“Sono cose da grandi” – Simona Sparaco

Simona Sparaco, autrice di romanzi molto apprezzati come Nessuno sa di noi (2013, finalista Premio Strega), Se chiudo gli occhi (2014, Premio Selezione Bancarella), Equazione di un amore (2016), torna in libreria cimentandosi con una formula inedita.
Sono cose da grandi non è un romanzo ma una lunga lettera che Simona scrive al figlio Diego, nell’estate dei suoi quattro anni, un’estate che sarà diversa da tutte le altre perché nella vita di Diego, come in quella di tanti altri bambini, si farà spazio il male, si faranno spazio cattivi molto diversi da quelli delle favole. Cattivi che non hanno il volto dell’uomo nero ma quello di un camion bianco, che sulla Promenade di Nizza spazza via come fossero birilli vite di adulti e bambini mentre, con gli occhi ancora al cielo, contemplano incantati lo spettacolo dei fuochi di artificio. Pochi minuti di incomprensibile e assurdo dolore e quei corpi giacciono distesi sull’asfalto, immobili. Lo sguardo di Diego si sofferma casualmente sul telegiornale, mentre le immagini del tragico attentato scorrono sullo schermo, e la paura si fa spazio nel suo piccolo cuore, si annida nei suoi incubi, si trasforma in interrogativi a cui una madre fatica a trovare risposta.
Davanti al terrore che Simona legge negli occhi di suo figlio, nasce l’esigenza di mettere nero su bianco i suoi pensieri, di trovare delle parole che intrecciandosi tra loro possano costituire una rete in grado di contenere le paure di Diego, ma anche quelle di chi lo ha messo al mondo.
Da genitore, da madre di una bambina di tre anni e mezzo, mi sono ritrovata in ogni riga di queste cento pagine. Mi sono ritrovata con la testa, con il cuore, con l’anima scoperta, esposta, fragile. Perché forse le paure più profonde delle madri sono le stesse, riassumibili nella paura di consegnare tuo figlio al mondo, un mondo che appare instabile, inospitale, pericoloso e violento.
Per impedire che anche i sogni vengano inghiottiti dalla paura, Simona inventa per Diego una scatola magica, in cui custodire quanto di più prezioso un bambino possieda: i suoi desideri. Quei germogli teneri che ogni madre impara ben presto ad annaffiare e a proteggere dal vento, ad alimentare con la speranza e a fortificare con la fiducia.
Con una penna lieve, dolce, fragile, Simona Sparaco parla di paure e di speranze, parla a Diego, a se stessa, al lettore, mentre consapevolezze tanto effimere quanto tenaci si fanno strada nelle sue riflessioni: spiegare l’esistenza del male ad un bambino forse è impossibile, ma impedire che la sua ombra scura venga proiettata sulle loro piccole vite, quello è il vero compito del mondo adulto. E l’unico modo per riuscire in questa missione è impedire che la paura diventi terrore, perché il terrore paralizza e, compresse nella sua morsa, le tenere ali dei bambini perdono per sempre la capacità di spiccare il volo.
Pagina dopo pagina mi sono riconosciuta in Simona e nelle sue incertezze, nella fatica di imparare qualcosa a cui nessuno ti prepara mai abbastanza, perché solo quando stringi a te per la prima volta quel fagotto fragile e indifeso, capisci che ti sta accadendo la cosa più meravigliosa e spaventosa del mondo e che la paura non ti lascerà mai più, dovrai imparare a conviverci, addomesticarla, impedirle di sopraffarti.

«Dentro ogni madre c’è una bambina che piange. La puoi sorprendere quando diventa violenta, aggressiva, e dice che non ce la fa più. Quando il senso di responsabilità si fa opprimente, quando è la paura a prendere il sopravvento. Dobbiamo sempre nasconderla, ai vostri occhi, farci più grandi di quelli che siamo, perché solo così possiamo essere utili nel vostro percorso».

Nelle domande di Diego, nella sua dolcezza, nella sua sensibilità esposta alle intemperie del mondo, ho rivisto mia figlia, il suo soffermarsi sulle cose ben oltre l’apparenza, la sua fiducia incrollabile nelle mie capacità e, allo stesso tempo, la voglia di difendermi da ogni pericolo.
Riflessioni delicate sulla genitorialità, pensieri d’amore verso un figlio, scorci di una vita quotidiana a due, dove le storie e la fantasia rendono tutto più magico. Un volume piccolo ma prezioso che, come un abbraccio, riscalda e consola. Un libro che ogni genitore dovrebbe custodire in libreria.

«E finché sarò in vita, amore mio, ti prometto che farò di tutto per rendere la nostra casa, la nostra realtà, un luogo in cui valga la pena fare ritorno».

Stefania Mangiardi

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Il gioco del male – Angela Marsons

Nell’anno appena concluso il genere crime/thriller si è confermato tra quelli più letti in Italia. I romanzi che regalano brividi e tensione sembrano infatti aver conquistato un’ampia fetta di pubblico italiano. Il segreto credo vada ricercato nella capacità di questo genere di trasmettere emozioni forti, di stuzzicare l’intuito e l’intelletto del lettore, di presentarsi come un enigma da risolvere.

