Leggere è importante?

È opinione generale che leggere sia importante. Questa posizione è difesa con vigore in particolare dagli addetti ai lavori per cui la lettura è indispensabile: insegnanti, scrittori, librai, giornalisti, o anche soltanto lettori per passione. Ora, è evidente che l’apprezzamento richieda una qualche dimestichezza con la cosa apprezzata, e sarebbe curioso che l’importanza della lettura fosse difesa da un analfabeta; tuttavia questa questione sembra comunque meritare una riflessione, come tutte le affermazioni di questo mondo aventi pretesa di essere “vere”, onde evitare di trovarci nella ambigua posizione di Platone che sostiene che la polis debba essere governata dai filosofi, ma se fosse stato un idraulico probabilmente avrebbe detto che a governare avrebbero dovuto essere gli idraulici1

La lettura ci mette in contatto con diverse visioni del mondo, che spesso nella loro originalità divergono molto dalla nostra e ci aiutano a considerare le cose sotto altri aspetti. In questo senso, la lettura ha un ruolo decentratore nei confronti di chi legge, ed è importante nella misura in cui impedisce al nostro punto di vista di cristallizzarsi, e lo aiuta anzi a rinnovarsi, a diventare agile e leggero di fronte a situazioni complesse, che diventano dei problemi solo quando non siamo in grado di trovare l’approccio migliore per affrontarle. 

Questo rinnovarsi di fronte alle cose della vita per potercisi rapportare al meglio non è dell’ordine del calcolo anticipatore (imparare un metodo), ma piuttosto dell’intuizione, del colpo d’occhio che coglie la specificità e la novità di ciò che ci si presenta davanti. Un metodo infatti funziona quando la materia su cui si applica è la stessa, ed ha la straordinaria qualità di portare sempre al medesimo risultato, come vediamo nelle scienze matematiche. Ma comportarsi in maniera metodica quando la situazione, per essere risolta, richiede di essere capita è fuorviante, perché ha l’effetto collaterale di gettare sabbia negli occhi. Quindi è importante abituarsi ad osservare, e la lettura in questo può aiutare.
A questo proposito è però opportuno tener conto del fatto che un libro è sempre identico a sé stesso, e per questo rischia di cristallizzare attorno a sé anche le interpretazioni che ne vengono date. Questa è la caratteristica dei classici (sia di letteratura che di saggistica), che dovrebbero invece offrire spunti sempre nuovi, presentarsi attuali anche dopo secoli dalla loro stesura. 

Di questo carattere vivente del discorso parla proprio Platone in un celebre passaggio del Fedro: “Discorsi accompagnati da conoscenza, che siano in grado di venire in aiuto a sé stessi e a chi li ha piantati e non siano infruttiferi, ma abbiano una semenza dalla quale nascano nell’indole di altri uomini altri discorsi capaci di rendere questa semenza immortale, facendo sì che chi la possiede sia felice quanto più è possibile per un uomo” (Platone, Fedro, 277a)

Quello che a Platone preme è che un discorso non si fissi in un insieme di parole statiche, sterili, inerti, ma che veicoli il dialogo tra anime, viventi e mutevoli, che trasmettendosi vissuti si arricchiscono a vicenda e diano luogo a nuova vita. In questo senso la lettura di un libro, a maggior ragione di un grande classico, non è importante in quanto tale, ma solamente se ci dà degli strumenti per rapportarci alle diverse situazioni nelle quali ci imbattiamo, perché quello che conta nella vita è vivere bene. Capita che ce lo dimentichiamo, che ci forziamo a leggere questo o quel libro o che forziamo altri a farlo, perché riteniamo sia un testo fondamentale. Così facendo è come se implicitamente facessimo passare il messaggio che nella vita è importante aver letto questo o quell’autore.

Per concludere, una buona lettura richiede secondo noi un approccio creativo: un libro è interessante non in sé, ma per noi che lo leggiamo, perché quando lo leggiamo prende una colorazione nuova, secondo quello che è il nostro modo di riceverlo. Leggere Dante per leggere Dante non è importante: Dante, in fin dei conti, è morto. Il mondo d’altro canto è sempre vivo. Ciò che rende vivo Dante, attuale, parlante, siamo noi. Per questo motivo crediamo che leggere non sia importante: leggere è utile e un grande piacere se attraverso la lettura sappiamo trarre nuovi spunti per la nostra vita: se non ci dà nulla, se ci pesa, è di gran lunga meglio lasciar stare. Come dice l’ultracitato Pennac, “Le verbe lire ne supporte pas l’impératif”.

