Il futuro del mondo. Scenari di denatalità globale

La Plasmon ha recentemente realizzato un cortometraggio ambientato in Italia nel 20501, anno in cui nascerebbe Adamo, l’ultimo bambino del nostro Paese, destinato a crescere solo tra adulti. I protagonisti raccontano l’angoscia di crescere un bambino destinato a essere sempre solo e le problematiche che hanno portato le persone ad abbandonare l’idea di avere figli. Reparti di maternità vuoti, asili vuoti, scuole vuote…

Se l’infanzia e la gioventù sono sempre state la base della piramide demografica, le cose stanno cominciando a mettere seriamente a rischio questa forma, che rischia di capovolgersi. In un mondo affollato di anziani e carente di giovani, quello che verrà a mancare sarà incommensurabile. A parte le ovvie difficoltà a pagare le pensioni di chi merita il riposo della sopraggiunta terza età, ci sarà una crisi dell’innovazione, perché è il nuovo che porta novità e cambiamento, cioè le nuove generazioni, menti fresche che pullulano di energia promotrice di evoluzione. Il perfetto connubio sarebbe il giusto mix tra freschezza e capacità innovativa delle menti giovani ed esperienza e maturità di menti più vissute.

Attualmente l’età media del nostro paese è 47 anni, ed è uno dei più vecchi al mondo. Ma siamo ormai in buona compagnia: tutte le 15 maggiori economie mondiali hanno un tasso di fertilità sotto 2,1. Le donne fanno meno figli perché sono troppo impegnate a far carriera? In realtà negli USA si è visto che oramai le donne meno istruite fanno pochi figli come quelle più in carriera. È evidente che la denatalità è un fenomeno complesso, multifattoriale2.

L’immigrazione dai paesi che ancora si reggono su buoni tassi di natalità potrebbe essere una soluzione, ma se le giovani menti in fuga non vengono istruite da qualche parte (paese di provenienza o paese di arrivo) non potranno essere una innovativa forza lavoro in nessuna realtà. Mentre i costi per il benessere degli anziani, per pagare le loro pensioni e le loro cure (la salute pesa molto nel bilancio della seconda fase della vita), risucchieranno buona parte dei budget delle spese di una nazione, sempre meno sarà disponibile per sostenere il mondo giovanile. Aumentare le tasse e l’età pensionabile sarà inevitabile. Anche i comportamenti economici sono molto diversi tra persone giovani e persone anziane, varie sono le previsioni a livello di impatto finanziario, non proprio rosee. Le menti giovani e fluide che mancheranno non potranno contribuire alle innovazioni scientifiche e culturali di cui abbiamo bisogno per poter sopravvivere in un mondo sempre più complesso. Alcuni paesi, come Singapore, provvedono con lauti incentivi economici a foraggiare le nascite, ma nonostante ciò la denatalità persiste. Di nuovo, le cause sono complesse.

Finirà, come ipotizza lo storico Yuval Noah Harari, che non potremmo più fare a meno dell’intelligenza artificiale come fonte di innovazione? Il che significherebbe affidare gli scenari del futuro a una intelligenza aliena: anche se creata dagli umani, non è umana. Chissà poi se, un giorno, queste IA che sembrano già ora destinate a farci da oracolo (Eih Siri, che ne pensi di…?) potrebbero anche elaborare, tra gli intricati e oscuri chip delle loro scatole nere, un piano congruo con il fatto che l’umanità non è destinata a permanere ancora per molto (in pratica, accelerare la nostra scomparsa).

La sopravvivenza dell’umanità nella storia è stata più volte messa in discussione, si pensi all’epidemie che nel passato hanno decimato gli umani, ma mai si era presentata una situazione in cui nascano sempre meno bambini e allo stesso tempo gli anziani siano così longevi. Il baricentro della vita si sta spostando tutto verso la vecchiaia, qualcosa che la natura non avrebbe mai permesso, se non fosse per il nostro massivo intervento a modificarne le sorti. Adesso dobbiamo fronteggiare le conseguenze, ma le implicazioni etiche di questo cambiamento sono enormi, non riusciamo nemmeno a immaginarne la portata.

È necessario che i governi si prendano cura delle loro popolazioni, aprendosi a dinamiche più attente ai comportamenti globali e a un dialogo internazionale attento ai flussi su larga scala, piuttosto che focalizzarsi solo su riduttive e fuorvianti, spesso litigiose, piccole questioni. Ma questa lungimiranza non appartiene a nessuna parte politica.

 

Pamela Boldrin

NOTE
1. Lo si può trovare al link: https://www.youtube.com/watch?v=P7lr5kEpdrk .
2. Dell’argomento tratta dettagliatamente il The Economist nell’articolo del 30 maggio 2023 dal titolo “It’s not just a fiscal fiasco: greying economies also innovate less. That compounds the problems of shrinking workforces and rising bills for health care and pensions”.

 

[Photo credit Caleb Woods]

 

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Il paradosso delle donne. La longevità femminile significa più malattie

Oramai dovrebbe essere questione piuttosto condivisa che la medicina debba avere una declinazione attenta al sesso e al genere che sta prendendo in cura. Ma, guardando cosa dicono i dati, forse non è cosa ancora sufficientemente nota. L’ISTAT, nell’annuario statistico italiano Sanità e salute 2019 ci informa che, in Italia, la donna ha un’aspettativa di vita di 5 anni superiore all’uomo (vita media degli uomini: 79,9 anni – delle donne: 84,4 anni) ma questi 5 anni di surplus sono prevalentemente di malattia e disabilità. Ci sono diversi motivi per cui questa situazione, al contempo sanitaria ed etica, si avvera. Il principale è che si continua troppo spesso ad utilizzare il paradigma dell’entità “uomo”, che riguarda il 50% dell’umanità, come modello per il 100% dell’umanità. Un po’ come ci si ostina a fare ancora con il linguaggio, quando si dice o si scrive “uomo” ma si intendono anche le donne, perché usare altri termini è faticoso e rompe con una tradizione linguistica sedimentata nell’abitudine e ignara di quanto questa visione abbia nuociuto e continui tuttora a farlo. Infatti, dire uomo e sottintendere anche donna è quello che è accaduto per millenni di ricerca scientifica e pratica medica.

Il presupposto di partenza è questo: le stesse malattie si comportano diversamente a seconda che siano maschili o femminili, eppure sono sempre state studiate per come si presentano sugli uomini. Un caso eclatante? La diagnosi di infarto del miocardio arriva più tardiva quando colpisce le donne, perché i loro sintomi sono diversi da quelli classici degli uomini e vengono spesso mal interpretati (spesso finiscono nell’orbita dei disturbi gastrici o psichici). Il risultato? Nonostante l’infarto del miocardio sia meno frequente nelle donne, esse muoiono più facilmente degli uomini, a causa del ritardo nelle cure. Un altro punto cruciale, tra i tanti, è la farmacoterapia, in quanto gli studi farmacologici sono stati a lungo effettuati solo su maschi (animali prima e uomini poi) con il risultato che effetti e dosaggi non danno gli stessi risultati nelle donne, che sono colpite più frequentemente da maggiori effetti collaterali e minore efficacia.
Non bastasse, ci sono studi che ci informano che le donne sono più stressate degli uomini, soprattutto perché ovunque nel mondo si fanno più carico dei ruoli di care-giver (American Psychological Association, Stress in America: The State of Our Nation, 2017). Questo incrementa la loro vulnerabilità alle malattie ma influisce anche sull’effetto dei farmaci e delle varie cure.
Eppure va detto che le carenze della medicina, sebbene procurino numerosi svantaggi alla salute delle donne lungo tutta la loro vita, finiscono anche per penalizzare alcuni uomini, soprattutto in alcune malattie. È il caso, non unico, dell’osteoporosi, che è stata a lungo considerata una malattia che colpisce principalmente le donne caucasiche in post-menopausa. Questo presupposto ha modellato il suo screening, la sua diagnosi e il suo trattamento sul modello femminile, cosicché se l’osteoporosi ce l’ha un uomo, finisce che le complicanze sono maggiori a causa, perlopiù, della latenza di diagnosi.