La serie che vede come protagonista la detective Kim Stone, nata dalla penna di Angela Marsons, si è rivelata in Inghilterra un vero caso editoriale. Passando per l’autopubblicazione e per il successo del passaparola, il primo libro dell’autrice − Urla nel silenzio, pubblicato in Italia da Newton Compton nel 2016 − è arrivato a vendere oltre un milione e mezzo di copie nel mondo e ad essere tradotto in diciassette Paesi. Si tratta di thriller con approfondimento psicologico, la cui protagonista si è fatta spazio nel cuore di tanti lettori, dimostrandosi un personaggio vincente e credibile. I thriller sono ambientati in Inghilterra, precisamente nella Black Country, la stessa regione di provenienza dell’autrice. In Urla nel silenzio, la zona è scossa da una serie di omicidi, collegati da un invisibile fil rouge. La detective, supportata dalla sua squadra investigativa, indaga per rintracciare il nesso che lega le vittime e per scoprire l’identità dell’assassino.
Le sue indagini la porteranno ben presto nel luogo in cui anni prima sorgeva un orfanotrofio. Un posto che avrà molto da raccontarle e dal quale emergeranno storie agghiaccianti.
La protagonista, Kim Stone, è una donna diretta, dura, testarda e poco incline al contatto umano, guida la sua squadra senza esitazioni, proprio come conduce sull’asfalto la sua Ninja nera.
Dietro un’apparenza di chiusura e distacco, nasconde un passato dolorosissimo, che rischia di sopraffarla con il suo pesante bagaglio. Bagaglio di dolore che nella seconda avventura, Il gioco del male, pubblicato ad ottobre dello scorso anno, si rivelerà un fardello quasi fatale per Kim, a dimostrazione che alcune questioni irrisolte con il passato sono come mostri pronti a divorarci. Basta che qualcuno riesca ad incidere la nostra corazza abbastanza a fondo da permetterne la fuoriuscita. E chi meglio di un pericoloso sociopatico avvezzo alla manipolazione della mente umana può farlo?

«Sebbene definire il “perché” fosse di capitale importanza nell’indagine su un crimine, per Kim non era mai stato il tassello più importante del puzzle. Era l’unico elemento che non riceveva alcun supporto dagli ausili scientifici. Stabilire il perché era il suo lavoro, ma comprenderlo era l’ultima cosa di cui aveva bisogno. […]

Capire il perché di un’azione implicava la possibilità di empatia, comprensione e perfino perdono, per quanto il fatto commesso fosse orribile.

E, a giudicare dal suo passato, Kim non era una persona incline al perdono».

Andando a fondo nella psiche della protagonista, il lettore comprenderà lo spessore della sua personalità. Ciò che costituisce un ostacolo nel suo lavoro è anche quello che rende questa donna così speciale: le sue ferite, la sua infanzia in un quartiere degradato che non le ha impedito di diventare uno dei detective più validi e capaci, di sviluppare uno spiccato senso della giustizia, di sopravvivere al limbo di abiezione e sofferenza nel quale era stata condannata. Questo si cela dietro la maschera di freddezza e indifferenza dietro la quale la protagonista si trincera, e questa la base di profonda umanità che permette ai lettori di stabilire una sincera empatia con il personaggio.

Le tematiche affrontate sono forti: violenze, maltrattamenti e abusi, spesso trasferiti nella sfera dell’infanzia violata, casi che vengono filtrati dallo sguardo di una donna che sa bene cosa significhi subire quel dolore che scava nei bambini come fa un chiodo arrugginito nel tronco morbido di una pianta ancora giovane, che crescerà mantenendo quella profonda traccia. Una cicatrice che priva per sempre della spensieratezza, ma che permette a Kim Stone di vedere oltre, di sentire nel profondo ciò che le vittime provano.

La narrazione scivola veloce, coinvolgente, arricchita da dettagli e substrati psicologici, esposti con uno stile scorrevole e validi incastri temporali. Il lettore non può che sentirsi coinvolto, trascinato nelle indagini e nei pensieri di Kim Stone, subendo il fascino di personaggi tridimensionali e delle dinamiche che si rivelano centrali: i comportamenti umani, i processi mentali, la psicologia delle vittime e degli aguzzini, che la Marsons è così brava a rendere reali.

Una serie consigliata a chi è alla ricerca di una lettura coinvolgente. Mentre per chi fosse già in attesa del terzo volume, nel sito dell’autrice è possibile trovare curiosità sulla sua professione e interessanti consigli letterari.

Stefania Mangiardi

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“Non buttiamoci giù”, di Nick Hornby

Se posso spiegare perché volevo buttarmi dal tetto di un palazzo? Certo che posso spiegare perché volevo buttarmi dal tetto di un palazzo. Cavolo, non sono mica deficiente. Posso spiegarlo perché non è un fatto inspiegabile: è stata una scelta logica, la conseguenza di un pensiero fatto e finito. E neanche di un pensiero troppo serio.

Cosa ci fanno quattro persone di età, estrazione sociale, stile di vita completamente differenti, sul tetto di un palazzo di Londra nella notte di Capodanno? Non si conoscono, non sanno niente l’uno dell’altro, eppure sono uniti da un intento comune: buttarsi di sotto. Ma quella notte i loro piani verranno stravolti e, inaspettatamente, proprio a partire da quel momento si cementerà una stramba alleanza.

Partendo da questo incipit originale, Hornby ci conduce alla scoperta delle storie personali dei quattro curiosi personaggi e delle circostanze che li hanno condotti fin lassù.
I nostri protagonisti non potrebbero essere più diversi: Martin, noto conduttore televisivo, ha perso il lavoro e la stima della sua famiglia dopo l’avventura di una sera con una ragazza che credeva maggiorenne; Maureen, timorosa e devota, ha un figlio disabile da mantenere e sostenere; Jesse, trasgressiva figlia di un politico rispettabile, vede nel suicidio un estremo gesto di ribellione; infine JJ, giovane musicista disilluso, che racconta di essere affetto da una grave malattia.