 

Pietro Bogo

NOTE
1. Questa simpatica battuta la devo al mio insegnante di filosofia del liceo.

2. lett. “il verbo leggere non supporta l’imperativo” (NdR).

 

[Photo credit Sincerely Media via Unsplash]

 

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Eraclito, Buzzati e il divino a portata di mano

A volte leggendo un autore capita di sentirsi come sopraffatti dalla bellezza e dalla profondità dei suoi scritti, e sembra di trovarsi di fronte a qualcuno di eccezionalmente dotato, dalle qualità superiori alle nostre, quasi facesse parte di un’altra dimensione, quasi vivesse in una realtà diversa dalla nostra. Forse è per questo che ci affascinano gli aneddoti sui grandi uomini del passato: contribuiscono a ridimensionare l’immagine che abbiamo di loro e a farceli sentire più vicini alla normalità.

Uno degli aneddoti più eloquenti a nostra disposizione riguarda Eraclito. Si racconta che dei visitatori venuti ad Efeso per sentirlo parlare, una volta bussato alla sua porta, rimasero interdetti constatando che questi si scaldava vicino al fuoco. Vedendo la loro titubanza, egli li incoraggiò così: «Entrate, gli dèi si trovano qui come dappertutto!»1. Non conosciamo la reazione dei visitatori, ma ciò che conta è che il vedere quell’enorme pensatore in un contesto così banale, così indegno per qualcuno del suo calibro, abbia prodotto una sorta di turbamento in loro, che lo figuravano intento in chissà quali elucubrazioni metafisiche.

La visione del saggio “fuori contesto” produce uno choc, ed è questa la cosa affascinante. Eraclito afferma che gli dèi sono anche lì, nel più banale dei contesti. Perché i visitatori sono turbati? Il fatto è che nell’immaginario collettivo il filosofo, l’artista, il letterato – insomma colui che dedica la sua vita a produzioni fuori dal comune, nel senso più letterale di questa espressione – in qualche modo disdegni le esperienze per così dire banali e si preoccupi di vivere soltanto quelle cariche di senso, che esulerebbero dal quotidiano perché rare e di difficile accesso. Lo choc dei visitatori è quindi prodotto dal contrasto tra quest’idea e la constatazione che Eraclito non sta vivendo nulla di straordinario. Eraclito, dal canto suo, risponde loro bonariamente che lo straordinario non è da qualche parte al di là delle esperienze quotidiane, e che ciò che fa la differenza sono la sensibilità e la penetrazione dello sguardo, la capacità di coglierlo nei contesti quotidiani, perché, in fin dei conti, la vita si svolge giorno per giorno, e dà agli ospiti l’insegnamento che forse erano venuti a cercare, ma che probabilmente non colgono.

La filosofia tende all’astrazione perché il suo sguardo è universale e vuole cogliere il mondo nella sua totalità, non lasciandone fuori alcun aspetto. Tuttavia il mondo prende significato in quanto è vissuto da noi, ed il vissuto è sempre legato al contesto, alla situazione particolare in cui ci troviamo. Il filosofo riesce a non perdere mai di vista questa lezione, ed è anzi consapevole che le grandi verità si nascondono nelle piccole cose, che come tali passano inosservate e richiedono una grande sensibilità per essere colte. Non è senza consapevolezza che Eraclito stesso afferma che «La natura ama nascondersi» (Eraclito, Frammenti, B123 D-K), o che Aristotele ci dica che la filosofia nasce dal sentimento della meraviglia di fronte a ciò che abbiamo davanti2.

Vi è un altro autore, più vicino ai nostri tempi, che sembra volerci persuadere con forza che lo straordinario si nascondono nei contesti più comuni. Si tratta dello scrittore, giornalista e pittore bellunese Dino Buzzati. Profondamente convinto che il misterioso abiti ed animi il mondo e sia sempre dietro l’angolo, nei suoi racconti egli mette in scena gli avvenimenti più surreali e paradossali, a volte anche incomprensibili, partendo da situazioni assolutamente banali ed apparentemente prive di qualsiasi interesse filosofico: una passeggiata nel bosco si trasforma nella più grande delle avventure, una semplice visita medica diventa un’angosciosa odissea verso l’ignoto e la consapevolezza della propria impotenza, una normalissima nuvola ci mette di fronte alle nostre debolezze più recondite, la quotidiana ricerca di un parcheggio finisce col liberarci definitivamente dalle nostre gabbie mentali3.
Insomma, pare che in molti cerchino di suggerirci che il sale delle cose si trova proprio davanti a noi, dentro le pieghe, e che si tratti soltanto di saperlo e di volerlo cogliere.

