Inclusività: riconoscerne il privilegio e il merito

Vi siete mai soffermati sulla parola o sul concetto di inclusività?

Per comprenderlo al meglio è necessario fare un passo indietro e considerare il concetto di esclusione.
Generalmente si ritiene che tale fenomeno sia una prerogativa della maggioranza; in realtà si tratta di un processo che viene attuato da qualsiasi gruppo nei confronti di chi appartiene ad un altro. Il motivo risiede nel processo mentale di discriminazione, letteralmente differenziare. Secondo la Treccani: «distinzione, diversificazione o differenziazione operata fra persone» ma anche «diversità di comportamento o di riconoscimento di diritti nei riguardi di determinati gruppi politici, razziali, etnici o religiosi». È un processo in parte inconscio e legato a meccanismi biologici in cui si tende a preferire e proteggere membri dello stesso gruppo, per massimizzare la trasmissione genetica, la quale, tuttavia, necessita di una certa variabilità e di conseguenza concorre anche una componente attrattiva.
Ciò è alla base della sopravvivenza, tuttavia la razionalità del nostro pensiero può portarci oltre.

L’inclusività, invece, sempre secondo la Treccani, viene definita come «capacità di includere più soggetti possibili nel godimento di un diritto, nella partecipazione a un’attività o nel compimento di un’azione; più in generale, propensione, tendenza ad essere accoglienti e a non discriminare, contrastando l’intolleranza prodotta da giudizi, pregiudizi, razzismi o stereotipi». Senza ombra di dubbio l’accezione di questa parola – che negli ultimi anni è costantemente al centro del nostro interesse, per rimediare forse ad un’improvvisa consapevolezza e senso di colpa di ciò che abbiamo perpetrato per anni – risuona in positivo. Ma è davvero un processo paritario? È innegabile come emerga un’asimmetria di potere tra chi agisce, chi si reputa “normale”, e chi subisce l’azione, chi è additato come “diverso”.

Dunque certi diritti alle “minoranze” non spettano fin dalla nascita, ma vengono concessi loro dalla “maggioranza”, la quale ha il potere di scegliere quale gruppo meriti dei diritti e che tipo di diritti. Ne segue una coesistenza di “minoranze” ritenute più meritevoli di considerazione e inclusione di altre. Un esempio si trova nella distinzione tra “poveri meritevoli e non”, i primi – famiglie, anziani e lavoratori – ricevono maggior supporto dallo Stato e dal resto della società, mentre i secondi – giovani e migranti – subiscono solamente disprezzo e sono ritenuti responsabili della propria condizione. Altro esempio sta in chi merita il diritto alla genitorialità: inteso sia come diritto ad avere un genitore, e il suo riconoscimento come tale da parte delle istituzioni, sia come diritto ad essere genitore. Il ricorso alle adozioni e alle procedure di PMA non sono appannaggio di tutti. Ma gli esempi di gruppi minoritari esclusi da diritti o dalla struttura sociale, sono da sempre molteplici.

Alla luce di ciò è necessario mettere in discussione l’idea di inclusività portata avanti fino ad ora e il pensiero che questo sia il punto di arrivo per l’uguaglianza. Si potrebbe infatti ritenere che sia più un punto di transizione, una tappa di un percorso molto più lungo, dove è necessario soffermarsi per prendere consapevolezza degli squilibri di potere. Inoltre, scendendo dal gradino del privilegio, si comprende il vero valore della diversità: intesa come sinonimo di varietà, è la variabilità dell’esperienza umana a costituire la natura, non quella “normalità” di recente costruzione dell’uomo, che a questo punto non si rivela altro che una sottocategoria della diversità stessa.

La tappa successiva di questo cammino potrebbe coincidere con la proposta di Fabrizio Acanfora, che nel libro In altre parole. Dizionario minimo di diversità, parla di convivenza delle diversità. Questa azione, effettivamente, si spoglia dell’asimmetria di potere su cui ci siamo concentrati e al contempo si riempie di reciprocità. Tuttavia, per quanto io ritenga meravigliosa questa espressione, sono consapevole della resistenza che si incontra nel mettere in discussione il linguaggio. Perciò sarebbe sufficiente, al momento, rivalutare la comprensione delle parole già in uso nel nostro vocabolario, come diversità e inclusività.

