buddenbrook (1901) la figura del borghese veniva utilizzata in un’ottica realistica e critica, nel breve (ma non meno importante) racconto Tonio Kröger (1903) il protagonista, dai forti connotati autobiografici, a partire dall’estrazione sociale, ammira una figura ideale e utopica di borghesia. Egli avrà sempre ammirazione per Hans Hansen, amico d’infanzia appassionato di libri illustrati sui cavalli e indifferente di fronte al Don Carlos di Schiller, e per la bionda Ingeborg Holm, amore di gioventù che si era accorta dell’esistenza di Tonio solo nel momento in cui il ragazzo, presente controvoglia a una lezione di danza, commise un ridicolo errore di fronte a tutta la classe. Il Kröger di Mann è nell’animo un escluso, ma egli ama coloro cui sente di non appartenere. Mann e il suo Kröger infatti non sono artisti decadenti attirati dall’eccezionale e dallo straordinario come poteva esserlo un D’Annunzio: essi amano la vita normale e le cose semplici. Il poeta Tonio Kröger è la figura di artista con scrupoli di coscienza per la propria vita improduttiva di cui parlava Nietzsche, la persona che “non ha bisogno dello spirito”, non viene additata altezzosamente come mente semplice bensì rimpianto come un “paradiso perduto”.

Tonio Kröger non è solo un racconto struggente, è anche l’istantanea di un periodo storico di cui siamo tutti figli.

Umberto Mistruzzi

Il rinascimento: un’epoca nuova

I presupposti per la nascita dell’umanista rinascimentale ebbero origine nella civiltà urbana e borghese formatasi nel processo di ripopolamento delle città nel Due e Trecento. Questa borghesia cittadina si dimostrò particolarmente vivace in Italia, dove si stava affermando la forma di governo del Comune cittadino a differenza degli altri Paesi europei, in cui l’affermazione delle monarchie poneva le basi degli Stati nazionali moderni.

L’intellettuale urbano dell’epoca comunale era tuttavia una figura ancora molto diversa dall’uomo rinascimentale. Se la vita quotidiana rispecchiava già una mentalità pratica e borghese (è il periodo in cui commercio e l’iniziativa privata conobbero uno sviluppo vertiginoso), la vita interiore era invece ancora intimamente legata ai precetti della Chiesa che avevano regolato il pieno Medioevo. Non è un caso se nella grande letteratura dell’epoca, si pensi a Petrarca, Boccaccio o Jacopone da Todi, troviamo così spesso racconti di conversioni o descrizioni delle lotte interiori, delle pulsioni contrastanti, delle contraddizioni morali dell’autore.

Il Rinascimento fu invece un’età di rottura rispetto al Medioevo, e i suoi protagonisti apparvero come delle figure nuove. Lo studioso medievale aveva una visione decentrata del mondo, con Dio al centro dell’universo, Gerusalemme al centro del mondo e la Roma imperiale cristiana al centro della storia. L’umanista rinascimentale si pose in esplicita e consapevole rottura con la tradizione medievale, e chiamò la propria epoca Rinascimento per rimarcare la differenza verso i secoli precedenti, che divennero appunto un’età di mezzo tra l’antichità classica e la rinascita della cultura. S’inaugurò così un forte pregiudizio verso la cultura medievale, vista come oscura e arretrata e caratterizzata generalmente da un senso estetico grezzo e barbarico (o, come si diceva allora, “gotico”), destinato a durare per tutta l’età moderna. Se lo studioso medievale aveva avuto una concezione contemplativa del mondo, una visione statica dell’uomo ed una percezione pessimista della storia, l’uomo medievale poneva invece sé stesso al centro dell’attenzione (e infatti si parla di umanesimo) e rivendicava la legittimità dell’interesse colto verso gli aspetti pratici della vita. Gli umanisti però ereditarono dal pensiero medievale l’idea di superiorità indiscussa dell’antichità classica, il cui primato non sarà mai messo in discussione: non a caso si parla di Rinascimento dei fasti della classicità, non di fondazione di una cultura nuova.

Umberto Mistruzzi

Anselmo e l’esistenza di Dio: tra realtà e Intelletto

I primi secoli del Medioevo furono per l’Occidente cristiano un periodo di tumultuosi mutamenti politici e sociali, non certo l’ambiente più adatto per la speculazione filosofica.

La ripresa del fervore culturale si ebbe a partire dal IX secolo, con la nascita dell’Impero di Carlo Magno. L’obiettivo del sovrano franco di riunire la cristianità sotto l’autorità dell’Imperatore e della Chiesa era perseguito con la spada ma anche con il libro: fornire un panorama culturale comune alle genti riunite nell’impero ispirandosi alla Roma di Costantino I. È perciò grazie al patrocinio della corona che poté nascere la schola palatina ad Aquisgrana: un gruppo d’intellettuali che diede forma a quella che sarà la cultura e la filosofia del Medioevo centrale, che sarà perciò chiamata Scolastica e che sopravviverà di secoli all’effimera esperienza dell’impero carolingio.