Concludiamo riportando una singolare esperienza capitataci di recente. Leggendo Le avventure di Pinocchio, il testo all’improvviso si è arrestato e nella pagina successiva continuava un romanzo a noi ignoto. Il fatto, che di per sé può sembrare ridicolo, ci ha però riportato alla mente la vicenda di Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino. Proveremo quindi a recuperare il libro sconosciuto e vedremo dove ci porterà.

 

Pietro Bogo

NOTE
1. Questo aneddoto ci è trasmesso da Aristotele, Le parti degli animali, libro I, cap. 5.

2. Cfr. Aristotele, Metafisica, libro A.
3. I racconti cui facciamo riferimento sono, nell’ordine: Il borghese stregato, Sette piani, Le tentazioni di Sant’Antonio, Il problema dei posteggi in Sessanta racconti, 1958.

 

[Photo credit Stefan Widua via Unsplash]

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Per un 25 aprile consapevole

Nell’agosto del 1944 Irma Bandiera venne torturata e accecata poiché non voleva rivelare dove si trovavano i suoi compagni. Venne poi uccisa e gettata in strada, perché si sapesse qual era la fine destinata ai partigiani.

Il 25 Aprile è senz’altro il simbolo dell’antifascismo, della resistenza contro la dittatura. Resistenza, ovvero il rifiuto della dittatura e di tutto ciò che essa impone: negazione della libertà, della dignità, umiliazione, eliminazione fisica di coloro che escono dai rigidi confini dell’ideologia su cui si fonda.
A ben pensarci, la lotta per la libertà non può non configurarsi come una resistenza: la libertà per sua natura non può essere imposta, ed è questo il tratto che la distingue da un regime. La libertà si ottiene e si mantiene impedendo che venga soppressa con la forza. La libertà, cioè, si guadagna resistendo. In questo senso, l’orrendo episodio di cui sopra è uno dei più alti esempi di difesa della libertà.
Ma il 25 Aprile va al di là di questo: è una ricorrenza che ci ricorda più in generale che ci sono cose che valgono più della vita. Per Irma Bandiera ve n’era almeno un’altra: l’amicizia, che è la responsabilità che abbiamo nei confronti delle persone a cui vogliamo bene.

Credo che oggi sia un’occasione per fermarci un momento e riflettere proprio su questo: la responsabilità. Vi è una tendenza sempre più diffusa a pensare, più o meno consapevolmente, che libertà significhi fare quello che si vuole, e qualunque cosa risulti in qualche modo d’intralcio a questa indeterminata ed ideale espressione di sé viene vista come una limitazione della stessa, e di conseguenza percepita da noi con insofferenza.
Stare al mondo significa inevitabilmente relazionarsi a situazioni, avvenimenti, persone, poiché dal momento in cui facciamo il nostro ingresso in questa scena siamo immersi in un intrico di relazioni, e non possiamo sfuggirne, neanche isolandoci in una fredda grotta di montagna. L’idea della libertà come assenza assoluta di vincoli è una vuota astrazione che non tiene conto che ognuno di noi vive in un mondo, e che le nostre azioni hanno delle conseguenze sul contesto nel quale ci troviamo.
In questo senso, la democrazia può, se vogliamo, essere vista come un’immagine della nostra condizione nel mondo. Democrazia significa che ognuno è responsabile dei propri pensieri e delle proprie azioni, perché è tenuto ad esprimersi e a prendere una posizione all’interno della società, a prendersi cura del contesto in cui vive e delle persone con cui vive. È fondamentale cercare di sentire questa responsabilità, che non è un’invenzione, bensì la condizione reale del nostro stare al mondo.

Irma Bandiera la sentiva: sapeva che anche in quell’orribile situazione nella quale si trovava, in mezzo a quei soprusi disumani e agghiaccianti – soprattutto in mezzo a quei soprusi – era importante mantenere ciò che rende una vita degna di essere vissuta: la responsabilità nei confronti di ciò che è giusto. E la vera libertà non può essere dissociata dal sentimento e dalla consapevolezza del nostro ruolo nel mondo, un ruolo che ognuno di noi ha dal momento in cui è al mondo, perché basta che una cosa esista, anche se piccola, perché il mondo sia costretto a tenerne conto.

