Lo Sguardo

<p>Lo Sguardo</p>

Taluni dicono che le persone cambiano, altri che non cambiano mai, si dice anche che non si può conoscere a fondo una persona… e sono tutte verità grossolane. La verità, quella stretta stretta1, è che tutti gli aspetti e le caratteristiche di una persona, ritornano. Una persona che abbiamo conosciuto diversi anni fa, cambia e non cambia, rimane celata seppur in bella mostra. Ciò che abbiamo conosciuto non è altro che una porzione del suo tempo irrimediabilmente passata. Questo suo passato, nel suo agire pratico e mentale, non è altro che una tendenza al futuro, una fuga dal presente verso il futuro. In questa fuga, una persona è tutto ciò che è stata e tutto ciò che pensa di essere in futuro: entro il corpo di questa fantomatica persona ci sono tutti i propositi e gli auspici del suo essere al passato. Nel mezzo ci stanno tutti i sotterfugi per fuggire dagli Altri, dal loro sguardo che ci rende ciò che siamo stati a noi stessi e che pregiudica ciò che saremo; nel mezzo ci sta una nudità scomoda dalla quale fuggire. Le persone sono sostanzialmente nostalgia di ciò che sono stati e di ciò che ancora non sono.

Lo sguardo nasconde gli occhi, sembra mettersi davanti a essi2. È il testimonio della presenza della Libertà degli Altri; la prova tangibile che la Libertà è de facto un concetto che limita il soggetto mettendo a nudo la sua indecifrabilità. Ogni uomo libero ha un solo limite e lo si ha nel momento in cui il suo sguardo incrocia quello dell’Altro. In questo scambio di sguardi si è utopia per sé stessi e per l’Altro. Lo sguardo plasma le nostre pratiche e condiziona il nostro pensare; la libertà condensata in quello sguardo limita e ingabbia il mio cuore in una maschera di continenza3. Vengono a mancare le emozioni che danno misura, frenano l’analisi, legittimano l’arbitrio e creano il dinamismo. Per compiacere lo Sguardo sacrifichiamo tutte le abilità del mestiere4.

Lo sguardo è un legame senza distanza5; un atto di trascendenza, ed al contempo è l’atto che smaschera questa trascendenza: lo sguardo degli altri ci rende ciò che siamo ai nostri occhi. Essere visti ci fa esistere agli occhi degli altri ma, cosa più importante, ci fa essere ai nostri occhi; ci permette di percepirci, ci fa sentire esistere. Ci limita. Per questo agli uomini che vivono ed impersonano i contrasti del loro tempo e del loro essere si deve più di quanto si immagini: essi, più d’altri, sono l’allegoria più riuscita ed universale della vita umana6.

Tutti i nostri cattivi pensieri vogliono diventare santi e giusti7 agli occhi dell’Altro e così si falsano. Il pensiero si libera dalla custodia che le cinge la bocca, spalanca la porta della continenza e si riversa8 mondo esterno, si trasvaluta, si maschera davanti allo sguardo. Tutto ciò che appare non è, mentre tutto ciò che è non appare. Quindi Io come concetto irrisolvibile ma al contempo indissolubile; formato da cumuli di segni, gesti ed espressioni in tecnica mista in continua e perenne riformulazione, o meglio come una sorta di ‘Impossibile a divenire’. Innervato in ogni pennellata, come nel sangue che gocciola, nella forma, nel sole, luce, colore. Tuttavia in accordo, i modelli, i colori ed il mio Io9. Sentiamo il pensiero nascere in bocca10 e la potenza dalle mani e dall’intelletto e gli occhi sono al contempo limite ed infinito. Io come estensione e contrasto di natura e caos, sempre al di là della mia esistenza, al di là dei moventi e dei motivi del mio atto; sono libero11.

Salvatore Musumarra

Riferimenti e citazioni:
1. Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Canto della Notte.
2. Jean-Paul Sartre, Essere e Nulla, Lo Sguardo.
3. S. Agostino da Ippona, La Continenza, La bocca interiore del cuore.
4. Umberto Boccioni.
5. Jean-Paul Sartre, Essere e Nulla, Lo Sguardo.
6. Johann Wolfgang von Goethe, La teoria dei colori.
7. Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Dell’Uomo superiore
8. Libro Dei Salmi, Salmo 140, 3.
9. Paul Cézanne.
10. Tristan Tzara, Manifesto del Dadaismo.
11. Jean-Paul Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo.