Una strategia, per comprendere meglio la diversità-variabilità e per attribuirgli un nuovo significato, potrebbe essere la teoria dell’intersezionalità, la quale descrive la sovrapposizione di diverse identità sociali e le relative possibili discriminazioni o oppressioni. Gli assi identitari di ognuno di noi sono molteplici e l’incrocio tra questi genera l’autenticità che contraddistingue ogni persona: ciò sottolinea come l’idea di una maggioranza dominante, caratterizzata da un criterio di normalità, non sia che un costrutto sociale e che la società è un puzzle formato da un’infinità di tasselli differenti incastrati tra di loro. Inoltre, in questo modo sarebbe più facile anche guardare con occhi diversi alla parola inclusività e abbracciare l’idea di Vera Gheno, secondo la quale «Diversità è andare alla festa, inclusione è essere membro del comitato che la organizza» (V. Gheno, Chiamami così, 2022).

 

Gaia Giulia Genova
Nata a Monza nel 1997, studia Servizio sociale all’università di Genova. Appassionata di gender studies e amante delle piante e dell’arte. Avida lettrice, per lei, come dice bell hooks, la teoria rappresenta un luogo di cura e guarigione.

 

[Photo credit Helena Lopes via Unsplash]

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Il mondo dei bambini: è ora di cambiarlo!

La notizia del ritrovamento, dopo ben quaranta giorni nella foresta amazzonica colombiana, dei quattro fratelli di anni 13, 9, 4 e 11 mesi appartenenti alla comunità degli indigeni Uitoto, unici sopravvissuti a un disastro aereo, ha illuminato il mondo e acceso l’attenzione di chi dedica la propria ricerca alla questione dello sviluppo autonomo dei bambini. L’emergere dei dettagli su come siano riusciti a resistere senza la loro madre alle difficili condizioni della natura di quei luoghi, spinge a paragonare i bambini indigeni e quelli del mondo “occidentalizzato” e a chiedersi cosa abbia permesso ai primi di farcela in totale autonomia.
Una possibile risposta a questa domanda è da individuarsi nella competenza ambientale in possesso di questi bambini, competenza fondamentale per chi vive in stretto legame con la natura e la sua caratteristica selettiva. Ma non solo: altro aspetto determinante è l’approccio genitoriale, che sta alla base della relazione familiare, e la sua impronta educativa in favore dell’autonomia. Stabilire con i bambini il momento di svezzamento cognitivo-emotivo è una strategia vincente sul piano comportamentale. Trasmettere le istruzioni utili per riuscire ad associare a una situazione problematica le giuste soluzioni facilita la costruzione dell’autostima e migliora il rapporto di fiducia bambino-genitore. 

Ma i bambini che vivono in un ambiente fortemente antropizzato, che conoscenze hanno del mondo che li circonda? Sono sufficientemente autonomi per riuscire a cavarsela da soli?
Nella nostra parte di mondo diventa sempre più raro vedere i bambini e le bambine protagonisti della loro autonomia, così come dei loro diritti alla partecipazione attiva – sanciti peraltro dalla Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e adolescenza del 1989 – e questo non per una loro scelta ma per la prospettiva adultocentrica sul mondo infantile e per l’eccessiva protezione genitoriale che costantemente monitora il comportamento dei propri figli. 

In Italia, come sottolinea il pedagogista Francesco Tonucci, diventa sempre più raro vedere i bambini muoversi o giocare in autonomia nelle città. La trasformazione degli spazi urbani, sempre in favore delle esigenze degli adulti, è causa ed effetto dei cambiamenti sociali che a loro volta hanno trasformato i bisogni dei bambini e la percezione del ruolo genitorialeI genitori, infatti, tendono a sottostimare le capacità dei propri figli e a limitare al minino le loro occasioni di autonomia, risolvendo puntualmente ogni loro esigenza. Questo perché, da un lato, non li ritengono all’altezza e, dall’altro, perché soffrono il giudizio altrui sulle loro scelte parentali, specialmente temendo di essere considerati cattivi genitori se “aiutano i figli a fare da soli”. Ma è proprio il non mettere il bambino alla prova ad alimentare questa logica di dipendenza, nonostante da numerosi studi emerga quanto sia benefico promuovere l’autonomia – e specialmente quella di spostamento – per sviluppare una migliore conoscenza ambientale (mappe mentali), una maggiore capacità di problem solving e l’autorganizzazione. Impedire ai bambini di riappropriarsi del rapporto con l’ambiente impatta sulla sana crescita delle life skills e sulla loro identità individuale e comunitaria. 