Noi siamo più fortunati: non ci troviamo davanti alla scelta di morire per quello in cui crediamo o piegarci alla violenza e all’ingiustizia. Sicuramente però è importante per noi prenderci un momento per riflettere su questi temi, e soprattutto sul fatto che, se abbiamo questa fortuna, è perché molti giovani ragazzi non l’hanno avuta, e hanno deciso di dare la propria vita per qualcosa di più prezioso di essa: la libertà, e questo in virtù della responsabilità che sentivano nei confronti dei loro cari, dei posteri e del mondo.
Questo giorno, la democrazia, l’antifascismo, la libertà, la responsabilità, tutto ciò è legato assieme da un elemento, ossia la consapevolezza del nostro ruolo in quanto uomini: ecco cosa possiamo trarre da questa ricorrenza. Prendiamoci un momento per pensare a tutto ciò. Come scrive Michele Serra, basta un minuto per sentire che oggi è il 25 Aprile1.

 

Pietro Bogo

 

NOTE:
1- Michele Serra, L’amaca del 25 aprile 2017

[Photo credit unsplash.com]

Giustizia e forza tra Rousseau e Pascal

In natura sopravvive chi ha i mezzi migliori. Che si tratti di forza in senso stretto o di altre caratteristiche che possono esser considerate tali in senso più generale – come un efficace mimetismo o la secrezione di sostanze deterrenti – l’osservazione dei fenomeni naturali ha prodotto l’idea di “legge del più forte”. Questa espressione, però, se trasposta dal contesto naturale a quello sociale rischia di essere facilmente male interpretata e di legittimare atteggiamenti dispotici nei contesti più disparati: mobbing sul lavoro, bullismo nelle scuole, violenze in contesti familiari, venendo meno a quella che probabilmente è la caratteristica fondamentale della società, e cioè la tutela del più debole.

Nel Diritto del più forte (terzo capitolo del primo libro de Il contratto sociale), Rousseau si propone di mostrare l’incomprensibilità della nozione di “diritto del più forte” tracciando una netta distinzione tra la nozione di forza e quella di diritto. Se infatti ammettiamo la validità di questa idea, se accettiamo che il diritto sia un’istanza subordinata alla forza e dipendente da essa, ne deriva che il più forte è legittimato nel suo soverchiare il più debole, e che chi ha la forza di imporsi lo faccia anche a buon diritto. Tuttavia in questo caso il diritto non aggiunge nulla alla forza: il più forte non ha certamente bisogno di questa legittimità per imporsi, piuttosto egli lo fa in virtù di questa sua natura stessa; il più debole, dal canto suo, non si sottomette per dovere, bensì per necessità. Recita Rousseau: «Che un brigante mi sorprenda al limitare di un bosco: non soltanto dovrò per forza dare la borsa, ma, quando potessi sottrarla, sarei in coscienza obbligato a donarla? Perché, in fin dei conti, la sua pistola è sempre una potenza» (J.J. Rousseau, Du contrat social, 2010).
Da questo testo emergono dunque principalmente due idee. Innanzitutto il fatto che la nozione di diritto e quella di forza siano nettamente distinte, e l’espressione “il diritto del più forte” equivale in fin dei conti a “la forza del più forte”, poiché il diritto non aggiunge nulla al potere d’azione della forza. La seconda, più sottile, è che il diritto non costringe materialmente, bensì obbliga, cioè agisce a livello di coscienza morale. La forza s’impone da sé, il diritto chiama.