Una delle figure più interessanti della Scolastica è quella di Sant’Anselmo. Nato ad Aosta nel 1033 da nobile famiglia, fu frate benedettino e attraversò diverse abbazie fino a diventare nel 1079 abate del monastero di Bec, in Normandia, e infine arcivescovo di Canterbury nel 1093, sotto il regno del re normanno d’Inghilterra Guglielmo II il Rosso, figlio di Guglielmo il Conquistatore. Anselmo aveva fama di essere più uomo di pensiero che di potere, guadagnandosi spesso la simpatia popolare. Una volta ottenuto l’arcivescovado, egli divenne tuttavia un difensore della riforma gregoriana, nata nel 1046 con l’intento di ripristinare l’antica purezza della Chiesa di Roma (il X secolo era stato un tale periodo di corruzione da essere definito saeculum obscurum negli Annali Ecclesiastici), e i cui obiettivi principali erano l’affermazione del potere papale su quello dei vescovi e del potere ecclesiastico su quello civile. Mentre il papa si scontrava quindi con l’imperatore, Anselmo entrò in attrito con il re d’Inghilterra, e fu costretto due volte all’esilio, da Guglielmo II e dal suo successore Enrico II Beauclerc. Riappacificatosi con re Enrico, Anselmo si reinsediò a Canterbury e mantenne la carica fino alla morte, nel 1109.

Il pensiero di Anselmo fornisce un buon ritratto del panorama culturale del Medioevo centrale: un erede del neoplatonismo di Agostino e dei commenti aristotelici di Boezio che presenta però molti aspetti innovativi, introducendo dibattiti tutt’ora sentiti, come il rapporto tra ragione e fede. Anselmo riservava molta attenzione al ruolo della ragione. Secondo il santo, il fondamento di ogni sapere è ancora individuato nella fede (credo ut intelligam), ma la ragione diviene uno strumento essenziale per comprendere i dogmi della fede.

Nel Monologion (1076), Anselmo dimostra a posteriori l’esistenza di Dio. Nel mondo vi sono molte cose buone: nessuna di queste è buona in assoluto e ognuna di esse presuppone un bene assoluto da cui traggano il loro grado di bontà. Questo bene assoluto è Dio. Lo stesso ragionamento si può applicare ad ogni valore: nulla è perfetto e tutto presuppone l’esistenza di una somma perfezione, di Dio.

Nel Proslogion (1078), l’esistenza di Dio è invece dimostrata a priori. Per Anselmo ognuno, anche lo stolto «che disse in cuor suo: Dio non c’è», ha il concetto di Dio. Ma il concetto di Dio è il concetto di un essere di cui non si può pensare nulla di maggiore. Ed è impossibile che un tale Essere esista solo nell’intelletto e non nella realtà: se esistesse solo nell’intelletto, allora sarebbe possibile pensare qualcosa di maggiore, cioè che esista anche nella realtà. L’argomento si fonda sul presupposto che ciò che esiste nella realtà è “maggiore” di ciò che risiede nel puro intelletto.

Le argomentazioni di Anselmo furono oggetto di dibattito già tra i suoi contemporanei. Molti pensatori medievali e moderni, fino a Cartesio, Spinoza e Hegel considerarono valido il ragionamento dell’abate di Bec. Ma intanto già Gaunilo di Marmoutiers si era rivolto al suo contemporaneo Anselmo sostenendo che dimostrare qualcosa sul piano del pensiero non significa dimostrarne l’esistenza: dalla possibilità logica non deriva la realtà. Altri che non accolsero le dimostrazioni di Anselmo furono Kant e Tommaso d’Aquino.

L’obiezione di San Tommaso (1225-1275) è quella forse più importante, perché su di essa si baserà la linea ufficiale della Chiesa: per l’Aquinate l’argomentazione anselmiana è valida solo se si presuppone già l’esistenza di Dio, che va dunque presupposta per sola fede.

 

Umberto Mistruzzi

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La Storia come una linea

Tra le caratteristiche più evidenti del pensiero occidentale vi è la tendenza a concepire la Storia come una linea retta, una freccia diretta verso lo sviluppo o verso la decadenza. Nell’Ottocento i popoli giudicati inferiori venivano chiamati “senza storia”. Oggi invece si discute se il progresso, che sia tecnologico, economico o sociale, possa continuare all’infinito o sia destinato prima o poi a calare. È un’idea derivata dalla Bibbia, ma la grande diffusione di questa idea è dovuta in gran parte ad una figura il cui pensiero ha influenzato profondamente il pensiero occidentale, e non solo nell’ambito religioso.

Stiamo parlando di Sant’Agostino, nato nel 354 a Tagaste, nell’odierna Algeria, e morto nella vicina Ippona nel 430. Vescovo d’Ippona, Aurelio Agostino fu il maggiore tra i padri della Chiesa e l’ultimo grande scrittore dell’antichità latina: a lui seguiranno poche grandi figure, si pensi a Boezio, prima di un lungo periodo d’inerzia culturale che durerà sino alla metà del Medioevo, con la nascita della filosofia Scolastica.

Qui ci occuperemo di Agostino solo di un aspetto tra i tanti: come, in un’epoca densa di avvenimenti storici, egli scrisse il libro che influenzò in maniera decisiva la concezione occidentale della Storia.

