Carlo Magno ed Hārūn al-Rashīd: un incontro

Ciao a tutti, lettori di Sophìa!

Il tema che oggi accenno riflette la mia personale Weltanschauung e mi consente di espolorare un argomento più attuale che mai: l’incontro-scontro tra culture e civiltà differenti e lontani, l’Occidente da una parte, l’Oriente dall’altra. La filosofia è sempre stata uno scrigno di auto-descrizioni ed auto-rappresentazioni che hanno consentito alla formazione di identità. Un’identità, ci insegna il filosofo Ricoeur[1], è un’auto-descrizione che comporta però sempre una distinzione: è strano, ma riusciamo a capire un po’ di più chi siamo e cosa ci caratterizza osservando un Altro da noi, che ha qualcosa che noi non abbiamo, che è qualcosa che noi non siamo. Ebbene, complice l’ultimo esame che ho finalmente dato venerdì, oggi la mia intenzione è quella di immergermi nell’incontro che avvenne tra l’impero di Carlo Magno ed il califfato musulmano di Hārūn al-Rashīd: un reciproco scoprimento e riconoscimento che farà forse acquistare a quel concetto di identità, che nella attuale crisi europea e mediorientale sembra esser diventata la nuova parola d’ordine, nuove sfumature. Historia magistra vitae, non per niente.

Il medievista Giosuè Musca pubblicò nel 1963 Carlo Magno e Hārūn al-Rashīd, che ricostruisce i rapporti tra Carlo Magno ed il prestigioso e ricchissimo quinto califfo della dinastia abbaside che regnò sull’impero arabo dal 786 all’809. Tra il 797 e l’807 i due si scambiarono missioni diplomatiche che misero per la prima volta in contatto le loro civiltà, che purtroppo due secoli più tardi si sarebbero violentemente scontrate nelle crociate. Musca, nell’Avvertenza al libro dell’edizione del 1996, scrisse queste parole, che faccio mie: «[…] il libro fu pubblicato nel 1963. […] Erano gli anni della guerra fredda tra due superpotenze emisferiche […] l’aria che si respirava mi spingeva a cercare in un lontano passato episodi di comprensione e di convivenza. […] In più di trent’anni il genere umano non sembra aver fatto progressi sulla via della saggezza: i conflitti si sono frazionati e moltiplicati in un crescendo di ferocia più che “barbarica”, ad opera di uomini divenuti ancora più lupi per i loro simili. […] Rimango convinto che oggi la necessità di conoscere e di comprendere le diversità e le loro radici storiche è, se mai, più urgente. Perciò mi illudo che questo libro possa conservare ancora qualche motivo d’interesse[2]».

Le fonti del tempo ci presentano l’incontro tra i due grandi sovrani come il frutto delle rispettive volontà, ma la loro non fu solo un’iniziativa, bensì un incontro fra due mondi: quello franco-cristiano ed arabo-musulmano. Nel 797 Carlo Magno invia in Oriente presso Hārūn al-Rashīd una prima ambasceria e nell’801 gli viene annunciato che sono approdati a Pisa due legati che gli annunciano che sulla via del ritorno v’è Isacco, unico superstite della delegazione, con grandi doni (tra i quali un elefante, Abūl Abbās)[3]: colui che donava – Hārūn – e colui che riceveva – Carlo – riconoscevano l’uno all’altro un grande potere[4]. Sappiamo che Carlo Magno costruì case ad Abūl Abbās, sotto gli occhi meravigliati dei Franchi e che, purtroppo, solo otto anni dopo l’elefante morì nelle lande germaniche. Si dice anche che Carlo si addolorò per la sua morte improvvisa: gli si era affezionato[5]. In seguito, Carlo volle ringraziare il califfo e, nell’806, i suoi legati tornarono dalla missione nuovamente carichi di doni preziosi. Tra essi, un orologio d’ottone, descritto da Eginardo come un meraviglioso congegno meccanico azionato dall’acqua in cui il tempo era segnato da dodici cavalieri che uscivano a turno da dodici piccole finestre, i cui rintocchi avevano il suono dei cimbali[6]. Ci fu, poi, anche un altro dono di valore impressionante da parte del califfo a Carlo: la tomba di Cristo (dove era stato adagiato il corpo). Un gesto, questo da parte del califfo abbaside, che è un avvenimento senza precedenti.