Ti ripetono tutta la vita che dopo la morte andrai in un posto meraviglioso. E l’unico gesto che puoi fare per arrivarci un po’ prima ti impedisce di andarci… Oh, capisco che è un po’ come non voler fare la coda. Ma se qualcuno salta la coda in posta, gli altri, gli altri borbottano. A volte protestano: “Scusi, sa, c’ero prima io!”. Non dicono: “Brucerai tra le fiamme dell’inferno per l’eternità”. Sarebbe un pochino esagerato!

Non buttiamoci giù, libro da quale nel 2014 è stato tratto un adattamento cinematografico, è un romanzo esilarante che tratta tematiche attuali e complesse con un umorismo tagliante che lascia spazio anche ai sentimenti.
La sua forza risiede sicuramente nei personaggi, ben delineati e caratterizzati anche dal modo di esprimersi che l’autore rende servendosi di un linguaggio cucito addosso a ciascuno, colloquiale, in alcuni casi volutamente ‘sgrammaticato’.
Nonostante la tematica centrale rimanga quella del suicidio, Hornby riesce ad evitare i toni cupi e a mantenere la narrazione vivace, servendosi anche di una certa dose di humor inglese.
Ho apprezzato molto il messaggio di fondo del romanzo, l’idea che delle singole, disperate, solitudini possano unirsi dando vita a qualcosa di diverso. Una rete di sostegno improvvisata, raffazzonata, rappezzata, e che pure sembra funzionale allo scopo. Perché a volte nella vita ciò che più conta è riuscire a cambiare punto di vista, ad accorgersi che non si è i soli a soffrire, a prendere coscienza di quante situazioni simili alla nostra ci siano. Ostacoli apparentemente insormontabili che affrontati attraverso la reciprocità, sviscerati, confrontati e perfino derisi, possono improvvisamente ridimensionarsi, guidando il nostro sguardo verso una nuova prospettiva.
Un libro che mi sento assolutamente di consigliare: vitale, divertente, commovente e ricco di spunti di riflessione.
Perché è più facile buttarsi nel vuoto che accettare le conseguenze di quello che hai fatto?

Stefania Mangiardi

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Amabili resti – Alice Sebold

«Questi erano gli amabili resti, cresciuti intorno alla mia assenza, i legami, a volte esili, a volte stretti a caro prezzo, ma spesso meravigliosi, nati dopo che me n’ero andata. E cominciai a vedere le cose in un modo che mi lasciava concepire il mondo senza di me».
Susie Salmon è una ragazzina di quattordici anni con le aspirazioni e i sogni propri della sua età. Ma la sua giovane vita è destinata ad essere calpestata, straziata e recisa da un mostro, un insospettabile mostro che vive a pochi passi da casa sua, celato da una maschera di perbenismo.
Un mostro che il lettore individuerà ben presto e ben presto inizierà a disprezzare e odiare.
A raccontare la storia è la ragazzina uccisa, la voce narrante appartiene infatti alla stessa Susie che ci parlerà da un ‘Cielo’ tutto suo. Si tratta quindi di una prospettiva insolita che smarrisce e conforta allo stesso tempo. Dall’alto, Susie, osserva la vita continuare senza di lei, partecipa al dolore della sua famiglia e assiste agli strazianti momenti successivi alla sua scomparsa. Ma la sua attenzione non si focalizza solo sui suoi familiari distrutti dal dolore. Susie osserva anche il suo assassino, la freddezza delle sue simulazioni, la ripugnanza celata dietro ai suoi intenti, sostenendo a distanza l’intuito del padre che forse ha percepito prima degli altri un retroscena poco chiaro dietro quell’uomo apparentemente educato e tranquillo.
Amabili resti è un libro che non lascia indifferenti, impossibile trattenere le lacrime e non avvertire una morsa allo stomaco durante la narrazione. È un libro che scuote, destabilizza, ferisce. Un effetto per me amplificato dall’essere genitore, dall’essere madre di una bambina che mi auguro di saper proteggere da un mondo che sa essere spietato ben oltre l’umana immaginazione.
«Dentro la palla di neve sulla scrivania di mio padre c’era un pinguino con una sciarpa a righe bianche e rosse. Quando ero piccola papà mi metteva seduta sulle sue ginocchia e prendeva in mano la palla di neve. La capovolgeva perché la neve si raccogliesse tutta in cima, poi con un colpo secco la ribaltava. E insieme guardavamo la neve che fioccava leggera intorno al pinguino. Il pinguino è tutto solo, pensavo, e mi angustiavo per lui.
Lo dicevo a papà e lui rispondeva: “Non ti preoccupare, Susie, sta da re. È prigioniero di un mondo perfetto”».
 
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Per alcuni lunghissimi istanti, quelli in cui Susie racconta della violenza subita, ho pensato di non farcela, di non riuscire a proseguire nella lettura. Il suo dolore è diventato il mio, l’orrore salendo dallo stomaco alla gola mi si è appiccicato addosso come una seconda pelle.
Eppure temi come la violenza, la morte precoce, il dolore per la perdita, vengono trattati con un tocco delicato, proprio perché filtrati dallo sguardo limpido e innocente di Susie.
Ed è sempre la piccola Susie ad impedire che il lettore venga inghiottito dalla rabbia e dal dolore, offrendogli qualcosa a cui aggrapparsi, offrendogli la speranza: l’amore è eterno ed è l’unico legame che non può essere spezzato.
Un’ancora di salvezza, ecco cosa offre l’autrice al lettore, quasi come se si sentisse in dovere di non caricarci di un fardello troppo pesante. Un’attenzione che accomuna molte persone che hanno subito violenza, e nella quale è forse possibile riconoscere il vissuto autobiografico dell’autrice.
La scrittura, semplice e lieve, rispecchia l’intento di mantenere dei toni dolci, tenui, senza permettere all’oscurità di prendere il sopravvento.
Struggenti le descrizioni dei familiari, dei genitori e dei fratelli di Susie, del modo di ognuno di reagire alla perdita. Queste, insieme ai flashback che la protagonista inserisce nel racconto, ci regalano uno spaccato di vita di una famiglia americana degli anni 70, una famiglia felice che vive in Pennsylvania quando la provincia americana è considerata un luogo sicuro, sereno, dove si respira ottimismo e positività.
Un libro toccante, con una protagonista che si impadronirà di un pezzetto del vostro cuore.
 

