La condizione dell’uomo d’oggi in un mosaico: Nietzsche, Heidegger e Camus

La filosofia può essere ancora una bussola per l’uomo d’oggi? Ad opinione di chi scrive certamente sì, anche in questo mondo dove è la scienza a fare la parte del leone – conoscitivamente parlando. Sì, va anche detto che l’opinione di chi scrive sia di parte, perché è innamorato di donna Sophia1. E forse allora, come ogni amante, è cieco circa le reali possibilità della filosofia di condurre l’umanità odierna alla verità. Se è così, bisogna pure dire che sia nell’ottima compagnia di altri non-vedenti come lui: precisamente Nietzsche, Heidegger e Camus, le cui riflessioni possono essere pensate un po’ come le tessere di un mosaico, perché, unite, sembrano mostrare (questa è l’interpretazione di chi scrive, assolutamente opinabile) un’immagine nitida della condizione ontologico-morale dell’uomo odierno. Quale?

Nietzsche innanzitutto, la volontà di potenza: che cos’è? «E questo segreto mi ha raccontato la vita stessa: […] “io sono ciò che deve sempre superare se stessa”. […] Solo dove è vita, là è anche la volontà: ma non la volontà di vita, bensì – così io ti insegno – volontà di potenza!»2. La vita, scrive il filosofo, non è insomma soltanto sinonimo di perpetrazione della specie umana, no, essa è potenza3. Ma non è forse anche libertà? Certo, è volontà di potenza. L’essere umano è in altre parole investito di un’importante missione: continuare a scegliere, ad essere sempre possibilità di nuove decisioni esistenziali. Rimodellarsi perennemente come ente perennemente libero.

Primo tassello del mosaico: l’uomo odierno è quindi, secondo Nietzsche, inesauribile opzione di sé – deve essere ciò. Già, essere: proprio Heidegger si può pensare abbia radicato questa tesi nietzschiana nel terreno dell’ontologia. Negli abissi del nulla.

Il nulla: comprenderne l’analisi heideggeriana è possibile solo stringendo in mano una certa parola-chiave, proiezione. L’uomo «potendo essere […] sta via via in questa o in quella possibilità, e costantemente non è l’altra»4: questo significa proiezione. Vuol dire scegliere per una certa alternativa di vita e consegnarne un’altra compossibile al niente. Fino alla morte. Che l’uomo, appunto, precorre rendendosi conto che essa è «possibile in ogni istante»5. In ogni momento, insomma, essa può far calare la sua falce sulle persone. E, paradossalmente, propria questa è la possibilità umana per antonomasia: morire. Perché se gli uomini possono scegliere di diventare scrittori o agenti assicurativi non lo possono su quando, e se, spirare: la morte mostra a tutti, prima o poi, il suo sorriso di dolore6.

La vita umana pertanto è, secondo Heidegger, intessuta di nulla. E allora: perché vivere un’esistenza simile, niente più che un continuo inanellarsi di scelte dal momento in cui si nasce finché si muore? Precisamente la domanda che si pone l’uomo odierno. Il quale è in cerca del senso. Però che cos’è il senso dell’esistere? La risposta può essere cercata in Camus.

Il senso è il valore, sottolinea il filosofo, e il valore è la ragione della rivolta7. Ma «che cos’è un uomo in rivolta? È un uomo che dice no. […] Qual è il contenuto di questo “no”? Significa, per esempio, “le cose hanno durato troppo”, “fin qui sì, al di là no”. […] Afferma  l’esistenza di una frontiera»8. La rivolta insomma, sostiene Camus, è duplice: significa dire “basta” a qualcosa in nome di “altro”. E l’uomo odierno, nell’ipotesi interpretativa qui tentata, si trova appunto in questa situazione: si rivolta, deve rivoltarsi, in nome di “altro”. Ma contro che cosa rivoltarsi? In nome di che cosa? L’essere umano d’oggi deve rivoltarsi contro il factum stesso di essere un ente finito, che semplicemente nasce, sceglie, e poi muore. E deve farlo proprio per non essere soltanto un ente finito tra gli altri. Deve rivoltarsi per il senso di esistere, che è il valore. L’orizzonte etico delle scelte: ecco la raison d’être della rivolta umana9 contro la propria mera fatticità.