La storia della medicina è molto coinvolta nelle ragioni delle grandi difficoltà a declinare la pratica medica a seconda di sesso e genere. Colpevole è certamente una cultura del sapere che fin dalle sue origini ha escluso le donne dalla formazione e le ha oggettificate senza tenere conto del loro contributo nemmeno come pazienti. Persino la storia dell’anatomia, che si è realizzata sulle autopsie dei cadaveri, ha dovuto accontentarsi di rari cadaveri femminili (precludendo l’approfondimento delle diversità anatomiche femminili). L’ostinazione a relegare il sapere nelle menti di una selettiva e parziale fetta di umanità ha procurato molta sofferenza e continua a produrre ancora molte ingiustizie per quanto riguarda diagnosi, prevenzione, prognosi e terapie.

Oggi, almeno per quanto riguarda i paesi occidentali, abbiamo molte donne, addirittura la maggioranza, oramai su quasi tutti i settori delle professioni sanitarie e in buona parte anche sul fronte della ricerca. Questo fatto depone favorevolmente al cambiamento che attendiamo.
È vero che le donne sono da tempo immemore il sesso debole, ma non perché nascono così, anzi, la natura della longevità è piuttosto una evidente dimostrazione della loro forza; ma l’essere state in balia di cure declinate esclusivamente al maschile e allo stesso tempo escluse dal sapere attorno quelle cure le ha rese tremendamente vulnerabili. Ora la conoscenza degli errori e la presenza delle donne all’ecclesia del sapere potrà essere finalmente una possibilità per smantellare le enormi ingiustizie che ancora affliggono molte persone nel momento più vulnerabile della loro esistenza, cioè quando soffrono e hanno bisogno di essere curate.

Pamela Boldrin

[Photo credit Towfiqu Barbhuiya via Unsplash]

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Territorio e paesaggio. Uno sguardo filosofico per una geografia profonda

Che differenza c’è tra territorio e paesaggio? Chiederci come scegliamo di usare un termine piuttosto che l’altro può spingerci a fare interessanti considerazioni sul nostro rapporto con l’ambiente e sulle sottese visioni filosofiche. 

Il significato di territorio ha a che fare con spazi racchiusi in confini, delimitazioni, suddivisione in porzioni; inoltre, il concetto include sempre anche varie operazioni di calcolo: grandezza, produttività, proprietà, redditività. In genere il territorio appartiene a uno o più proprietari e si presta a un certo tipo di sfruttamento.
Il termine paesaggio, invece, richiama in noi un’idea un po’ diversa, innanzitutto connotata esteticamente: è di solito qualcosa di bello da ammirare e questa bellezza si fa garante della sua richiesta di salvaguardia. Un paesaggio è un insieme di elementi naturali e, volendo, anche antropici, che hanno trovato una loro coesistenza armonica e la cui visione si traduce in una fruizione preziosa per gli sguardi umani che lo possono contemplare. Questa armonia si ammira, se ne fruisce attenti a non esaurirla, a non fare dell’utilizzo un consumo, perché il consumo, appunto, consuma, e non rimane granché per chi arriva dopo. La fruizione, diversamente, è un concetto che sottende un approccio meno consumistico e più slegato dalla materia. 

Nei discorsi di politica ed economia la parola territorio risuona insistentemente, molto più di rado si sente parlare di paesaggio. È difficile giustificare lo sfruttamento del paesaggio, sappiamo che la nostra bramosia manipolativa è pericolosa e difficilmente lascia intatto quello su cui mette le grinfie; esso ha bisogno di noi solo come garanti della sua incolumità. Laddove l’urbanizzazione è intensa, però, è difficile trovare paesaggi a cui affezionarsi e per i quali fremere in mozioni di difesa. Il territorio, caratterizzato dalle sue manifestazioni di intensa antropizzazione, si configura come un manto coprente dell’originale geografia dei nostri luoghi di vita. Chi ricorda come erano gli scorci di bellezza nei luoghi del proprio passato, se ha fatto in tempo a conoscerli, quando in quel preciso luogo fisico, conservato oramai solo nella propria memoria, l’intervento urbanizzante non oscurava ancora definitivamente il paesaggio?

Siamo sempre meno propensi a focalizzarci sui significati dei cambiamenti dei nostri luoghi. Il paesaggio ha bisogno di essere guardato e vissuto con sguardo profondo, per sedimentarsi della nostra memoria, affinché noi capiamo la nostra terra in un senso non superficiale, non cancellabile da un momento all’altro. Ma la conoscenza profonda del proprio ambiente richiede tempo e saggezza, mentre l’antropizzazione è veloce, ci promette benessere, ci garantisce di tutto e di più prendendolo da ogni angolo del pianeta. Ad esempio, non ho più bisogno di conoscere la mia terra per sapere come trarre da lei i frutti per il mio sostentamento, capire come adattare i miei bisogni ai cambiamenti stagionali, cogliere lo stato di salute dei suoli, quello delle creature che la abitano, se tanto posso interamente demandare ai processi industriali l’approvvigionamento di cibo. Posso scegliere di non capire niente di tutto ciò e continuare comunque a nutrirmi. Infatti, nella totale distrazione della routine urbana, trascuriamo i mutamenti della geografia dei nostri luoghi e poi accade che, come scrive Barry Lopez: «Se una società si dimentica o non si preoccupa più di dove vive, chiunque abbia il potere politico e la voglia di farlo potrà manipolare il paesaggio per conformarlo a determinati ideali sociali o visioni nostalgiche»; e ancora: «Più una società ha una conoscenza superficiale delle reali dimensioni della terra che occupa, più quella terra sarà vulnerabile allo sfruttamento e alla manipolazione per il guadagno a breve termine» (B. Lopez, Una geografia profonda, 2018). Il problema è che la conoscenza profonda, fatta in prima persona, quella in cui si incorpora il paesaggio in una geografia personale consolidata, richiede tanto tempo e attenzione, risorse di cui siamo sempre più carenti.

Si tratta di un processo di costruzione dei propri luoghi che incalzava anche il filosofo norvegese Arne Næss, con la sua ecosofia, consapevole che l’urbanizzazione, la dipendenza da beni e tecnologie che arrivano da luoghi che non ci appartengono, nonché l’aumento della complicazione strutturale della vita, sono tutti fattori che indeboliscono l’appartenenza a un luogo. 