Il bambino, privato dell’esperienza sociale della sua infanzia, è un bambino privato dell’esperienza conoscitiva del mondo e della messa alla prova della sua intelligenza in relazione ai problemi che si presentano. Un altro errore di questa parte di mondo è ritenere il bambino quasi esclusivamente un soggetto da proteggere, dimenticando che in realtà è un soggetto competente e attivo fin dalla nascita, come sottolineato anche nel testo di J. Juul Il bambino è competente (1995). Vygostki riconosce l’importanza della trasmissione degli strumenti culturali per favorire la crescita mentale del bambino, e la storia di questi bambini indigeni evidenzia l’efficacia di questa riflessione. Come afferma Maria Montessori, «per aiutare un bambino, dobbiamo fornirgli un ambiente che gli consenta di svilupparsi liberamente» (M. Montessori, La scoperta del bambino, 2022) e la realizzazione di questa condizione si concretizza se il genitore (o l’adulto in generale) abbandona una cultura della paura e della sorveglianza per sostituirla con un lavoro sull’equilibrio dei valori di fiducia e competenza. Quanto accaduto ai bambini indigeni non va letto come se fosse una favola, anche se ne ha il sapore, perché farlo limiterebbe la profondità dell’analisi a cui questa storia realmente accaduta può portarci. Cosa ci insegna questa storia? Se al bambino non viene data la possibilità di esprimere la sua autonomia, allora scomparirà ai nostri occhi la sua visione di mondo, di quel mondo che contribuiamo a costruire per lui e non con lui. Questi quattro bambini sono la testimonianza che dobbiamo avere il coraggio di metterci alla prova e iniziare a cambiare rotta limitando il nostro compito nell’orientarli. Ai bambini lasciamo la bussola in mano.

 

Marica Notte
Laureata in Filosofia all’Università La Sapienza di Roma, da quattro anni collabora nel gruppo di ricerca internazionale del progetto “La città dei bambini e delle bambine” dell’ISTC-CNR di Roma.

 

[Photo credit Artem Kniaz via Unsplash]

 

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Tecnologia: dipende da come si usa?

Si dice che il Novecento sia stato il secolo più cruento di sempre. Perché? Cos’ha contraddistinto il Novecento rispetto a tutti i secoli precedenti? La risposta appare ovvia ma imprescindibile: un dispiegamento della tecnologia e dei mezzi tecnologici inaudito, il quale ha inaugurato potenzialità distruttive fino ad allora impensabili. Senza tener conto di ciò non è possibile comprendere le catastrofi del secolo scorso. A questo punto non è difficile l’affacciarsi di una delle più tipiche espressioni d’ingenuità: “Dipende da come la si usa, la tecnologia”. Ora, come modo di dire, come luogo comune, questa frase può essere accettata. Ma è ingenuo pensare con questa semplice proposizione di aver risolto definitivamente il problema, di aver trovato una verità ultima. Occupandosi di filosofia non ci si può accontentare di luoghi comuni o di verità definitive, accettate in modo a-critico.

Perlopiù andiamo avanti ciecamente, senza renderci conto che la tecnologia e il suo sviluppo procede senza curarsi di qualsivoglia argomento. Spesso ci aggrappiamo a quell’unica frase “Dipende da come si usa”. Forse un’efficace smentita di questa visione tanto diffusa sta nel fatto che una delle molle più potenti dell’agire umano sia di «fare qualcosa solo perché si può farla, giusto per dimostrare che la possibilità è realmente possibile» (M. D’Eramo, Il selfie del mondo, 2017). Stando a tale prospettiva, l’uomo (perlomeno l’uomo occidentale post-greco che ha tolto la categoria del “limite”) non sarebbe in grado di dominarsi davanti a un nuovo strumento che gli permetta di accrescere la propria potenza, la propria capacità di incidere sul mondo, che gli permetta di vivere più a lungo, di sentirsi più sicuro etc. Qualunque sia l’arnese, l’apparecchio, il congegno in questione, egli presenterebbe in sé la tendenza intrinseca a estrapolare il massimo possibile dalle potenzialità dello strumento a sua disposizione. Pertanto, una riflessione sull’uso “corretto”, qualora avvenisse, sarebbe solo posteriore, secondaria, fondamentalmente accessoria.

Sembra che man mano si stia rinunciando una volta per tutte a pretendere una legittimazione del potere di quegli apparecchi con i quali sempre più siamo costretti – seppur velatamente – ad avere a che fare. Ma da chi mai si può pretendere la legittimazione del potere di un apparecchio? Se in linea di principio nessun essere umano in carne ed ossa ci costringe a regolare gran parte della nostra esistenza sulla base di algoritmi, di codici e di chissà che altro, allora insorgere contro un uomo o un gruppo di uomini in carne e ossa non rappresenta certo la soluzione. D’altra parte, una mobilitazione luddista nel 2023 apparirebbe anche al più ingenuo degli uomini come assurda, infantile. E allora?