Stefania Mangiardi

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La sposa scomparsa – Rosa Teruzzi

Ci sarebbe voluta una bella libreria, si disse, con le sue file ordinate di romanzi che promettevano mondi più interessanti, fantasiosi e magici del nostro. Mondi in cui perfino dolori all’apparenza insensati, come la scomparsa di una figlia, rispondevano a un disegno, non necessariamente positivo, che spesso nella vita reale lei non riusciva a scorgere.

In una Milano poliedrica e sfaccettata, tre donne convivono in un vecchio casello ferroviario, trasformato in abitazione. Libera, quarantasei anni, trascorre molto tempo nel laboratorio adiacente alla casa, nel quale compone bouquet da sposa. Sua figlia, Vittoria, è una giovane agente di Polizia, introversa e determinata. E poi c’è nonna Iole, spirito ribelle e anticonformista che, raggiunte le settanta primavere, continua a predicare – e a praticare – l’amore libero.

In una piovosa giornata di luglio un’anziana donna, vestita di nero, bussa alla porta del casello. E’ lì per parlare a Vittoria, per convincerla a riaprire un caso ormai archiviato, quello riguardante sua figlia, una ragazza prossima alle nozze, scomparsa tanti anni prima. Vittoria, rigida e chiusa nelle sue convinzioni, sembra restia ad aiutare la donna. Ma Libera e Iole non hanno intenzione di restare con le mani in mano e si butteranno a capofitto nella ricerca della verità.

La sposa scomparsa è un giallo piacevole, ben scritto e bilanciato, dove le indagini e le storie delle protagoniste risultano equilibrate, ma soprattutto una storia di cui ho amato la caratterizzazione, dei luoghi e dei personaggi. Le tre donne, durante la lettura, sono diventate delle vicine, delle conoscenti e, infine, delle amiche.

Libera è il personaggio centrale della storia, quello che fa da anello di congiunzione e collante tra tutti gli altri. E’ una donna sensibile e riflessiva, una donna che ha sofferto, a cui la vita ha tolto molto. Il marito, agente di Polizia, è stato ucciso senza che il caso venisse mai risolto e lei ha dovuto ingoiare i dubbi insieme alla sofferenza. Il dolore ha finito per spegnerla e per creare intorno a lei una corazza invisibile, che le impedisce di lasciarsi andare, di continuare a vivere e ad amare.

Vittoria è una ragazza introversa, spigolosa, brusca e rigida nelle sue convinzioni. La perdita prematura del padre ha condizionato tutta la sua esistenza, spingendola ad indossare quella stessa divisa e alimentando la sua rabbia verso il mondo. Iole, con la sua indole leggera, briosa e fanciullesca, fa sicuramente da controparte alle due donne. Non a caso, è il personaggio che ho più amato, quello che mi ha strappato più sorrisi, declinando la terza età in chiave disinibita ed ironica.

Le tre donne cercheranno di capire cosa è accaduto a Carmen Minardi, la ragazza scomparsa tanti anni prima, e per farlo dovranno infine collaborare, riavvicinandosi e annullando le incomprensioni. Sullo sfondo emerge una Milano inedita, quella dei piccoli quartieri, degli scorci che non ti aspetti e che riescono a stupirti.

Così come stupirà la verità, che spiazzerà il lettore con la sua irreversibile freddezza. L’epilogo lascia presagire un seguito che non vedo l’ora di scoprire, perché quello di Iole, Libera e Vittoria è solo un arrivederci.

Un giallo che si fa amare, con un tocco femminile che conferisce freschezza al romanzo e pone l’accento sulla variopinta sfera dei sentimenti.

Stefania Mangiardi

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Il rumore delle cose: intervista a Evita Greco

Per una bambina di sei anni, accorgersi di avere difficoltà nella scrittura e nella lettura, non riuscire a soddisfare le aspettative degli adulti, scoprirsi diversa dai compagni di classe, non è per nulla semplice. Non lo era negli anni novanta, quando i DSA (Disturbi Specifici dell’Apprendimento) erano quasi sconosciuti e poco compresi. A sette anni, quando la parola dislessia entra per la prima volta nel suo mondo, Evita ha già le idee chiare: avrebbe letto tantissimi libri e ne avrebbe scritto almeno uno.
Evita Greco copertina - La chiave di SophiaProprio grazie alla caparbietà di quella bambina, oggi siamo qui a parlare con una giovane e promettente autrice italiana, Evita Greco. Il suo romanzo d’esordio, Il rumore delle cose che iniziano (Rizzoli, 2016), qualche settimana fa si è aggiudicato come Opera Prima, il Premio Rapallo Carige, considerato tra i più rilevanti riconoscimenti letterari nazionali. Una storia dolce e poetica, narrata in modo intimo, diretto, delicato. La storia di Ada, cresciuta da una nonna che sta per dirle addio e intrappolata in un amore che prende forma solo tra le pareti di un loft ancora spoglio, è un inno alle piccole cose, un mosaico ben riuscito di dettagli effimeri, particolari teneri, minuzie enormi.
 

Quando hai compreso che il tuo sogno di bambina stava divenendo realtà?