L’invito, allora, è quello di trovare i nostri paesaggi, esercitarci a creare con essi connessioni intime, costruire una geografia, che è la scienza dei luoghi della terra e delle loro caratteristiche di interrelazione, che sia personale e profonda. Una conoscenza che si connota di una versione fotografica interiore e di tipo estetico del nostro paesaggio, che sia punto di riferimento capace di trasformarsi in campanello d’allarme alla prima minaccia di deturpazione.  Una geografia della fisicità dei nostri ambienti che, una volta consolidata, potrebbe trasformarsi in visione etica e azione politica non appena ve ne fosse urgenza.

 

Pamela Boldrin

 

[Photo credit pine watt via Unsplash]

 

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Humboldt e il rapporto dell’essere umano con la natura

Che cos’è la natura per gli esseri umani? Uno sfondo di appartenenza co-originaria di tutto ciò che appare, noi inclusi, o un’antagonista da domare? Uno scenario di contemplazione a cui ricorrere appena possibile o un enorme contenitore di beni da prelevare bramosamente? Potremmo dire che l’umanità nella storia ha formulato e messo in atto un po’ tutte le risposte, ma le problematiche ecosistemiche che ci troviamo a fronteggiare rendono evidente che il secondo tipo di risposta sia stato il più gettonato.

All’origine del nostro rapporto con la natura, predatorio o ecologico, sta una scelta filosofica. Domandarsi che posto abbiamo nel mondo naturale, quali diritti di usufruirne e, soprattutto, quali limiti, è indubbiamente un ragionamento di tipo esistenziale-filosofico. Dunque, ricercare i fondamenti dei diversi modi di pensare la natura significa visitare la storia della scienza e della filosofia per scoprire i pensatori che hanno fatto della loro visione della natura un riferimento culturale epocale. Prendiamo, ad esempio, Cartesio: scienziato e filosofo, fu un attento osservatore di fenomeni, ma il suo approccio era di tipo meccanicistico e riduzionista. Ciò significa che ogni elemento naturale andava studiato scomponendolo, come si farebbe come una macchina. La sua propensione alla frammentazione fu tale che con lui la materia (res extensa) e l’immateriale (res cogitans) si separarono drasticamente. La visione meccanicistica della natura ebbe molta fortuna tra vari scienziati che succedettero a Cartesio.

Un importante oppositore di questa visione, invece, fu Goethe: la sua propensione al tutto e alla fusione tra arte e scienza fece di lui un importante sostenitore del primato dell’unità sulle parti. L’organismo è più della sua scomposizione in pezzi. Questo pensiero fu determinante nell’influenzare un importantissimo scienziato dell’800, un altro tedesco, sfortunatamente poco conosciuto in Italia: Alexander von Humboldt (una sua preziosa biografia è L’invenzione della natura. Le avventure di Alexander von Humboldt, l’eroe perduto della scienza, di Andrea Wulf, Luiss, 2017). Assiduo frequentatore della natura, viaggiatore temerario e fine scienziato, Humboldt fece delle sue ricerche un capolavoro di visione filosofica della natura come “tutto armonioso” in cui niente è slegato dal resto. Teoria ed osservazione in prima persona erano per lui inscindibili. Riuscì per primo al mondo a scalare la vetta di 6310 metri del Chimborazo, vulcano dell’Ecuador (allora considerato il monte più alto del mondo). Un record sancito senza alcuna attrezzatura tecnica e rischiando la vita. Ma l’esperienza fu totalizzante per Humboldt, che lì ebbe la sua folgorazione: tutto è connesso e la natura è un organismo vivente.
Humboldt era anche un vero maniaco dei dettagli: annotava tutto e i suoi vari libri pubblicati segnarono per sempre la carriera di altri studiosi. Tanto per fare un esempio, Darwin si imbarcò sul Beagle perché conosceva Humboldt a memoria ed era desideroso di solcare le sue orme. Thoreau fu un grande ammiratore delle opere di Humboldt e ancora oggi, fortunatamente, rimane un autore molto letto.

Lo sguardo di Humboldt fu prezioso anche come antesignano dell’ecologia. Già a inizio ‘800 fu in grado di scorgere i segni del degrado ambientale provocato dall’azione umana. La sua attenzione alle dettagliate relazioni tra le parti lo portò a vedere come la deforestazione avesse effetti enormi sull’ambiente. Aveva capito che tutto il delicato equilibrio della vita si erge sulla diversità, i cui più acerrimi nemici siamo noi. Aveva addirittura colto i problemi globali legati alle monoculture, notando come le coltivazioni imposte dai colonialisti europei impoverivano le popolazioni locali del Sud America. La sua visione influenzò personalità come il rivoluzionario Bolivar o il secondo presidente degli USA, Jefferson, che furono suoi personali amici. Conobbe bene anche Napoleone, che invece lo detestava per la sua caratteristica di rifuggire qualunque possibilità di manipolazione. Per Humboldt la scienza era al servizio della natura e non della politica, come era invece per Napoleone. Humboldt arrivò a influenzare anche il filosofo Schelling nella formulazione della sua visione filosofica di unità tra Io e natura. Suggestionò i poeti Romantici e, ad esempio, Coleridge e Wordsworth furono suoi grandi ammiratori. Un intenso filone filosofico e letterario fece propria la lezione di Humboldt, ma non bastò a salvare il mondo.

L’impennata scientifica esordita a fine ‘800 diede un impulso così forte all’industrializzazione che la natura ancora di più diventò giacimento di risorse da spremere senza senno. Popolazione in aumento, relativi bisogni di sostentamento e possibilità tecnologiche sempre crescenti hanno decretato la vittoria dei fautori della dominazione della natura. Adesso siamo convinti che doveva per forza andare così, come se il progresso sia inevitabilmente legato al consumo sfrenato. La cecità con cui proseguiamo in quest’opera dissennata non ci fa nemmeno intravedere quell’altra visione, quella di una scienza rispettosa che si unisce alla poetica contemplazione del Tutto, così come ce l’hanno lasciata in eredità personalità quali Humboldt. Una visione che, se avesse prevalso, forse ci avrebbe portato a un’idea di progresso maggiormente ecocompatibile.

L’umanità ha oramai scisso se stessa dalla natura e, poco filosoficamente, continua a pensare che il suo destino sia slegato dal Tutto.

 

Pamela Boldrin

 

[Photo credit David Marcu via Unsplash]

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L’incompresa importanza del suolo e la sua complessità

Non c’è cosa più calpestata al mondo, in tutti i sensi. Il suolo non soltanto è la superficie sulla quale costruiamo tutta la realtà che ci circonda ma è anche la risorsa naturale più maltrattata e meno conosciuta. Troppo spesso il suolo è visto come una risorsa da cementificare o da sfruttare per massimizzare la produzione di cibo. Viene sottovalutata la sua fragilità e la sua imprescindibile necessità per tutta la vita sulla terra. A lanciare un ennesimo allarme è il professore Paolo Pileri, ingegnere urbanista del Politecnico di Milano; il suo libro L’intelligenza del suolo. Piccolo atlante per salvare dal cemento l’ecosistema più fragile (ed. Altreconomia, 2022) è un richiamo a comprendere la preziosità del suolo per il panorama di complessità in cui si incastonano anche le nostre vite di umani, accanto a tutte le altre. Ancora una volta, l’appello è ad aprire gli occhi a questa complessità e all’urgenza di capire come i nostri interventi incontrino sempre meno la resilienza della natura.