Tutto lascia supporre che, al cospetto di uno sviluppo inesorabile della tecnologia, le armi della critica siano inefficaci. Certo, se ne può discutere all’infinito con argomentazioni magari ben strutturate, ma intanto l’apparato tecnico va potenziandosi sempre di più, come fosse una immane creatura in grado di accrescersi autonomamente e inarrestabilmente. I dati fluttuano qua e là come fossero entità a sé stanti, e si fatica a pensare che tutto sommato ad alimentare tutto ciò siano pur sempre degli uomini. Ci si sofferma mai a pensare che con l’eventuale scomparsa dell’uomo dalla Terra non resterebbero altro che conglobati di plastica, metallo, cemento etc., oggetti incomprensibili a qualsiasi altra creatura? Inoltre è superfluo aggiungere che è proprio per lo sviluppo immane di quest’apparato che via via abbiamo preso una certa dimestichezza con l’idea di una nostra possibile estinzione. Magari è ormai inscritto nel nostro DNA che «il concetto stesso di progresso è divenuto inseparabile da quello di epilogo» (E. Cioran, Squartamento, 1981).

Avanziamo nella nebbia, come sempre accade agli uomini immersi nel loro presente. E continuare a sostenere riguardo allo sviluppo della tecnologia che “dipende da dove lo si indirizza, da come lo si usa” forse non fa che intensificare questa nebbia. O forse l’uomo, che già decenni fa Gunther Anders definiva come “antiquato”, è davvero diventato un pezzo d’antiquariato e, in quanto tale, non più infastidito da quella nebbia che sempre lo ha spinto a porsi le domande ultime, quelle più importanti e vertiginose, quelle filosofiche?

 

Vincenzo Di Puma
Nato in Sicilia nel 1990, vive a Bologna dove ha conseguito la laurea triennale in Filosofia con una tesi su Gerard Genette e quella magistrale in Scienze Filosofiche discutendo una tesi su Jurgen Habermas.

 

[Photo credit Ales Nesetril via Unsplash]

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Rughe e odierni tabù: l’attesa, le soglie e la finitudine

Al giorno d’oggi conosciamo sempre meno soglie.
Non concepire soglie significa, innanzitutto, non dover aspettare – per nulla al mondo. Temporeggiare  è, a quanto pare, del tutto inutile. E tale constatazione non può che essere un dato di fatto nell’era di  Amazon che, a ben guardare, è probabilmente il più grande “demolitore di soglie” mai esistito: qualche  tasto, un click ed è fatta, avremo ciò desiderato senza alzarci dal nostro letto: grassi sovrani costantemente già seduti al liscio “tavolo delle merci”, del quale basta tirare un po’ la tovaglia per poter avere  tutto.
Da impazienti cronici quali siamo, l’unico momento in cui accettiamo di dover aspettare è, forse, davanti alla porta di casa di un nostro caro amico, ma con i mezzi odierni di calcolo e comunicazione,  probabilmente non aspetteremo neanche davanti a tale porta, che quasi sempre troveremo già aperta – oramai i navigatori calcolano perfettamente le tempistiche dei nostri spostamenti, e i messaggi via  rete non tardano ad arrivare: perché attendere?
E non è che ce ne siamo dimenticati: la società attuale sembra che proprio non voglia più conoscere soglia o impedimento che non le siano opportuni e necessari, o in qualche modo utili. Si fa di tutto  per eliminarle. L’unico motivo per cui, anche davanti alla casa del nostro amico, potremmo accettare  di dover aspettare è il raro caso di una nostra visita a sorpresa. 

Come per le rughe, non vogliamo soglie.
Vogliamo un mondo liscio come la nostra pelle: «La levigatezza è il segno distintivo del nostro tempo. È  ciò che accomuna le sculture di Jeff Koons, l’iPhone e la depilazione brasiliana» (B.C. Han, La salvezza del bello, 2019). Come un vastissimo  piano, sempre più levigato ed ininterrotto, appare la nostra esistenza. Su una superficie così levigata,  senza attriti, tutto è ed appare a nostra disposizione. La continuità piallata del piano ci permette di non  attendere mai più dell’istante, un po’ per tutto: dagli acquisti agli spostamenti, passando per le cose da  dirsi nel privato come in pubblica piazza, per arrivare fino ai sentimenti, dai più frivoli ai più profondi.
Levighiamo, e non vogliamo rughe – superuomini imbellettati.
Troppo spesso però, ci scordiamo che questo piano sul quale viviamo la nostra vita è sempre e comunque il corpo di un grandissimo scivolo, che è divertente proprio in quanto ha un termine, ha una fine. Qualsiasi caratteristica e lunghezza abbia la parte in discesa, solo sapendo della sua terminazione – cioè della soglia finale, che non è “nient’altro” che la nostra, umana morte – possiamo rendercene veramente conto e “viverla”.
«Le soglie, come passaggi, ritmano, articolano e raccontano […]. Sono, le soglie, passaggi temporalmente intensi, che oggi vengono abbattuti a favore di una comunicazione e di una produzione accelerate, prive di fratture» (B.C. Han, La scomparsa dei riti, 2021): disabituati a queste, perdiamo la coscienza dei momenti di cesura rispetto al piallato ordinario, che in primo luogo sono quelli del dolore