Il sacco di Roma del 410 ad opera dei Visigoti aveva avuto un’eco sconvolgente: era da ottocento anni che l’Urbe non veniva saccheggiata, e la disperazione dilagò tra i cittadini dell’impero. I pagani videro nel disastro la naturale conseguenza dell’adesione al cristianesimo a scapito di quella religione tradizionale che aveva reso grande l’impero. È per rispondere a queste accuse che Agostino iniziò a scrivere la sua fatica maggiore: La città di Dio. Nell’opera la Storia è divisa in sei ere: l’ultima, quella in cui viviamo, va dalla venuta di Cristo fino al suo ritorno ed alla fine del mondo. È una visione derivata dalla Bibbia e quindi sul popolo d’Israele. Roma vi appare solo come una Babilonia d’Occidente: da un lato strumento della

Provvidenza per costruire un impero che riunisse le genti, dall’altro una città empia e pagana funestata più volte dalla collera di Dio prima che si diffondesse il cristianesimo. Questo però è forse l’aspetto meno interessante de La città di Dio, la cui importanza va ben oltre la semplice apologia.

Agostino infatti era un pensatore con una sensibilità unica per l’epoca verso l’introspezione: a ciò è dovuta la fortuna del suo primo capolavoro, le Confessioni, che qui dovremo trascurare. Ne La città di Dio invece Agostino inizia trattando l’animo dell’uomo singolo e da lì giunge a parlare di tutti gli uomini. Così come l’individuo singolo deve decidere se vivere secondo la carne o secondo lo spirito, così la storia dell’umanità è una lotta tra la città terrena, regno del diavolo, e la città celeste, regno di Dio. Sia la vita dell’uomo sia la storia di tutti gli uomini sono un’eterna lotta tra l’amore per se stessi e l’amore per Dio, tra il desiderio di sottomettere gli altri e la volontà di sottomettersi a Dio. All’inizio vi è solo il mondo terreno, che in quanto tale è malvagio: in seguito l’uomo può redimersi dal peccato e l’umanità può conoscere la parola di Dio, accedendo così al mondo celeste. Nessuna delle due città ha mai la supremazia sull’altra, e così sarà fino all’apocalisse, quando Dio giudicherà i beati ed i peccatori ed il regno divino sarà compiuto.

Le due città di cui parla Agostino sono da intendersi in senso mistico, ma molti lettori interpretarono la dottrina delle due città identificando i doveri dei principi della Terra (che fino alla rivoluzione francese regneranno sempre “per grazia di Dio”) come doveri verso l’Altissimo: da qui la necessità per l’uomo d’imitare il regno di Dio. Nell’alto medioevo quest’aspirazione al regno celeste era un incentivo alla vita monastica ed al rifiuto del mondo terreno. Nel IX secolo il progetto imperiale di Carlo Magno, poi rivelatosi effimero, sarà salutato come un primo passo per la creazione del regno di Dio in Terra. Lo stesso accadrà un secolo dopo con gli imperatori Ottoniani. Si rifaceva ad Agostino anche chi, al contrario, vedeva il potere imperiale come una minaccia all’autorità papale: costoro vedevano lo Stato dei re come la città terrena del peccato e la Chiesa come la città celeste di Dio. È bene ricordare che la mentalità medievale salutava con sospetto ogni novità, e che le aspirazioni dei Sacri Romani Imperatori erano bene accolte solo in quanto ricostruzione dell’impero di Roma antica. Ogni cambiamento ammissibile era quello che si rifaceva al passato: la linea della storia era una linea discendente, una decadenza dal paradiso terrestre al giorno del giudizio.

Come già accennato, è proprio la concezione lineare della storia la grande novità introdotta ne La città di Dio. Agostino per primo elaborò compiutamente la visione cristiana del mondo: la Storia era concepita come una linea, opponendosi ai filosofi Greci per cui la storia è un circolo in cui l’accadere umano e naturale si ripetono periodicamente. Per Agostino c’è un’unica Storia di tutta l’umanità, una linea dotata di direzione, significato e scopo subordinata ad un disegno divino complessivo.

L’idea di una Storia lineare, con la Provvidenza come motore e principio unificatore, divenne predominante in tutto il mondo cristiano. Anche in ambito laico, senza implicare la presenza di Dio, ogni visione lineare della storia è ancora oggi in qualche modo debitrice delle idee di Agostino. Il pensiero moderno ereditò anch’esso questa visione: si pensi ai grandi filosofi che elaborarono grandi sistemi in cui lo Spirito, le Nazioni o le Classi fungono da principi unificatori di una Storia che punta verso una direzione precisa.

Con Sant’Agostino il pensiero cristiano giunse alla maturità. Negli ultimi anni di vita, Agostino fu impegnato nel dirimere la controversia con gli eretici ariani e a tentare di placare la rivolta del conte Bonifacio contro l’imperatrice Galla Placidia, per risparmiare ulteriori sofferenze alla gente d’Africa. Quando Bonifacio si riconciliò con l’imperatrice e si trasferì in Italia (dove la guerra civile riprese poco dopo), lasciò in Africa i Vandali che aveva chiamato in suo aiuto dalla Spagna. I Vandali ne approfittarono per conquistare l’intera provincia d’Africa e creare un loro regno, e Agostino morirà di malattia durante l’assedio d’Ippona.