E così il mosaico della condizione ontologico-morale dell’uomo odierno è ora completo: l’essere umano si riscopre un semplice ente finito tra gli altri. Che effettua delle scelte. E che si rivolta contro questa sua condizione fattuale decidendo di donare un senso al suo esistere, di agire secondo valori. Ma quali sono i valori etici che dovrebbero orientare il suo agire?

 

Riccardo Coppola

 

NOTE
1. L’immagine è tratta dall’opera di Boezio De philosophiae consolatione.
2. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, a cura di M. F. Occhipinti, Mondadori, Milano 2016, p. 114.
3. Ibidem.
4. M. Heidegger, Essere e tempo, Mondadori, Milano 2006, p. 803.
5. Ivi, p. 731.
6. Ivi, p. 679.
7. Cfr. A. Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani, Milano 2012, p. 26.
8. Ivi, p. 17.
9. Ivi, pp. 19-20.

 

[Photo credits: Ali Inay via Unsplash.com]

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Platone ed “Ergo Proxy”, o: i filosofi alla guida dello Stato

Si scrive “Ergo Proxy”, si legge “Platone”. No, non è una frase semiseria, questa. È, al contrario, un tentativo serio di lettura trasversale. Sì, può sembrare alquanto ironico da parte chi scrive sottolineare che tale tentativo di analisi incrociata sia tra un anime giapponese, quale appunto Ergo Proxy, ed uno dei padri del pensiero filosofico occidentale, Platone, un confronto che avviene sul terreno – questa è l’interpretazione di chi scrive – politico, in merito al concetto di Stato e di governante perfetti.

«Abbiamo convenuto che doti peculiari di questa natura sono prontezza d’apprendere, memoria, coraggio e magnanimità»1: così dichiara Socrate nella Repubblica in merito alle virtù dell’uomo di Stato perfetto. Quest’ultimo è, poi, anche sincero, ama oltre ogni dire la verità, ossia le idee immutabili2. Uomini siffatti, continua Platone, i quali contemplano razionalmente il mondo delle idee, si può dire forse che non cerchino costantemente di migliorare le proprie esistenze rendendosi all’altezza del contemplato3? Ovviamente. E se dovessero trovarsi alla testa di uno Stato, persone simili tenteranno magari di corrompere la “cosa pubblica” con iniquità varie4? È impossibile, per il pensatore greco. No: il filosofo che si trovi alla guida della polis compirà ogni sforzo per scrivere una costituzione ispirata da ciò che è assolutamente buono, giusto e bello5. Pertanto: i filosofi devono poter governare perché solo in tal modo può nascere uno Stato perfetto.

Davvero, però, l’azione di governo dei reggitori potrebbe essere continuamente priva di criticità qualsivoglia? È un’utopia. Precisamente: proprio quest’ultima è rappresentata nell’anime Ergo Proxy. Ma si tratta di un’utopia “irreale”, per così dire. Perché il mondo che è raccontato dall’opera audio-visiva è devastato, sconquassato da una catastrofe apocalittica che ha spazzato via gran parte dell’umanità, e l’intera vita vegetale ed animale. I sopravvissuti allo sfacelo generale si sono rifugiati in grandi città-stato autonome (chiamate dome) difese da enormi cupole isolanti, entro le quali hanno ricostruito la loro civiltà. Ed è proprio in una di queste poleis, chiamata Romdo, che vi è il governo dei filosofi. Essi amministrano la città-stato in vece del Proxy, una creatura immortale che dovrebbe essere l’artefice della rinascita del mondo, la quale è però scomparsa. In altre parole, i reggitori guidano l’entità statuale affermando di conoscere la volontà di questo ente superiore celato – le idee, nel lessico platonico.

