Ogni parola è un seme, biologia e pensiero: uomo e pianta gemelli diversi

C’è un lungo filo rosso che, snodandosi, lega il nostro destino a quello del mondo vegetale. Come la pianta, anche noi siamo fatti di tessuto vascolare, di un midollo che ci permette una posizione eretta, che ci spinge, nel corso della crescita, sempre più in alto, a mirare il cielo. La nostra posizione è radicata nella terra e anelante il cosmo. È un’unità statica ma soprattutto spirituale, come tradizioni orientali suggeriscono, parlando della spina dorsale come della strada fisiologia che porta all’illuminazione e del profondo legame tra la posizione del corpo e la rettitudine dell’uomo.

Polmoni con bronchi e trachea non ricordano forme un albero dalla vegetazione compatta? Non è forse questa forma d’albero che ci permette di respirare e, così, di vivere? Noi e la flora necessitiamo di nutrimento, ci radichiamo e ci nutriamo per crescere verticalmente, l’uomo sostenendo il peso della testa tramite le vertebre cervicali, la pianta quello delle sue fronde.

Ritengo anch’io, come Susanna Tamaro, che dovremmo iniziare ad essere veramente grati, primo fra tutti, al mondo vegetale che – ora meno di un tempo – ci circonda, fulcro e colore della nostra storia, musa che ha ispirato nello scorrere dei secoli opere di poeti, pittori, e artisti di ogni talento. Soprattutto, dobbiamo ricordare che è da esso che dipende la nostra esistenza, l’ossigeno che inaliamo e il nutrimento che rende funzionale la nostra struttura biologica. Tutto inizia con la comparsa nel brodo primordiale di alcune premonere, forme di vita ancestrali, anteriori all’evoluzione del nucleo cellulare, in grado di nutrirsi di luce, grazie alla clorofilla, trasformando anidride carbonica e acqua in nutrimento. Uno dei prodotti finali della fotosintesi è l’ossigeno molecolare, un gas che si ben concilia, combinandosi, ad altre sostante. È stata proprio la sua capacità di legarsi a provocare una delle più grandi rivoluzioni della vita, quella della trasformazione dell’atmosfera densa di ammoniaca, metano e acido cianidrico in quella attuale, costituita prevalentemente da anidride carbonica azoto, vapore acqueo e, appunto, ossigeno molecolare. Attraverso la complessità di un processo evolutivo, l’energia luminosa di cui si nutrono le piante alla fine sostiene anche noi. La biosfera intera si regge proprio sulla fotosintesi.

Nell’oscurità che vive silenziosa, la flora porta il circolo delle proteine, sintetizzate nella luce del giorno, fino ai semi. Senza la necessaria riserva di nutrimento, infatti, questi ultimi non potranno aprire il tegumento e irrompere, dal sottosuolo, sulla superficie delle terra. Privo di proteine, degli amminoacidi, eterni custodi e mattoni dell’esistenza, neanche  lo stelo avrebbe la forza di svilupparsi, di affondare le radici e vestiti di manto verde, di innalzarsi verso il firmamento, divenendo pianta. Anche lui, come noi, gode della forza dell’ascolto e della comunicazione tra simili.

Nel corso della lunga lotteria evolutiva, le piante hanno compreso l’eccezionale potere che il seme, per loro, protegge, assiste e dischiude. Il seme è la grande rivoluzione silenziosa della vita: sì, proprio lui, che ha già tutto dentro di sé. I semi sono potenzialità in sapiente attesa.

Con il Devoniano, più di 400 milioni di anni fa, per le piante qualcosa muta. Prima erano vissute propagandosi esclusivamente in orizzontale poi, impercettibile, qualcosa cambia. Si formano nuove cellule, lunghe, capaci di trasportare l’acqua verso l’apice e altre in grado di riportare verso il basso la linfa elaborata. Si sviluppa così una sorta di tessuto vascolare con al centro una struttura simile al midollo. C’è aria nel mezzo, che implica il respiro. Cellule con clorofilla circondano il tessuto vascolare e la pianta si copre di piccole bocche, gli stormi. Bocche che si aprono e si chiudono per trattenere o liberare vapore. Il vapore sale al cielo e il cielo lo restituisce sotto forma di pioggia. Ed è a questo punto che la terra comincia il grande processo del respiro. Gaia gioisce nel vento che porta vita.

Ogni parola è un seme: entrambi, quando fecondi, contengono in se stessi il proprio nutrimento.

La parola e il talento di progettare sono due peculiarità dell’uomo. Nate, pare, per riuscire nella caccia, sono poi evolute in altro. Con la parola si comunicano abilità, con il progetto l’abilità viene convertita in processi sempre più complessi.

Oggi le nostre parole non riescono più a radicarsi, smarrite nel chiasso che ci avvolge, incapaci di trovare il terreno adatto ad aprirsi un varco, spiraglio di senso, verità e fondamento. Le nostre non sono parole-seme bensì parole-coriandolo, trasportate solo dal fiato, fragile e limitato per definizione. Parliamo senza sosta, esuli dal dubbio che la parola, per esistere davvero, deve vivere nell’ascolto, cullato dal silenzio. Ogni parola è infatti un seme che trova nel nostro cuore il luogo adatto a posarsi. Lì, radicandosi, spezza il tegumento dell’indifferenza, crescendo e innalzandosi. Ma noi, invece,  smarrendoci nel tempo, rimaniamo incapaci di proferire una parola in particolare: nostalgia, sì, la nostalgia dell’anima.

Per capire il tempo, per capirne il significato più profondo, invece di interpretarlo, bisognerebbe spogliarsi. Spogliarsi dell’io prima di ogni altra cosa. […] Spogliarsi e attendere. Attendere e ascoltare. […] È il tempo del mistero e della trascendenza, […] in cui verrà svelato ad ogni seme il suo progetto. È il tempo dell’umiltà , della discesa nelle radici […], dell’ascolto che si trasforma in dialogo […], dell’accoglimento e della riconoscenza. È il tempo del seme che diventa germoglio e del germoglio che diventa pianta. È il tempo della pianta che trasforma l’energia della crescita nell’inutile bellezza del fiore e che, un istante prima di appassire e lasciar cadere i semi, si accorge con stupore che ciò che fino a quell’istante aveva chiamato Luce, in realtà era Amore.

Esistere nel tempo è prima di ogni altra cosa radicarsi. E il radicamento implica acqua, sorgente di vita e campo dove il mondo conosciuto ha iniziato a mettere radici. Lì, nell’acqua del ventre materno la vita di ognuno di noi inizia il percorso di crescita. In Ogni parola è un seme, questo concetto torna, proposto, continuamente. È la spinta a ritrovarci in questa dualità uomo-pianta, una delle chiavi adatte ad aprire la serratura della comprensione di sé affinché ciò che comunichiamo torni ad essere, finalmente, un seme fecondo che, da germoglio ancorato ad un terra di pragmatico senso, si sviluppi in fronda anelante l’universo di domande.

 

Riccardo Liguori

 

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Enten-Eller: Dialogo edificante tra un uomo etico e l’amico esteta

È il 20 febbraio 1843 quando a Copenaghen viene data alle stampe Enten-Eller – da noi conosciuta come Aut-Aut –, opera in due volumi, nella versione originale, concepita in soli nove mesi (è lo stesso Kierkegaard a ricordare: «ce l’avevo tutta in mente»). È uno scritto intreccio di più identità e personaggi, in cui il filosofo danese non compare come editore né come autore: questi infatti corrisponde al fittizio Victor Eremita.