Proseguendo su questa scìa, anche nella lettura di Marc Augé il discorso intorno alla morte fa propri i termini “spaziali” della soglia o, più precisamente, della frontiera: «Il rispetto delle frontiere è dunque un  pegno di pace. Non è un caso che gli incroci e i limiti […] siano stati oggetto di un’intensa attività rituale.  Non è un caso che gli esseri umani abbiano dispiegato ovunque un’intensa attività simbolica per pensare il passaggio dalla vita alla morte come una frontiera» (M. Augé, Nonluoghi, 2020).
E il fulcro del discorso sta nell’inizio di ciò appena ripreso: così come, per Augé, geopoliticamente  l’accettazione delle frontiere è un “pegno di pace”, ciò vale anche nella trasposizione macabra del discorso. L’accettazione della finitudine della vita è il pegno per la nostra, interiore, pace. Il discorso intorno alla morte è così, anche, un discorso di soglie.
A ben vedere, aveva ragione l’americano Geoffrey Gorer quando, esattamente sessant’anni fa, nel 1963, profetizzò proprio la morte come odierno – già per l’epoca – e futuro grande tabù nella nostra  società: la morte, diceva, sta prendendo il posto del sesso1.

Il momento del dolore – e, come evento estremo, la morte dell’Altro-conosciuto, se non addirittura  amato, o la morte di Sé – è un momento temporalmente intenso. È una ruga – e la vorremmo piallare, ma non si può: disperati, non sappiamo che fare. Vorremmo che tutto si risolvesse in un click, invano.
Di fronte alla morte, al dolore e al lutto, non c’è peggior difetto d’essere impazienti. Ed eccoci qui.

 

Tommaso Antiga
Nato a Conegliano nel 1998, è Architetto e Dottorando di Ricerca presso l’Università degli Studi di Trieste, precedentemente laureatosi al corso di Laurea Magistrale in Architettura presso l’Università degli Studi di Udine con una tesi in forma di discorso sul tema della morte e dei suoi luoghi, portato avanti con il Prof. Giovanni La Varra. Da sempre appassionato anche di arte e filosofia e, nel tempo libero, aspirante scrittore.

 

NOTE
1. Cfr. G. Gorer, The Pornography of Death, in Appendice a Id., Death, Grief and Mourning, 1963.

 

[Photo credit  via Unsplash]

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Scoprire qualcosa mentre si stava cercando altro: il metodo serendipità

Una sintesi perfetta.
Una sintesi perfetta tra le espressioni latine homo faber fortunae suae e carpe diem.
Il concetto di serendipità, introdotto per la prima volta da Horace Walpole in una lettera del 1754, ha i crismi del valido metodo scientifico e dell’efficace strategia di coping. Ma non solo: cogliere l’attimo in una determinata situazione ci rende non solo artefici del nostro destino, ma ci fornisce anche una prova empirica di aver saputo trovare il bandolo della matassa.
Farlo in maniera consapevole restituisce, infatti, la dimensione dello stupore provato dal grande autore gotico nello scoprire inaspettatamente un dettaglio in un quadro antico. Una piccolezza, a suo dire, entusiasmante.

Tre prìncipi di Serendippo, l’antica fiaba persiana a cui fa riferimento Walpole, racconta di come i protagonisti, partiti alla scoperta del mondo, trovino sul loro cammino una serie di indizi che li salvano in piú di un’occasione. Serendip, antico nome persiano dello Sri Lanka, diventa quindi l’ispirazione per descrivere una piacevole e fortunata scoperta non preventivata.

