“Black Mirror”: la rivoluzione di “Bandersnatch”

Alla fine dell’anno scorso è cominciata una piccola rivoluzione nel mondo della cultura e dell’intrattenimento. Perché “piccola”? Perché ognuno di noi è talmente subissato di contenuti – dai post nei social media alle serie tivù nelle piattaforme di streaming -, che facciamo perfino fatica ad accorgerci di prodotti che cambiano il mondo.

Questa rivoluzione si chiama Bandersnatch e, a proposito di serialità, è il film di Black Mirror, serie che parla degli effetti distopici della tecnologia. Il protagonista è Stefan Butler, un giovane programmatore che vuole creare un videogioco il cui svolgimento dipenda dalle scelte fatte dal giocatore. Quest’ultimo, però, non è l’unico che deve scegliere, poiché allo spettatore di Bandersnatch è chiesto di decidere quali azioni debba compiere Stefan: cereali Sugar Puffs o Frosties? Assumere gli psicofarmaci o buttarli via?

Al lettore che non ha visto il film, il consiglio è di interrompere la lettura, guardarlo, infine tornare a questo articolo, così da confrontare il suo punto di vista con le prossime righe.

L’effetto matrioska non è l’aspetto più dirompente di Bandersnatch. Il film, infatti, è rivoluzionario innanzitutto come prodotto culturale perché estremizza le dinamiche su cui si basa l’ambito cinematografico, cioè l’immedesimarsi del pubblico con il lungometraggio. Il neuroscienziato Vittorio Gallese e il docente Michele Guerra definiscono queste dinamiche simulazione incarnata1 e dimostrano che quando guardiamo un film non ci lasciamo catturare solo in modo astratto, ma riproduciamo le scene all’interno del nostro corpo, come se fossimo coinvolti immediatamente, ossia senza il filtro del medium, dello schermo.

Sarebbe interessante estendere le ricerche di Gallese e Guerra a Bandersnatch e a prodotti culturali simili, che molto probabilmente saranno distribuiti nei prossimi anni e concretizzeranno sempre di più la partecipazione dello spettatore al film.

Nell’attesa che ciò avvenga possiamo affermare che il film di Black Mirror non sarebbe così rivoluzionario se non avesse solide fondamenta filosofiche. Tornando brevemente alla simulazione incarnata, la filosofia di Bandersnatch può essere definita “esperienziale”, poiché non viene dissertata da un filosofo ma vissuta direttamente dal pubblico, strizzando l’occhio al Friedrich Nietzsche di Ecce Homo, che invita a «non prestar fede a nessun pensiero […] nel quale anche i muscoli non abbiano la loro festa».

Al di là della modalità con cui il messaggio filosofico viene comunicato, la tesi del film può essere sintetizzata in un’affermazione di Colin Ritman, idolo di Stefan Butler e programmatore di famosi videogame: «La fine di un percorso è irrilevante. Quel che conta è come le nostre decisioni su quel percorso influenzano il tutto». La frase di Ritman porta in secondo piano la dicotomia riguardante l’importanza del viaggio o della meta, così da dare centralità al momento determinante della scelta. Ascoltare i Thompson Twins o i Now 2? Lanciarsi dal balcone o far lanciare Colin? In Bandersnatch sottrarsi a queste decisioni significa lasciare che il film scelga per lo spettatore secondo meccanismi casuali, ma la stessa dinamica si verifica nella nostra esistenza, come ci ricorda Søren Kierkegaard nell’opera Aut-Aut«Quando la scelta si rimanda, la personalità sceglie incoscientemente, e decidono in essa le oscure potenze».

La medesima considerazione può essere fatta per la portata rivoluzionaria di Bandersnatch: possiamo scegliere di non tenerne conto e convincerci che questo film sia un banale esperimento, oppure possiamo constatare che la sua distribuzione sta già cambiando profondamente il mondo della cultura e dell’intrattenimento. A noi la scelta.