I pochi filosofi cristiani che seguirono nei secoli successivi saranno grandi debitori del pensiero agostiniano. Con la ripresa del fervore culturale il pensiero di Agostino non avrà più la centralità che aveva avuto in passato, ma non cessò mai d’influenzare la teologia come la filosofia laica almeno fino all’Ottocento.

Bibliografia:

Protagonisti e testi della filosofia, N. Abbagnano, S. Fornero. Paravia, 2000
Monaci e popolo nell’Europa Medievale, L. Milis. Einaudi, 2003

Umberto Mistruzzi

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La nascita del Cristianesimo e la filosofia: novità e continuità con la tradizione antica

I primi secoli del Cristianesimo videro la progressiva diffusione di questa religione nei territori dell’Impero Romano. In quest’epoca Roma aveva già fatto proprio il pensiero dell’ellenismo greco, fiorito in quell’Oriente in cui s’incontravano dottrine così diverse come la filosofia classica, lo gnosticismo, l’ebraismo e, attraverso la Persia, echi del mazdeismo e della cultura buddista. La Parola di Cristo si presentò da subito come un ampliamento della tradizione ebraica, aperto a chiunque e non solo al popolo eletto. Tuttavia c’era da affrontare l’obbligatorio confronto con l’enorme tradizione della cultura classica pagana.

Il credo cristiano è basato sull’accettazione di una rivelazione, una verità superiore che viene assunta per fede. Questa rivelazione ha valore in quanto tale, poiché è testimonianza di Dio. Una filosofia intesa come ricerca di verità non sembra dunque accordarsi con il pensiero cristiano.

I dottori cristiani però non rifiutarono all’unanimità la filosofia classica. Essi avevano altri compiti oltre diffondere il Verbo. Era necessario carpire il significato più intimo della verità rivelata ed il metodo per avvicinarsi il più possibile ad essa. Inoltre bisognava decidere se inserire il pensiero cristiano nel solco della tradizione antica o presentarsi come elemento di novità assoluta. Intanto bisognava difendersi nel continuo dibattito contro le altre dottrine, il tutto mentre si susseguivano sanguinose persecuzioni. In seguito, a partire dal terzo secolo, i padri della Chiesa dovettero formulare una dottrina salda e coerente da contrapporre alle numerose eresie che minavano l’unità della comunità religiosa.

In tutte queste missioni, lo strumento prediletto non poté che essere la filosofia.

La filosofia cristiana dei primi secoli è detta Patristica; i suoi esponenti di spicco, quando non sono stati condannati come eresiarchi, sono venerati come Padri della Chiesa. Nei primi tre secoli dell’era volgare, i pensatori cristiani furono occupati in continui dibattiti con i sapienti pagani, giudei e gnostici. In questo dialogo, l’approccio alla filosofia fu essenziale.

Fu soprattutto nell’Oriente greco che i Padri ricorsero alla filosofia classica per interpretare il Vangelo, sforzandosi d’interpretare il pensiero pagano come un’anticipazione della rivelazione cristiana. Apologisti come Giustino Martire (100-163/168) sostennero che la dottrina cristiana completava gli insegnamenti del Vecchio Testamento ed era una vera e propria filosofia, l’unica sicura ed utile e la sola alla quale la ragione deve giungere. Il tentativo di presentarsi come eredi della filosofia pagana si palesava anche nella visione per cui gli antichi più virtuosi erano stati dei cristiani ante litteram. Sapienti come Socrate e profeti come Abramo avevano dunque intuito parte della verità, ma senza la Parola di Cristo non l’avevano potuta conoscere appieno.

Nell’Occidente latino invece la questione filosofica è inizialmente meno sentita. Non a caso uno degli scrittori cristiani di spicco è proprio Quinto Settimio Florente Tertulliano (155/160-230/240), che si preoccupò di sostenere l’originalità del messaggio cristiano rispetto al pensiero pagano e di esaltare la natura spontanea e immediata della fede a scapito della speculazione filosofica. La tradizione ecclesiastica è per Tertulliano l’unica base della verità: le filosofie e la ricerca personale, anche se alimentate dalla fede, non possono che condurre all’eresia. Abilissimo scrittore e personaggio inquieto e polemico, Tertulliano aderì progressivamente ad un rigorismo sessuofobo e misogino, quindi abbracciò la setta dei Montanisti, condannata come eretica, e fondò infine egli stesso la setta dei Tertullianisti, motivo per cui non viene annoverato nell’elenco dei Padri.

Dal terzo secolo alla dissoluzione dell’Impero d’Occidente nel 476, l’impegno dei Padri della Chiesa si volse all’elaborazione dottrinale del Cristianesimo. Gli imperatori Costantino e Licinio promulgarono nel 313 l’Editto di Milano, che concesse libertà di culto a tutti i cittadini, Teodosio dichiarò infine il Cristianesimo unica religione dell’Impero nel 380 a Tessalonica. Il lavoro degli ecclesiastici non fu più volto quindi all’apologia ma all’elaborazione di un credo solido per unificare la comunità dei fedeli. Questo lavoro fu essenziale per garantire la solidità della Chiesa, che rimase l’unica struttura solida ed organizzata dopo il collasso politico che segna l’inizio del Medioevo. Momento culminante di questo periodo fu il Concilio di Nicea del 325, presieduto dallo stesso Costantino, in cui si stabilì un credo unitario da contrapporre alle eresie e si dichiarò definitivamente che il Cristianesimo non era una dottrina contraria alla filosofia bensì una dottrina che portava alla conoscenza.