Quando parliamo di serendipità, parliamo quindi di fortuna? Non esattamente. Perché la serendipità é sì fortuna, ma anche qualcosa in piú. È la risultante di una combinazione di sorte, circostanza e conoscenza pregressa.
Lo studio dal titolo Talent vs Luck: The Role of Randomness in Success and Failure di A. Pluchino, A. Rapisarda ed E. Biondo indaga, in questo senso, la valenza di talento e fortuna. Grazie ad una simulazione computerizzata, i tre ricercatori sono stati in grado di quantificare il ruolo del caso nel raggiungimento del successo di un determinato numero di persone, dotate di un talento distribuito “a campana”, ricalcando l’effettiva distribuzione del quoziente intellettivo nella popolazione attuale. Con queste premesse, nello studio sono stati distribuiti gli stessi capitali iniziali ai soggetti partecipanti i quali – dopo alcuni incontri casuali con eventi negativi (perdita del 50% del proprio capitale) o positivi (raddoppio dello stesso) – hanno mostrato un risultato molto interessante, ossia che quasi sempre le persone che raggiungono il maggiore successo, nell’arco di un’ipotetica carriera lavorativa di 40 anni, sono quelle più fortunate e con un talento poco sopra la media.

Proprio come accaduto ai tre principi, il talento è necessario, ma non sufficiente. Per avere un qualsiasi tipo di successo, sia esso il raggiungimento di un obiettivo o il superamento di un ostacolo, serve anche una dose di buona sorte. Lo studio appena citato ci offre, tuttavia, solamente uno spunto su cui riflettere, volendo effettivamente indagare qualcos’altro. Quello che è stato definito dagli stessi autori come risultato interessante ci aiuta, praticamente, a dimostrare come le fondamenta della serendipità siano una solida realtà e non solamente un’artefatta teoria. L’occasione di trovare una cosa in maniera imprevista, mentre se ne stava cercando un’altra (cioè appunto la serendipità) si concretizza, allora, non solo con fortuna e talento, ma anche e soprattutto grazie ad un socratico spirito critico, “sapendo di non sapere”.

Più volte è stata tirata in ballo la parola talento. Vale a dire? Potremmo forse considerarlo una predisposizione naturale a fare o comprendere qualcosa “meglio” di altri. Questa innata attitudine, coltivata con i giusti mezzi, può portare a risultati strabilianti. Banalmente: non c’è percorso di studi che tenga senza quell’acume in grado di poter dare significato a tutto il materiale raccolto.

Praticamente quello che accadde all’astronomo Wilhelm Herschel che, nel 1781, cercando delle comete, si ritrovò ad osservare, per la prima volta nella storia, il pianeta Urano. L’astronomo tedesco se ne rese effettivamente conto notando l’orbita ellittica del gigante gassoso, tipica appunto dei pianeti e non delle stelle comete, obiettivo iniziale della sua osservazione. La scoperta di Herschel ci dimostra come l’attenta ricerca di effetti non calcolati, utili per portare alla formulazione di nuove teorie, possa essere effettivamente usata dal ricercatore come un paradigma valido scientificamente. Un metodo vero e proprio. 

Di questo ce ne possiamo rendere conto anche nella vita di tutti i giorni. In situazioni di novità ed incertezza, infatti, la mente è attiva e vigile e, per certi versi, lavora pure meglio. Saper divergere dalle ipotesi iniziali e considerare positivamente soluzioni inedite e non preventivate sono tutte valide strategie di adattamento. In fin dei conti, la capacità di far fronte a determinate situazioni, usando tutte le risorse possibili immaginabili (fortuna compresa), come anche dover risolvere problemi, altro non è che superare una serie di ostacoli per raggiungere un obiettivo. Pensare out of the box, in modo creativo e laterale, aiuta non solo ad allargare gli orizzonti ma anche a riconoscere i colpi di fortuna quando questi si presentano, anzi: quando siamo proprio noi a fare in modo che diventino realtà.

Milo Salso
Nato a Venezia nel 1987, si laurea in psicologia sociale e del lavoro a Padova. Dal 2015 lavora e risiede a Vienna, dove si occupa di marketing e di project management. Avido lettore, nel tempo libero crea cruciverba a tema libero.

[Photo credit Alois Komenda via Unsplash]

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Il viaggio dell’eroe della mitologia nella società di oggi

La società attuale segue una profondità dinamicità interna: ogni attimo diventa essenziale per poter cogliere le migliori occasioni, altrimenti si rischia di rimanere indietro. Il presente è più vivo che mai, ma risulta difficile poterlo afferrare: ciò che ieri era il meglio, oggi rischia di non esserlo più e l’indomani offre sempre novità imprevedibili. Ecco che l’immagine di ciascun soggetto difficilmente ottiene un punto di appoggio su cui costruirsi. Per tentare di rimanere a galla, si ricerca questa àncora nell’accettazione dagli altri: mostrarsi parte integrata in questa dinamicità. Questo stile di vita però rischia di disperdere ciò che rende davvero umano: importa solo l’apparenza, la soggettività passa in secondo piano, portando alla anonimità. È possibile trovare un punto di appoggio diverso che possa riportare se stessi al centro?