 

Stefano Cazzaro

 

NOTE
1. V. Gallese, M. Guerra, Lo schermo empatico. Cinema e neuroscienze, Cortina Raffaello, 2015

[Photo Credits 4usky.com]

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Ascoltare Sé e ascoltare l’Altro

Quando si parla di relazioni nelle discipline sociali e umanistiche, oppure quando si affronta l’argomento con profondità nella vita quotidiana, si loda spesso l’ascolto dell’Altro, riferendosi sia al semplice tendere l’orecchio a chi sta conversando con noi sia al più complesso Ascolto Attivo, ossia un approccio – ben descritto dalla sociologa Marianella Sclavi in Arte di ascoltare e mondi possibili (2003) – che prevede, tra i diversi spunti, l’attenzione alle emozioni altrui con il fine di relazionarsi positivamente con gli interlocutori.
Considerare solo questa dinamica dell’ascolto, però, significa credere che le relazioni sociali siano una banale forma di apertura all’Altro, mentre esse ci coinvolgono quali coprotagonisti e ci chiedono di ascoltare anche le nostre, di emozioni. Se questa richiesta non trova risposta, lediamo sia noi stessi perché non sappiamo se stiamo traendo beneficio dalle relazioni, sia l’Altro perché non lo ascoltiamo attivamente.
Nelle prossime righe vedremo il tema dell’ascolto di Sé nell’ottica delle interazioni sociali. Non affronteremo le modalità con cui si può ascoltare sé stessi, altrimenti saremmo prolissi. Azzarderemo, invece, un legame con un argomento più attuale, cioè i contatti tra culture.

Il sociologo Salvatore La Mendola tratta il tema di cui sopra in Centrato e aperto (2009), libro che propone un approccio dialogico alle interviste sociologiche, ma che offre soprattutto un punto di vista stimolante sulle interazioni tra esseri umani, accennando ad azioni che possono essere praticate in situazioni in cui si voglia ascoltare sé stessi. Queste azioni riguardano la consapevolezza del proprio corpo – stare con i piedi piantati per terra, concentrarsi sul respiro, seguire il battito del cuore ecc. –, perciò suggeriscono che, come l’ascolto dell’Altro, anche l’ascolto di Sé non sia un banale esercizio dell’udito, ma un processo che coinvolge ogni parte di noi.
In Centrato e aperto l’intervistatore che fa un’intervista dialogica è rappresentato con La passeggiata del pittore Marc Chagall. Più precisamente il suo ruolo di guida è identificato con la figura in piedi e l’attenzione all’intervistato è identificata con la figura in aria. Il dipinto, però, può essere interpretato anche nell’ottica dell’ascolto, immaginando che la prima figura simboleggi la parte di noi che ascolta le nostre emozioni e la seconda figura simboleggi la parte di noi che ascolta l’Altro.

Questo duplice processo di ascolto rende la consapevolezza di Sé una condizione difficilmente raggiungibile in un’interazione. Ancor più difficile, però, è dare continuità a tale condizione: ciò che ci ha permesso di trovare stabilità in quell’interazione, infatti, può essere inutile in un’altra, poiché ci relazioniamo con persone diverse oppure la stessa persona può, parafrasando il titolo di un libro del sociologo Erving Goffman, presentare self differenti, cioè modalità diverse di mostrarsi nelle interazioni.
Nell’impossibilità di stabilire un solo modus operandi, come costruire l’Io, ossia uno dei due fondamenti delle relazioni sociali secondo il filosofo Martin Buber? (L’altro, ça va sans dire, è il Tu). All’inizio abbiamo detto che una risposta in questa sede sarebbe eccessivamente complessa. Un accenno, però, l’abbiamo fatto: si tratta della consapevolezza del corpo suggerita da La Mendola. Molti percorsi di crescita personale, infatti, prevedono la scoperta della propria interiorità attraverso la respirazione consapevole e la concentrazione su ciò che si percepisce con i cinque sensi.
Sicuramente possiamo affermare che un Io che vada bene in ogni interazione non è realizzabile. Al contrario dobbiamo costruirne uno che, come l’acqua, si adatti a diversi contenitori relazionali, alcune volte accetti di stagnare e altre volte abbia l’energia per rompere gli argini.