Le metafore del corpo e dello spirito

<p>Il Vincolo di Cupido - Metafore del corpo e dello spirito</p>

Ogni uomo è utopia per sé stesso e per l’Altro; ogni uomo è sintesi di prese di coscienza del mondo e degli altri uomini che lo circondano. Uomini come cumuli di bisogni e desideri di trascendenza, come cumuli di dispiacere e di nuove volontà e desideri e bisogni sempre nuovi e sempre più sfuggenti. Un bel giorno, l’uomo sembrò così sia l’animale infelice che quello esaltato; un essere incorniciato tra l’irrimediabilità della morte e la consapevolezza di una vita in continua metamorfosi, all’inseguimento di un qualcosa che non si fa prendere. In continua fuga dal proprio essere, vincolato e legato alle sue affezioni nonostante queste sono per natura sfumate nella tonalità dei suoi pensieri e delle sue pratiche. Un uomo principalmente corpo del caos dell’universo e della natura, entro limiti e funzionalità; un caos impegnato a disporsi chiaramente a sé stesso e al mondo e agli altri seppure in continua fuga ed in continua evanescenza. L’uomo è un po’ come te caro mare e come il vento che ti orienta e muove la tua superficie con tutte le apparenze e le cose che ti ornano; muove a sua volta le cose che stanno nel tuo profondo e quello di noi uomini che ti stiamo a guardare attraverso lo specchio della conoscenza. Ma questo tuo muovere le cose, non è solo atomi, concetti e scienza; di più ancora muove le profondità degli uomini ed essi sono i significati altri che ti pervadono lo spirito. Quelli che non ci sono dati ma di cui siamo ugualmente padri. Più ancora, quindi, muove gli uomini e li porta a te mio mare! Sopra tutto è quell’esser nostro su per questi venti, nel piacere turbolento del non sapere e del perdersi; più ancora è il riflesso dell’intelletto, ossia il pensiero, la sua ombra, che si anela su se stessa e pensa al piacere anche per mezzo di attese e di scientifico dispiacere; come uccelli contro tempesta, senza parti e senza scienza ma con tanta volontà. Io stesso, scrivendo, anelo adesso il corpo a ciò che indichiamo come spirito; così il mio corpo come il mare, come il foglio sul quale Ti scrivo; è il corpo, il mio homme de lettres, e lo spirito, il vento, mi sussurra la solita annosa domanda: “Tu sei come me e sei persino me. Sei una Voce della natura, corpo dell’Universo e anche tu con una moltitudine di possibilità, ma chi tra noi due è anche metafora dell’altro?”

Salvatore Musumarra

Io, quaestio io – La libertà dell’Io

Io, quaestio io, che non sono ciò che appaio e che non faccio mio ciò che gli altri dicono che io sia.

Io, uomo, carnefice delle mie apparenze e delle mie Arie; quaestio Io che lotta perennemente contro le sue molteplici e discordanti voglie e che non può far a meno di dichiararsi guerra se non quando dal mondo arrivi un’aria – quella pesante e omologante – dalla quale non si riesce a percepire, compiutamente, la quantità di potenza e sapienza che rendono conto – e giovino – appieno dell’irrimediabile posa e portata soggettiva che si ripone nei termini di ‘Essere’ e ‘Essenza’.

Io, in quanto uomo, non sono che un Io, originalissimo, sempre imbellettato di questo come di quell’argomento: Io come concetto irrisolvibile, sempre in pena, sempre alla ricerca di un nuovo superamento o di un nuovo annullamento. Eccomi, come una sorta di ‘Impossibile a divenire’, o tuttalpiù come un Faust che gioca a dadi col Tempo e le sue tentazioni; l’ignoto, il dubbio, l’inquieto vivere di un’anima che non trova un mare, un ideale massificante, nel quale annegare. Io, quaestio io, un cumulo di segni, gesti ed espressioni su tela in tecnica mista che non vuole risolversi in un unicum artistico: un Io senza dubbio illuminato da una luce inspiegabile, una sorta di follia beneaugurante.

Di nuovo, eccomi, spoglio dalle censure del mondo e dai cosiddetti, psicologicamente, Altri: libero, presuntuosamente presente, su un palcoscenico intellettualmente sempre sconosciuto: eccomi, libero, danzare come un potente dio sulle note di mille vite, attraverso colori, forme, dizioni, metafore e congiunzioni. Un dio mi attraversa, mi rende potente ed al tempo stesso solitario: colmo di lacrime, di pena e ancora di follia, di presunzione, di forza e di coraggio.

Io, quaestio io, che morde il tempo; che ritaglia spazi e costruisce congetture per darsi la massima libertà in un mondo e in una società che, ahimè, inscatola la Libertà in un concetto fin troppo semplice. Cos’è la Libertà? Alcuni dicono che la libertà di un individuo abbia come limiti la libertà del suo interlocutore, eppure la Libertà è un concetto fin troppo aleatorio, cangiante e soggettivamente opinabile: quindi, cos’è la Libertà se non l’arrogarsi il diritto, con la conseguente potenza, di dir la propria in barba al giudizio degli altri e del mondo intero?! È o non è, la Libertà, questa mia perenne ricerca di un ‘Me stesso’ tra i meandri di un Io costruito attraverso giudizi, opinioni, sindacalizzazioni, pregiudizi di Altri e del Mondo?!