Dopo aver frequentato la scuola Palomar di scrittura, e dopo aver finito –con ritardo rispetto ai tempi previsti- il romanzo, sono passati lunghi mesi in cui non è successo nulla. Poi un martedì pomeriggio ho ricevuto la chiamata dell’agente Vicki Satlow e lì ho capito che forse stava succedendo qualcosa.

Nel tuo libro i rumori assumono un ruolo importante, diventano un campanello che ci permette di scandire i momenti della vita, donandogli valore. Quale rumori associ all’inizio della tua carriera di scrittrice?

Più che un rumore, forse, a caratterizzare questo mio inizio è stato una particolare qualità di silenzio: quello della biblioteca pubblica della mia città. È lì che ho scritto la maggior parte del romanzo. Di tanto in tanto la porta della sala studio si apriva. Faceva un rumore tutto suo, in effetti.

Nel tuo romanzo è possibile scorgere una filosofia delle piccole cose, dove sono i dettagli, i particolari, le cose più semplici, ad assumere rilievo e importanza. E’ una linea di pensiero che applichi anche nella vita quotidiana?

Decisamente. In realtà io non le vedo davvero come piccole cose. Per me sono cose e basta.

Per Ada il momento in cui si diventa grandi è «quello in cui non c’è più nessuno pronto ad afferrarti quando rischi di cadere». Per Evita cosa significa crescere?

Forse ancora non lo so. A lungo ho pensato che “crescere” significasse farsi una vita propria, trovare qualcuno con cui condividerla, scegliersi una casa, creare una famiglia. Ora che tutte queste cose le ho fatta, ci sono ancora dei momenti in cui mi sento “bambina” e capisco che forse non sono ancora davvero cresciuta. Forse non è vero che si cresce in modo definitivo una volta per tutte. Una parte di noi resta sempre “piccola”, un’altra cresce.

La protagonista del tuo libro, con quella disarmante aria da bambina, ricorda un’Amelie Poulain malinconica e sognatrice. Ti somiglia, la tua Ada?

Scrivendo pensavo di no. O almeno, non così tanto. Poi rileggendo ho capito che qualcosa di mio effettivamente lo ha. Il guaio è che io non la vedo così sognatrice. Il che rende più grave il mio grado di “strampalatezza”, forse. Scherzi a parte: ha molto della mia insicurezza. Ma ognuno dei personaggi ha qualcosa di me: Giulia – l’infermiera che si prende cura di nonna Teresa che diventa amica di Ada- rappresenta molto di quello che vorrei diventare come donna: forte, elegante, pratica senza essere invadente. Persino Matteo mi somiglia. L’ho sempre immaginato una via di mezzo tra l’insicurezza di Ada e la forza di Giulia.

Nonna Teresa insegna alla piccola Ada la magia dei rumori, che serve a superare le paure degli inizi. Sei da poco diventata madre, c’è qualcosa che, più di altro, vorresti insegnare alla tua bambina?

Tutta la seconda parte del libro è stata scritta dopo la sua nascita, e non c’è una sola riga che – in un certo senso – non parli di lei o a lei. Anche la lettera che la nonna lascia ad Ada è “per lei”. Vorrei insegnarle a riconoscere la sua vera natura e a prendersene cura. E l’importanza di guardare l’essenza delle cose.

In una realtà come quella italiana, in cui il numero dei lettori non è un dato incoraggiante, qual è il compito della letteratura?

Aiutarci a restare umani, credo. E aiutarci a capire le cose “umane” senza semplificarle. Ma anche senza complicarle.

Da lettrice, cosa cerchi nelle storie che leggi? E cosa pensi che i lettori troveranno nel tuo libro?

Cerco quello che spero trovino i miei lettori nel mio libro. Un momento di silenzio dopo aver finito di leggere. Un momento dopo il quale ci si sente cambiati, anche solo di pochissimo. Con uno sguardo nuovo – e possibilmente più attento- nei confronti del mondo. E soprattutto nei confronti delle “piccole” cose.

Scrivere significa riversare su carta un mondo intero. Pensi che i romanzi debbano racchiudere mondi reali o mondi ideali?

Penso dipenda molto dall’indole dell’autore. E anche da quella del lettore che fa “l’altra metà dell’opera”. Io personalmente sono più interessata ai mondi reali. Ma ho moltissima stima per chi invece sa scrivere di quelli ideali, dicendoci però molto a proposito di quelli reali.

Per concludere, una domanda che ci piace porre a tutti i nostri ospiti: che valore attribuisci alla filosofia?

La filosofia, in un certo senso, è entrata nella mia vita prima di sapere cosa fosse davvero. Io e mia sorella avevamo l’abitudine di chiacchierare prima di addormentarci, nel buio della nostra stanza. Una sera, io ero alle medie e lei al liceo, ho iniziato a dirle che “se non esistesse la notte, allora non potrebbe esistere il giorno” o una cosa del genere. Lei allora mi disse che stava studiando un filosofo che diceva più o meno la stessa cosa, molto meglio di me, ovviamente. Parlava di Eraclito. Da allora sono stata sempre attratta dal mondo dei filosofi. Credo che la filosofia sia ovunque. C’è sempre, ed è una fortuna saperla vedere.
Ringraziamo Evita Greco per il tempo che ci ha dedicato.
Non vi resta che leggere il suo romanzo per scoprire se voltata l’ultima pagina troverete il “momento di silenzio” di cui Evita ci ha parlato. Questa interpretazione della letteratura piace molto anche a noi, le storie come veicolo di cambiamento, come strumento di crescita e scoperta personale, come mezzo per acquisire una nuova sensibilità e un nuovo sguardo sul mondo. Perché  a volte i libri riescono a donarci occhi inediti, e lo fanno in un silenzio carico di significato.
A questo esordio, che invece ha fatto un rumore bellissimo, auguriamo di essere la nota iniziale di una lunga melodia.