L’asse Aquisgrana-Baghdad fu scevro di motivi di discordia e al tempo stesso unito da una comunanza di interessi (nei confronti dell’impero bizantino e sul fronte religioso – entrambi, infatti, aderivano ad una fede monoteista- ). Le trattative tra Carlo e Harūn costituirono una pausa rispetto allo scontro-confronto plurisecolare tra mondo cristiano e mondo islamico cui, ahimé, assistiamo ancora oggi, ed anzi, la presenza islamica ad Oriente contribuì a forgiare le relazioni internazionali del periodo del Medioevo che l’Europa intrattenne[7].

L‘identità non può che accompagnarsi all’incontro. Eppure, una differenza implicita è presente: tutto cambia in base alla disposizione o meno a seguire e ritenere invincibili solo i propri pre-giudizi. Carlo Magno ed Hārūn al-Rashīd erano curiosi l’uno dell’altro e tra essi si sviluppò una filo sottile simile alla simpatia che permise ad entrambi di accrescere le proprie conoscenze su un’altra civiltà, e quindi di capire un po’ di più la rispettiva identità culturale, arricchendola maggiormente. È più che mai necessario, oggi, conoscere la diversità. Possibilmente, senza troppi pre-giudizi. La Storia è meravigliosa in quanto ci dà ogni volta che lo vogliamo la possibilità di apprendere qualcosa in più sul tempo attuale, guardando al vecchio: perché non sfruttare questo dono?

Sara Caon

[ immagine tratta da Google Immagini]

[1]    Vedi P. RICOEUR, Sè come un altro, Jaca Book, Milano 2011.

[2]    G. MUSCA, Carlo Magno e Hārūn al-Rashīd, Edizioni Dedalo, Bari 1996, pp. 5-7.

[3]    MUSCA, ed. cit., pp. 15-17.

[4]    Ivi, p. 32.

[5]    Ivi, p. 33.

[6]    Ivi, p. 40.

[7]    Ivi, p. 148.

Il pifferaio magico

Chi non conosce la storia del pifferaio magico? Beh, io ne ho incontrato uno.
Ma partiamo dalla famosa fiaba.
C’era una volta un uomo con un piffero che si presentò ad Hamelin, in Bassa Sassonia, per proporsi di disinfestarla dai ratti che la occupavano. Avuto l’assenso delle autorità (e la promessa di esser ben pagato) il pifferaio cominciò a suonare. I ratti, presi dall’incanto della musica del pifferaio, lo seguirono fino al fiume e lì annegarono. Compiuto il suo dovere, il pifferaio pretese il pagamento, ma le autorità di Hamelin si rivelarono essere bugiarde ed infide e non lo vollero pagare. Il pifferaio, allora, decise di vendicarsi. Mentre gli adulti erano in chiesa, cominciò nuovamente a suonare, attirando a sé a poco a poco tutti i bambini della città che lo seguirono fino ad una caverna. A questo punto, la fiaba ha molte versioni: c’è chi la fa finire bene e chi no, ma io non voglio svelarvele.

 
Tornando a noi… poco meno di un mese fa anch’io ho conosciuto un pifferaio, e un poco magico lo era. Trascinava un carrettino colmo di strumenti musicali da lui costruiti con materiali naturali, in legno, osso, conchiglia. Principalmente pifferi e flauti di ogni forma e dimensione, di tradizione etrusca e celtica. Si chiamava Ferentz Janos (questo il suo sito: tutora.tripod.com), ed è un artista liutaio e musicista ungherese simpaticissimo che gira l’Europa da anni con la sua musica.
Affascinate dal suo carro, io e mia sorella l’abbiamo avvicinato mentre suonava un flauto nel mezzo della via principale di Pergine Valsugana, nel pieno delle Feste Medievali.