Io, quaestio io, in perenne viaggio tra le beghe di una moltitudine di Essenze, di Esseri, di Nulla, di Mondo, alla ricerca di Me stesso, della mia potenza, di una mia probabile influenza e di una sorta di Fine di Me stesso.

Attraverso gli altri e il mondo, in perenne viaggio tra mille vite e mille valori e ideali, alla continua ricerca di un Vero Essere, oltre le apparenze e le appartenenze, ivi alla ricerca della mia Morte: sì! Alla ricerca della mia morte, della morte dell’essere costruito dagli Altri e dal mondo. In viaggio alla strenua ricerca della morte del prodotto di questa libertà qual sono diventato: di tutta quella mia ‘Arte al condizionale’. Praticamente, sono alla ricerca di una dissoluzione in terza persona.

Salvatore Musumarra

Essere e Nulla

<p>Disegno Musumarra Prattismo La Chiave di Sophia</p>

Ciò che in prima istanza si pone davanti agli occhi è l’essere? Ciò che si fa percepire al nostro tatto, al nostro gusto e olfatto è l’essere? Cos’è quello che propriamente, a volte segretamente, cerchiamo se non l’essere del nostro interlocutore? Ma l’essere è o non è ciò che appare? Ne è una parte ben definita, intera, oppure è in una misura pari ad una numerazione periodica o semplicemente frazionata, qua e là, tra le mille cose che la nostra specie ha portato a compimento?

L’apparenza è già essere? Se sì, perché certe volte non basta? E se l’essere fosse un Nulla? Se non esistesse nessun essere e l’inconscia consapevolezza dell’uomo sull’inconsistenza, l’incoerenza, il mistero di questo ente-fantasma, fosse essa stessa la scintilla del Deus che imperiosamente personifica tutte le idee e le ipotesi immagazzinate, ponendosi come Spirito, Musa o Ispirazione nell’essere umano? Cos’è la spiritualità umana? Se questa nostra idea dell’Essere, se ogni suo particolare e genesi e struttura e corporeità fosse totalmente dispiegata nel nostro subconscio e che, psicologicamente, si manifestasse come desiderio, come pulsione, come momento organicamente propizio, e successivamente come pratica nel nostro Agire/Pratica nel/del reale? Proprio perché è un apparente Nulla incoscientemente svelato – ma non raggiungibile -, noi lo desideriamo, lo cerchiamo, lo vogliamo: si fa oggetto di desiderio perché apparentemente si cela, non è corporeo; questo sorta di cosa non la possiamo indicare ivi giudicare secondo gusto: è Essere, un imperioso e condizionante Sono fatto così. Allora questo è un Essere che è già svelato, seppure nel nostro puro apparire e fa gioco-forza sul Nulla sul quale poggia. Ma questo nulla è già Nulla, e l’essere che ne viene è Microcosmo, palliativo, dell’Universo che ci circonda; che poggia, sicuro, nel suo nulla come Socrate nel non sapere. Un Nulla che sostiene e protegge ciò che appare da tutto ciò che l’individuo dispiega come vero e dimostrabile e ancora come verità intelligibile e come chiave e ponte per l’al di là della personale apparenza: perché egli è nulla e chi vuole conoscerlo deve farsi esso stesso volontà del suo stesso Nulla; per conoscere l’Altro bisogna annullarsi e farsi Essere del nostro interlocutore, coglierne l’essenza e le variegate contraddizioni che si levano dal suo centro, dal suo Ego.

Ma cosa si eleva nello specifico? Tanti Oggetti, che, come cani feroci, aggrediscono le apparenze della nostra soggettività, sciogliendole dal velo della contraddizione, del dubbio e dell’ignoranza ricacciando le risposte alle nostre domande verso l’essere, verso un più saldo è così e così che, sebbene potenzialmente falso o temporaneo o celato o costruito, è certamente più stabile e plasmabile di un magnifico e cosciente, aperto, nulla: un essere che attraverso gli ideali e le dottrine e le scienze si pone una spanna al di là della sua apparenza, della sua soggettività ivi in piena contraddizione. Quest’ultima non può sciogliersi semplicemente in ciò che appare ma va cercata più in profondità; l’apparenza, e tutte le sue contraddizioni, è inaccettabile quindi si cerca l’essere tra le pieghe dell’apparenza, sostanzialmente perché la semplice equazione essere-apparire non basta; perché troppo semplice, troppo facile, troppo immediata. Morale, scienza, religione, società, giustizia, legge, libertà, amore, questi rinforzano la base, il nulla, dell’essere e mordono tutti i particolari che scintillano sulla nostra pelle, limano ogni nostro comportamento, e vogliosi, appaiono e si danno ai sensi del nostro interlocutore.