Lo scrittore Joseph Campbell, nella sua redatta antologia di conferenze Percorsi di Felicità (2004), propone un punto fermo, non da cercare all’esterno, ma da ricercare in se stessi. Questo è raggiungibile solo se si esce dallo stato di sonnolenza, favorito dall’adeguamento sociale, per poter concepire un nuovo senso di cosa significa essere umani. Per giungere a ciò, Campbell propone di riportare in auge una prospettiva che al giorno d’oggi non ha molta considerazione nel mondo occidentale: la mitologia.

La mitologia ha sempre avuto un ruolo centrale nella esistenza umana: costruire un significato che intrecciasse ogni cosa. Nel corso dei secoli il suo nucleo è sempre rimasto invariato; non è un caso che in ogni civiltà si ritrovino miti che cercano di offrire una spiegazione in cui ogni cosa ha un preciso scopo, e in cui si intessono le leggi da rispettare per garantire un equilibrio generale. La sua finalità ultima era quella di costruire un modello attraverso cui l’uomo potesse scoprire il suo ruolo nel mondo. Non si tratta tanto di aderire ad una prospettiva teologica, quanto piuttosto di formarsi come esseri umani, grazie alla funzione pedagogica che può ancora dare un valore tutto da gustare e da sfruttare.

Quello che infatti oggi sfugge, riguarda il profondo legame tra natura umana e mitologia: i racconti mitici non sono nulla di estraneo all’esistenza, quanto proiezioni dell’inconscio collettivo. Campbell propone una visione secondo cui ogni mitologia propone modelli come esempio, in cui i protagonisti fuggono dal ruolo impostogli per poter arrivare a essere se stessi. Ognuna di queste mitologie presenta il tentativo di connettere l’uomo con la propria dimensione interiore di umanità, testimonianza è la presenza di un filo conduttore comune: il viaggio dell’eroe. Questo è caratterizzato dalla presenza di un singolo che decide di andare incontro a ogni sfida, ad ogni pericolo, per poter tornare trionfante nella sua terra, profondamente cambiato.

È possibile costruire un parallelismo con la vita quotidiana: ogni sfida riguarda un confronto con sé stessi affinché ci si possa ricostruire pezzo dopo pezzo, liberi da ogni catena. L’eroe è ciascuno di noi che si avvale delle sue risorse per poter trovare la propria felicità, una connessione profonda con la sua interiorità. La strada di questo viaggio non è battuta: non esiste un sentiero preimpostato. Ciascuno deve avventurarsi da solo, ognuno possiede una soggettività irriducibile a cui nessun’altro ha accesso.

«Noi entriamo nella “selva oscura” dal punto più buio, dove non ci sono sentieri. Dove c’è un sentiero o una strada, è il sentiero di qualcun altro; ogni essere umano è un fenomeno unico. L’idea è di trovare il proprio percorso verso la felicità» (J. Campbell, Percorsi di felicità, 2004).

La propria soggettività richiede di essere ascoltata: solo ognuno può fare i conti con sé stesso. L’intero percorso è solcato da rischi, più di una volta la tentazione di tornare indietro si farà sentire, ma anche solo la possibilità di gustare una felicità autentica permette di non demordere:

«Ripetutamente siamo chiamati al regno dell’avventura, verso nuovi orizzonti. Ogni volta si presenta lo stesso problema: rischio? E se si rischia, ci sono pericoli e aiuti, realizzazione e fallimento. La possibilità di fare fiasco c’è sempre. Ma c’è anche la possibilità della felicità» (ivi).

Questa funzione pedagogica del mito oggi viene applicata in modo diverso: si ricerca la strada non nell’ascoltare gli altri, come nella tradizione orale mitica, ma in uno spazio privato grazie alla lettura. La narrativa risulta svolgere lo stesso compito: diversi autori offrono spunti di vita entro cui ognuno può ritrovare affinità con sé. Il libro diventa il miglior alleato di ciascuno di noi, uno strumento da usufruire per aiutare ad imboccare quella strada nella ‘selva oscura’.

 

Tommaso Donati
Nato a Busto Arsizio il 04/05/2002, decide di intraprendere gli studi in Filosofia presso la Univerisità Degli Studi di Milano. Lettore vorace, considera la riflessione critica come uno strumento indispensabile per la quotidianità.