Victor racconta la genesi di questa opera, la scoperta di alcune carte, ritrovate casualmente in un secrétaire acquistato presso la bottega di un rigatterie, nella capitale danese. Rinvenuti questi misteriosi scritti, lui decide di dividerli in due gruppi, riconducendoli a due autori differenti che decide di chiamare e B. Deve essere stata un’opera di divisione piuttosto facile: tali carte si presentano infatti ben diverse tra loro. Innanzitutto per la grafia (ricercata ed elegante quella riconducibile all’autore A, piana, uniforme, chiara quella di B), poi per il supporto cartaceo (carta velina raffinata per e pergamena solida per B) e infine per il contenuto (abbozzi di concezioni estetiche della vita in e due lunghe lettere di scritte per convertire l’esteta alla scelta di vita etica).

La prima parte dell’opera raccoglie le carte di A, l’esteta, la seconda le carte di B, l’uomo etico, il giudice in pensione Wilhelm. Ciascuno dei due è chiamato a difendere strenuamente una scelta di vita. La prima, edonistica, improntata sulla vita mondana, sul piacere, sull’indifferenza nei confronti dei princìpi e dei valori morali; l’altra basata sul dovere etico e sulla responsabilità.

vive esteticamente facendo del piacere il fine della propria esistenza, volatilizzandosi in molteplici forme di vita tra frammentarietà, dispersione e immediatezza. L’etica, al contrario, è riflessione, costanza, impegno, la dimensione che pone a proprio fondamento la libertà e la fatica della costruzione di ogni rapporto. Il fine di è quello di produrre un’armonia nell’anima, sviluppando compiutamente il proprio carattere. Wilhelm infatti afferma che quando un uomo sviluppa in sé la propria versione migliore, sviluppa la propria bellezza, la propria perfezione.

Nel saggio L’equilibrio tra l’estetico e l’etico nell’elaborazione della personalità, che compare tra le carte di B, Wilhelm scrive una missiva ad A, nell’intento di persuaderlo a cambiare il proprio stile di vita. Per B, esteta è chiunque faccia del principio-piacere del godimento il telos della propria esistenza, nonostante sia possibile essere esteti in modi assai diversi tra loro: c’è chi gode della propria salute, della propria bellezza, del proprio talento e chi cerca il godimento nell’accumulo di ricchezze, negli onori, e anche di chi gode della propria disperazione.

«Ogni essere umano […] ha un naturale bisogno di darsi una concezione della vita, una rappresentazione del significato della vita e dello scopo di questa. Anche colui che vive esteticamente fa così […]. Ora per grandi che possano essere le differenze all’interno dell’estetico, tutti gli stadi hanno parole in essenziale analogia che lo spirito non è determinato come spirito ma immediatamente determinato. […] La personalità è immediatamente determinata non spiritualmente, ma fisicamente»1.

delinea una fenomenologia dell’estetico (focus di questo articolo) che si caratterizza per due chiari punti fermi: l’immediatezza e l’esteriorità. La prima in quanto ciò per cui l’esteta vive (la bellezza ad esempio) è ciò per cui egli è immediatamente ciò che è. L’esteriorità, invece, perché l’esteta fa dipendere, tout court, il significato della propria vita da una condizione che è o esterna (per esempio riponendo il significato della propria vita nella ricchezza o negli onori) oppure è nell’individuo stesso ma in modo tale da non essere stato posto da lui stesso (come per esempio il talento). Wilhelm chiarisce il rapporto tra estetica e disperazione: ogni esteta è disperato in quanto ha edificato il significato della propria vita su qualcosa di caduco, effimero. È la disperazione di chi, avendo indirizzato ogni interesse a un bene determinato, una volta venuta meno la condizione del proprio godimento si sente perduto e dispera. L’esteta che gode della propria disperazione ha sempre saputo quanto fosse labile la bellezza, caduco il talento, effimera la ricchezza. Questa forma di disperazione non è, però, così profonda da spingerlo a trascendere quel finito di cui avverte il disperante limite: e questo perché tale disperazione è solo nel pensiero e non investe la personalità nella sua interezza. Ciò che non consente all’amico esteta di disperare veramente è, secondo B, la mancanza di passione: la sua incapacità di volere veramente blocca il movimento della disperazione (in quanto non la sceglie fino in fondo).

riattualizza così la figura di Nerone il quale, pur avendo a disposizione tutto ciò che permette di soddisfare ogni desiderio, sente la vanità a tal punto da chiedere ai cortigiani di inventare sempre nuovi piaceri (che riescono a placare, pur momentaneamente, l’angoscia che attanaglia il suo spirito). Egli però non partorisce mai se stesso, perché non sceglie la disperazione: soltanto l’individuo che versa nella disperazione può partorire se stesso (passando così dalla passività all’attività). Solo così, infatti, si troverebbe costretto ad accettare una risalita, un’ascesa, agguantando se stesso nel proprio eterno valore. Wilhelm però avverte che se l’esteta giungesse a questo punto, scoprendo così se stesso, diverrebbe uomo etico: per B, infatti, l’etica è la scelta di se stessi nel proprio eterno valore. L’etica è così la decisione di decidere, la volontà di volere, la scelta di scegliere. L’etica comporta un divenire, un punto di partenza e di approdo. Ciò che permette questo percorso è, come in Kant, la libertà che viene presupposta. Nel divenire, l’uomo etico passa dall’individuo immediato (che è tale per fattori contingenti), all’individuo così come dev’essere (il suo sé ideale) e infine a ciò che tra i due presenzia, cioè la libertà (che permette il passaggio da una determinazione all’altra). L’individuo morale passa dalla realtà all’idealità esercitando la propria libertà, e il primo momento di questo processo è la conoscenza di sé. È così, in vista dell’edificante per ognuno di noi, che si chiude Enten-Eller:

«[…] Non arrestare il volo della tua anima, non contristare ciò che v’è di meglio in te, non sfibrare il tuo spirito con desideri a metà e pensieri a metà! Domandati e continua a domandare finché troverai la risposta; perché si può aver riconosciuto una cosa mille volte, si può averla legittimata nel riconoscimento, si può aver voluto una cosa molte volte, si può averla tentata, e tuttavia unicamente il profondo intimo moto, unicamente l’indescrivibile intenerirsi del cuore, questo unicamente ti convincerà che quanto hai riconosciuto ti appartiene, che nessun potere riuscirà a strapparlo via da te; perché solo la verità che edifica è verità per te»2.

 

Riccardo Liguori

 

NOTE
1. S. Kierkegaard, L’equilibrio tra l’estetico e l’etico nell’elaborazione della personalità, in Enten-Eller, Adelphi, Milano, 1989, volume V°, pp. 48-50.
2. Ivi, p. 274.

[Credit kevin laminto]

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Briciole d’esistenza: un colpo di sonda nella scelta

Lo immagino chino sul suo secretaire, al crepuscolo, con una lampada ad olio come unica fonte di luce, potenziata da una sorta di fuoco fatuo appena fuori dalla finestra della sua stanza, a Copenaghen. Kierkegaard sta scrivendo per noi, pensando però al proprio trascorso. Pensa alle ombre distruttrici e oscure di cui la possibilità della vita, anche la sua, si circonda.

«Penso alla mia prima giovinezza, quando, senza ben afferrare il significato della scelta nella vita, con infantile confidenza ascoltavo i discorsi dei più anziani; e l’istante della scelta era per me solenne e venerabile, benché nella scelta seguissi allora solo le istruzioni degli altri. Penso a quegli istanti nella mia vita futura, in cui mi trovai al bivio, in cui l’animo si maturò nell’ora della decisione»1.