Tutto ciò che abbiamo oggettivizzato dà una via di fuga dall’apparenza, da ciò che è evidente ai sensi e al nostro corpo – da ciò che è evidente persino a noi stessi che ci scrutiamo e ci specchiamo negli occhi del nostro interlocutore o tra le mura della nostra intimità -; sono rifiuti eleganti e colti all’apparenza che viene fuori dalla corporeità, dalla soggettività, ed al contempo i distintivi delle nostre capacità comunicative e del nostro ruolo all’interno della società. Ma il nostro apparire non viene spazzato via in toto; la nostra soggettività non viene demolita, ma limata, oggettivizzata. Le apparenze si rafforzano di Oggetti, cacciando le contraddizioni della soggettività – ivi anche l’unicità della nostra sintesi io-altro-mondo – verso il nulla e profondo Essere: qui, in gabbia, la nostra soggettività, trema e scuote i nostri archetipi; la società non vuole soggetti, ma oggetti e in quanto tale non rimane altro che gettarsi fuori nelle arti, nella musica, in amore, in guerra o nell’idealismo e nella trascendenza. Ma l’essere quindi che fa? Protegge e dà all’apparenza una via di fuga, un nuovo inizio, un nuovo via? Magari oggettivizzandola, rendendola più Sociale? Di certo protegge le nostre performance sociali qualora queste vengano smascherate: l’essere è una superficie che fornisce archetipi e stereotipi sempre nuovi ma che trovano fondamento su tutto ciò che il reale ha fornito e fornisce ogni giorno. L’essere così è un retroscena di ciò che appare, è una finzione, un nulla di comodo dentro il quale rifugiarsi quando tutto ciò che trasuda dalla nostra superficie entra in contraddizione con sé stessa ed in tensione con l’atmosfera circostante. L’essere ciò che si è è ciò che pretendiamo quando siamo innamorati; un Nulla in pieno svolgimento.

Salvatore Musumarra

[Immagine tratta da Google Immagini]

C’è dell’Arte sull’uomo?

<p>Jean Tinguely, Méta.Matic No. 14</p>

«Ogni impulso che vuole essere soddisfatto esprime la propria insoddisfazione per lo stato presente delle cose: ma come? Forse il Tutto è composto di semplici parti insoddisfatte, ognuna delle quali ha in testa dei desideri? E il “Corso delle cose” è forse appunto il “Via da qui”, il “Via dalla realtà”? La stessa eterna insoddisfazione? La desiderabilità è forse la stessa forza motrice? È Deus?» (1).
Nietzsche esordiva così la sua critica sul Tutto di Kantiana memoria, a favore di un punto di vista più relativo, più particolare, e qui ce ne serviremo per ingabbiare quella forza motrice, quel desiderio, quel “Deus”, che muove l’uomo sin dalla sua apparizione sulla terra: il desiderio d’immortalità.

Come possono degli esseri biologicamente portati alla morte, raggiungere questa utopia? Si desidera un “Tutto” del tutto – scusate il giro di parole – indesiderabile e profondamente inconcepibile per la scienza e per la natura: persino le rocce si frantumano e l’acqua degli oceani evapora via e si ricambia di volta in volta. Questo profondo desiderio trova nell’arte e nella religione le sue principali valvole di sfogo; da qualche decennio popola anche gli scenari fantascientifici del cinema e del teatro e da qualche anno persino la scienza e discipline come la sociologia e la filosofia sembrano dare particolare attenzione a questo primordiale desiderio umano. Attenzione scientifica che vi arriva attraverso gli studi che analizzano il rapporto, oramai stretto, che vi è tra tecnologia e corpo.

Sempre Nietzsche alla fine della sua “Critica sui valori supremi” inscatola così, dopo aver descritto e smontato il suo Tutto e l’impianto valoriale umano, l’evoluzione umana:

«Acquistare potere sulla natura e inoltre un certo potere su di sé. La morale è stata necessaria per far vincere l’uomo nella lotta con la natura e con la bestia selvaggia […] Se si è acquisito il potere sulla natura, si può utilizzare questo potere per formarsi ulteriormente come uomini più liberi: volontà di potenza come elevazione e rafforzamento di sé» (2). Cos’è questa volontà di potenza se non quello stesso desiderio d’immortalità – da raggiungere attraverso il potere e grazie alla forza del proprio ego, con il quale plasmare il mondo circostante ed influenzare il futuro anche in propria assenza, anche dopo la propria dipartita?

Dalla Rivoluzione Industriale, con il progresso della scienza, della tecnologia e dell’umana ragione e del conseguente processo di secolarizzazione della religione predominante in occidente, questo “desiderio” non sembra affievolirsi; non viene digerito dall’uomo, piuttosto si rafforza attraverso la scienza e con l’abbandono dell’ascetismo religioso a favore di un ascetismo laico. Ascesi laica che, con l’affievolirsi delle strutture religiose, in occidente, trova terreno fertile tra le trame del mercato e del sistema sociale. Ponendola in questi termini, Durkheim e Weber avevano ragione nel rintracciare l’essenza umana e del suo agire più nella società civile e nella sua organizzazione che nelle dottrine religiose, le quali sembrano essere dei semplici veicoli dell’essenza della società umana.