Che il suolo sia prezioso per tutti non è una novità; Platone scrisse:

«Io dunque, nella mia qualità di legislatore, dichiaro che né voi appartenete a voi stessi, né codesti beni appartengono a voi, ma alla vostra famiglia in tutto il suo complesso, a coloro che furono prima di voi, e a coloro che verranno dopo, come a sua volta e tanto più, l’intera vostra famiglia e le sue sostanze appartengono alla polis» (Platone, Leggi, II. 923 A-B).

«Chiunque riceva in sorte un lotto di terra lo deve considerare possesso comune» (Platone, Leggi, V. 740A).

Il suolo è un bene collettivo, però è complesso e delicato in quanto la sua vitalità è legata a tempi lunghissimi di evoluzione: ci vogliono 500 anni perché se ne formino 2,5 cm. Basta un giorno, invece, per asfaltare e sopprimere quella complessità che silenziosamente si è costruita nel tempo. Il suolo, con caratteristiche variabili in base ai nostri interventi (che lo impoveriscono), è un condominio fitto fitto di inquilini che lavorano in simbiosi. Vi siete mai chiesti che parte hanno i lombrichi? Darwin se lo chiese e  scoprì che con il loro lavoro di scavo e trasporto di materiale organico consentono al suolo di arearsi meglio e facilitano i processi di decomposizione, cioè un lavoro quasi invisibile che fa sì che non veniamo sommersi da tutto ciò che non è più utile per noi. Non solo, quello che il suolo riesce a decomporre (soprattutto materia organica, chiaramente fa più fatica con la plastica) diventa fonte di fertilità e dunque futuro cibo per tutti i viventi. Non è abbastanza? No, infatti, il suolo ha anche un altro importantissimo compito, sempre più essenziale per noi: lo stoccaggio di carbonio; se questo viene liberato forma nuova anidride carbonica, risorsa di cui siamo già tristemente ricchi. Perdere suolo e vegetazione in cambio di infrastrutture non è uno scambio equo perché quello che viene meno è difficilmente rimpiazzabile, non nei tempi di una vita umana almeno. Il mondo del suolo è veramente denso di meraviglie, molte altre sono le risorse che ci fornisce e che il libro di Pileri mostra.

Un’altra considerazione è fondamentale: il suolo serve a produrre cibo. Dove coltiviamo le piante necessarie alla nostra alimentazione e a quella degli animali che mangiamo quando da noi il suolo scarseggia? In luoghi lontani, come Russia e Ucraina ad esempio, dove ci sono zone di grandi coltivazioni capaci di supplire in grossa parte al fabbisogno di Europa e Africa. Ma la terra non basta più e noi siamo tanti. Il rapporto FAO (con Unicef, OMS, WFP e IFAD) dice che a fine del 2021 erano circa 800 milioni di persone a patire gravemente la fame nel mondo, in aumento rispetto all’anno precedente e le attese per il 2022 sono addirittura peggiori. A causa dell’invasione Russa con la conseguente guerra e non solo, è divenuta incerta una preziosa fonte di sostentamento per una parte considerevole di mondo. Si pensi che la Somalia, che vive una terribile lunga crisi di siccità, dipende al 100% dalla fornitura del grano russo e ucraino. É già uno dei paesi più poveri al mondo e le cose ora vanno solo peggio.

Siccome il nostro suolo ci attira molto quando è fruttuoso in termini economici, cioè quando è edificabile, da incoscienti quali siamo non ci accorgiamo che rendiamo la questione della fame un problema sempre più grande. Suolo ce n’è sempre meno e se volessimo recuperarne di perso ci occorrerebbero centinaia di anni: insomma, non è difficile immaginare che la fame potrebbe un giorno arrivare sempre più vicino a noi. Se poi aggiungiamo le questioni legate all’inquinamento e ai cambiamenti climatici, dovremmo veramente preoccuparci.

Tutti possiamo fare qualcosa. Pileri spiega bene nel suo libro come le nostre abitudini alimentari determinano il consumo di suolo. Ci vuole molto più suolo nel processo che porta a produrre una bistecca di bovino rispetto a una pasta al sugo. Inoltre, nei paesi occidentali tantissimo cibo viene sprecato e buttato!
Abbiamo tutti delle colpe, ma ciò significa anche che tutti possiamo fare la nostra parte. É importante che le persone capiscano la preziosità delle risorse naturali, come funzionano e come siano imprescindibili. Dovremmo non solo mantenere i piedi per terra, ma chinarci e guardare da vicino, con più curiosità e rispetto, questo incredibile mondo che ci nutre quotidianamente.

Pamela Boldrin

[Photo credit Ochir-Erdene Oyunmedeg via Unsplash]

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I marshmallow, il governo di sé e la filosofia

Chi non conosce le famose caramelle americane, soffici, rosa e bianche, chiamate marshmallow?
Ma forse non tutti sanno che sono associate a un test neuropsicologico, detto appunto “Marshmallow Test”, che fu somministrato a molti bambini fin dagli anni ’60 negli Stati Uniti, ideato dallo psicologo Walter Mischel1. Lo scopo era testare nei bambini la capacità di resistere a una tentazione in funzione di una gratifica maggiore, ma da ricevere in un secondo momento. Un po’ come: meglio un uovo oggi o una gallina domani? La cosa interessante è che questo test si rivelò poi essere predittivo di “successo nella vita” in chi lo superava, anche a distanza di molti anni. In poche parole, un/a bambino/a che riusciva, in un rapporto di fiducia con chi eseguiva l’esperimento, a rinunciare alla gratifica immediata di pochi marshmallow in cambio di una gratifica più cospicua ma da attendere in un secondo tempo, aveva ottime probabilità di realizzarsi con successo in età adulta. Quello che emerse dall’esperimento, replicato poi in molti modi, è che la forza di resistere a una tentazione in vista di qualcosa di più è una capacità che predice il diventare degli adulti capaci dell’autogoverno utile a fare bene molte cose importanti della vita. Che si tratti di relazioni sociali o di perfomance professionali, il superamento del test del marshmallow risulta più importante del livello del quoziente intellettivo, ai fini di capire come qualcuno deciderà la propria vita, piuttosto che subirla. Dal punto di vista delle capacità cognitive, la capacità di controllo che in età infantile si esplica procrastinando la tentazione per dei dolci, in età adolescenziale e adulta si traduce in: migliore gestione delle frustrazioni e dei conflitti, maggiore capacità di concentrazione, buona fiducia in se stessi e minor tendenza a cadere in tentazioni o dipendenze. Addirittura il successo del test correla con un buon livello economico, maggior durata delle relazioni matrimoniali e forma fisica (meno obesità). È una capacità a cui ci si può allenare fin da piccoli, dunque bisogna pensarci nei contesti educativi perché poi sarà preziosa in futuro, ma anche gli adulti, con più sforzo, possono ancora lavorarci su. 