Scegliere non è garanzia di successo per ciò che la possibilità prospetta: essa infatti può sempre dissolversi, evanescente come la nebbia tra i fossi o intorno alle colline, oppure non realizzarsi. E neppure la sua realizzazione è sicura e definitiva, perché nuove possibilità indecifrabili possono scorgersi all’orizzonte chimerico.

L’esistenza così galleggia in un oceano dalle profondità inesplorate: non è infatti riscontrabile una vita che possa farsi gioco del lungo viaggio, che attenderà ognuno di noi, né stato di benessere immune da rischio. Non esiste virtù o buona volontà che non sia soggetta alla possibilità della perdita, della mancanza o, seconda una lettura religiosa, del peccato.

L’immensità indeterminata delle future possibilità che vive in ogni sentiero di vita, anche in quello apparentemente più rettilineo, privo di pendenze, fa sì che quest’ultimo sia reso impervio dalle innumerevoli possibilità sfavorevoli che ci palesano la nostra impotenza, la nostra mortalità, il nostro limen. La possibilità ha così (anche) il potere di disintegrare ogni aspettativa e disattivare ogni capacità umana.

Sorge così l’angoscia, sentimento della possibilità: quel sentimento che si cela nell’incertezza e instabilità del futuro.

«[…] colui che, mediante l’angoscia, diventa colpevole è certo innocente; infatti non era lui, ma l’angoscia, una potenza estranea che lo prese; una potenza ch’egli non amava, ma di cui si angosciava […] eppure egli è colpevole, perché si lasciò cadere nell’angoscia ch’egli, pur temendola, amava»2.

Parallelamente si pone anche la disperazione, quella “malattia mortale” di cui Kierkegaard tratta nel libro omonimo. Ma se l’angoscia, da una parte, trova la sua più “comoda” collocazione soprattutto nei rapporti tra il singolo e il mondo, la disperazione, dall’altra, ci spaesa in tutta la sua imponenza, in quella specifica relazione che il singolo istituisce e tesse con se stesso, con l’io.

L’angoscia è determinata da quella coscienza e consapevolezza per cui tutto è possibile, e quindi è caratterizzata dall’ignoranza di ciò che accadrà. La disperazione, invece, è motivata dalla responsabile e lacerante constatazione che la possibilità dell’io si traduce necessariamente in un’impossibilità. Infatti l’io è posto di fronte ad un’alternativa, bivio della vita: o volere o non volere se stesso.

Se l’io sceglie di volere se stesso, sceglie cioè di realizzarsi fino in fondo nella sua più intima veste, viene necessariamente e brutalmente posto dinnanzi alla propria limitatezza e all’impossibilità di dare voce al proprio volere. Viceversa, se, dicendo «no!» alla propria esistenza e, rifiutando se stesso, cerca di essere altro da sé, si imbatte in un’impossibilità  forse ancora maggiore: il rifiuto nichilistico di se stesso. In ogni caso, l’io viene costretto, a forza, dinnanzi al fallimento, condannato ad una malattia mortale, cioè a “vivere la morte” di se stesso, la disgregazione e scissione di ogni sua molecola.

«Vi sono circostanze in cui sarebbe ridicolo e quasi pazzesco voler porre un aut-aut; ma vi sono anche persone la cui anima è troppo dissoluta per cogliere il significato di questo dilemma, alla cui personalità  manca l’energia per poter dire con pathos: o questo, o quello. […] Queste parole […] su di me han l’effetto di una formula di scongiuro, e l’animo mio sprofonda nella serietà, restandone a volte quasi sconvolto»3.

Ed è proprio in questa consapevole e impegnativa serietà che si libra, immensa nelle sue potenzialità distruttrici e creative, la fonte della nostra più grande forza: la possibilità di scelta, nell’edificare se stessi, verso l’altro, nella consapevolezza della propria,umile e modesta, finitudine.

 

Riccardo Liguori

 

NOTE
1. S. Kierkegaard, Aut-Aut, a cura di R. Cantoni, Milano, Oscar  Saggi Mondadori, 1981, p. 33.
2. S. Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, Milano, SE, 2007, pag. 44.
3. S. Kierkegaard,  Aut-Aut cit.,  p. 33.

[Credit Pablo García Saldaña]

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“La Ripetizione” di Kierkegaard: un esperimento psicologico

Le sabbie mobili del tempo, come un vortice perenne che costringe il presente a rivolgersi al passato, continuano a divorare se stesse, nel ricordo. Questa è la dimensione di quest’ultimo: è sempre la stessa proiezione in cui l’adesso, l’ora, viene incatenato a ciò che è stato, al prima. Il rimpianto che ci lega al ricordo (luminoso o oscuro che sia) è per lui imprescindibile: è la sua anima gemella, perché entrambi vivono in questo sistema, un circolo vizioso che si nutre di passività.

C’è però un movimento, apparentemente identico, che invece può offrirci qualcosa di ben diverso: Kierkegaard l’ha chiamato Gjentagelsen, ovvero ripetizione.

«Ripetizione e ricordo sono lo stesso movimento, tranne che in senso opposto: l’oggetto del ricordo, infatti, viene ripetuto all’indietro, laddove la ripetizione propriamente detta ricorda il suo oggetto in avanti. Per questo la ripetizione, qualora sia possibile, rende felici, mentre il ricordo rende infelici»1.

Gjentagelsen è quel costante rinnovamento della vita: il suo momento più peculiare ha luogo quando il vecchio si rivela nel nuovo, quando il movimento stesso si rivela in avanti, e non permane confinato al passato.

È proprio attraverso la ripresa che la libertà dell’individuo spinge se stessa dal piano del non essere (ovvero da ciò che non c’è più) a quello dell’essere, dalla non verità alla verità: di accedere cioè alla dimensione della trascendenza, che per Kierkegaard avviene attraverso la sfera religiosa. Solo quest’ultima rende possibile la rinascita dell’uomo, giunto a confrontarsi con l’impossibilità di realizzare la ripresa sul piano del finito.

Ma andiamo con ordine: siamo nel 1843 e Kierkegaard, con lo pseudonimo di Costantin Costantius (maschera che il filosofo indosserà molte altre volte, devoto com’era alla pseudonimia) pubblica l’opera La ripetizione. Lui vuole sottolineare che se il ricordo comporta un sentimento votato irrimediabilmente al rimpianto, vivendo nella sola dimensione del passato, la ripetizione, invece, vive il presente in vista del futuro, come un’onda che riversandosi nel bacino d’acqua da cui ha ricavato forza e vita, cavalca se stessa in vista dell’orizzonte.

«Il ricordo è un vestito smesso che, per quanto bello, però non va perché non entra più. La ripetizione è un vestito indistruttibile che calza giusto e dolcemente, senza stringere né ballare addosso. […]. Il vecchio non annoia mai, e la presenza sua rende felici, e felice davvero sarà soltanto chi non inganna se stesso fantasticando che la ripetizione debba essere una novità, perché allora verrebbe a noia. C’è bisogno di giovinezza per sperare, di giovinezza per ricordare, ma c’è bisogno di coraggio per volere la ripetizione»2.

Se il ricordo ripete il suo movimento all’indietro, la ripetizione ricorda il suo oggetto in avanti. Nella ripetizione c’è l’irrompere di un nuovo che spezza il piano immanente del ricordo, per aprire al passato una dimensione altra che si traduce nella continuità della vita. Nel ricordo, il passato è privo di consistenza in quanto risulta slegato dal flusso vibrante dell’esistenza che è, invece, fulcro e seme di coraggio, scelta e dunque scommessa: a tal «riguardo l’indagine greca sul concetto di κινεσις [kinesis], il quale corrisponde alla categoria moderna di ‘passaggio’, e da tenere in gran conto»3, ricorda Kierkegaard.