Fede e ragione non erano dunque in contrapposizione, ma strettamente legate, sebbene la seconda dovesse comunque sottostare alla prima. Questa rivalutazione della ricerca filosofica sarà alla base di tutta la filosofia medievale, e la speculazione individuale sarà il motore fondante del pensiero del primo grande filosofo cristiano: Sant’Agostino. Ma questa è un’altra storia.

Umberto Mistruzzi

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Louis-Ferdinand Céline, un nichilista? Viaggio al termine della notte: ritratto di un’epoca

 

La nostra vita è come il viaggio di un viandante nella notte; ognuno ha sul suo cammino qualcosa che gli dà pena.

Canzone delle guardie svizzere, 1793

 

«Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario: ecco la sua forza, va dalla vita alla morte. Uomini, bestie, città e cose, è tutto inventato. È un romanzo, nient’altro che una storia fittizia.»

Incipit del Viaggio al termine della notte, citato all’inizio del film La grande bellezza

Louis Ferdinand Céline (1894-1961) è stato uno scrittore francese, uno dei più controversi personaggi della letteratura del XX secolo ma anche uno dei più ammirati ed influenti.

Di professione medico, Louis Destouches assunse lo pseudonimo letterario di Céline ed esordì nel 1932 con il romanzo Viaggio al termine della notte, tuttora la sua opera più famosa. Il romanzo fu oggetto di attenzione e dibattito già al momento della sua pubblicazione, dividendo trasversalmente i lettori di ogni schieramento. Vi fu chi lo salutò come una rivelazione letteraria di prim’ordine e chi lo giudicava una sorta di parodia del maledettismo, un nichilista anarchico e disfattista. Il romanzo, chiamato in breve Voyage, è la storia di Ferdinand Bardamu, alter-ego dell’autore, dall’intervento nella Prima Guerra Mondiale nel 1914 fino ai primissimi anni ’30. Nel Voyage è spesso impossibile capire quali elementi siano tratti dalla vita del dottor Destouches e quali invece siano frutto d’invenzione. In questa sede potremmo solo soffermarci brevemente su due aspetti: sul valore della descrizione storica della sua epoca che Céline ci offre sulla nomea di nichilista che l’autore si è spesso attirato. Dovremmo purtroppo trascurare del tutto il valore strettamente letterario dell’opera, che pure è enorme: considerate dunque quanto segue non una vera analisi della vita e dell’opera di Céline, unite in maniera inscindibile, ma come un invito ad approfondire la figura di questo scontroso medico parigino.

Il Viaggio al termine della notte è la narrazione in prima persona della vita del dottor Bardamu, il racconto di quindici anni di vita in una lingua veloce e vorticosa, tanto sboccata e vicina al parlato quanto frutto di grande abilità letteraria. Nelle parole del narratore vengono in discussione tutte le fondamenta del ventesimo secolo. Nella Grande Guerra non vi sono soldati eroici, ma uomini che tentano di sopravvivere in un massacro di cui non capiscono né il motivo né l’utilità. Il colonialismo traspare come uno sfruttamento sistematico di popolazioni indigene dagli usi incomprensibili da parte di europei abbrutiti ed incattiviti. L’espansione delle città nelle campagne appare un contrasto tra due mondi opposti, le nascenti grandi industrie di Detroit sono un mondo alienante, l’ambiente medico ed accademico è pervaso da rivalità ed arrivismo. Ciò che più appare evidente in questo ritratto di un’epoca è però la critica al sistema sociale vigente, che abbandona i più sfortunati al loro destino di povertà. Quella povertà che sia l’uomo Céline sia il personaggio Bardamu vedevano come un’orrenda malattia e che conobbero loro stessi, offrendo assistenza medica anche a tutti coloro che non potevano permettersi di pagare il servizio. Nell’affrontare i grandi miti del Novecento Céline non diventa mai partigiano di una certa parte né si adagia su posizioni di comodo. All’orrore della guerra non segue una dichiarazione di pacifismo. La giungla africana è un posto selvaggio come la metropoli di New York, la severa critica al colonialismo non cede mai il passo ad un retorico elogio del “buon selvaggio”, alla disumanità della realtà industriale non corrisponde una nostalgia del mondo rurale, meschinità ed ipocrisia affiorano tra i ricchi come tra i poveri. Una vorticosa e pessimista descrizione delle brutture della vita e del mondo, in cui però affiorano timidi ed inaspettati momenti di autentica commozione e generosità, specialmente da parte dei reietti, gli ultimi della società. Nemmeno questi ultimi sono però oggetti d’idealizazione: Céline era infatti convinto che un eventuale riscatto delle classi più umili non potesse partire da esse, e tale convinzione gli alienò da subito la simpatia di molti critici.