E l’arte? L’arte anch’essa cambia e si adatta al contesto ed in virtù di questo cambiamento di pensiero, sociale. Un adattamento dell’arte al tessuto sociale, che dalla rottura della forma dei primi espressionisti europei porta dritti ad un periodo, dal punto di vista artistico, così prolifico da non essere più eguagliato: per tutto il novecento Dadaismo, Futurismo, Metafisica, Fluxus, Happening, Pop Art etc. etc. popolarono il mondo e spazzarono via l’arte “vecchia” anche dal contesto sociale oramai sempre più visceralmente meccanico, industriale e spoglio dalle ingerenze e dalle intrusioni delle dottrine religiose. Il mondo è cambiato, lo spirito dell’uomo si sta forgiando sotto ferri più duri ed ecco che il mondo artistico risponde con grande animosità e desiderabilità. Il mondo artistico concorre con quello scientifico a soddisfare e a comunicare quell’impossibile – squisitamente umano – desiderio d’immortalità.

Abbiamo corso molto, forse troppo; è impossibile enunciare, citare, descrivere tutto e tutti i particolari di quel “Tutto” che non è altro il prodotto della mente: « […] la forma del corpo naturale che ha la vita in potenza» (3). Soffermiamoci su una parola che abbiamo già visto precedentemente: Cyborg. Una metafora che «rappresenta la fusione, la combinazione o la relazione parassitaria tra la sfera biologica e quella culturale, tra i prodotti dell’evoluzione e quelli della fabbrica» (4); una metafora che ci aiuta a capire quanto sia importante, dal punto di vista sia artistico che sociale, l’influenza delle nuove tecnologie, che ha contribuito e che tutt’ora contribuisce a trasformare l’uomo, l’idea che egli ha di se stesso e del mondo in cui vive.

Cosa hanno in comune buona parte dell’arte contemporanea, la società contemporanea e quel desiderio d’immortalità prima citato? Il rifiuto del corpo! Tutta la cultura popolare contemporanea, la stessa evoluzione delle biotecnologie furono e sono permeate dal rifiuto del corpo: la predisposizione oramai profonda di coniugare mezzi con fini, l’abbandono quasi del tutto della concezione positiva, seppure a volte tragica, di “Natura”; dopo generazioni e decenni vissuti a contatto con macchine e tecnologie; l’idea del fallimento, del degrado, della morte o dell’inefficacia sta via via per essere bandita dal pensiero umano: come macchine anche i nostri corpi, attraverso la scienza, la chirurgia, le semplici modificazioni del corpo – persino in arte, attraverso la body painting – possono e devono essere sostituiti ed in nome dell’infallibilità dell’uomo; della potenza dell’uomo sulla Natura e sulla morte. Le nostre conoscenze scientifiche sul DNA umano ci consentono di pensare ad una trasformazione totale non solo dell’uomo come idea, come rappresentazione e come oggetto bensì anche come individuo, come corpo, come soggetto. Si prospetta anche la creazione di un universo completamente virtuale: come se tutti noi potessimo un giorno andar a vivere dentro La Guernica di Picasso – per tutti gli spiriti battaglieri o masochisti – o dentro l’ultima cena di Leonardo Da Vinci – per tutti gli spiriti ascetici e fortemente religiosi. Più che il mondo scientifico, sembra il mondo artistico a progettare il futuro: un estro ebbro di frenesia e di desiderio.

Ma al di là della fantasiosa desiderabilità dell’estro umano e delle ipotesi fantascientifiche di una migrazione totale della mente da un corpo a un macchina, dobbiamo ammettere che quando siamo sconnessi dalla tecnologia – o meglio, dalla rete web – percepiamo come una parte di noi monca: assente. Il nostro corpo oramai non è solo quello biologico, ma anche quello tecnologico. Le prospettive sono cambiate e continuano a cambiare via via che il tempo passa e le tecnologie migliorano la nostra presenza sulla Terra e tra tutte queste, fantasiose e non, l’ibridazione – ossia l’inclusione delle qualità e delle potenzialità delle macchine nel nostro corpo e non viceversa – resta quella più plausibile a livello scientifico ed eticamente e moralmente accettabile dalla gran parte degli esseri umani. Ma questo processo d’ibridazione non è una novità nel panorama umano; un processo rintracciabile dalle primitive modificazioni del corpo ai tatuaggi, dalla body painting alla transizione sessuale. Un processo che adesso urge di una maggiore attenzione e non perché sia nuovo, piuttosto perché le tecnologie umane, se senza controllo, rischiano di spazzare via non solo l’idea del corpo umano ma anche l’essenza, lo spirito, dell’uomo. Il solo estro istrionico dell’uomo-artista, della vita, è un vantaggio in quanto monitora e prefigura il futuro ed al contempo uno svantaggio se questi tende in via assolutistica ad un futuro condizionato semplicemente dal suo desiderio e dalla sua volontà di potenza e d’immortalità.