Quando si dice che la vita è una Gjentagelsen si intende affermare che l’esistenza, così com’è esistita, viene a esistere ora, dà sfoggio di tutta la sua pienezza adesso.

«La dialettica della ripetizione è semplice: ciò che infatti è ripetuto è stato, altrimenti non potrebbe venire ripetuto; ma proprio il fatto che ciò è stato determina la novità della ripetizione. […] Dicendo che la vita è una ripetizione, si dice: “L’esistenza passata viene a esistere ora”. Senza la categoria di reminescenza o di ripetizione, la vita intera svanisce in un rumore vuoto e inconsistente. Reminescenza è la visione pagana della vita, ripetizione la moderna […]»4.

Molto probabilmente, non a caso, la regia di Kierkegaard ha stabilito che il co-protagonista, insieme a Costantius, de La ripetizione, sia un giovane innamorato. Colto dal desiderio d’amore verso una giovane ragazza, egli è condannato a soffrire nel vivere la morte del suo amore prima ancora di averlo vissuto. Il sentimento infelice che lo lega all’amata non ha alcuna aderenza alla realtà perché, di fatto, la fanciulla non era la sua amata, (ma) […] «l’occasione che risvegliava il suo fondo poetico e faceva di lui un poeta. […] Era penetrata in tutto il suo essere, avrebbe vissuto in eterno nella sua memoria»5. Questo giovane frusta se stesso per un difetto d’astrazione, una continua idealizzazione. Lui persevera a poetare il reale che, anziché essere vissuto, precipita nell’abisso dell’inconsistenza perché il poeta incaglia nel ricordo, dal momento che l’errore, l’equivoco di fondo proprio del poeta risiede nel porsi alla fine del proprio “salto” (tra passato e presente), nonostante lui non l’abbia ancora compiuto, intrappolato com’è nel ricordare ciò che non è più.

La prima parte dell’opera, redatta da Kierkegaard a Berlino, presenta come filo conduttore della narrazione l’intimo legame filantropico che viene ad instaurarsi tra Constantius, autore del testo, e questo giovane ragazzo.

La fanciulla apparentemente desiderata, di cui il giovane era innamorato, rappresentava semplicemente l’occasione che risvegliava la sua ars poetica, rendendolo così compositore. Il suo amarla, il suo poterla amare, risiedeva nel solo desiderio di doverla rimpiangere. Nel giovane prende piede, però, un senso di colpa, in quanto percepisce chiaramente che più il tempo scorrerà inesorabile e più la renderà infelice. Tuttavia non vede, in sé, alcun torto. Constantin lo esorta “ad osare l’estremo”, ad ingannare la ragazza con delicatezza. Il giovane dovrà, cioè, lasciare gradualmente scemare l’interesse nei suoi confronti, palesando anzi un certo fastidio per i suoi riguardi. Constantin intanto provvederà a far girare la voce che attribuirà al ragazzo la fama di fedifrago. Tuttavia, c’è un problema sul quale, a detta di Constantin, il giovane si è bloccato quasi a un passo dal risolverlo, o quanto meno dal tentativo di sperimentarlo:

«[…] Il problema su cui si e bloccato è, né più né meno, la ripetizione. Non cerca lumi nella filosofia greca, né tampoco nella moderna, e giustamente […]. Per fortuna non cerca spiegazioni da me, che io ho mollato la mia teoria, e vado alla deriva. La ripetizione è troppo trascendente anche per me»6.

Quello del giovane appare sempre più come un tentativo orientato al fallimento e dunque ad un lacerante dolersi. Il ragazzo così, deciderà di troncare il rapporto epistolare con Constantius. Quest’ultimo analizza con toni perentori l’evoluzione nel comportamento del giovane innamorato:

«Già da una prima scorsa alla lettera mi risultò chiaro che la sua storia d’amore aveva lasciato un’impronta assai più profonda di quanto avessi ipotizzato […] Era un giovane straordinariamente spirituale, ricco soprattutto di fantasia […]. Dall’altro lato il giovane era di natura assai malinconica […]. A catturarlo non è affatto il fascino della ragazza, bensì il rimorso d’averle fatto torto scompaginandole la vita»7.

Riguardo la lettera ultima che il giovane scrive a Costantius, il principio non lascia dubbio alcuno: “si è sposata”, facendo presagire la più cupa delle disperazioni. Egli informa il confidente di aver lasciato cadere il giornale da cui ha letto l’annuncio del fidanzamento, fulminato dalla notizia. Eppure, proprio questo dolore, alla fine di questa storia, diede vita al dispiegarsi di una Gjentagelsen realizzata compiutamente: “sono di nuovo me stesso”, scrive il giovane poeta. Perché? Perché questo essere ritornato a sé, e dunque in sé, costituisce per il giovane, ricostruendo e attualizzando il suo dolore, la sua Gjentagelsen.

 

Riccardo Liguori

 

NOTE

1. S. Kierkegaard, La ripetizione. Un esperimento psicologico, BUR, Milano 1996, pp. 11-12, tit. or. Gjentagelsen. Et Forsog i den experimenterende Psychologi, Copenaghen 1843.
2. Ivi, pp. 12-13.
3. Ivi, p. 35.
4. Ibidem.
5. Ivi, pp. 20-21.
6. Ivi, pp. 83-84.
7. Ivi, pp. 79- 81.

 

[Photo credit Daryan Shamkhali via Unsplash.com]

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“The New Wild”. Un’eco della natura

Sullo sfondo di montagne silenziose che custodiscono segreti millenari, un’eco si diffonde in quei fiumi che dalle loro sorgenti nascono e da cui si allontanano, serpeggiando verso valli lontane. Tigli, abeti, olmi e arbusti salutano il cielo e offrono nutrimento alla fauna che qui trova ristoro e si avventura per borghi un tempo antropizzati.

Questo è il dipinto in cui si appaesa la storia che Christopher Thomson racconta in The New Wild. In quei luoghi dove l’assenza si fa presenza, dove il passato, il presente e il futuro sfumano l’uno nell’altro, dove trova linfa vitale l’idea di questo ragazzo che vuole scrivere e raccontare, tramite immagini che rapiscono i sensi, il “New Wild”.

Da sette anni dalla natia e “rigonfia” Londra, lui sceglie, ogni giorno, la Val d’Aupa, un piccolo grande spazio condiviso che ospita un paese di pochi abitanti, Dordolla.

The New Wild_La chiave di SophiaQuesto film-scoperta raccoglie grande attenzione a diverse latitudini, dal Friuli alla Campania, da Tallinn a Sofia e Innsbruck e riporta alla mente gli scritti del poeta Thoreau e parallelamente la storia di Christopher McCandless (su cui si basa il film Into the wild) e Devis Bonanni (scrittore friulano di Pecora Nera e Il buon selvaggio). Presto questo lungometraggio, cui ha fatto seguito la stesura del libro omonimo, si diffonderà in tutta la nostra penisola, vincendo anche i confini svizzeri, verso il nord.

L’idea di Christopher è solo alla fase di avvio: dopo due libri di fotografie e questo film, lui si sta preparando per il nuovo The Postman Project, col fine di sviluppare nuove reciprocità tra piccoli luoghi remoti d’Europa, per mettere in comunicazione storie di innovazione e resilienza.

Christopher s’interessa di investigare i luoghi rurali abbandonati, sempre in continua espansione a livello europeo: ha scelto, in particolare, il Friuli dove questo fenomeno forse si fa sentire con maggiore forza. Lo sforzo del giovane è quello di raccontare di un nuovo “ambiente naturale”, quello che viene riacquisito totalmente dalla flora e dalla fauna, un tempo “umano”.