Guarda un po’, tutto questo ha a che fare con la filosofia perché molti filosofi, nel corso dei millenni, hanno riflettuto, con parole diverse, su questa abilità del governo di sé. 

Quando Socrate diceva “conosci te stesso” intendeva  invitare a quella capacità di introspezione e conoscenza di sé che si attua quando si riesce a focalizzarsi su se stessi con sguardo critico. Oppure, quando Seneca, in linea con tutta la filosofia ellenistica, invitava a praticare la moderazione, la ricerca della giusta misura e la fuga dagli eccessi, rifletteva proprio su come queste capacità siano fondamentali a costruirsi un buon stile di vita, filosofico ma etico in primis

Oggi la nostra capacità di governare gli input che riceviamo, considerata la smisurata quantità di stimoli che ci bombardano continuamente, diventa sempre più ardua. La nostra concentrazione è continuamente minata dal richiamo del multitasking, che altro non è che un invito a disperdere l’attenzione in mille cose, per farle tutte male. La concentrazione è un bene prezioso, che va tenuto in costante allenamento. La tecnologia del mondo digitale in cui tutti siamo continuamente immersi, come ci disse Luciano Floridi in un’intervista per la Chiave di Sophia2, «comporta un rischio per l’autonomia umana, per la possibilità di essere padroni del proprio tempo». Ecco, l’essere padroni di sé, esercitare controllo, cioè governo della propria vita, è una capacità imprescindibile per la filosofia, ma per quella filosofia che vuole essere un’ispirazione di vita per tutti, non solo per i filosofi. 

Che cosa possiamo fare, allora, a parte stuzzicare i bambini con caramelle e ricompense alternative a lungo termine? Il lavoro su di sé richiede uno sforzo importante, un interesse multidisciplinare e tempo da investire, ma la filosofia può offrire molti spunti a partire dai filosofi antichi prima citati e non solo. 

In un’ottica di sguardo alla contemporaneità, invece, potremmo iniziare a scrutare quali minacce quotidiane dovremmo prendere in gestione per non disperdere le capacità che abbiamo. Trovare momenti in cui tagliare via stimoli e distrazioni per focalizzarsi su di sé, fare una cosa alla volta, silenziare la tecnologia e connettersi magari di più alla natura, darsi obiettivi di miglioramento dei propri limiti, che siano gli sprechi quotidiani o il superare ostacoli di natura relazionale. In sostanza, sfidare se stessi è sempre un ottimo esercizio per conoscersi meglio ed espandere i propri orizzonti, impratichendosi, così, nel  buon governo di sé.

 

Pamela Boldrin

 

NOTE:
1. Cfr. Il test del marshmallow. Padroneggiare l’autocontrollo, Carbonio ed., 2019.
2. Filosofo intervistato nella rivista cartacea La chiave di Sophia n. 14/2021 – Esplorare la complessità.

 

[Immagine tratta da Pexels.com]

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Tutte le donne dell’antica Grecia. Intervista a Eva Cantarella

Quando si pensa alla parola amore, il primo pensiero forse va all’amore passionale, di coppia in primis. Eva Cantarella, storica, studiosa di diritto greco-romano e prolifica autrice, ha scritto molto sull’amore presso gli antichi Greci e Romani e intervistandola abbiamo pensato di esplorare questo argomento con lei. Approdando al legame di coppia abbiamo scoperchiato un mondo in cui l’amore è tutt’altro che scontato, finendo, così, per esplorare le imponenti differenze di genere presso gli antichi Greci e le ripercussioni che queste hanno avuto sulle dinamiche sociali dell’epoca e nei secoli successivi. Questo viaggio esplorativo ci ha consentito, assieme a Eva Cantarella, di fare anche interessanti riflessioni sul nostro presente.

 

Pamela Boldrin – Cosa ne pensa delle discussioni sempre più accese su un linguaggio inclusivo e politicamente corretto per la sessualità, ma anche sulla censura di eventi storici o personaggi che ad oggi sono considerati incompatibili con le battaglie culturali che stanno avendo luogo?

Eva Cantarella – Nella stessa domanda ci sono due problemi enormi. Il primo riguarda il linguaggio: io sono per un linguaggio inclusivo che consenta la libertà, che in campo sessuale vuol dire riconoscere a tutti la possibilità di esprimere la propria sessualità che non è solo quella biologica ma anche il proprio modo di viverla. Sono dunque per un linguaggio che lasci assoluta libertà e non distingua tra le varie forme di sessualità biologica o percepita: però senza una specificazione lessicale che pretenda di individuare e dettagliare tutte le possibili, infinite percezioni individuali. Una pretesa di questo genere rischia di diventare una trappola. Quello che conta è che tutte le forme e i modi di vivere la sessualità possano essere vissuti liberamente, senza alcuna discriminazione.

Il secondo problema è molto più semplice: distruggere le statue o rimuovere i nomi delle strade è semplicemente ridicolo. Cancellare la storia non è possibile: noi siamo la nostra storia, senza di essa non saremmo quello che siamo. Un’umanità che cercasse di cancellarla sarebbe un’umanità colpita da un Alzheimer collettivo. Quanto all’abbattimento delle statue: ma che senso ha, che senso può avere? Quello che mi sembra avrebbe un senso invece, e che dovrebbe sempre essere fatto, sarebbe dare sinteticamente a chi guarda una statua, un monumento o qualunque immagine le  informazioni necessarie a sapere chi è stata quella persona: invece di cancellare la storia, l’immagine servirebbe così a farla conoscere.

 

Pamela Boldrin – Non solo la medicina è stata influenzata dalla visione maschilista greca, ma anche l’autopercezione delle donne nella società e nei confronti della propria fisicità. Questa visione ha contribuito a creare nelle donne di tutte le epoche successive una interiorizzazione e, addirittura, somatizzazione di tali concezioni?

Eva Cantarella – Lei ha ragione. Questa concezione ha influenzato le donne in un modo incredibile fino ad oggi, facendo sì che esse si identificassero nel duplice ruolo assegnato loro dai nostri più lontani antenati: in primo luogo quello materno, inteso come compito di riprodurre i futuri cittadini, e in secondo luogo quello che oggi viene chiamato la “cura”. E anche se in misura minore di un tempo, questa identificazione continua a sopravvivere non solo nel campo che riguarda la funzione riproduttiva. A me capita spesso di parlare in pubblico della condizione femminile nell’antichità a un pubblico di regola composto prevaletemene da donne, e quando questo accade, accade non di rado che alcune di queste mi parlino della loro disperazione per non essere riuscite ad avere dei figli. Che, come spesso dicono, fa sì che non si sentano più delle donne. È una cosa che ogni volta che accade mi colpisce e mi sconforta:  l’identificazione donna-madre è la maggior causa delle discriminazioni di genere, ed è incredibile che, anche se per fortuna in casi sempre più limitati, continui a esserlo ancora oggi, nel terzo millennio.

 

Pamela Boldrin – Nel suo ultimo libro, “Sparta, Atene” l’analisi mette in luce le diversità tra queste due potenti città dell’antichità, soprattutto in merito alla questione della paideia. Grazie al suo punto di vista possiamo finalmente valorizzare le peculiarità anche alla luce delle differenze di genere, argomento molto trascurato dagli storici e invece da lei valorizzato. Ci vuole raccontare qualcosa delle donne ateniesi e di quelle spartane?