Il Voyage non è un banale elenco di blasfemie, ingiustizie ed amoralità. Come egli stesso ammise, l’intento di Céline era quello di esprimere i sentimenti che un uomo può sentire ma non può confessare. E i sentimenti che traspaiono nel Voyage non sono quelli di una persona che ha realizzato il vuoto della vita si è abbandonato al nichilismo più crudo convinto dell’inutilità dell’esistere. Céline ci mostra invece i sentimenti di un uomo con un’altissima concezione della vita e degli esseri umani, e che proprio per questo non tollera le bassezze morali cui ogni uomo, di ogni estrazione ed egli stesso compreso, è dedito. Alla luce di ciò è facile mettere in discussione l’idea di Céline come nichilista. Se si mette in discussione ogni principio morale ed il valore stesso della vita allora si rifiuta inevitabilmente anche il mondo in cui si vive. Céline invece, senza apparentemente aderire a nessun credo, si dedica a smontare i falsi miti della società e a porre in evidenza le insanabili contraddizioni del mondo, non a respingere acriticamente ogni cosa.

Purtroppo il valore del pensiero e della letteratura di Céline sono stati a lungo tempo oscurati dalla nomea di nazista che lo scrittore si attirò dopo aver pubblicato, alla fine degli anni ’30, alcuni pamphlet dichiaratamente antisemiti. Opere che appaiono ancora più incomprensibili da parte di uno scrittore di tal valore, pregne di un antisemitismo ben distinto dal nazismo ma che rasenta il farsesco, toccando il complottismo più ingenuo e la pseudo-scienza più cialtrona. Con la Seconda Guerra Mondiale, Céline riparò presso il governo filo-tedesco di Vichy, dove non ebbe però incarichi. Alla fine della guerra il dottore fuggì in Danimarca temendo l’accusa di collaborazionismo, ma fu presto arrestato e rimpatriato. Céline fu scarcerato nel 1951, ma la sua figura era ormai irrimediabilmente compromessa, ed il dottor Destouches pagò i suoi errori vivendo in disparte ed in oblio gli ultimi dieci anni di vita. Difficile esprimersi sull’antisemitismo di Céline, tutt’ora oggetto d’incertezza e d’indecisione. Alcuni ridimensionano il razzismo celiniano fino a considerarlo solo un’espressione dell’antisemitismo che in Francia fu serpeggiante fino alla seconda guerra mondiale, e la colpa dello scrittore sarebbe stata l’averlo ammesso apertamente. Altri evidenziano come tale pregiudizio non avesse nello scrittore nessun fondamento religioso o razziale, ma che egli avesse semplicisticamente identificato negli ebrei la grande borghesia arricchita. Già all’epoca della loro uscita questi pamphlet suscitarono sconforto nella critica di sinistra e dubbi in quella di destra: in molti lo accusarono di nazismo o di opportunismo e solo in pochi, come André Gide, reputarono i tre libri un gioco “letterario” cui l’autore stesso non credeva.

Bisogna sempre distinguere tra un uomo ed il suo lavoro, anche quando vita ed opera sono strettamente intrecciate e confuse come in Céline. Ma come è discussa la figura di Céline, così è indiscutibile il valore dei suoi libri. Prendete questa pagina come un piccolo invito a leggere il Viaggio al termine della notte.

«Così finiscono i nostri segreti quando li esponi all’aria e in pubblico. Di terribile in noi e sulla terra e in cielo c’è solo quello che non è stato ancora detto. Saremo tranquilli solo quando tutto sarà stato detto, una volta per tutte, allora finalmente faremo silenzio e non avremo più paura di stare zitti. Ci saremo.»

Louis-Ferdinand Céline

«…perché ti piace Céline? Perché si è tolto fuori le viscere e ci ha riso sopra. un uomo molto coraggioso. Perché è importante il coraggio? È una questione di stile. l’unica cosa che ci è rimasta.»

Charles Bukowski

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Umberto Mistruzzi

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Saggezza o giustizia? Carneade e lo scetticismo

 

Carneade! Chi era costui?» ruminava tra sé don Abbondio seduto sul suo seggiolone, in una stanza del piano superiore, con un libricciolo aperto davanti (…) «Carneade! questo nome mi par bene d’averlo letto o sentito; doveva essere un uomo di studio, un letteratone del tempo antico: è un nome di quelli; ma chi diavolo era costui?» Alessandro Manzoni, “I promessi sposi”, cap. VIII

Carneade (214-129 a.C.) è stato un filosofo greco antico nativo di Cirene, in Libia. Molto noto nel suo tempo, è una delle figure più rappresentative della corrente di pensiero scettica. Oggi ci è familiare soprattutto grazie al Manzoni, che ne I promessi sposi ha reso il nome del filosofo sinonimo di illustre sconosciuto.

La filosofia scettica era nata con Pirrone (365-275 circa), pensatore giunto sino in India al seguito di Alessandro Magno. Egli per primo sostenne l’impossibilità umana di conoscere una verità sempre contingente e mutevole. Non ci sono cose vere o false, belle o brutte, giuste o sbagliate in sé: sono solo i costumi e le convenzioni degli uomini a rendere le cose buone o cattive. I suoi successori affermeranno che il saggio dovrebbe perciò sospendere ogni giudizio (epoché) e non pronunciarsi su nulla (afasia). L’uomo non può accedere alla verità ultima delle cose: la più alta forma d’intelligenza consiste nel riconoscere questo fatto. Dimostrazione di ciò è la molteplicità di filosofie opposte in lotta fra loro e di diverse visioni del mondo diffuse tra gli uomini. Il saggio deve dunque riconoscere come inadeguate tutte le filosofie, parimenti convinte di detenere la verità sulla natura dell’universo e la chiave per ottenere la serenità d’animo. Lo scetticismo non nega la verità dei fenomeni, ma ritiene impossibile conoscere la loro genuina essenza. In questa visione del mondo priva di certezze, la vita dello scettico non è una fuga dal mondo: è come quella di tutti gli altri uomini, con la differenza che lo scettico vive con la consapevolezza che si tratta di uno stile di vita convenzionale (è il caso di Pirrone) o assumendo che sia il modo di vivere più ragionevole (ed è il caso di Carneade).