Il lungometraggio, per circa 70 minuti (intensi e tutti da assorbire) conduce lo spettatore lungo un sentiero di immagini, piccole clip offerte da una voce narrante acuta e incisiva: quella di Sarah Waring, scrittrice e compagna di vita e d’avventura di Christopher.

Tre sono le sezioni in cui si articola il film: in ordine, trovano vita in immagini, che parlano della forza della natura, il tema dell’abbandono, della presenza e dell’assenza, poi quello dell’impero della natura, in grado di riassorbire ciò che è suo di diritto e infine viene proiettato un centro, di vite e di storie, che lotta per sopravvivere e costruirsi una presenza.

Dordolla, ripresa anche in un momento di convivialità e festa, di condivisone di sguardi e impegni, viene eletta a sito dove scegliere un tipo di vita valoriale piuttosto che funzionale. Un luogo dove viene sviluppato, ogni giorno, un processo di costruzione sociale che guarda al territorio in chiave evolutiva e si rappresenta tramite un’azione territoriale capace di agire su un piano organizzativo, materiale e simbolico.

Uno stile di vita, una scelta libera e incondizionata: la libertà di essere presenti a se stessi, in un luogo apparentemente semi-abbandonato, che è invece fulcro di vita. Si tratta di un abbandono che non riguarda solo la presenza fisica, ma anche la circolazione di cultura: quel vento fresco di idee e pensieri, che impreziosisce la nostra esistenza.

Questo, a mio avviso, vuole raccontare, raggiungendo la meta, Christopher. Lui, generosamente, offre l’occasione per una riflessione, lenta e discreta, sincera e profonda, così rara oggi quanto necessaria, per accedere al segreto della nostra terra: il placido e contrastante muoversi della vita, scandito da quel tempo che rappresenta la nostra unica e vera forma di ricchezza.

 

Riccardo Liguori

 

Link al trailer del film > qui

 

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Tra il sensibile e il reale: guardar(si) in uno specchio

Dopo un periodo di riflessione invernale, in forza anche della lettura di un libro di recente stampa, mi è tornata in mente l’immagine e la forza dello specchio, come mezzo e simbolo tramite cui, ognuno di noi, non solo si prospetta ma proietta la propria immagine in una realtà altra, in un’alienazione forte, per poi ricongiungersi a sé ma sempre diversi. Il sensibile e il reale, il soggetto che si fa soggetto, tramite uno specchio: su questo spendo qualche parola.

Il sensibile non coincide col reale in quanto il mondo non è di per sé sensibile ma ha bisogno di diventarlo fuori di sé. Non è sufficiente far interagire un oggetto col soggetto per produrre percezione. Si pensi all’esempio fornito da Aristotele, per il quale un oggetto che viene posto in prossimità dell’occhio non sarà a questo visibile.

L’oggetto reale, il mondo, la cosa, è necessario divenga fenomeno e che questo, esterno alla cosa stessa, incontri i nostri organi percettivi. Il sensibile, l’essere delle immagini, è geneticamente differente dagli oggetti conosciuti così come dai soggetti conoscenti.

Come suggerì Aristotele, perché si dia il sensibile, e dunque la sensazione, è necessario qualcosa di intermedio, il μεταξύ [metaxù]. Tra soggetto e oggetto c’è un luogo intermedio dove l’oggetto diviene sensibile, si fa fenomeno: è nello specchio che riusciamo a diventare sensibili ed è allo specchio che chiediamo la nostra immagine. Diventiamo percettibili, anche per noi stessi, sempre in uno spazio esteriore, intermedio tra l’io percipiente e l’io percepito. È sempre fuori di sé che qualcosa diviene esperibile: qualcosa diviene sensibile solo nel corpo intermedio che sta tra l’oggetto e il soggetto.

L’esperienza, la percezione, è possibile solo grazie alla relazione di contiguità che si ha con quel luogo/spazio intermedio in cui il reale diviene sensibile, percettibile. Questo spazio è un corpo, sempre diverso in relazione e ragione di diversi sensibili, privo di nome specifico ma con la stessa capacità di generare immagini. Qui gli oggetti corporei divengono immagini e possono così agire immediatamente sui nostri organi percettivi.

L’incarnazione più compiuta di questo corpo intermedio, simultaneamente esteriore a soggetto e oggetto e che permette loro di trasformarsi divenendo fenomeno permettendo ai primi di trarre sensibile di cui hanno bisogno per vivere, si trova nello specchio.

Nello specchio la nostra forma è il sensibile per eccellenza, noi diveniamo una pura immagine senza coscienza e senza corpo. Qui contemporaneamente cessiamo di essere soggetti pensanti e oggetti che occupano spazio e vivono nella materia.

L’esperienza dello specchio è l’esperienza di un raddoppiamento, nel senso che si costituiscono simultaneamente due sfere, separate: quella dell’io-soggetto e dell’io-oggetto che coincidono perfettamente e dall’altra quella delle immagini, che esistono separatamente come disgiunte dal soggetto e dall’oggetto contemporaneamente e con la stessa intensità. Quindi da una parte c’è il soggetto che vede ed è visto e dall’altra ci siamo noi ma in quanto semplice visibilità in atto, come puro essere del sensibile.

Nello specchio il sensibile si dà a conoscere come ciò che è simultaneamente esteriore ai corpi di cui è immagine e ai soggetti ai quali permette di pensare questi stessi corpi: si diventa sensibili solo dove non si vive né pensa più.

Nello specchio diventiamo improvvisamente pura immagine: la nostra forma esiste ora fuori di noi, fuori dal nostro corpo e dalla nostra coscienza. Gli specchi insegnano che ogni immagine, cioè ogni sensibile, è l’esistenza di una forma fuori dal proprio luogo. La nostra immagine è l’esistenza della nostra forma fuori la nostra materia.

Essere immagine significa essere fuori di sé, stranieri al proprio corpo e alla propria anima. Il sensibile è l’essere delle forme quando esse sono all’esterno, come in esilio rispetto al proprio luogo. E come estranee alla corporeità, le immagini cui mi riferisco e con cui ognuno di noi si rapporta, quotidianamente, esistono in modo non spaziale.

 

Riccardo Liguori

 

NOTE:
Cfr. E. Coccia, La Vita sensibile, Il Mulino, Bologna, 2011.

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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Compatibilità tra diritti umani e Islam. Possibile?

I diritti sono affermazioni vincolate entro un quadro (pre)costituito. Nel panorama attuale, l’Islam rappresenta un ricco dipinto nelle cui diverse sezioni si registrano posizioni tra loro piuttosto diverse. Un colpo di sonda su di loro ci può spingere a riflettervi in rapporto a ciò che viene visto come “l’altro”: un “diverso” con cui condividiamo spazio e tempo, cioè quegli elementi che ci permettono di situarci nel mondo.

«In un tempo come l’attuale, caratterizzato dalla lotta internazionale contro il terrorismo, è tornato alla ribalta il problema dell’Islam, soprattutto per quanto riguarda la scarsa conoscenza reciproca: sia dell’Islam da parte degli occidentali, sia del cristianesimo da parte degli islamici1».

Sono almeno tre le tendenze di fondo, le “correnti” che sembrano scorrere, solcandolo, questo universo: l’ultima, la più recente, sarà quella su cui spenderò più parole, anche per le sue implicazioni nel contesto contemporaneo.

Un primo approccio, più ‘conservatore’, ripropone una visione tradizionale dell’islam per cui la Shari’a si erge a torre d’avorio ove il buon musulmano deve avere dimora. Si tratta di una posizione fatta propria da alcuni stati i quali, in antagonismo rispetto ai diritti dell’uomo universalmente condivisi, insistono sulla dipendenza assoluta della dimensione statale alla sfera religiosa.