Questa distinzione mirabilmente condotta stronca una volta per tutte i tentativi di legittimare un sopruso sulla base della forza (sono più forte, quindi è giusto che comandi io), perché la legittimazione avviene sul piano del diritto, e non di una situazione di fatto. Ciò sembra risolvere una serie di questioni spinose, ma in realtà proietta dietro sé un’ombra, di cui sicuramente Rousseau era consapevole, che era già emersa con fascino nel pensiero di Pascal in Giustizia, forza1.
In questo testo Pascal, che riflette sulla relazione tra queste nozioni, mette in luce la problematicità della distinzione di cui sopra. La giustizia necessita della forza, perché da sé non si impone: essa è ciò che legittima o meno uno stato di fatto. Alla forza, dal canto suo, serve esser giusta per legittimare il suo esercizio, per non essere tirannica. Tuttavia, se da un lato «la forza è facilmente riconoscibile», proprio in virtù della sua natura, dall’altro «la giustizia è soggetta a disputa»: di ciò sono testimoni gli innumerevoli dibattiti sulla natura della giustizia, da Platone ai giorni nostri. Di questa ambiguità ha storicamente approfittato la forza, imponendo le sue ragioni e dichiarando (con forza) d’esser giusta. «Così – conclude Pascal – non potendo fare in modo che ciò che è giusto fosse forte, si è fatto sì che ciò che è forte fosse giusto».

Benché l’analisi di Pascal abbia una conclusione piuttosto sconfortante, ci sembra di poter trarre un insegnamento importante da queste lezioni. Il rischio di un sopruso è sempre dietro l’angolo, e le ragioni emergono lampanti da questi due testi. La giustizia non può essere imposta, la sua dimensione essendo quella morale: essa agisce a livello di coscienza individuale. Una regola imposta forzosamente è necessariamente tirannica, poiché essa deve essere l’espressione del senso di giustizia di una comunità, sia essa un gruppo di colleghi di lavoro, una classe scolastica oppure uno Stato. Ognuno, nella vita di tutti i giorni, ha la responsabilità di far esistere la giustizia nel contesto in cui vive, e ciò, come si è visto, non può essere imposto da fuori, ma deve uscire da dentro. Ecco perché invece di seguire ciecamente una regola comportandoci così da sudditi, è importante, seguendo il proprio buonsenso, individuare il significato della stessa, interiorizzarlo ed agire come chi sta al mondo con la consapevolezza del senso di ciò che fa. Una società giusta non è separabile dalla responsabilità dei propri cittadini.

 

Pietro Bogo

NOTE
1. Si tratta del novantaquattresimo pensiero contenuto in Pensieri. Le brevi citazioni che seguono sono tratte da questo pensiero.

 

[Photo credit Tingey Injury Law Firm via Unsplash]

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Cartesio e il problema della libertà

Il concetto di libertà è uno di quei temi che non passano mai di moda. Comprensibile, visto che difficilmente possiamo trovare qualcosa che tocchi più da vicino la nostra sensibilità. Più o meno consapevolmente, la libertà viene chiamata in causa nei contesti più disparati: se n’è parlato molto in politica quando la questione del green pass era al centro dei dibattiti; se ne parla moltissimo a scuola, quando si affronta la nozione di diritto; se ne discute implicitamente innumerevoli volte prima dei diciott’anni, con i propri genitori, quando trattiamo sull’orario di rientro la sera. E quando finalmente diveniamo maggiorenni, il mondo ci sembra ad un tratto un posto più grande, perché “adesso possiamo fare quello che vogliamo”. E quest’idea sembra essere la più popolare, quella che dà la sua accezione al concetto di libertà che ha il senso comune: assenza di limitazioni esterne.

Presto ci rendiamo conto che la vita in società non può ammettere l’assoluta libertà di ognuno, pertanto ridimensioniamo la nostra idea ed affermiamo che “la nostra libertà finisce laddove inizia quella dell’altro”. Tuttavia quest’idea di una completa indipendenza da vincoli persiste ad un livello più intimo: le nostre scelte sarebbero libere nella misura in cui non vi è nulla, se non la nostra volontà, a determinarci. E in questo senso, saremmo tanto più liberi quanto più la nostra volontà è scevra di fattori che possano spingerla in una direzione piuttosto che in un’altra. Ed è in virtù di queste ragioni, sembra, che storciamo il naso all’idea che i nostri pensieri e le nostre azioni siano causati da fattori esterni alla nostra volontà, ma che la determinano: il determinismo in tutte le sue forme è percepito come negazione della libertà.

A questo punto sorge un problema. Se da un lato un’azione libera è determinata esclusivamente dalla nostra volontà, dall’altro non possiamo però decidere che cosa vogliamo: di fronte a due alternative diamo la preferenza all’una o all’altra secondo le nostre inclinazioni, che non dipendono da una deliberazione consapevole.
Insomma, come potrò agire esclusivamente in virtù della mia volontà, se questa è determinata a sua volta da fattori che le sfuggono? Per decidere in piena libertà che cosa fare, non dovrei forse essere per l’appunto libero dalle inclinazioni che mi spingono in una direzione piuttosto che nell’altra?