Tutte le leggi in vigore a Romdo mirano alla salvaguardia del sistema, ossia all’equilibrio socio-politico della polis. Esse prescrivono un rigido codice comportamentale per gli abitanti e, qualora essi non vi si conformino, vengono espulsi. Ma quelle regole sanciscono l’assoluto controllo di ogni emozione; solo, in altre parole, sacrificando del tutto la propria emotività, abbracciando la pura razionalità delle leggi “sistemiche” dei filosofi, gli esseri umani della città-stato possono sopravvivere nel mondo post-apocalittico. Un’esistenza all’apice della civiltà in cambio di una mutilazione della propria umanità: ecco il sacrificio che gli abitanti di Romdo devono essere pronti a compiere, sacrificio che, essendo imposto dalle leggi dei filosofi, è anche eticamente motivato. Male oggettivo che indossa la maschera di bene oggettivo, che cela la sua vera fisionomia di oggettiva violenza giustificata: come non si può cogliere qui la degenerazione platonica dello Stato perfetto, causata dalla reggenza di filosof traviati?

«Saranno avari delle loro ricchezze, […] la brama che li domina li renderà prodighi di quelle altrui; coglieranno in segreto i loro piaceri […] educati dalla violenza, perché hanno trascurato la Musa vera che accompagna la dialettica alla filosofia, e apprezzato più la ginnastica della musica»6: così Socrate definisce il carattere di un filosofo corrotto, di un uomo timocratico che abbia trascurato la contemplazione delle idee per dedicarsi all’acquisto avido di ricchezze, onori e all’invidia di quelli altrui; per dedicarsi all’intemperanza nei piaceri; per dedicarsi, infine, al guerreggiare7. E, infatti, la guerra è ciò a cui i reggitori degenerati trascinano lo Stato del quale siano i governanti, riconosce Platone: «dissomiglianza e anomalia […]: quando e dove queste si producano, sempre danno luogo a guerra e inimicizia»8. Quando, in altre parole, una polis sia retta da timocrati, là è il conflitto, tanto con le altre città-stato, quanto entro i suoi confini. Proprio come accade anche a Romdo, in Ergo Proxy, quando gli abitanti si ribellano alle leggi dei filosofi e, durante una lotta armata, ne abbattono infine il regno – ennesimo parallelo con La Repubblica platonica che permette di affermare, come è stato sottolineato esplicitamente ed è emerso implicitamente, che sia davvero possibile una lettura unitaria e trasversale delle due opere.

 

Riccardo Coppola

NOTE
1. Platone, La Repubblica, a cura di F. Sartori, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 208.
2. Cfr. ivi, pp. 197-198.
3. Cfr. ivi, pp. 214-215.
4. Cfr. ivi, p. 204.
5. Cfr. ivi, pp. 198; 214-215.
6. Ivi, p. 265.
7. Cfr. ibidem.
8. Ivi, p. 264.

 

[Immagine tratta da Google Immagini]

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L’ontologia del reale tra Cartesio e “The Matrix”

L’uno, Cartesio, è uno dei padri della scienza e della filosofia moderne, l’altro, The Matrix, è fra i capisaldi della cinematografia sci-fi di fine Novecento. Che cosa unisce un pensatore ed un film, rispettivamente vissuto e girato a secoli di distanza? Niente, sembrerebbe. E invece no: tanto Cartesio quanto The Matrix propugnano tesi filosofiche. E, per la precisione, sia il primo che il secondo trattano un problema metafisico particolare, ossia l’esistenza del reale. Pervenendo, tuttavia, a soluzioni diverse, per non dire opposte.

René Descartes (1596-1650), italianizzato appunto Cartesio, affronta il cosiddetto “problema ontologico” del reale nelle Meditazioni metafisiche (1641) e, precisamente, nella prima di esse. Così scrive: «Chi può assicurarmi che […] Dio non abbia fatto in modo che non vi sia niuna terra, niun cielo, niun corpo esteso, niuna figura, niuna grandezza, niun luogo, e che, tuttavia, io senta tutte queste cose, e tutto ciò mi sembri esistere non diversamente da come lo vedo?»1. Ogni cosa che esiste, in altre parole, potrebbe in realtà non essere, argomenta il filosofo. Nella quotidianità, ci si avventura in una giungla d’asfalto e ne si scorgono i predatori, auto, moto, mezzi pubblici; si ammirano i cieli tersi e luminosi di maggio; si entra in contatto con famigliari, amici, colleghi, ciascuno unico nella sua ipseità. Ma tutto questo potrebbe non esistere: potrebbe essere in atto un inganno dei sensi, un’illusione creata a danno umano, sottolinea il pensatore francese, ad opera di un genio maligno2.