Una tendenza più ‘pragmatica’ è invece adottata da quegli stati in cui, soprattutto in seguito al conseguimento dell’indipendenza, sono stati elaborati nuovi codici di diritto, per le varie sfere della vita quotidiana, spesso di matrice europea. Qui, l’ambito che più rimane soggetto alla Shari’a è quello del diritto familiare. In questa seconda prospettiva, gli adattamenti pragmatici più forti hanno riguardato le esigenze dei diritti dell’uomo e della vita moderna.

Infine, la terza corrente è quella “dei riformisti contemporanei” − l’Islam dei lumi −, cui aderiscono coloro i quali cercano di applicare nuovi criteri interpretativi a una lettura più generale, “finalista” del Corano, quindi non strettamente letterale. Questo è l’approccio cui anche i non-musulmani possono rapportarsi e confrontarsi in virtù di una possibilità di comunicazione fertile per tutte le parti coinvolte.

Nell’Islam a partire dall’anno mille si è sviluppato solo un approccio letterale delle fonti, e questo in quanto la libera interpretazione dei testi tramite l’applicazione del ragionamento razionale era inconcepibile. Per i riformisti, al contrario, è necessario promuovere una rilettura attualizzata e attualizzante del Corano rispetto alle esigenze di oggi, anche in forza del progresso culturale, morale generale sviluppato e raggiunto fino ai giorni nostri.

Questo può portare anche ad una “diversa” rilettura del Mondo, della sua perenne metamorfosi la quale richiede, come sua naturale conseguenza, un adattamento alle modifiche ed evoluzioni del sistema socio-politico e economico-culturale globale. Si tratta infatti di una Terra in cui ciascuno di noi, pur nella sua individualità, è incessantemente interconnesso all’Altro, poco importa se si tratta del vicino di casa o di un abitante di un continente distante migliaia di chilometri.

La lettura finalista mira a comprendere, nella situazione descritta dal Corano, quale era, appunto, la finalità della prescrizione o dell’atto di Maometto, cioè estrapolare l’intenzione dal dato storico letterale. Quest’ultimo esige oggi di essere applicato cercando di evadere da quel concetto per cui l’Islam si identifica con la religione naturale: è necessario scegliere di essere musulmani, cioè “sentirsi” tali. Questa libertà primigenia viene così posta sempre come base dell’umanità nella sua eterna complessità, con cui anche l’Islam deve rapportarsi.

Una rivalutazione della dimensione della libertà originaria dell’uomo può, così, costituire una base solida per sviluppare l’accettazione dei diritti dell’uomo, a tutto tondo. In virtù di una lettura finalista del Corano, sarebbe così possibile accettare, in maniera costruttiva e creativa, i diritti fondamentali dell’uomo enunciati nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.

L’Islam è così in grado di percorrere questo sentiero di condivisione di un nucleo di valori fondamentali i quali possono fornire un nucleo di valori condivisi nelle società contemporanee. Questa terza tendenza moderna è attestata in innovazioni legislative e istituzionali introdotte in alcuni Stati che, tuttavia, si muovono sempre in un quadro non pluralista, ma tutt’oggi ancorato alla tradizione.

La sua importanza è comunque indiscussa in quanto apre prospettive innovative di carattere dottrinale, in grado di riverberarsi sui rapporti internazionali, e in grado offrire alle altre correnti più tradizionaliste la possibilità di aprirsi, dialogando, alla contemporaneità internazionale.

Seguendo questa terza corrente è possibile affrontare e scogliere nodi, tanto problematici quanto basilari, che avviluppano i diritti umani, con notevole apertura alla luce di una riflessione critica dei fondamenti della religione. È appunto definita Islam dei lumi per il rilievo riconosciuto alla ragione, in particolare nell’interpretazione del Corano. Questa opzione metodologica consente una revisione della Legge Santa ricettiva dei diritti dell’uomo così come formulati nei documenti internazionali.
In questa prospettiva si garantisce, per iniziare, la libertà religiosa e un’equa distribuzione di responsabilità e doveri, cui, di riflesso, fa capo un riconoscimento di pari diritti.

In ambito islamico, poi, molte donne e minoranze religiose nutrono quella fiamma di innovazione, promotori interni a livello intellettuale e sociale di una lotta politica e sociale affinché i loro diritti siano garantiti. In questo modo, la loro azione funziona anche da spinta evolutiva interna dell’Islam.

Le minoranze religiose, i cui membri sono tradizionalmente ridotti a cittadini di seconda classe, e a cui generalmente è stata riconosciuta dagli stati moderni una parità di cittadinanza formale, continuano tuttavia a subire molte discriminazioni sul piano delle normative concrete. La lotta che anche loro conducono, apertamente, per una parità di cittadinanza reale in nome dei diritti dell’uomo è comunque un importante propulsore di meccanismi di cambiamento all’interno delle società musulmane.

 

Riccardo Liguori

 

NOTE
1. M. Simone, L’islam e i diritti umani, in “La Civiltà cattolica”, Quaderno 3634, Volume IV, 2001, p. 396

[Photo credits: Junhan Foong on Unsplash]

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La pittura, crocevia del reale e del sensibile

In contrapposizione a quelle scienze attuali che si rapportano al mondo come pensiero di sorvolo, riducendo le cose a oggetti in generale, invece di abitarle, Merleau-Ponty ricorda l’importanza di accompagnare il pensiero all’Essere – quello effettuale presente – cioè all’originaria co-appartenenza di Io e mondo, mediata dal corpo.

L’arte e, in particolare, la pittura, è ciò che ancora ci permette di attingere a questo “strato di senso bruto”, evidenziando la genesi corporea dell’immagine.

Il corpo di cui parla Merleau-Ponty è un fascio di funzioni, un intreccio di visione e movimento, al tempo stesso vedente e visibile nel suo enigma e paradosso: in grado cioè di guardare e guardarsi. Riconoscendo l’altro lato della sua potenza visiva, quel corpo si vede vedente, si tocca toccante, è visibile e sensibile per se stesso, situato nel tessuto del mondo, nell’intreccio/chiasmo tra senziente e sentito: nel corpo umano, quando vedente e visibile, chi tocca e chi è toccato, un occhio e l’altro avviene un re-incrociarsi.

L’immagine cui la pittura dà voce celebra l’enigma della visibilità. Nell’immagine il pittore – l’unico ad aver diritto di guardare tutte le cose senza alcun obbligo di valutarle – ricerca il farsi della visibilità, il dispiegarsi del senso nel visibile, e al tempo stesso porta alla manifestazione quella visibilità diffusa in cui si annullano le differenze tra vedente e visibile, tra chi dipinge e chi è dipinto.

Lo specchio è il mezzo tramite cui il vedente si scopre guardato e l’io si sdoppia nell’altro. In Merleau-Ponty la ricerca del pittore è rivolta verso la vita del visibile, cioè in direzione di quel mistero di passività che lo anima dall’interno.

Nella fenomenologia, il linguaggio e la pittura convergono verso quell’espressione creatrice tramite cui il non-ancora- essere viene ad espressione. La pittura si presenta così come creazione in quanto presenta il mondo sensibile creandolo sempre di nuovo, mai una volta per tutte. Il mondo viene infatti creato ogni volta che il pittore pone mano a una tela e ogni volta che il fruitore si immerge completamente in essa.

La pittura, in particolare, richiede un superamento del paradigma soggetto-oggetto: il soggetto, abdicando a sé e ponendosi nella posizione di chi guarda l’opera, da cui è a sua volta guardato, entra in comunicazione con l’opera stessa. Si produce dunque un chiasmo tra quest’ultima e chi la osserva.