Stefania Mangiardi

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Lo strano viaggio di un oggetto smarrito – Salvatore Basile

Michele ha trent’anni e tutta la sua vita ruota intorno al lavoro presso la stazione di Miniera di Mare. Ogni sera, quando gli ultimi passeggeri abbandonano il convoglio, lui dà inizio al suo rituale. Sale sul treno, aspira gli odori che permeano le carrozze, pulisce accuratamente tutti i vagoni, lucida vetri e maniglie e, come un padre affettuoso, recupera gli oggetti dimenticati da viaggiatori distratti. Oggetti che ingombrano un’intera stanza della sua casa, situata all’interno della stazione stessa. Tutta la sua esistenza si dipana infatti in una manciata di metri, che Michele percorre e ripercorre giorno dopo giorno, intrappolato in una routine fatta di gesti sempre uguali. Unica compagnia dei suoi pasti insapore, gli oggetti smarriti dai viaggiatori, che cataloga con cura e attenzione. La vita che scorre oltre la stazione assume per Michele contorni minacciosi, perché se a sette anni tua madre varca l’uscio di casa con una valigia, promettendoti di tornare, e abbandonandoti per sempre, il mondo là fuori non deve sembrarti un posto bello in cui abitare. Da quel giorno, e ancor più dopo la morte del padre, Michele si è chiuso in se stesso, impedendo a chiunque di varcare la soglia del suo isolamento.large (8)

Ma il destino sembra avere altri programmi e un giorno accade l’imprevedibile. Qualcuno bussa alla sua porta per reclamare un oggetto smarrito. Elena, un uragano di entuasiamo e parole, farà irruzione nella sua casa come un arcobaleno su uno sfondo grigio, e niente sarà più come prima. Michele cercherà con tutte le sue forze di tenerla fuori dal suo cuore, perché permetterle di entrare sarebbe un’implicita autorizzazione a ferirlo. Poi un altro evento rimescolerà le carte. Una sera come tante, sullo stesso treno di sempre, Michele ritroverà un oggetto che mai avrebbe pensato di rivedere: il suo taccuino rosso, quello che la madre portò con sé andando via di casa vent’anni prima. La ferita che sembrava rimarginata riprenderà a pulsare con forza sotto la cicatrice. Michele si rimetterà sulle tracce della madre ed Elena lo accompagnerà, a distanza, in questo difficoltoso viaggio

Una storia che parla di abbandono, di  esperienze traumatiche che determinano il corso di un’esistenza. Un libro che è un po’ una metafora del dolore, degli effetti devastanti che la deflagrazione di una perdita può produrre su chi resta. Perché quando qualcuno ti ferisce così profondamente da bambino, è come scavare un buco in un tronco giovane. Il segno rimarrà visibile per sempre.

Perché nessuno ritorna, anche se lo promette. Soprattutto se lo promette.

Un romanzo che mi ha emozionato tanto, in un crescendo di sentimenti sempre più complicati da gestire. Michele, con la sua ritrosia, le sue prigioni fatte di paure, il suo mondo in bianco e nero, la sua sofferenza così tangibile e reale, è un personaggio che suscita commozione e induce alla riflessione. Elena, al contrario, è colore, irruenza, vita non filtrata. Luce non priva di ombre, perché non esiste un unico modo per affrontare la sofferenza. Ognuno reagisce al dolore secondo personali e insondabili strategie di sopravvivenza. Di che colore sei? Chiede Elena a Michele. E Michele dovrà scoprirlo, ricominciando a vivere, a rischiare, a soffrire, ad abbandonare le confortevoli sfumature di grigio della sua vita. Perché non ci si può difendere dalla tristezza, senza difendersi anche dalla felicità.

La vita è sempre un rischio. Per chiunque.

Un esordio letterario assolutamente promettente, con un tocco fiabesco e una prosa scorrevole, che mi rende impaziente di scoprire la prossima storia che Salvatore Basile ci regalerà.

Stefania Mangiardi

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“L’arte nel sangue” – Bonnie MacBird

Per chi ama Artur Conan Doyle, la scelta di leggere un libro che abbia come protagonista Sherlock Holmes, scritto da qualcun altro, porta inevitabilmente con sé una massiccia dose di scetticismo.

Ma la cosa bella di approcciarsi ad un’opera con basse aspettative, è proprio la possibilità che queste vengano non solo colmate ma addirittura superate. E’ proprio quello che mi è successo con L’arte nel sangue di Bonnie MacBird (HarperCollins Italia, 2016). Sì, perché la MacBird, studiosa di Doyle e grande appassionata di Sherlock Holmes, conosce evidentemente il fatto suo e ci conduce in una storia degna delle classiche avventure di Watson e Holmes.

Innanzitutto ho apprezzato molto l’espediente iniziale, la prefazione in cui l’autrice racconta di aver trovato casualmente presso la Wellcome Library di Londra, all’interno di un vecchio trattato sull’uso della cocaina, alcuni appunti ingialliti di Watson. Pagine parzialmente scolorite nelle quali il dottore narrava una storia inedita, il cui protagonista era il suo amico Sherlock Holmes. Ed è proprio quella storia che l’autrice si appresta a riportare, ricostruendo le parti illeggibili nel modo più verosimile possibile.