Alla breve esperienza della scuola di Pirrone succedette la media Accademia, composta da oscuri personaggi influenzati dal pensiero di Platone. La nuova Accademia ebbe a capo il nostro Carneade. Nonostante negasse l’esistenza di una provvidenza divina e di una razionalità nelle credenze religiose, il pensiero di Carneade appare meno radicale di quello dei suoi predecessori. Se stabilire un criterio di verità è ancora ritenuto impossibile, si può tuttavia stabilire un criterio di probabilità che consente di scegliere certe opinioni come più plausibili di altre. Carneade divenne celebre nel 155 a.C., quando prese parte all’ambasceria ateniese inviata a Roma. Inizialmente applaudito per un suo appassionato discorso in lode della giustizia come legge universale e base della vita civile, Carneade destò scalpore pochi giorni dopo, quando in un altro discorso affermò che la giustizia variava a seconda dei tempi e dei popoli e che spesso era in contrasto con la saggezza. Per creare ulteriore scandalo, Carneade spiegò quest’ultimo punto affermando che se i Romani avessero voluto essere giusti avrebbero dovuto restituire i loro possessi agli altri e tornarsene a casa in povertà. Ma in tal caso essi sarebbero stati stolti. Ecco perché saggezza e giustizia non vanno d’accordo.

 …la scienza è irraggiungibile, e all’uomo è preclusa la vera conoscenza delle cose. Di qui, il dilemma: o una scienza che ci trascende, o una opinione che è inferiore a noi. Il saggio non può che rifiutare ambo i termini di questa alternativa, poiché l’assenso e la fede sono per lui un male. Trattenere l’assenso non è umano, e senza adesione l’azione è impossibile.

E tu fòri! Ma addirittura da sta città! Tempo ventiquattr’ore devi lascià Roma! Perché non te capisco quanno parli!

Scipione l’Africano (Marcello Mastroianni) a Carneade (Adolfo Lastretti) da “Scipione detto anche l’africano”, Luigi Magni, 1971

Umberto Mistruzzi

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Federico II di Hohenzollern (1712-1786)

 
“Un principe è il primo servitore ed il primo magistrato dello Stato”

Federico II di Prussia è passato alla storia come esempio classico di “monarca illuminato”, in grado di operare efficacemente sia come uomo politico che come intellettuale.
Suo padre era re  Federico Guglielmo I, strenuo sostenitore dell’assolutismo che era riuscito a risanare l’economia e ad affermare la Prussia come potenza militare di prim’ordine abolendo ogni spesa inutile. Per il “re soldato” però anche la vita intellettuale e la cultura erano sterili forme di lusso, ed il giovane Federico, nato nel 1712, non ebbe vita facile con una così ingombrante figura paterna. Nel 1730, a diciotto anni, tentò persino di fuggire in Inghilterra. L’avventura terminò purtroppo in maniera tragica, con l’imprigionamento del principe e l’esecuzione del paggio che lo accompagnava per ordine di re Federico Guglielmo.
Federico divenne re alla morte del padre, nel 1740, e si distinse subito nell’arte che più lo avrebbe reso celebre: la guerra. Negli interminabili conflitti che insanguinarono il secolo XVIII, la piccola Prussia riuscì ad espandere notevolmente il proprio frammentato territorio, perlopiù a spese dell’Austria e degli altri Stati tedeschi.

In vita però re Federico oltre che come soldato fu celebre come economo e come uomo di cultura. In gioventù aveva studiato le opere degli scrittori classici e di filosofi come Cartesio, Locke e Leibniz. Nel 1739 scrisse l’Antimachiavelli, dove prendeva le posizioni della pace e del diritto naturale contro l’opportunismo politico, guadagnando così la stima del celebre illuminista francese Voltaire. Federico seppe conservare lungo tutto il suo regno la stima di filosofi illuministi come D’Alembert, pur non nascondendo la propria antipatia verso i pensatori più radicali, guadagnandosi la fama di sovrano illuminato. Intrattenne un’incessante corrispondenza con i più celebri illuministi e scrisse trattati di storiografia e di arte militare. Si dedicò anche alla musica, componendo e suonando il flauto. Durante una visita a Potsdam del sommo compositore Johann Sebastian Bach, il re propose al musicista d’improvvisare una fuga su un soggetto da lui stesso suggerito, che divenne in seguito l’Offerta Musicale.

La fama di monarca illuminato dell’Hohenzollern si dovette soprattutto però alle sue riforme. Nel 1763 infatti Federico II fu il primo sovrano ad introdurre l’istruzione elementare obbligatoria. In seguito promosse l’Accademia di Berlino fino a renderla uno dei principali e più moderni centri di studio d’Europa, in cui vigeva inoltre una completa libertà di opinione. Egli dimostrò infatti una tolleranza molto rara per l’epoca, ed ospitò volentieri cattolici, anche Gesuiti, ebrei ed atei all’interno del regno.