L’opera d’arte cerca di dare una forma al mondo sensibile rendendolo manifesto nel visibile della forma artistica. Così si propone come tramite che permette al suo creatore di poter dialogare con esso: le forme mute del mondo parlano attraverso l’artista, grazie alla forma che riconosce loro.

Il pittore, o l’artista in genere, si dà con tutto il suo corpo e così lascia che il suo spirito si immerga completamente nell’Essere del mondo che lo circonda. Immergendosi in esso coglie la sua reale essenza, la quale trova compimento solo sulla tela, quando la mano di quest’ultimo fa parlare quelle cose mute che vorrebbero farlo ma non possono.

Il pittore, dunque, rende visibile ciò che senza di lui non avrebbe accesso alla coscienza: il suo potere creativo viene dalla capacità del corpo vissuto di trascendersi verso il mondo e verso gli altri soggetti. Nella pittura, quindi, si dà il dispiegarsi del “senso del mondo”, come la metamorfosi di esso.

La pittura costituisce quell’ambito dove mondo e arte trapassano l’uno nell’altro tramite il corpo. C’è un nesso inestricabile fra il guardare e l’essere guardato, che rivela che la visione attuale del vedente è un qualcosa che lui subisce a opera delle cose viste. Tra i pittori citati da Merleau-Ponty, oltre Cézanne vi sono Matisse, Klee e Marchant: «Ecco perché i pittori hanno sovente amato […] raffigurare se stessi nell’atto di dipingere, aggiungendo a quel che allora vedevano ciò che le cose vedevano di loro, come a testimoniare che esiste una visione totale o assoluta al di fuori della quale niente rimane, e che si richiude su loro stessi».

La tela del pittore è come se si voltasse indietro per ricercare il senso dal quale proviene, senso che spinge il pittore a “interrogare” il mondo, dopo che è stato interrogato da esso, e che fa della tela stessa non una rappresentazione del mondo, ma una manifestazione o una presentazione di esso “quasi- eterna”. Si parla dell’opera d’arte come un tutt’uno tra il quadro e il senso che esso porta con sé, per cui, come il quadro è nel tempo, così anche il senso è nel tempo, si dà in esso. Ed essendo il tempo non immobile l’unica cosa che domina l’uomo e che si consuma in esso una volta morto, allora non sarà possibile dare una forma definitiva, e quindi fissare una volta per tutte un senso.

 

Riccardo Liguori 

NOTE
Maurice Merleau-Ponty, L’OEil et l’Esprit, Édiotions Gallimard, 1964; tr. it. a cura di Anna Sordini, L’occhio e lo spirito, SE, Milano 1989.

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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L’eterna contemporaneità di Ulisse

Facendo narrare ad Ulisse l’episodio del folle volo1, Dante costruisce un proprio doppio. Entrambi si dirigono verso il Purgatorio eppure, per molti aspetti, le loro vicende si collocano agli antipodi.

Quella dantesca è una discesa verso il nucleo dell’universo, cui segue una ascetica risalita verso la luce dell’Empireo; al contrario, il viaggio dell’eroe greco si sviluppa sul piano orizzontale delle conquiste geografiche (come quelle europee del ‘500, tanto vaste quanto sanguinarie).

Dante ha una guida in Virgilio, allegoria della ragione: attraverso il loro dialogo e le anime incontrate, egli procede moralmente e si purifica.

Ulisse viaggia in solitaria ed è vinto da un desiderio insaziabile di conoscenza: lui non dialoga, ma tutt’al più persuade con le arti della retorica. Non tende a un progresso etico, ma a un accumulo di esperienze. Il mondo di Ulisse è tutto chiuso nella sfera mondana di cui tenta di infrangere i limiti: ignora che le colonne d’Ercole sono un segno della volontà divina e vede il Purgatorio solo come una montagna bruna, certamente imponente e straordinaria, ma non più che un punto bianco sulla carta geografica.

Il mondo di Dante ha senso solo in prospettiva dell’ultraterreno: capisce l’umano perché fa esperienza del divino.

Ulisse, invece, è condannato dal non aver visto nient’altro che il suolo terrestre, limitando il mondo alla sola sfera dei sensi. Egli, cioè, ignora la sfera del trascendente che sola, per il Cristianesimo, può dare significato all’esistenza. Per l’eroe greco la conoscenza è un valore in sé, è essa stessa virtute.

Per Dante, invece, la conoscenza si acquisisce seguendo un cammino di perfezionamento morale il cui culmine risiede nel riconoscimento dei propri limiti e nella fede in Dio, il quale illumina su verità più alte di quelle raggiungibili con la semplice e sola ragione. Dante rilegge la sorte dell’eroe omerico secondo le categorie proprie della cultura cristiana.

Ulisse appare come un uomo senza Dio (non può neppure nominarlo) e perciò insensibile ai valori morali. La famiglia non lo trattiene né per affetto, né per senso del dovere («né dolcezza di figlio, né la pieta / del vecchio padre, né ‘ l debito amore / lo qual dovea Penelopé far lieta […]»). L’unico ardore  che conosce è puramente individuale: «divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore», cioè «seguir virtute e canoscenza». Egli si lega ai compagni di viaggio perché condividono il suo progetto (e quindi solo strumentalmente). L’esperïenza che insegue è una conoscenza diretta e sensibile: il viaggio, con il suo senso di avventura e di scoperta personale, ne è l’emblema. Allo stesso modo, la virtute di Ulisse, per grande che sia, non è illuminata da Dio, ma si fonda sulla stessa semenza o natura umana: la conoscenza e l’esperienza, dice Ulisse, sono per noi quasi un istinto.

Nella cultura cristiana medioevale, invece, la conoscenza è sempre mediata da un principio di autorità (la tradizione, la Chiesa) e regolata da principi religiosi invalicabili. I teologi condannano spesso la curiositas come vana: all’uomo non è concesso sapere tutto, e volerlo fare è peccare di superbia. La caduta di Adamo ed Eva derivava da questo, poiché il serpente aveva promesso loro: «[…] Sarete come Dio, conoscerete il bene e il male»2. Odisseo agisce proprio infrangendo questi limiti: uomo del mondo classico, egli ignora le categorie del mondo giudaico-cristiano. La forza della sua ragione, tramite cui persuade i compagni a spingersi in un’impresa tanto rischiosa e a guidarli effettivamente verso il Purgatorio, viene polverizzata dalla potenza “oscura” e muta di Dio. Infrangendo il volere divino (rappresentato dalle colonne d’Ercole) e vinto dalla propria velleità, egli incaglia nella natura stessa delle cose e dell’uomo, che è stato proprio Dio a stabilire. La conoscenza di Ulisse si rivela così ignoranza, e la sua virtù peccato.

Come «archetipo mitico che si sviluppa nella storia e nella letteratura come un constante logos culturale»3,Ulisse attraversa, da Omero in poi, tutta la letteratura europea di ogni tempo testimoniando la straordinaria fortuna di un mito letterario che affonda le proprie radici nell’inquieto dipinto dell’esistenza umana, nella perpetua tensione tra viaggio e ricerca, colorandosi di significati sempre nuovi. Le numerose vite di questo personaggio risalgono a quell’attributo di cui Omero per primo si servì, per definirlo: polytropos (‘dalle molte forme’).