Eva Cantarella – Per le donne ateniesi la risposta è molto facile. Atene è la città alla quale va ricondotta la nascita di tutte le discriminazioni di genere delle quali (in misura e in modi diversi) sono state vittime nei millenni le esponenti del genere femminile. A dare un’idea di quali e quante fossero quelle discriminazioni basterà ricordare che ad Atene – come leggiamo in un’orazione attribuita a Demostene – gli uomini potevano avere tre donne: una moglie, per avere da questa dei figli legittimi; una concubina “per la cura del corpo”, vale a dire per avere rapporti sessuali stabili; e un’etera, vale a dire una delle prostitute di alto livello che li accompagnavano nelle occasioni sociali (alle quali le mogli, in quanto donne oneste, non potevano partecipare) e con le quali i clienti si accompagnavano “per il piacere”. E a questo dobbiamo aggiungere che il marito aveva abitualmente un rapporto pederastico con un giovane uomo. Le mogli invece, se avevano un rapporto extraconiugale, venivano espulse di casa, e dato che nessun padre avrebbe mai riaccolto in casa una simile figlia, se volevano sopravvivere erano di fatto destinate alla prostituzione. E ancora: secondo il diritto ateniese il patrimonio paterno andava diviso in parti uguali tra i figli, sia naturali sia adottivi, ma solo se maschi. Le donne avevano già ricevuto la loro parte come dote al momento del matrimonio, e alla morte del padre, se non avevano fratelli maschi, erano il tramite per cui il patrimonio paterno veniva trasmesso ai loro figli maschi: con la conseguenza che – perché questo non finisse in mani estranee – erano obbligate a sposare il parente più stretto in linea maschile (di regola lo zio paterno). Infine, un’ultima constatazione: una delle conseguenze, forse la più grave tra quelle che discendevano dalle discriminazioni fin qui descritte, era la mancanza di ogni considerazione per il ruolo materno, ridotto in pratica all’accudimento dei figli in età infantile; superata la prima infanzia, l’educazione e la socializzazione dei figli erano affidate in parte ai padri e in parte, come sappiamo, agli amanti adulti.

E a questo punto passiamo alle donne spartane, per rendersi conto della cui condizione bisogna partire dal fatto che, data l’organizzazione comunitaria della vita maschile, dedicata alle armi e alla guerra, e non avendo una vita comunitaria organizzata come quella dei maschi, esse avevano una notevole libertà di movimento e si dedicavano a una serie di attività altrove abitualmente riservate ai maschi, per svolgere le quali uscivano liberamente, abbigliate in modo che per essere comodo era spesso succinto, soprattutto rispetto all’abbigliamento delle ateniesi. In aggiunta a questo, a differenza delle ateniesi, durante il giorno uscivano liberamente di casa, partecipando anche ai pubblici eventi. E se è vero che il loro primo compito era dare figli alla patria, avevano sulle ateniesi il vantaggio di vedere il loro ruolo materno socialmente riconosciuto e onorato. La loro vita era così diversa da quella delle ateniesi, insomma, che inevitabilmente la loro reputazione in quella città non era delle migliori: secondo gli ateniesi erano dissolute, si abbigliavano in modo sconveniente, addirittura si diceva comandassero sugli uomini. In poche parole erano donne disoneste e pericolose. Un modo di rappresentarle (al quale ha contribuito non poco Aristotele) che ha influenzato per molto tempo anche la letteratura moderna in materia, inducendo parte di essa a pensare che la loro libertà si traducesse, nei fatti, in una incontrollata licenziosità, che gli studi più recenti hanno peraltro negato. Indiscutibilmente, per concludere, essere donna a Sparta era più gratificante che esserlo ad Atene

 

Pamela Boldrin – Atene deve il nome alla sua beniamina, la dea Atena, figura ambigua dal punto di vista della rappresentazione del genere, potremmo dire la “meno donna” di tutto l’Olimpo. Qual è il carico simbolico di tale dea?

Eva Cantarella – Certamente Atena è la meno donna dell’Olimpo: “sono tutta d’un padre” disse, e non a caso, essendo nata dalla testa di Zeus. Io credo che per capire l’enorme carico simbolico di Atena si debba tornare al mito della fondazione della città di Atene. Come accade che Atena nascesse dalla testa di Zeus? Per capirlo dobbiamo fare un passo indietro, tornando al momento in cui Zeus  aveva mangiato una donna chiamata Metis. Quando questa gli aveva rivelato di essere incinta, infatti, Zeus si era terrorizzato: gli era stato detto che se avesse avuto un figlio questo l’avrebbe detronizzato. Zeus, per risolvere il problema, inghiottì Metis, tutta intera, feto compreso, e così avvenne che il feto si sviluppasse in lui, che al nono mese (ammesso che si contassero i mesi)  cominciò a sentire un grande mal di testa, tanto forte da chiedere che questa gli fosse spaccata. Fu così che nacque Atena: una vera e propria appropriazione della maternità. Il segno dell’invidia maschile della capacità delle donne di generare, confermata da un altro, simile episodio, analogamente, Zeus riesce a partorire al posto di una sua amante: la povera Semele, anche lei incinta di Zeus, che in questo caso peraltro non la mangia. Quello che accadde quella volta fu che Era, la gelosissima moglie di Zeus, convinse malvagiamente la rivale a chiedere a Zeus di apparirle in tutto il suo splendore divino: e Zeus la accontentò. Ma quando Semele lo vide al centro del suo corteo di tuoni e di fulmini  ne rimase letteralmente folgorata: e Zeus, a quel punto, dopo aver raccolto il feto se lo cucì nella coscia, dalla quale sarebbe nato Dioniso. Per ben due volte, dunque, Zeus si appropria della capacità delle donne della capacità di generare. Invece che di invidia del pene, in questo caso si potrebbe parlare di invidia dell’utero. Il carico simbolico della nascita di Atena dalla testa di Zeus non è certo da sottovalutare).

 

Pamela Boldrin – Grazie davvero a Eva Cantarella per questa chiacchierata e per gli spunti di riflessione da conservare con noi nella vita di oggi.

 

Pamela Boldrin

 

[Immagine di copertina fornita da Eva Cantarella]

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Esperimenti pratici di filosofia in vivo

Può la filosofia tornare a essere uno stile di vita praticato in modo collettivo? Noi come Chiave di Sophia abbiamo voluto provare a rispondere a questa domanda con una chiamata. 

Oikos è il nostro progetto sperimentale di circolo filosofico e i preziosi ingredienti sono innanzitutto le persone che hanno risposto a questo appello: le adesioni hanno superato le aspettative così abbiamo inaugurato il circolo con due gruppi divisi in due sessioni. Questo ci fa pensare che abbiamo realmente preso in carico un bisogno sentito da molti in questo momento storico. Il minimo comun denominatore: il desiderio di trovare nuove persone con cui condividere la voglia di riscoprire la filosofia proprio come momento di ricerca e confronto. Quello che è emerso già dal primo incontro è il bisogno di un tempo dedicato alla riflessione, da contrapporre a uno stile di vita troppo frenetico, che non lascia il tempo di pensare e metabolizzare la vita. 