 
Ci ha mostrato ogni pezzo che aveva costruito con le sue mani, traendone suoni bellissimi, e poi, nel mezzo della conversazione, ci ha stupite con: «Io sono il vero filosofo. Non seguite gli altri, seguite me».
Sono convinta che ogni persona possa diventare consapevole di essere filosofa. Siamo tutti filosofi. Eppure, il pifferaio “magico” che ho incontrato non era d’accordo. Ci ha invitate a seguirlo, come ogni pifferaio che si rispetti farebbe. La sua musica era affascinante, melodiosa, incantatrice, come ogni musica di pifferaio dovrebbe essere. Ma noi abbiamo a sua volta stupito lui. O forse non l’abbiamo stupito, ma abbiamo intravisto come cambiare il corso della storia del pifferaio.
Abbiamo comperato un flauto. Ci siamo fatte insegnare i segreti del mestiere (o meglio, quel poco che lui voleva condividere). E poi, l’abbiamo salutato e siamo andate per la nostra strada con un pezzetto di lui. Un flauto per diventare, se solo lo vorremo, a nostra volta pifferai magici. A nostra volta “veri” (chissà) filosofi.

 

Sara Caon

[immagine di proprietà di Sara Caon]

La noia è come un ragno silenzioso

Luglio, un caldo atroce. Seduta per terra in mezzo agli alberi di susine dell’orto di mio papà ieri stavo pensando alle “soluzioni a buon mercato” con cui vi ho lasciato, gentili lettori, nell’ultima puntata di questa rubrica.

Conversazioni piatte come marciapiedi di strada, pensieri errabondi e nessuna voglia di approfondirli. Cercare di spiegare a se stessi cosa s’intende nella vita con la parola “felicità”, che sembra tanto bella nei libri, ma senza farsi troppo male. Prolungare le illusioni e rassegnarsi ad esse.

Credo che tutte queste siano soluzioni a buon mercato e in ognuna di esse io m’imbatto senza colpo ferire.  Nel frattempo, però, consapevoli che siamo o meno, «la noia, come un ragno silenzioso, fila la sua tela nell’ombra.»[1]

D’estate, chissà perché, la noia mi cattura. Succede anche a voi? Per tutto l’anno questo ragno silenzioso e pesante ha tessuto la sua tela ma io me ne accorgo solo quando l’afa non mi permette più di respirare, quando ovunque girando con lo sguardo il respiro non mi si calma, e sono costretta a chiudere gli occhi, a farmi violenza nel tentativo di refrigerare lo spirito.

Se però rimaniamo impigliati nella tela, e lasciamo che la noia vinca su di noi, l’avvenire diventa come un corridoio tutto nero, e in fondo una porta serrata. Che fare?

Imparare a nuotare nel mare della vita è fare piccoli passi, volta per volta. Prima si prende confidenza con l’acqua, la sentiamo scorrere su di noi placida e tumultuosa assieme, ci accarezza e ci rinfresca. Poi, iniziamo a muovere i piedi per stare a galla e proviamo a spaziare con lo sguardo. Tanti nuotano accanto a noi, e bene, dunque possiamo stare tranquilli. Infine, muoviamo le braccia a ritmo del nostro respiro. I ragni della noia si allontanano da noi nel momento in cui ci ascoltiamo respirare, affondiamo nella ritmicità del soffio vitale, ci innamoriamo di noi stessi mentre respiriamo.

Talvolta è la nostra immaginazione che ci rovina: ci immaginiamo vite degne di re, crediamo di non poter essere felici se non arriviamo per forza dove la nostra fantasia ci vorrebbe portare, crediamo, come Emma di Madame Bovary, che l’amore debba essere un colpo di fulmine, tra grandi tuoni e lampi, un uragano del cielo che piomba sulla vita, la sconvolge, strappa la volontà come una foglia e trascina il cuore nell’abisso. Non sappiamo invece che sulle terrazze delle case la pioggia forma dei laghetti quando le grondaie sono intasate e, aprendo delle fessure, è lì che permette all’amore di  infilarsi.