Un approccio interessante alla questione della libertà è offerto da Cartesio nelle sue Meditazioni metafisiche, pubblicate per la prima volta nel 1641 (in particolare nella quarta, titolata Del vero e del falso). L’autore francese mostra come nell’atto di prendere una decisione intervengano due facoltà: la volontà e l’intelletto. La prima è definita come «la potenza di deliberare», di pronunciarsi su qualcosa. È il potere di decidere se accettare o rifiutare, oppure se è il caso, per il momento, di astenersi perché non abbiamo abbastanza informazioni. In questo senso, essa è intesa da Cartesio come libero arbitrio. La volontà è quindi ben distinta dalle inclinazioni personali verso qualcosa. Le inclinazioni sono un fatto, mentre la volontà è un potere d’azione, e le due cose agiscono separatamente l’una dall’altra. Per esempio, se in questo momento ci fa voglia un gelato, non possiamo farci nulla: è un fatto, ed è ciò che qui abbiamo chiamato inclinazione. Tuttavia possiamo decidere se è il caso di prenderlo oppure no: se ne abbiamo già mangiati dieci, sappiamo che mangiarne un altro ci farà male, pertanto decidiamo di non prenderlo, pur facendoci voglia.

Ad un’osservazione più attenta, ciò che ha determinato la nostra volontà a rifiutare il gelato contravvenendo alla nostra inclinazione immediata è la consapevolezza del fatto che troppo gelato fa male. La conoscenza è di competenza della seconda facoltà, l’intelletto. La conoscenza delle cose ci aiuta a prendere delle decisioni accurate: vedendo ciò che è bene e ciò che invece è dannoso, ci comportiamo di conseguenza.

Da questo testo di Cartesio emerge un’idea davvero affascinante: l’indifferenza tra più alternative non è libertà, ma indecisione causata dal fatto che non conosciamo ciò su cui stiamo decidendo, e ciò produce una sorta di paralisi. Quando invece sappiamo bene cosa scegliamo quando lo scegliamo, ci decidiamo molto più spontaneamente, e siamo tanto più liberi non avendo che una sola alternativa: quella giusta, poiché nulla ci ostacola nella nostra azione. Recita Cartesio:

«Se conoscessi sempre ciò che è vero e ciò che è buono non sarei mai nella difficoltà di decidere […], e sarei interamente libero, senza mai essere indifferente» (Cartesio, Meditazioni metafisiche, 1986).

Insomma, quello che Cartesio vuole dirci è che libertà e conoscenza sono inseparabili: soltanto conoscendo ciò che è bene, che non può che giovarmi, asseconderò la mia natura e sceglierò liberamente, eliminando così l’imbarazzo della scelta.

 

Pietro Bogo

 

[Photo credit Kaffeebart via Unsplash]

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Una divagazione sulla morte

«Tutto scorre», diceva Eraclito. Le cose entrano ed escono in continuazione dal dominio dell’esistenza. Nascita e morte sono gli estremi tra i quali tutta la vita si svolge, si srotola, si dispiega nelle sue infinite forme e tonalità. Ogni cosa è una cristallizzazione momentanea di questo movimento che, senza inizio né fine, continua eternamente a fare ciò che gli è proprio: muoversi.

Tra questo pulviscolo di cristalli vi siamo anche noi, che pur facendo sempre parte dell’enorme flusso che è la vita universale, ci costruiamo i nostri piccoli, personali movimenti, che entrano in contatto gli uni con gli altri: spesso si allontanano, a volte si sfiorano, talora si toccano e, quando siamo fortunati, si intersecano. Poi, uno alla volta, questi movimenti si interrompono bruscamente, lasciando spazio ad altri centri che disegneranno nuovi percorsi.

Benché la morte sia ciò che vi è di più naturale a questo mondo, ci scuote profondamente quando ci tocca da vicino. La scomparsa di una persona cara costituisce un dolore difficile da sopportare: sentiamo la privazione, la negatività della mancanza. Questo sentimento è soffocante perché non c’è nulla che possiamo fare: siamo completamente impotenti di fronte alla situazione, ed è come se avessimo perso, assieme alla persona scomparsa, una parte di noi. Sembra quasi che per quanto possiamo costruire e stringere legami, tutto sia comunque destinato a scomparire. Ma al tempo stesso la vita è per sua natura relazione: inseriti in un contesto, ci rapportiamo a esso e a coloro che lo abitano; ci rapportiamo agli altri in vari modi, e a questo non ci si può sottrarre. In questo senso, come possiamo affrontare la scomparsa nel nulla di ciò che costituisce l’essenza stessa delle nostre vite?