Notevoli furono anche le riforme giudiziarie, basate sullo Stato di diritto moderno, che introdussero la magistratura di carriera ed abolirono la tortura. Federico promosse anche lo sviluppo demografico del paese, la colonizzazione dei terreni incolti e lo sviluppo delle manifatture, sostenne lo sviluppo minerario e industriale e fu uno dei primi ad incoraggiare il consumo della patata nell’alimentazione umana.

Federico morì serenamente il 17 agosto 1786. La sua figura fu sempre più glorificata nei secoli successivi dal popolo tedesco, anche se più di qualcuno lo definiva un semplice despota. Oggi la fama del “vecchio Fritz” si è risollevata dal contraccolpo che aveva subito con il crollo del nazismo, che ne aveva sfruttato l’immagine a fini propagandistici. Per concludere basta una citazione del grande Thomas Mann, che si era molto interessato alla frattura tra uomo politico ed uomo di pensiero: “Era una vittima. Doveva agire ingiustamente e vivere contrariamente al pensiero; non gli fu concesso di essere un filosofo, ma dovette fare il re, perché un grande popolo compisse la sua missione nel mondo”.

Umberto Mistruzzi

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Il Positivismo

I cento anni che ci separano dall’inizio della prima guerra mondiale sono anche il secolo che ci divide da quella che può essere considerata la data di morte definitiva dell’Ottocento, il secolo nato con la rivoluzione francese. L’Ottocento fu infatti l’epoca del positivismo, corrente di pensiero nata nella prima metà del secolo che vedeva la scienza come una fonte di spiegazioni oggettive per ogni fenomeno naturale e sociale, e la storia come una crescita lineare verso il progresso e la ragione.

Questo orizzonte culturale ci appare oggi molto contraddittorio, il secolo XIX non fu solo quello che vide la caduta degli assolutismi monarchici, l’industrializzazione e la nascita del capitalismo: esso fu anche l’epoca del colonialismo sfrenato ed il periodo in cui nacquero il razzismo “scientifico” ed i nazionalismi che poi insanguinarono il Novecento. Non è un caso se in molti videro nel positivismo l’espressione ideologica con cui la borghesia capitalistica legittimava il proprio potere.

Filosofia e arte avevano già mostrato dagli anni ’60 dell’Ottocento questa sfiducia verso quelle che, già nel 1837, Leopardi aveva definito ironicamente “dell’umana gente le magnifiche sorti e progressive”. A partire da Baudelaire, simbolisti e decadentisti reagirono alla esaltazione della ragione e del progresso rifugiandosi in dimensioni fatte di pura estetica, nell’esplorazione del sogno e denunciando l’incapacità della scienza di penetrare nelle oscure profondità dell’animo umano.

In filosofia la critica più celebre agli eccessi della mentalità positivista è quella di Friedrich Nietzsche. Il pensatore tedesco fu tra i primi ad opporsi all’ideale di fiducia incrollabile nell’utilità della conoscenza e a biasimare coloro che si affidano con assoluta certezza alla scienza come se essa fosse una religione con i suoi dogmi. Egli, erede in questo del contemporaneo filosofo statunitense Ralph Waldo Emerson, affermò la necessità del prospettivismo, cioè di analizzare il mondo secondo  diverse prospettive, limitate e relative nello specifico ma preziose per una visione globale delle cose.

La fine del positivismo ottocentesco si ebbe con Freud, quando la scienza scoprì l’esistenza dell’inconscio nella psiche umana e l’uomo di scienza dovette accettare l’idea di non essere una creatura di pura ragione, e nelle trincee della Prima Guerra Mondiale, dove gli ideali incontrastati di progresso si scontrarono con la dura realtà delle cose.

Il Novecento ci ha insegnato il pericolo insito nella cieca fede al progresso e nelle istituzioni, oggi sembra invece affermarsi la tendenza opposta. L’alba del ventunesimo secolo vede diffondersi in molti una sfiducia acritica e sistematica verso le istituzioni ed il sapere, spesso accomunate arbitrariamente come dei non ben definiti “poteri forti”, oscuri ed invincibili enti asserviti unicamente al capitale ed alla menzogna.

La storia e la filosofia ci insegnano però che, insieme al valore ed alla necessità di dubitare, è necessaria anche una certa fiducia nello sviluppo della scienza e del sapere umani. Fiducia che deve essere sempre messe al vaglio dell’etica: coloro che si dedicano alla scienza, alla filosofia ed alle lettere non devono mai credersi in pace, ma possono, e devono, porre costantemente in dubbio ciò in cui credono senza però cadere nello scetticismo sistematico. Come non è vero che il passare del tempo è una gloriosa ascesa del progresso, così non tutto è destinato a rimanere sempre uguale senza che nulla possa cambiare.

Dubbio e fiducia sono due facce di una stessa medaglia posta in mezzo ai due estremi che sono la sfiducia sistematica e l’accettazione fideistica. E, come diceva già Aristotele, la virtù sta nel mezzo.

Umberto Mistruzzi 

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