Ciò che è grande, bellissimo, meraviglioso si manifesta nei dettagli più minuscoli.

Parole grandissime, esagerate ed imbellettate all’inverosimile nascondono invece effetti mediocri.

I ragni portano fortuna, dicono. Altroché: silenziosamente, infatti, ci parlano di noi.

Ci dicono che la pienezza della vita non trabocca dalle metafore vuote.

Sara Caon

[1] Flaubert, Madame Bovary.

[ immagine tratta da phio, Creative Commons License.]

Filosofare: un atto d’amore

Bentrovati a tutti i coraggiosi che hanno voglia di leggermi!

Se ricordate, la volta scorsa vi ho lasciato con un intento programmatico: imparare a nuotare (come non ha fatto il filosofo) e provare a riflettere (come non ha fatto il barcaiolo).

Ora, sono le sette di mattina e la mia mente sembra esser andata in blackout. Vedo nero (come Zucchero all’epoca). Tanti punti interrogativi si susseguono uno dietro all’altro, mi tremano le ginocchia, non riesco a remare, la pelle mi suda e, novella filosofa o aspirante tale, la mia domanda è: ma in cosa diavolo sono andata a cacciarmi?!?

(Ditemi che è anche la vostra, vi prego, in barca siamo tutti insieme!)

Ebbene, per fortuna il sole si alza e all’orizzonte si svela a poco a poco il nostro prossimo obiettivo, il primo step, che è: passare dal mito della purezza cristallina del pensiero fine a se stesso al linguaggio di tutti i giorni. In due parole: “sporcarci” di quotidiano come se non ci fosse un domani. Un’operazione un po’ alla Wittgenstein (del cosiddetto “secondo” Wittgenstein), se volete. Infatti, ora imbarchiamo pure lui: con Socrate ci terrà buona compagnia (dimenticavo di dirvi una cosa, l’altra volta: non ho avuto il coraggio di imbarcare Santippe! Sì lo so, ho fatto un po’ di selezione in partenza, spero non sia un problema).

“Sporcarci” di quotidiano diventa, se prendiamo a prestito le parole del filosofo austriaco, “avventarci contro i limiti del nostro linguaggio”: quello di tutti i giorni, che a volte non riesce ad esprimere il “puro” concetto che vogliamo passare. Ma anche quello dietro il quale ci nascondiamo per passare per “persone studiate”, che “sanno quel che dicono”.

Avete presente quei professoroni che, dopo aver tentato di spiegare un concetto con astruse parole, che nessuno capisce, rifiutano di spiegarsi nuovamente, magari utilizzando altre parole, perché alla fin fine… sono gli altri che non hanno capito (e non loro che non sono riusciti a spiegarsi)? Ecco, banditeli dalla vostra filosofica vista mentre siete imbarcati con me. Noi siamo dell’orientamento opposto, vogliamo sporcarci di quotidiano insieme, tentando di rendere il filosofare un “atto d’amore”. In che modo?

Il linguaggio, di per sé, per forza di cose “imprigiona” la totale bellezza di un pensiero accecante. Per forza di cose poiché deve renderlo comprensibile, quel flash alla Archimede (“Eureka! Ho trovato!”). Indubbiamente è vero che, cercando di renderlo comprensibile, ad un primo sguardo sembriamo sminuirne la portata. Eppure, e qui torna Wittgenstein, è solo “imprigionando” l’idea nel nostro parlare quotidiano (e al contempo avventandoci contro i limiti del nostro parlare per renderla il più possibile comprensibile) che ne facciamo intuire la bellezza e rendiamo partecipi anche gli altri della nostra torta.

È questo il genere di filosofare che è, propriamente, un atto d’amore. Non il filosofare dalle cattedre, che infarcisce la bocca di tanti paroloni. È il filosofare vis-à-vis, il mio linguaggio che si modella sul tuo.