L’ampliamento del campo percettivo e esperienziale e di conseguenza di quello emotivo e valoriale derivanti dagli studi sul genoma umano – al di là del mito e della fantascienza – pone davanti all’uomo un non-nuovo problema: quello della definizione della propria identità e dei suoi pilastri portanti ed in tutto ciò l’arte, l’estro artistico, non può che mettere l’accento sull’urgenza dell’apertura di un ampio dibattito sul tema enfatizzandone le premesse e prefigurandoci le sue molteplici prospettive. Arte e scienza vedono l’uomo come quel “ponte” profetizzato dal filologo tedesco Nietzsche, che porta dritto al “Superuomo” o per meglio dire, all’uomo delle stelle; alla conquista dell’Universo attraverso la riscoperta della sua umana essenza.

C’è dell’arte nell’uomo?

Salvatore Musumarra

Citazioni
(1) Friedrich Nietzsche, La Volontà di potenza, Bompiani 2013;
(2) Friedrich Nietzsche, La Volontà di potenza, Bompiani 2013;
(3) Alberto Giovanni Biuso, Cyborgsofia, Il pozzo di Giacobbe 2004;
(4) Giuseppe Longo, Il nuovo golem, Laterza 1998.

Fonte immagine: Jean Tinguely, Méta-Matic No. 14, Méta-Matic, 1959 – Material / technique: Portable sculpture, metal and wood, wires, rubber belts, painted black Size: 38 x 69 x 41 cm

Ricetta universale dell’Arte e non solo

<p>Opera dada Prattismo Arte</p>

Per preparare l’Arte – e non solo… – mettete sul fuoco una pentola contenente abbondante Tempo che, a bollore, salerete ed idealizzerete moderatamente, in considerazione del fatto che il contesto ha già un condimento molto sapido ed ideale.

Nel frattempo tagliate gli impulsi sessuali del corpo dando loro una certa forma e spessore cosicché il desiderio non rimanga crudo, mettete il tutto in padella antiaderente, senza l’aggiunta d’amor proprio. Lasciate sul fuoco per qualche minuto, senza bruciarne l’essenza, fino a quando il desiderio diventerà trasparente e leggermente croccante. Togliete dal fuoco e lasciate intiepidire leggermente.

Rompete dei cuori in una ciotola, uno per ogni commensale più uno extra al quale togliere il senso, sbatteteli, quindi unite delle belle parole – Meglio della filosofia se ne avete in frigo – secondo gusti del pepe e dell’ego e mescolate per bene il tutto con una frusta fino ad ottenere un composto omogeneo, una sorta di crema chiamata anche Emozione, quindi mettete a cuocere il contesto.

A fine cottura, scolate e versate il contesto in una ciotola assieme agli impulsi sessuali del corpo e alle emozioni ed amalgamate per bene. Non serve far saltare ulteriormente.

L’Arte è pronta! Servite immediatamente e, all’occorrenza, aggiungete altre belle parole o altra filosofia, pepe e ego.

Questa pietanza si abbina con dell’estro di medio corpo, secco, intenso, equilibrato e all’olfatto caratteristico e con note floreali. Meglio se con bollicine cosicché risaltino al meglio le note sapide ed ideali del piatto.

Ma il personalissimo gusto di ogni commensale – compreso quello del creatore – potrebbe opporre resistenza a questo eventuale abbinamento, cosicché, nonostante sia consigliabile ricercare sempre l’estro appropriato per ogni sapore, in certi casi è possibile trasgredire la regola e dar ad ognuno la possibilità di sperimentare soluzioni secondo gusto. Quindi, in definitiva, per buona pace del creatore e di tutti i commensali si consiglia un estro dal finale aperto.

Buon appetito e non solo …

Salvatore Musumarra

Terrorismo del XXI secolo: un punto di vista fuori dal coro

<p>Attentati di Parigi, un punto di vista fuori dal coro</p>

Al diluvio generalista, qualunquista, razzista e guerrafondaio della gran parte degli internauti sugli attentati perpetrati dal terrorismo contemporaneo, pacatamente, rispondo: Davvero siamo convinti che bombardando a tappeto il mondo risolveremo qualcosa? Se non sbaglio la Germania nazista fu sconfitta a suon di bombe ma non per questo il nazismo, il razzismo e la xenofobia le abbiamo completamente depennate.

Ma siamo davvero convinti che sia l’Islam il problema? Che sia solo ed esclusivamente una religione a fomentare il terrorismo? Se fosse così, crediamo di essere da meno? Lasciamo perdere per una volta tutte le marachelle cristiane passate in giro per il mondo e concentriamoci sul presente: pensate davvero che cento, duecento, mille morti siano eventi più gravi di tutti gli scandali in cui Santa Chiesa Romana – se proprio vogliamo focalizzarci esclusivamente sulla religione quale veicolo di violenza e morte – è invischiata? Che nei primi il male sia gratuito, palese, violento e da condannare senza se e senza ma, non c’è dubbio, ma nei secondi, in noi bravi cristiani, il male mi sembra sottile, egoista e materialista e fa altrettanti morti e forse forse anche più danni sul lungo termine.