Il rapporto tra l’ascolto dell’Altro e l’ascolto di Sé può essere intravisto anche nei contatti tra culture – un tema delicato in Italia, soprattutto negli ultimi mesi. Tale questione, infatti, divide quelli che vorrebbero ascoltare e accogliere l’Altro – che in questo caso può essere generalmente identificato con i migranti – da quelli che ascoltano esclusivamente sé stessi e gli italiani che ragionano come loro.
In questo scontro è bene ricordare l’incipit di Terra degli uominidi Antoine de Saint-Exupéry: «Misurandosi con l’ostacolo l’uomo scopre se stesso». Oggi molti partiti politici rappresentano quell’ostacolo con chi appartiene a culture diverse dalla nostra, ma le parole dell’autore francese evocano l’idea che abbiamo bisogno di un ostacolo se vogliamo fare l’unica cosa che dà senso alla vita: il filosofico conoscere sé stessi.

A questo punto possiamo suggerire una domanda: quali modalità specifiche possiamo attuare per conoscere noi stessi nell’esperienza tumultuosa della vita e nello scenario variegato del mondo? La questione resta aperta.

 

Stafano Cazzaro

 

BIBLIOGRAFIA
1. Antoine de Saint-Exupéry, Terra degli uomini, Milano, Ugo Mursia Editore, 2014.

[Credit davide ragusa]

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La verità della bellezza

Spesso, quando parliamo di bellezza, facciamo un errore: ci fermiamo alla sua dimensione statica. Nel giudicare una bella donna, ad esempio, consideriamo aspetti precisi come gli occhi, le labbra, i seni; ma questi elementi, visti nella loro staticità, sono sufficienti a dare un giudizio completo?

Questa domanda ha senso anche riguardo alle rappresentazioni mediatiche della bellezza: pensiamo alle pose dei modelli, che mettono in risalto alcune parti del corpo (spesso quelle erogene) ma peccano di artificiosità, tanto che il docente di semiotica Alessandro Zinna le ha definite falso dinamismo1.

Se quelle pose sono artificiose, se quel dinamismo è falso, dove possiamo trovare la verità della bellezza? Nel suo linguaggio, consiglia il filosofo Franco Bolelli2. La bellezza, infatti, non è tale secondo elementi statici, ma in relazione ai contesti: gli occhi non sono banali occhi, ma sguardi che indagano gli spazi; le labbra non sono semplici labbra, ma parti dei discorsi che le attraversano; i seni sono curve tra le curve del mondo, movimenti della realtà.

Allo stesso tempo la bellezza non si cura di coloro che la guardano: come ha scritto Roland Barthes, essa «è una sagoma intenta al lavoro»3. Quale lavoro? Quello della vita, della sua manifestazione in situazioni quotidiane, libere dalla staticità. Sembra di sentire le parole di Leonard Shelby – protagonista del film Memento di Christopher Nolan (2000) – quando ricorda la moglie, brutalmente uccisa, recuperando «frammenti che si fanno sentire anche se non vorresti»: il suo lavarsi le mani, il suo maneggiare una forchetta, il suo lasciarsi sorprendere da un raggio di sole che entra dalla finestra.05

Momenti cui solitamente non prestiamo attenzione, ma che, nel loro fondere corpi e contesti, si rivelano gravidi di bellezza. Eventi, come li definisce il fisico Carlo Rovelli; perché se il cinema, la filosofia e la semiotica non ci bastassero, entrerebbe in gioco la scienza affermando che «la migliore grammatica per pensare il mondo è quella del cambiamento, non quella della permanenza»4. Allo stesso modo, la migliore grammatica per parlare della bellezza non è quella degli occhi da cerbiatto, delle labbra carnose e dei seni prosperosi che aspettano di essere notati, ma quella di uno sguardo che, mosso dalla curiosità, incontra una fonte di luce e, come per magia, comincia a brillare.

 

Stefano Cazzaro

 

NOTE
1. A. Zinna, Unico. Eliana Lorena. A cura di Marta Carboni, 2009
2. F. Bolelli, Si fa così. 171 suggestioni su crescita ed evoluzione, Add editore, 2013
3. R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, 2014
4. C. Rovelli, L’ordine del tempo, Adelphi, 2017

[Photo credit: Amy Luo via Unsplash.com]

 

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