Non a caso ho scelto Wittgenstein: dice Sergio Benvenuto che “Wittgenstein è uno di quei filosofi coi quali non possiamo mai andare a letto sicuri, non ci rimbocca le coperte vegliando su di noi”[1].

Ma visto che qui siamo in bella compagnia di gente che non cerca soluzioni a buon mercato, ho creduto che avrebbe potuto farci comodo averlo a bordo.

 

 Sara Caon

 

[1] Sergio Benvenuto, “Wittgenstein. Lo stupore e il grido”, p. 41.

Il filosofo e il barcaiolo

Ciao a tutti voi che mi leggete per la prima volta!

È per me un vero piacere cominciare questa rubrica e farò del mio meglio per farvi rimanere impigliati alla ragnatela di parole che andrò a tessere man mano. Però no, non sono un ragno e voi non siete le mie prede: voglio essere un tafano per chi mi segue.

Innanzitutto, mi presento: mi chiamo Sara e credo di aver vinto la palma d’onore (almeno, questo è successo nella mia testa) tra le followers più invasate di Socrate. Se avesse oggi un account Twitter credo farei più retweets delle sue parole di chiunque altro.

Avete presente? Quel bel tipo la cui moglie, Santippe, avrebbe fatto uscir di testa pure un santo. Quel greco che fece di tutto per tirarsi la zappa sui piedi, scegliendo di andare fino in fondo sulla strada verso la condanna a morte invece che salvarsi la cosiddetta pellaccia. Lui, proprio lui. Un rompipalle assoluto, uno scocciatore senza eguali.

Perciò ecco, questa era la premessa e se non vi sentite palati forti e volete una vita tranquilla senza scombussolamenti, senza “ordinaria filosofia”, cambiate aria ché questo non è il posto per voi. Se invece volete cominciare un viaggio con me, benvenuti: a bordo!

Cominciamo con una storiella.

C’era una volta un’amicizia tra un filosofo ed un barcaiolo. L’uno era un tipo schivo e riservato, prendeva “la vita con filosofia”, ma la sua era una filosofia diversa da quella di Socrate. Amava la tranquillità e la monotonia, troppi discorsi gli andavano a noia e il suo massimo desiderio era contemplare l’Assoluto sdraiato sulla spiaggia, ovvero sonnecchiare beato tutto il giorno. L’altro era uno che non stava fermo un attimo: andava di qua e di là sulla sua barca, viveva la vita al massimo, facendo esperienze e coltivando relazioni, ma momenti di riflessione ne aveva ben pochi. Non sapeva se gli piaceva la sua vita: gli bastava viverla.

Un giorno decisero di fare una gita in barca assieme. La giornata era splendida, il sole caldissimo e i nostri eroi si divertivano un mondo. Si era però alzato anche un forte vento ed il barcaiolo faceva fatica a mantenere la rotta. All’improvviso un colpo di vento più forte degli altri rovesciò la barca. Il barcaiolo gridò: “Filosofo, sa nuotare?”. “No!”, rispose quello. “Mi dispiace per te, hai perso tutta la tua vita!”. E il barcaiolo, saltato in acqua, si diresse a nuoto verso la riva, lasciandolo lì.

Ebbene: il cliché per cui coloro che fanno filosofia “perdono la propria vita” contemplando i cieli e non facendo un accidenti, cliché che questa storiella sottolinea, sfatiamolo subito.

Qui, parafrasando “Lezioni di cioccolato” (“qui creiamo piccoli momenti d’estasi”), creiamo invece “momenti di ordinaria filosofia”, e ciò non significa che facciamo filosofia in modo ordinario né che riflettiamo sul niente perché non abbiamo niente da fare.

Filosofia è vivere al massimo l’ordinario, è provare a vivere nel miglior modo possibile il quotidiano, è vivere in barca trovando il tempo per riflettere.

Il filosofo non sapeva nuotare: noi impareremo.

Il barcaiolo non sapeva riflettere: noi ci proveremo.

Sara Caon

[immagini tratte da Google Immagini]