Come? Perché? Semplice, l’attico del Bertone, i festini e le chincaglierie e la droga dell’abate, tutte le imprese commerciali e le strategie finanziarie del Vaticano con quali soldi vengono portati avanti se non con quelli dell’8×1000? E questi soldi non dovrebbero andare ai bisognosi? Ai poveri? Agli affamati? Questi vedono arrivarsi uno anziché dieci per il loro sostentamento e non sappiamo nemmeno se quell’uno arrivi per davvero: pensiamo davvero che stiamo solo noi dalla parte illuminata della terra? Pensiamo davvero che semplicemente rubando, morti non ne facciamo in giro per il mondo? Forse non ci è dato saperlo, ma se tu, caro lettore, fossi povero e – che so – dello Zimbabwe e non hai un soldo seppure ti abbiamo promesso aiuto, e vieni a conoscenza di quanto sia stato utile il tuo denaro – donato dalla collettività tra l’altro – a rendere agevole la vita di un prelato o di chissà quale altro benpensante e benestante di turno, ebbene come reagiresti? Non dico che gli attentanti di Parigi siano l’effetto degli scandali vaticani, piuttosto sono l’effetto di politiche meschine, materialiste, guerrafondaie e accattone dal dopoguerra sino ad oggi. D’altronde, pensandoci, buona parte del terrorismo del XXI secolo fa leva proprio sull’immoralità della nostra società.

Pensiamo davvero che le bombe di una nazione democratica siano più morali di quelle di una nazione o di un gruppo o di un movimento antidemocratico? La verità è che non possiamo pensare di esportare i valori occidentali a suon di bombe, con gente armata fino ai denti, con la bandiera del nostro paese in un territorio straniero e con tutte le balorde contraddizioni che stanno via via venendo fuori dalla nostra opulenta società (vedi gli scandali vaticani, le bugie sulla guerra degli ex premier Tony Blair e G.W.Bush, l’incredibile inefficienza del sistema politico europeo e l’uso di grandi multinazionali per depredare, ancora oggi, paesi inermi e allo sbaraglio).

Il vero nocciolo della questione, a mio avviso, sta, nel contesto occidentale, nella perdita del valore dello spirito nell’uomo a causa dello smembramento e deterioramento della struttura che ne detiene il monopolio, ossia santa romana chiesa, mentre per quanto riguarda il contesto islamico, troviamo un innervamento di questo stesso spirito e di una sua fatale congiunzione con i mezzi tecnologici, economici e con le finalità politiche contemporanee. Alla stregua di quando il capitalismo prese piede in occidente, grazie al matrimonio tra economia e tecnologia con la vocazione spirituale (vedi Spirito del Capitalismo di Max Weber), oggi l’islam si ripropone fatalmente usato ed abusato per questioni squisitamente economiche, politiche e geopolitiche: come agli albori del sistema capitalistico, oggi un nuovo spirito si sta risvegliando e attraverso un’altra fede, non cristiana, ma pur sempre attraverso una fede, per vocazione. Vi è comunque una profonda differenza che ne determina l’azione e la portata di tale vocazione, di tale spirito, ossia la mancanza di una struttura centralizzata nell’Islam: ma questo è un altro, interessante, punto di partenza per analizzare quanto e in che misura si possa condannare in toto tutti i credenti musulmani.

Isis, Al Qaeda, repubbliche islamiche e quant’altro sta venendo alla ribalta in questi periodi non sono altro che i primi sintomi del risveglio dello spirito di un nuovo (profondamente morale quindi intollerante e spietato con chi tenta di sbarrargli la strada) concetto di società che sta trovando nei mezzi, nelle tecnologie e nell’immoralità del suo nemico l’humus ideale per potersi espandere, farsi ideale in una massa e in uno Stato e vocazione in un singolo individuo.

Signori miei, rassegnamoci, rimbocchiamoci le maniche perché la storia ci descrive – tutti! Occidentali e non – come bambini che vedono per la prima volta una presa elettrica e per puro esperimento, ci mettono due dita.

Cosa abbiamo imparato dalle due grandi guerre? Che ci ritrovammo con una rivoluzione industriale, con nuove tecnologie, combustibili, colonie, un gran numero di soldati e dei risentimenti da sfruttare e così ci inventammo due grandi guerre: distruggemmo l’Europa, buona parte dell’Asia e ci avviammo verso il disincanto da qualunque etica e morale. Perché? Perché come bambini testammo tutto il nostro nascente potenziale.