Il secondo elemento prezioso del circolo è la diversità delle persone che lo compongono. I partecipanti si distinguono per studi scolastici diversi, professionalità variegate ed età differenti, segno che la filosofia può essere veramente trasversale. Tutti elementi che incrementano la ricchezza dello scambio. Scambio che nasce di volta in volta dal pretesto di un libro letto, stabilito in anticipo, come nel caso del De Brevitate Vitae di Seneca. Un libro che ci ha riportato indietro di duemila anni, in un tempo in cui la filosofia non era una pratica accademica e particolarmente teorica, al contrario, uno stile di vita da ricreare in momenti di comunità alternati a momenti di ricerca individuale. Abbiamo scoperto che tra di noi c’è ancora chi sente il bisogno di riflettere sulla brevità della vita proprio perché il tempo è tiranno e ci sottrae possibilità di stare con noi stessi; accadeva al tempo di Seneca e oggi ancora di più. La filosofia come pratica di comunità si rivela un potente innesco per anime che cercano altre anime, indipendentemente dalle conoscenze teoriche in materia, proprio perché la filosofia prima di tutto è un’attitudine, un modo di approcciarsi alla vita.

Il desiderio di conoscenza, l’inclinazione alla ricerca e la voglia di condivisione sono gli ulteriori ingredienti fondamentali per diventare filosofi e filosofe. Il bello è che si tratta di una possibilità che aspetta, da qualche parte, tutti noi, basta fermarsi e ascoltarsi. La filosofia antica era soprattutto una pratica orale e forse la filosofia scolastica odierna, incentrata sulla storia del pensiero filosofico, non riesce a restituire questa dimensione. Quando Seneca, così come tutti gli altri, scriveva, lo faceva per fare un esercizio prima di tutto su sé stesso in attesa di condividerlo con gli altri, spesso mediante lo stratagemma di un destinatario menzionato all’inizio del testo. Così emerge che la filosofia era basata sullo scambio, sulla discussione viva tra frequentanti di un circolo, più che su studio di testi e manuali. L’obiettivo di ogni scuola filosofica antica, pur con i propri dogmi, era sempre la ricerca spirituale, il miglioramento di sé, nella consapevolezza che la peculiarità umana dell’essere animali razionali poteva trovare pace solo nell’esercizio di questa facoltà. Se la ragione umana ci distingue da tutti gli altri viventi, non per questo diventa pretesto di isolamento dalla natura e dal cosmo, che rimangono per gli antichi lo scenario imprescindibile in cui collocarsi e trarre ispirazione. L’idea di essere parte di un Tutto rimane uno dei precetti fondamentali della filosofia antica, forse quello di cui abbiamo più bisogno oggi, viste le gravi conseguenze del nostro sentirci distaccati dalla natura, come se essa fosse perlopiù il nostro supermercato dove rifornirci sconsideratamente.

Altro precetto comune alle varie scuole filosofiche antiche, prezioso ancor oggi, è l’idea della moderazione: vizi, vanità, passioni che sfuggono alla ragione, smanie di ricchezza e potere e attaccamento ai beni materiali sono tutte forme di allontanamento dalla spiritualità, sono pericolosi inganni a cui la mente cede quando non sa cosa è bene per gli umani. Ci sarebbe molto da discutere sull’idea di bene oggi, forse su questo tema la filosofia antica aveva meno dubbi di noi. Il crescente individualismo che permea le nostre società attuali non ci consente di comprendere come lo spirito di collettività tipico di molte società del passato fosse lo sfondo originario a cui la saggezza mirava. L’idea che una parte non può dimenticarsi del suo Tutto è forse per noi la più difficile da recuperare, ma il lavoro filosofico e comunitario del nostro circolo Oikos ci fa sperare che ci siano umani desiderosi di mettersi su questo cammino.

 

Pamela Boldrin

 

[Photo credits La chiave di Sophia]

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Viaggio a Kos, alle origini della medicina ippocratica

Visitare delle rovine antiche richiede un certo slancio di immaginazione quando i millenni passati le hanno messe a dura prova. Molti siti, tuttavia, hanno una caratteristica che difficilmente può subire l’oltraggio del tempo: la vista panoramica. I Greci, in particolare quando edificavano siti pubblici, sceglievano spesso di collocarli in cima a un promontorio e rivolti verso il mare. L’Asklepieion di Kos non fa eccezione, solo che questo non era un luogo di intrattenimento, ma di cura, anzi, potremmo dire il luogo in cui la medicina occidentale è stata inaugurata e consolidata. Kos, infatti, è l’isola dove nacque e visse Ippocrate (circa 460-370 a.C.), considerato il fondatore della medicina. Approcci terapeutici esistevano già numerosi all’epoca, così come medici, ma a Ippocrate si deve certamente il merito di aver reso la professione della cura qualcosa di più scientifico e di più umano insieme. Innanzitutto, grazie all’utilizzo sistematico della scrittura, le conoscenze di Ippocrate e dei suoi allievi sono conservate nel Corpus Hippocraticum, un cospicuo trattato su diversi temi di medicina redatto probabilmente da diversi autori. Possiamo così sapere che fu allora che si iniziò ad annotare tutti i sintomi riportati dai malati, intervistati (ecco l’anamnesi) per poter creare dei database su cui confrontare le conoscenze. La raccolta dati mediante osservazione è alla base del metodo scientifico, messo a punto molti secoli dopo da Galileo. Allo stesso tempo, Ippocrate rivolgeva le sue attenzioni a tutti i bisognosi, indipendentemente dalle loro condizioni economiche o politiche (come non pensare a Gino Strada, recentemente scomparso, e alla sua inestimabile opera di carità medica). Soprattutto, l’approccio ippocratico fu rivoluzionario perché mise in discussione tutte le superstizioni che inquinavano un approccio terapeutico razionale condannando molti malati a purgare le proprie malattie mediante pratiche insensate, spesso nocive e dolorose. Ippocrate predicava di avvalersi della ragione perché le malattie non erano punizioni divine, ma rotture di equilibri nelle dinamiche naturali dei corpi. La ricerca delle cause poteva aiutare a ristabilire certi equilibri, in continua negoziazione con la natura, che molto dà, ma che poi tutto si riprende. 

La sua intuizione più celebre riguarda la natura dell’epilessia, nota allora come morbo sacro, proprio perché era vista, data la sua forma, come una manifestazione di possessione malevola e punitiva. Ippocrate, pur in assenza di prove anatomiche, ha invece intuito il coinvolgimento del cervello nello scatenamento di tali fenomeni. 

Ippocrate ha sì esercitato l’arte medica in modo innovativo, ma pur sempre nei limiti della sua cultura e del suo tempo. Per quanto riguarda la questione della cura al femminile, data la visione maschilista del tempo, Ippocrate ha consegnato alla medicina una pesante eredità anche per i secoli a venire. La visione delle donne come esseri deficitariamente razionali ed esclusivamente votati alla riproduzione ha fatto sì che tutti i loro disturbi fossero catalogati come conseguenza dell’organo che dava loro ragione di esistere: l’utero, in greco hystera, da cui il termine isteria con cui, appunto, si è spesso proceduto a etichettare svariate manifestazioni sintomatiche nelle donne. 