Che ne consegue dunque? La libertà, il bene forse più prezioso degli esseri umani, sarebbe un sogno. Per non parlare poi della conoscenza: niente. Esatto: nulla sarebbe solo ciò che, paradossalmente, esisterebbe, si inquieta ancora Cartesio. Certo, questo nel caso in cui l’illusione fosse tale. Ma come fare per scoprirlo? Il filosofo offre la sua soluzione, che inizia dal famoso cogito. È il fatto stesso di pensare a testimoniare immediatamente di esistere e che quindi non ci si sta solo illudendo di esistere. È il fatto stesso di essere a rassicurare anche sulla vera esistenza di Dio – sicché solo Dio può aver creato la res cogitans, ma se Egli non fosse chi avrebbe donato l’essere alla res cogitans? È il fatto stesso che quell’entità trascendente esista, infine, e che sia onnipotente, buona e verace a giustificare che il dato percepito dai sensi provenga da res extensae che esistono davvero – il reale3.

Ma il mondo globalizzato attuale non è quello dell’Europa seicentesca: è fortemente secolarizzato, è avvenuta la cosiddetta “morte di Dio”. Il mondo globalizzato attuale è però anche diverso da quello immaginato dai fratelli (ora sorelle, dopo la chirurgia estetica) Larry e Andy Wachowski, sceneggiatori e registi del film The Matrix (1999). È una realtà distopica del futuro, quella raccontata dalla pellicola, una realtà in cui un gruppo esiguo di esseri umani è in guerra contro intelligenze artificiali sinistre. Ma questo «mondo vero», come lo definisce uno dei personaggi centrali dell’opera, Morpheus, è celato da un’ulteriore realtà, appunto Matrix, nella quale vive la maggior parte degli uomini pretendendo di condurre un’esistenza all’apice della civiltà umana, e che è alla fin fine proprio il mondo globalizzato post-contemporaneo. Qui l’aspetto più agghiacciante: Matrix non è reale. Tale è la verità che viene appresa, dolorosamente, dal protagonista del film, Neo, che in un colloquio con Morpheus comprende che la realtà fine-Novecentesca nella quale aveva vissuto sino ad allora come Thomas A. Anderson fosse una «neurosimulazione interattiva».

Un’illusione, insomma, direbbe Cartesio. Un incubo intendono le sorelle Wachowski, un delirio di schiavitù che pretende clamorosamente di essere reale e che nasconde invece il reale sfruttamento dell’umanità ad opera di macchine incredibilmente avanzate. Perché in ultima analisi è questa la differenza: in Cartesio, l’illusione della realtà non è tale, perché essa esiste davvero come appare ai sensi. In The Matrix il mondo post-contemporaneo nel quale vive gran parte dell’umanità, lavorando per importanti software-houses o cenando in ristoranti raffinati con l’accompagnamento di dolci note d’arpa, è solo un «mondo virtuale elaborato al computer, […] per tenerci sotto controllo». Che, dunque, non esiste. E sembra, in conclusione, formularsi un’ipotesi, nella mente dello spettatore nutrito di filosofia che guardi questo film: forse che The Matrix sia un’opera nella quale le sorelle Wachowski abbiano tentato di riattualizzare il “problema ontologico” del reale perché la giustificazione metafisica della questione in Cartesio è oramai impossibile da sostenere nella post-contemporaneità? È senz’altro, questa, una domanda lecita.

 

Riccardo Coppola

 

NOTE
1. Cartesio, Opere filosofiche 2. Meditazioni metafisiche. Obbiezioni e risposte, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 20.
2. Cfr. ivi, pp. 21-22.
3. Questo è, per sommi capi, tutto l’itinerario speculativo cartesiano nelle Meditazioni metafisiche: cfr. ivi.

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