Dall’Iliade in cui è l’eroe astuto, artefice dell’inganno fatale del cavallo di Troia, all’Odissea in cui alla sua methis (‘astuzia’) si sovrappone il tema del suo nostos (‘ritorno’), dalle tragedie di Sofocle ed Euripide, all’ Eneide di Virgilio, alle Metamorfosi di Ovidio. Da A Zacinto di Foscolo, costruita sulla identificazione tra l’eroe greco e il poeta, che si sente esule alla perpetua ricerca di sé, alla figura inquieta dell’uomo moderno nelle poesie Il ritorno e Ultimo viaggio di Giovanni Pascoli, in cui l’uomo dalle molte forme viene ritratto al termine della propria vita, stanco e dubbioso. E ancora, nelle Laudi in cui D’Annunzio lo propone come incarnazione di un moderno superuomo, dotato di doti straordinarie, che si eleva al di sopra della massa e disprezza ogni pericolo; o all’Ulisse, di Umberto Saba, protagonista dell’omonima poesia tratta dalla raccolta Mediterranee (1946), il cui non domato spirito ne fa una proiezione dell’inquietudine del poeta e del suo doloroso amore per la vita. Infine, l’Ulysses di James Joyce, vera epica della modernità che narra in parallelo le giornata di Leopold Bloom e quella di Stephen Dedalus, riedizioni rispettivamente di Ulisse e di Telemaco, che vagano per Dublino nel caos del mondo moderno (fino ad incontrarsi nello spazio/tempo dell’inconscio), giungendo poi all’identificazione nel Primo Levi di Se questo è un uomo (1947). Qui, in particolare, la memoria dei versi danteschi è imprecisa, vessata dal silenzio e dall’oblio, quasi a sentire disperatamente la necessità di aggrapparsi alla poesia e rincorrerne l’eco, come se attraverso il ricordo fosse in grado di mantenere distanti morte e dolore. Il protagonista identifica il proprio tragico destino con quello di Ulisse, sommerso dalle acque e, per un istante, gli balena nella mente l’intuizione tremenda che quel destino sia stato fissato per volere divino: l’altrui piacque dantesco assume un effetto dirompente e tragico, e il viaggio di Ulisse oltre le colonne d’Ercole si trasforma nell’infernale odissea della Shoah4.

Dante e Ulisse sono eroi del viaggio: la meta verso cui impegnano il proprio incedere è la stessa.

La via per giungere alla conoscenza è ben differente. La conoscenza dantesca si sviluppa man mano che cresce il perfezionamento morale di chi aspira a realizzarla: l’elevarsi della propria moralità dà luce all’intelligenza.

Al contrario, l’indomita sete di sapere di Odisseo è collocata sul piano solo empirico.

Dante realizza un pellegrinaggio cosmico, Ulisse un’esplorazione animata da un’intrepida audacia.

Questa immagine attraeva Dante per la sua integrità e la sua forza e lo allontanava per la sua indifferenza morale. Ma osservando quei caratteri di eroico avventuriero, di ricercatore che indaga in tutte le regioni esclusa quella morale, Dante ha visto in lui qualcosa di più generale della psicologia del futuro che si stava avvicinando: ovvero, i tratti propri della coscienza scientifica e più ampiamente culturale del tempo nuovo, la separazione fra la scienza e la morale, fra la scoperta e il suo risultato, fra la scienza e la personalità dello scienziato5.

 

Riccardo Liguori 

NOTE:
1. Il poeta, con quest’espressione, condanna un’intelligenza che si rovescia nel suo contrario nel momento in cui si rifiuta di accettare i limiti che le sono imposti. Siamo nel XXVI canto dell’Inferno, Divina Commedia.
2. Genesi 3,5.
3. Definizione di Piero Boitani.
4. Primo Levi, Se questo è un uomo, in Opere, Einaudi, Torino, 1997, pp. 108-111.
5. J. Lotman, Testo e contesto, Laterza, Bari, 1980, pag. 98.

 

[L’immagine di questo articolo reca l’illustrazione in copertina alla versione dell’Odissea pubblicata da Feltrinelli]

 

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Educare alla sofferenza tramite il dolore

«Gli uomini sofferenti si rendono simili tra loro mediante l’analogia della situazione, la prova del destino, oppure mediante il bisogno di comprensione e di premura, e forse soprattutto mediante il persistente interrogativo circa il senso di essa» 1.

Il dolore come passività, la pazienza, o sofferenza (da sub più fero, cioè porto su di me), parallelamente, come elaborazione positiva del dolore che gli riconosce un senso e ne fa una fonte di energia e non di depressione. Si pone, così, la “virtù della pazienza”, l’attiva assunzione del dolore come risorsa, consapevole colpo di sonda nel proprio intimo.
Il dolore è cosa diversa dalla sofferenza. Se da una parte c’è una risposta empirica ad uno stimolo nocivo, dall’altra c’è un fenomeno più complesso, la rivelazione della presenza di un qualcosa che non è controllabile.

É proprio nel modo di rispondere alla sofferenza che gli individui, singolarmente ma anche all’interno della comunità di riferimento, definiscono la propria identità, sviluppando così il proprio ethos.

Quella della sofferenza è un’esperienza unica ed intima, una sfida vissuta dalla globalità della persona, che emerge nel momento in cui le colonne del proprio foro interiore sono sotto assedio, minacciate da un qualcosa che è fuori o dentro di sé.
F. Dostoevskij, in Ricordi del sottosuolo, parla dell’essere umano come di colui il quale non rinuncerà mai alla vera e autentica sofferenza, perché è proprio lì che la fonte originaria della coscienza.
La sofferenza può così essere concepita, interpretata e dunque osservata come esperienza della contrazione del proprio, intimo, personale significato e nel riverbero della sua eco.

Parallelamente questa esperienza coinvolge l’individuo in un processo ampio e complesso il quale include la possibilità personale di confrontarsi, di affacciarsi, quasi tendendo una mano, anche al mondo interiore altrui.

Eric Cassel parla di questa nostra dimensione come di ciò che si sperimenta in risposta ad una minaccia del sé, ad un’offesa della propria identità e integrità:

«[…] Essa persiste fino a che la minaccia è superata o l’integrità è stata restituita. La sofferenza determina alcuni sintomi o fenomeni che minacciano il paziente a causa dei sentimenti di paura, dell’incertezza sul futuro e della natura stessa dei sintomi. I significati e i sentimenti di paura sono talmente personali ed individuali che pazienti che hanno gli stessi sintomi possono avere gradi e modi diversi di soffrire»2.

Il linguaggio che descrive e definisce la sofferenza del paziente è differente dal linguaggio abitualmente usato in medicina, infatti

«[…] vi è spesso una dissociazione fra il nostro modo di interpretare il caso e il modo di raccontare del paziente. Questa è una delle cause della nostra incapacità di dare sollievo alla sofferenza. […] Osservando la formazione e il modo di agire dei medici sembra che la persona, con il suo carico di opinioni […], di paure, di fantasie, di comportamenti fuorvianti, debba essere isolata dai suoi vissuti per poter meglio raggiungere l’obiettività della diagnosi»3.

Quando il medico si interessa del corpo e trascura la globalità della persona, diventa incapace di diagnosticare la sofferenza.

Il drammaturgo greco Eschilo, più di 2500 anni fa, parlava di questa dimensione come di uno strumento per educare gli uomini alla giustizia, proprio perché solo grazie alla consapevolezza di questo moto interiore, come risposta e rielaborazione di una forza esterna o interna che ha agito su di loro, saranno posti nella condizione di inclinare la testa, virare lo sguardo, magari solamente per un secondo, che così si stenderà su di loro, portandoli ad una più forte coscienza di sé.

 

Riccardo Liguori

 

NOTE:
1. Giovanni Paolo II, in un Messaggio in preparazione alla VIII giornata Mondiale del malato, 6 agosto 1999, §.13.
2. E.J. Cassell, Diagnosing suffering: A perspective, “Annals of Internal Medicie” 131 (7), 1999, pp. 529-530.
3. Ivi, pp. 531-534.

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