La vicenda prende il via in un momento buio per il nostro investigatore. Reduce da una settimana di prigione e prostrato dall’assenza di nuovi stimoli in ambito lavorativo, Holmes viene trovato dall’amico Watson al 221B di Baker Street in condizioni preoccupanti. Emaciato, rifiuta il cibo e trova un fugace sollievo solo nella cocaina. Ma un nuovo caso busserà presto alla sua porta: Cerise La Victoire, celebre cabarettista francese, si rivolge a lui per ritrovare il suo bambino scomparso. Un caso privato, che però appare strettamente connesso ad una vicenda ben più nota, quella del furto di una statua greca dal valore inestimabile. Entrambe le piste, infatti, riportano sulle tracce del conte Pellingham, collezionista e facoltoso uomo d’affari inglese.

Da qui partirà l’indagine che si dipana tra la Francia e l’Inghilterra, tra le opere del Louvre e i vicoli di Londra, mentre Holmes ritroverà se stesso e la sua tempra, e il dottor Watson, da poco convolato a nozze, scoprirà di subire ancora il fascino del rischio e dell’avventura.

«Mi accorsi del vivo piacere che il mio amico traeva da quella situazione di serio pericolo. Negli occhi gli brillava l’emozione della caccia».

«Sfiorai la rivoltella, fredda e rassicurante nella mia tasca. Nonostante tutto, sentii il brivido dell’avventura crescermi dentro come una frenesia indesiderata».

Una storia ben costruita, non eccessivamente complessa ma per nulla prevedibile, fatta di pochi tasselli ma collocati tutti al posto giusto. Holmes appare come sempre metodico e razionale, attento ai dettagli e alle deduzioni, sebbene in questa avventura scopriremo un aspetto inedito della sua personalità. Emergeranno le sue fragilità, il suo amore per l’arte, il suo lato più vulnerabile, che scalfisce la corazza di freddezza che lo caratterizza. Ho amato molto questa luce nuova proiettata su Holmes, che lo rende più umano senza snaturare le sue caratteristiche e facendo emergere anche il profondo vincolo che lo lega a Watson. Watson, voce narrante, che si conferma il mio personaggio preferito, disposto a tutto per aiutare l’amico, affidabile e spesso incapace di mascherare le proprie emozioni.

Una indiscutibile fedeltà allo stile di Doyle, seppure con alcune palpabili variazioni. La prima riguarda la vena di modernità che percorre la scrittura, rendendola più fluida e scorrevole, senza intaccare il fascino delle descrizioni, che si rivelano accurate. La seconda è strettamente connessa all’influenza cinematografica che, per ammissione della stessa autrice, le ha impedito di scindere Holmes e Watson dagli attori che li hanno interpretati, portandola a rivedere i personaggi in una chiave più dinamica. Anch’io, da lettrice, ho avuto per tutto il tempo la sensazione di trovarmi davanti Robert Downey Jr. e Jude Law.

In conclusione non posso che consigliare questo libro agli amanti di Sherlock Holmes, che desiderano scoprire un lato inedito del celebre investigatore, ma anche ai neofiti in cerca un giallo piacevole e ben costruito.

Stefania Mangiardi

[immagine tratta da Google Immagini]

I SEGRETI DELLA CASA SUL LAGO – KATE MORTON

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«Ricordava ancora l’amore, l’amore totalizzante che si prova da giovani, sebbene fosse ormai passato tanto tempo da allora. C’era bellezza in un amore come quello e, indubbiamente, pericolo».

Sadie è una detective e ha commesso un errore che non avrebbe dovuto compiere. Così adesso si trova in Cornovaglia, si è rifugiata a casa di nonno Bertie, per trascorrere un periodo di pausa forzata da Londra e dal lavoro. Mentre percorre una strada di campagna per la consueta corsa mattutina, si imbatte in qualcosa che attira la sua attenzione: una villa abbandonata, circondata da quello che un tempo era stato un giardino maestoso e che ora appare come una selva inestricabile.
Quella dimora abbandonata, in cui tazze di fine porcellana giacciono ancora sul tavolo sotto una spessa coltre di polvere e la vita sembra essersi congelata, sospesa come nella più terribile delle fiabe, attrae Sadie con un fascino inspiegabile. La giovane detective vuole saperne di più e ciò che scopre non fa che accrescere il suo desiderio di riportare la luce tra quelle vecchie mura: settant’anni prima, proprio in quella casa, un bambino è scomparso senza lasciare traccia. Gli Edevane, la famiglia che viveva a Loanneth, lasciarono la Cornovaglia dopo la tragedia per non farvi più ritorno. Ma cosa sarà accaduto in quella casa? E che fine avrà fatto il piccolo Theo, l’ultimo genito degli Edevane? Sadie è determinata a scoprire la verità e ignora che il suo desiderio di sapere la porterà in un viaggio a ritroso nel tempo, dove giacciono segreti che attendono di essere dissepolti.
Nel 1933 in quella casa si sta per celebrare il solstizio d’estate. Alice, la secondo genita degli Edevane, ha sedici anni e il cuore pieno di speranze. E’ innamorata di Ben, uno dei giardinieri della villa, e sogna di diventare una scrittrice. Ma ben presto un evento doloroso stravolgerà ogni cosa e niente sarà più come prima.

«L’erba folta, le ombre di una giornata d’estate di tanto tempo prima, le macchioline bianche delle margherite in primo piano. Un breve momento nella vita di una famiglia felice, immortalato prima che cambiasse tutto».