Non vogliamo qui discutere se la vita dopo la morte continui in una qualche forma oppure se la morte sia una scomparsa definitiva. Ciò non cambia il fatto che quando l’affrontiamo qui, in questo mondo, la sentiamo come separazione. E poiché noi abitiamo questo mondo, è di essa che vogliamo parlare.

Quando viene a mancare qualcuno è come se venissimo privati di una parte di noi. Questo sentimento è qualcosa di più rispetto ad una permanente variazione nelle nostre abitudini, nel senso che mentre prima lo vedevamo sempre, ora non più. Un pezzo della nostra vita ci viene tolto perché la nostra esistenza è una continua relazione a ciò che ci circonda. Tuttavia vi è relazione soltanto tra entità dinamiche: nella misura in cui è l’entrare in contatto di due poli, essa va a cambiare la natura di entrambi. Conoscenze, amicizie, amori, tutto ciò va a modificare il nostro modo di stare al mondo: le nostre coscienze variano nella risonanza con le altre e si arricchiscono in un processo di continua crescita che conferisce nuove colorazioni alle nostre quotidianità. Le vere relazioni ricreano continuamente lo spirito.

Tutto ciò rimane anche una volta che una delle controparti viene a mancare. Certo, è evidente che in questi casi la relazione subisce un troncamento; tuttavia il tempo – per fortuna probabilmente – non è reversibile, e durante tutto il percorso che abbiamo affrontato insieme a qualcuno, comprese le impasses relazionali, ci siamo evoluti: esso ha modificato il nostro spirito, che si è arricchito di nuove sfumature prodotte proprio dal contatto con l’altro.

Nella sua opera Saggio sui dati immediati della coscienza (1889), Bergson mostra come il tempo sia spesso pensato come una serie di momenti giustapposti come in fila, separati l’uno dall’altro e per questo isolabili e pensabili indipendentemente tra loro, la cui successione sarebbe ugualmente percorribile in avanti o all’indietro. La separazione e la giustapposizione sono però proprietà che appartengono allo spazio: ciò a cui pensiamo non è quindi la durata, bensì la sua rappresentazione spaziale. Gli stati di coscienza, mostra Bergson, si compenetrano l’un l’altro in quanto si svolgono nel tempo: non è possibile isolarli se non contravvenendo alla natura di questo. Ogni stato di coscienza riflette la personalità intera dell’individuo, perché egli è il risultato di tutte le esperienze che l’hanno formato e modificato fino a farlo diventare quello che è oggi.

Insomma, il nostro modo di stare al mondo cambia perché la nostra vicinanza con l’altro ci cambia.

Quando diciamo che qualcuno continua a vivere in noi, questa ci sembra una banale frase fatta, detta per consolarci, perché non ne cogliamo il senso; in realtà questa sentenza potrebbe racchiudere un messaggio filosofico molto profondo, a condizione di saper vivere a pieno la relazione, così da lasciarci arricchire ed arricchire a nostra volta gli altri, venendo a costruire delle profonde e fertili reti intersoggettive.

 

Pietro Bogo

[Immagine tratta da Unsplash]

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(A) cosa serve?

Nei Frammenti postumi1 di Nietzsche, tra i numerosissimi aforismi che vertono sui temi più disparati, è presente un testo in cui è possibile individuare quelli che ci sembrano essere gli elementi costitutivi del nichilismo: mancanza del fine, mancanza del perché e svalutazione dei valori. Volendo disporli secondo un ordine logico, potremmo enunciarli piuttosto così: 1) tutti i valori si svalutano, 2) manca il fine, 3) manca la risposta al perché.

Venendo meno il valore come entità portatrice di senso, vengono meno anche i fini delle nostre azioni. Iniziamo così a domandarci: «perché dovrei agire in questo modo?», ed è quando questa domanda manca di una risposta che la nostra quotidianità diventa piatta e insipida. Ma che cosa può muoverci all’azione, una volta che la giustizia, la bellezza, la generosità, la tradizione ecc. non sono più sentiti da noi come degni di essere perseguiti?