Fino a noi è arrivato anche il giuramento di Ippocrate, con cui i medici hanno giurato sul loro codice deontologico, anche se oggi non è più d’obbligo la recitazione delle parole testuali, che trovano alcune difficoltà con questioni ardue del nostro tempo, in particolare in merito alla possibilità di interrompere la vita, che si tratti di aborti o malati terminali.

Ma torniamo all’Asklepieion di Kos, il luogo dove persone malate si recavano in cerca di cure e conforto. Questo luogo, edificato tra il IV e II secolo a.C., nacque prima come altare, perché rifiutare la superstizione non significava trascurare la preghiera, nel rispetto delle divinità e nella consapevolezza che devozione e raccoglimento potevano solo giovare ai malati. Successivamente fu costruito anche un imponente tempio dedicato ad Asclepio, il semidio per eccellenza della medicina, abile guaritore che scelse di dedicarsi alla cura dei mortali. Il tempio svettava in cima al promontorio, sotto c’era la parte dedicata all’ospedale, dove i malati venivano visitati, con le stanze di degenza e i luoghi in cui gli studenti venivano addestrati all’arte medica. Successivamente, i Romani vi costruirono anche le terme. 

Sostanzialmente, questo luogo contiene la miscela di complessità che la medicina ippocratica era riuscita a immaginare per la cura. Un luogo dove i malati venivano ascoltati, visitati, curati, cullati da un magnifico panorama verso il mare azzurro e la vicina costa (oggi Turchia), confortati da un magnificente luogo di devozione, rassicurati da una moltitudine di medici che erigevano assieme le basi di un sapere sempre più forte. 

 

Pamela Boldrin

 

[immagine dell’autrice]

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Squid Game, la spietatezza e la morale

Chi non ne ha ancora sentito parlare? Squid Game, serie sud coreana vietata ai minori di 14 anni in onda su Netflix, sta portando un po’ di scompiglio ovunque. Infatti, le notizie di bambini che replicano durante i loro giochi scene provenienti dalla serie in questione, si stanno facendo sentire in vari luoghi del mondo. Dalla California al Belgio, da Londra a Parigi. Ne parlano svariate fonti di notizie, dal Guardian al Le Point. Insomma, ci sono tutti gli elementi per fantasticare su una nuova serie distopica: bambini di tutto il mondo abbandonati davanti agli schermi si allenano a diventare dei potenziali violenti pronti a sconvolgere gli adulti. Adulti troppo indaffarati per controllare cosa guardano i propri figli sui dispositivi tecnologici. Ecco il vero allarme.

La serie ha avuto un successo strepitoso, battendo il record di visualizzazioni di Netflix. Non porta nulla di totalmente originale: scenari distopici, violenza gratuita, apparenza giocosa in contrasto con il contenuto, disagio sociale ed economico, approfondimento dei personaggi e del loro mondo. La combinazione di questi elementi, tuttavia, ha creato un prodotto che è piaciuto immediatamente, il cui successo ha creato quella bolla di notorietà per la quale molte altre persone si sono messe a guardare la serie. Cosa si trova in questa storia? In realtà si possono fare delle considerazioni interessanti. Oltre alla denuncia della situazione sociale della Corea del Sud, dove l’indebitamento ha accentuato il divario sociale tra ricchi e poveri, c’è altro di interessante, se valutato da un pubblico adulto. Il fatto, ad esempio, che quasi tutti i personaggi, una volta capita la pericolosità del gioco, siano disposti a giocare perché la loro vita non ha di meglio da offrire. Non per tutti e non in ogni circostanza la vita è un valore assoluto.

Altro elemento degno di nota in Squid Game è il fatto che, il manager iper-istruito tanto quanto il criminale navigato, di fronte ai giochi diventano uguali. Indossano una tuta con un numero progressivo, che ricorda molto le procedure naziste di registrazione dei prigionieri. Omologazione, ma anche depersonalizzazione: a nessuno interessa più il tuo nome o chi sei veramente. Prigionieri volontari insomma, il che appare un ossimoro, peggio della servitù volontaria di Etienne de La Boetie1.

Ancora, interessante è il fatto che, una volta omologati, i giocatori-prigionieri possono differenziarsi mettendo in luce la loro vera natura morale, quella che la sociologia e la filosofia discutono da secoli. Siamo esseri più votati a costruire legami sociali o a ingaggiarci in relazioni competitive? Soci o rivali? Un quesito che ci eravamo già posti in questo articolo. La storia si dispiega allora mostrandoci le diverse scelte dei protagonisti, la loro libertà di scegliere il comportamento secondo i loro valori e anche le conseguenze. Il punto più toccante raggiunto in Squid Game è quando durante una sfida a due, dove uno vince e l’altro muore, due donne scelgono di dedicare il tempo a disposizione al conoscersi, al raccontarsi le loro drammatiche storie e solo nell’ultimo minuto decidere chi sopravvivrà, regalando alla sfida una tonalità morale inattesa, diversamente da tutti gli altri giocatori. Senza rivelare il finale, anche chi vince porta con sé un messaggio morale di un certo tipo. Il gioco è spietato al punto che giungere alla fine, passando sopra a centinaia di cadaveri, arriva persino a perdere senso, per gli ultimissimi giocatori in gara. E nella sfida finale ancora una volta si scopre che è in gioco l’eterna contrapposizione: alleati o nemici? È evidente che chi vince i soldi perde tutto il resto, perché sopravvivere a questo gioco significa accettare di aver messo il denaro al di sopra delle vite di tutti i giocatori e le giocatrici, compreso chi era stato alleato/a durante le dinamiche di rivalità tali da tentare di farsi fuori alla prima occasione (anche fuori dal gioco). Chi controlla il gioco e perché lo fa viene in parte svelato alla fine, ma rimangono ancora degli interrogativi, che aprono la strada alla seconda serie.

Tutte queste considerazioni mettono in discussione la morale umana anche in una storia dove la violenza e la spietatezza del gioco sono le prime caratteristiche che spiccano, e forse le uniche che possono cogliere gli spettatori più piccoli che, purtroppo, non vengono protetti da questi contenuti. È dimostrato che nelle menti ancora in formazione l’esposizione a contenuti violenti è dannosa, sia perché predispone a replicare la violenza, sia perché crea ansia.

A noi adulti, invece, la spietatezza del gioco di Squid Game (che tra l’altro si svolge su uno scenario colorato e giocoso che crea un contrasto immenso tra forma e contenuto) ricorda che il male può prendere forme impreviste, ingannarci con la sua parvenza, ma celare sotto le sue sembianze la crudeltà e disumanità di altri esseri umani, pronti a giocare e fare spettacolo con le vite di chi è caduto in miseria ed è disponibile a tutto.

 

Pamela Boldrin

 

NOTE:
1. Il discorso sulla servitù volontaria (1576) è l’opera più famosa di La Boetie, filosofo cinquecentesco amico di Montagne. Analizza le condizioni mentali che portano le persone a cedere le loro libertà ai tiranni, che per numero sono sempre molto inferiori alla massa.

[In copertina un fermo immagine dalla serie tv]

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