Kate Morton, scrittrice australiana laureata in letteratura inglese, è una delle autrici contemporanee che più amo e, ancora una volta, riesce a regalarci una storia intessuta con maestria, intrisa di emozioni, pervasa da un mistero che trova radici nel passato. La più grande abilità di questa autrice va ricercata nella sua capacità di prendere per mano il lettore, dissolvere i contorni del suo mondo e trasportarlo in luoghi e tempi lontani, dai quali si fatica a fare ritorno. Le descrizioni sono così dettagliate, poetiche e suggestive che durante la lettura si ha l’impressione di essere entrati in un affresco, di trovarsi nella Cornovaglia degli anni ’30, di passeggiare nel giardino di Loanneth, con le sue siepi fiorite e il lago che luccica placidamente sotto il tiepido sole di giugno, in un contesto così reale da indurre il lettore a provare nostalgia per luoghi e tempi mai vissuti. Come nei libri precedenti, si assiste alla presenza di due diversi piani temporali, il presente e il passato che si avvicendano, per comporre sotto gli occhi del lettore un mosaico che va via via prendendo forma, fino al tassello finale che lascia, come sempre, senza fiato. Un’altra costante dei suoi libri risiede nella presenza di figure femminili potenti, affascinanti ammantate da un’aurea che ammalia. In questo libro, tuttavia, anche le figure maschili ricevono maggiore spessore, risultano più approfondite e complesse rispetto ai libri precedenti in cui, a mio avviso, perivano all’ombra delle donne. Ho trovato alcune parti prolisse, la vicenda che riguarda Sadie e il suo temporaneo allontanamento dalla Polizia avrebbe forse potuto occupare meno spazio, senza dare così l’impressione di interrompere il filone principale della storia. Tuttavia la scrittura coinvolgente della Morton alleggerisce il peso delle pagine e non toglie il desiderio di arrivare fino in fondo. Non posso quindi che consigliare questo libro a chi ama i misteri, i sentimenti antichi, le epoche passate. I segreti della casa sul lago vi incanterà con le sue atmosfere cariche di fascino.

Stefania Mangiardi

[immagini tratte da Google immagini]

Olivier Bourdeaut, “Aspettando Bojangles”

Immaginate una famiglia che vive in una grande casa con un pavimento bianco e nero proprio come una scacchiera, un enorme divano blu fatto per saltarci sopra, un tavolo intorno al quale radunare molti ospiti, una credenza che perde foglie e va annaffiata regolarmente e, in un angolo del salotto, un enorme mucchio di corrispondenza mai aperta. L’animale domestico è un volatile fuori misura, una Damigella di Numidia, ribattezzata Damigella Superflua.
In quella casa c’è un papà stonato e giocoso, e una mamma che con le cose pratiche non ci sa proprio fare, ha ogni giorno un nome diverso, ma sempre la stessa voglia di ridere. Una donna che si entusiasma per tutto e se c’è una cosa che proprio non sopporta è la tristezza. La tristezza e la banalità.

«Quando la realtà è banale e triste, inventatemi una bella storia, voi che sapete mentire così bene. Sarebbe un peccato se non lo faceste».

Quei due ballano sempre, brindano e ballano sulle note di Mr. Bojangles, e il loro bambino spesso balla insieme a loro.
Sono proprio gli occhi del bambino a guidarci in una vita fatta di feste, ospiti, musica a tutte le ore del giorno e della notte, genitori gentili, che si amano e lo amano, dove andare a scuola non è un obbligo e a volte si balla così tanto da saltare anche la cena. Una famiglia anticonvenzionale, dove i ruoli sono appena sfumati, che vive fuori dagli schemi previsti dalla morale e dal buon costume.

«Non mi trattava né da adulto né da bambino, ma piuttosto come un personaggio da romanzo. Un romanzo che lei amava molto e teneramente, nel quale s’immergeva in ogni istante».

La loro vita sembra quasi un quadro, un’esibizione sulla quale non scende mai il sipario, lo spettacolo si ripete giorno dopo giorno sempre con lo stesso scroscio di applausi in sottofondo. Eppure, inaspettatamente, il sipario scenderà. Scenderà ogni volta che il filo della narrazione passerà dal figlio al padre, che analizzerà la loro vita da un’ottica differente. La realtà irromperà bruscamente in quella meravigliosa rappresentazione e, con il peggiore dei copioni, la tingerà di tinte cupe. Quella donna che ci era sembrata così eccentrica e divertente, brillante e folle, diverrà all’improvviso fragile, la sua stessa follia assumerà contorni inquietanti e imprevedibili.

«Quel conto alla rovescia, che durante i giorni felici avevo dimenticato di tenere d’occhio, si era messo a suonare come una sveglia infausta e scassata, come un allarme che spacca i timpani col suo incessante baccano, un suono spietato che intima di fuggire subito, che ti urla che la festa è finita, all’improvviso, malamente».

Aspettando Bojangles copertina - La chiave di SophiaDue cose mi hanno colpito molto di questo libro, che ho ricevuto a sorpresa e che all’inizio non sospettavo custodisse una storia così bella: la bolla di follia che circonda questa famiglia, equilibri sottili e meravigliosi, dove ognuno è niente più che se stesso; e l’amore puro che si respira, privato dalle sovrastrutture e dagli schemi che caratterizzano il comportamento adulto.
Si tratta sicuramente di una famiglia disfunzionale, che tuttavia induce il lettore a chiedersi: disfunzionale per chi? In fondo, sorrisi, amore e musica non sono tutto ciò di cui abbiamo bisogno? Un amore al quale non ci si può sottrarre, un amore pronto a tutto, insolito, irrazionale e allo stesso tempo dolcissimo.

Un esordio che non passa inosservato, una storia fuori dal comune, dove la verità sfuma nella fantasia e la ragione nella follia, un libro da leggere senza preconcetti e difficile da spiegare. Si può forse spiegare una canzone? Per comprenderla, e amarla, bisogna necessariamente ascoltarla.

«Lo so che mi amate, ma cosa ne farò di questo folle amore? Cosa ne farò di questo amore folle?»

Stefania Mangiardi

[Immagine tratta da Google Immagini]