L’unico motivo che rimane è di ottenere qualche cosa in cambio: se infatti agire in virtù della bontà (nel senso più generale di questo termine) dell’azione non ha più senso, per portarci ad investire dell’energia nel mondo non resta che la certezza, o almeno la probabilità, che i nostri sforzi ci faranno ottenere in cambio qualche cosa di concreto. Si innesca così una dialettica del do ut des che pone l’utilità come unico fine dell’azione, fino a farla diventare un surrogato dei valori e a farle riempire il vuoto lasciato dalla morte [scomparsa] di questi. In questo modo, la domanda «perché dovrei agire in questo modo?» diventa «a cosa serve che io compia questa azione?», sostituendo una mera valutazione dei possibili vantaggi materiali alla ricerca di senso sottesa dalla prima domanda.

Questa maniera di pensare è molto radicata in noi, ed è un approccio alle cose che comporta parecchi problemi relativi al nostro modo di stare al mondo. Ci poniamo come centro dell’esistenza, la nostra attenzione è sempre rivolta verso di noi. Ciò produce senso di isolamento, frustrazione, stress: tutto è amplificato nella nostra testa, che lavora ripiegata su sé stessa, senza che niente possa apportare degli elementi di novità, mostrarci le cose sotto un’altra prospettiva, mitigare il travaglio delle nostre coscienze. Ma cosa possiamo fare? Esistono delle soluzioni? Magari dovremmo cercare un modo di rapportarci al mondo che rimetta al centro delle nostre vite l’importanza dell’attività in sé, e che non dia al risultato più spazio di quello che gli è dovuto. Potremmo per esempio chiederci non tanto a cosa serva agire in un certo modo, bensì cosa serva la nostra azione, cioè al servizio di che cosa essa si ponga, e di conseguenza al servizio di che cosa ci poniamo noi agendo in un certo modo, quale atteggiamento incarniamo. Le due espressioni sembrano simili, ma in realtà sono profondamente diverse.

Supponiamo di voler fare l’orto questa primavera. Se ci chiediamo a cosa serve fare l’orto, la risposta immediata è: ad avere verdure fresche e salutari. L’attenzione è rivolta al risultato materiale. Ma proviamo invece a chiederci: cosa serve fare l’orto? Cioè: l’attività di coltivare delle piante nel nostro giardino, a che cosa dà importanza? In questo caso le risposte sono molteplici e di più ampio respiro: coltivare l’orto serve un avvicinamento alla natura, ci mette in una relazione più intima con un aspetto del mondo che abitiamo.

La domanda «cosa serve?» non si interroga sul risultato, ma sul valore dell’azione stessa. Essa aspira a prendere parte a qualcosa di più grande. Incarna un atteggiamento diverso, che proietta verso il fuori e in questo modo scardina la dialettica dell’individualismo e schiude la coscienza ad un mondo di relazioni, di risonanze con le altre coscienze e con il mondo. Entriamo nella concretezza della vita uscendo dall’astrazione solipsista in cui ci eravamo posti. Chiedersi «cosa serve?» è forse anche un allenamento: aiuta ad allargare il proprio sguardo, a prendere in considerazione altri aspetti oltre alla propria individualità, cercando qualche cosa più grande di noi per cui valga la pena agire e a cui prendere parte.

Spesso sentiamo che i valori hanno perduto la loro forza, constatiamo che il fine delle nostre azioni non sempre è facile da individuare ed il senso delle cose sembra scivolarci tra le dita. Forse uno dei sentieri che possono aiutarci ad uscire dallo sconforto che a volte ci prende è capire che il senso non va cercato, ma va prodotto. Questo atteggiamento può aiutare ad aprirci alla rete infinita di relazioni di cui è costituito il mondo.

 

Pietro Bogo

 

Nato a Belluno nel 1994, Pietro Bogo ha conseguito una laurea triennale in Filosofia presso l’Università degli studi di Trieste. Ha poi continuato i suoi studi presso l’Université d’Aix-Marseille, dove ha ottenuto nel 2019 una laurea magistrale discutendo una tesi sulla relazione tra la sostanza e l’attributo nel pensiero di Spinoza. Ora insegna lettere presso una scuola media di Belluno, continuando a coltivare la sua passione per la filosofia. Nel tempo libero pratica il judo a livello amatoriale ed ama dilettarsi in cucina.

 

NOTE:
1. Nietzsche, Frammenti postumi, 2, 126, 127

 

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