Mentre oggi ci ritroviamo dentro un mondo volutamente senza frontiere e laddove ancora resistono è facile eluderne i controlli. Abbiamo sofisticati mezzi di comunicazione che vanno oltre lo spazio ed il tempo, un sistema economico molto più feroce e geloso di qualunque sistema statale e politico mai visto sulla terra e così, come dei bambini, ci stiamo ritrovando nuovi giocattoli per le mani e per indole innata ne facciamo esperimento con un terrorismo a macchia di leopardo. Noi occidentali non siamo esenti dal terrorismo e a tal proposito vorrei ricordare quando fornimmo armi ed equipaggiamenti ai mujaheddin afghani o il sostegno ai terroristi nicaraguensi contras o i finanziamenti al sindacato polacco Solidarność; senza scrupoli e senza alcuna prospettiva futura applicammo la Dottrina Reagan e sostenemmo individui e gruppi ambigui per arginare l’egemonia sovietica.

Dai primi del novecento sino ad oggi, si sta sistematicamente smantellando il senso puro e netto della rivoluzione francese, della libertà, del sogno di un’umanità senza confini, dell’uguaglianza, della ragione e dello spirito di fratellanza. Il mio augurio è che ognuno nel suo piccolo faccia del suo meglio per impedire questo nuovo sfacelo, che mantenga a freno la propria emotività di fronte a simili atti di terrorismo e che si comporti da adulto, senza andar incontro ad un odio gratuito, di stampo eurocentrico e liberticida: Pensiamo al futuro.

Umanità, resisti!

Salvatore Musumarra

 

Le parole di un altro

<p>Le parole di un altro La Chiave di Sophia</p>

Le parole degli altri convogliano a formare il nostro Me; giudizi, pareri che ci riguardano ci formano e ci aiutano a capire chi siamo e cosa trasmettiamo al nostro prossimo: che si sommano alle iperboli dell’Io. Ognuno di noi non è il solo prodotto dei propri pensieri, del proprio agire sociale bensì per buona parte siamo formati da tutto ciò che proviene dall’esterno: dalla famiglia, dagli amici, dalle nostre avventure, dalla società. Vi siete mai chiesti come mai quando ci troviamo in gruppo – e di gruppo in gruppo, cambiamo ripetutamente modus di espressione – pensiamo, parliamo, agiamo in modo differente rispetto a quando siamo soli e/o in una stretta e fidata compagnia?

Le parole di un altro

Le mie parole sono sempre quelle di un altro,
sono tutte quelle che stanno sull’uscio,
in attesa di entrare.

Disegnano l’orlo del mio Io
e lo spacco che da in profondità.

Note stonate sul pentagramma
concertate nel modo giusto.

Le parole di un altro sono timide,
sussurrate di nascosto dalla mente.

Le parole di un altro
sono quelle che non calzano perfettamente:
di larga manica e strette alla vita.
Sono risposte mai date,
speranze e sentimenti di nuovi cantautori.
Sono da prendere così
da rubare per l’autunno,
da amare e da bere in compagnia.

Parole dadà, parole in toto.

Parole su parole che non sono sempre e solo parole,
ma son le stesse anche dall’altra parte del mondo.

Le parole di un altro sono rapine e furti di luce
ed anche tu che nascondi l’anima, ami prendere dal sole.

Le parole di un altro sono anche amore.

Tutte le parole senza voce,
solo quelle,
diventano amore dentro ogni sguardo.
Ma te voli via e già la sorte segue la tua scia.

Salvatore Musumarra

Scrittura automatica surrealista – La libertà

La storia è una lunga catena montuosa che in pochi sanno valicare ma che dalla quale ogni uomo può astrarre il meglio ed il peggio che vi sia già stato su questo mondo. Dopo una lunga scorpacciata di avvenimenti storici sorge così una domanda: Cercare o creare tutto ciò che manca? Subito sovviene una risposta: In questo eterno presente ciò che più conta non è vivere appieno il desiderio bensì ciò che lo rende autentico.

Quindi, cosa dovrei farne?

Indubbiamente qualunque cosa andrebbe fatta deve essere autentica seppure non eccessivamente brutta o veritiera; invalicabile, così da poter essere spacciata come ideale ed astratta cosicché più anime possano crogiolarsi nel torpore di questa nuova fede. Si dovrebbe redarre un testo che ne enfatizzi gli aspetti e che esorcizzi la sua eventuale fine: tuttalpiù, che rendi la morte di questo nuovo ideale il fiore all’occhiello della sua eventuale resurrezione.

Dovrei pensare ad una musica composta malamente ma che possa essere eseguita egregiamente anche dal più mediocre musicista. Dovrei pensare ad un’estetica artistica di facile accesso ma di difficile ascesso: ogni buona arte getta perché nel fondo dello spirito di ogni uomo, seppure piena di errori stilistici e incongruenze anacronistiche. Dovrei, dovrei, dovrei… ecco! Il dover Fare è la mia più alta aspirazione in un mondo così affollato da incompiuti vorrei e da una frenesia libertaria, tutta umana, che usa il suo oggetto – la libertà – come strumento per debilitare il prossimo dal suo personalissimo estro, rendendolo uguale al prossimo.