 

[Photo credit Chris Czermak via Unsplash]

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Il mondo-limite: la sconfinata ricerca della New Media Art

La New Media Art, come tutto ciò che ibrida figure e saperi, vive fin dalla sua nascita in uno stato perenne di confine. Provata ad essere inglobata nel classico mondo dell’arte contemporanea, essa ha subito nel suo percorso tanti fallimenti e critiche. Il suo dinamismo intrinseco, però, le ha permesso di sopravvivere, anzi di evolversi, dagli anni Sessanta fino ad oggi. La miccia che ha fatto esplodere questo nuovo mondo dell’arte si deve al progresso tecnico-scientifico, alla rivoluzione digitale e all’invenzione/introduzione di nuovi media. Questi elementi sono stati usati all’interno dei processi artistici, trasformando il concetto di arte, di figura dell’artista, di valore dell’opera d’arte (mercato ed economia dell’arte) e di cura e conservazione delle opere.

La vitalità che si coltiva nella New Media Art è la ragione del suo esserci e delle sue variegate testimonianze. Non è, quindi, fonte di sorpresa immaginare che la New Media Art, concepita come fruibile e vivibile, non più come fine a sé stessa, sia il prodotto di interazioni e collaborazioni tra scienziati (all’inizio, perlopiù, ingegneri informatici) e artisti.

La riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, come già fatto notare negli anni Trenta del Novecento da Walter Benjamin, ha messo in crisi l’aura dell’opera d’arte, ossia l’attribuzione di valore:

«Mentre l’autentico mantiene la sua piena autorità di fronte alla riproduzione manuale, che di regola viene da esso bollata come un falso, ciò non accade nel caso della riproduzione tecnica» (W. Benjamin, l’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, 1998).

Certo, la questione intorno alla riproducibilità è chiaramente antica – fin dall’invenzione della stampa nel Medioevo – ma si è rinnovata nel tempo a fianco del progresso tecnologico. Con la rivoluzione digitale, infatti, il medium ha assunto un’importanza valoriale sopra ad ogni aspettativa, portando all’introduzione di due concetti fino a quel momento assenti: la connettività e l’economia dell’attenzione.

Come afferma Derrick De Kerckhove:

«Il nostro pensiero è ipertestuale. Attraverso il web, noi proiettiamo all’esterno tale modalità del pensiero. La Rete porta la connettività dentro la collettività e, contemporaneamente, dentro l’individualità» (A. Buffardi, D. De Kerckhove, Il sapere digitale. Pensiero ipertestuale e conoscenza connettiva, 2011).

La pratica del networking (connettività), tipica della New Media Art, è cresciuta dal campo fisico al campo digitale, permettendo agli artisti provenienti dai luoghi più disparati di scambiare idee e creare nuove prospettive artistiche, influenzando il pubblico e influenzandosi tra di loro.

Nel 1969 Herbert Simon introdusse il concetto di economia dell’attenzione, che collegandosi al precedente, lo completa e ci testimonia come la società industriale abbia ceduto il passo alla società dell’informazione, in cui la mole gigantesca di informazioni a cui è sottoposto il pubblico determina un’inevitabile perdita di attenzione, che a sua volta diventa la meta da conquistare per chi produce contenuti e opere.

Se prima, quindi, esisteva una certa distanza tra l’opera d’arte e l’osservatore, i nuovi media producono quello che viene definito da Manovich, riprendendo il pensiero di Paul Virilio, big optics

«[…] l’era post-industriale elimina totalmente la dimensione dello spazio. Quantomeno in linea di principio, tutti i punti della Terra sono ormai accessibili istantaneamente da qualunque altro punto del pianeta» (L. Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, 2002).

Sebbene questo annullamento della lontananza tra osservatore e osservato rappresenti in senso negativo una perdita di focus attentivo da parte del primo, diventa paradossalmente un punto forte su cui poggia la struttura della New Media Art. Il pubblico non si sente più lontano dall’opera d’arte, ne è prossimo; anzi, ancor di più, interagisce con essa, affinché diventi parte integrante dell’opera stessa.

L’instancabile dinamicità e il continuo bisogno di interattività della New Media Art sono gli ingredienti che la rendono una fabbrica di creatività e di svariate forme di arte che vanno dalla computer graphic, all’animazione, dal video alle installazioni, passando per la realtà aumentata e per quella virtuale. Sebbene sia un’arte considerata spesso effimera per la sua esistenza breve e mutevole, essa rappresenta, in conclusione, la sfida contro ogni genere di convenzione e la possibilità sia per gli artisti sia per il pubblico di esplorare tematiche così diverse tra di loro, in modi che probabilmente sarebbero stati impossibili con i mezzi tradizionali.

 

Ilaria Turrisi
Siciliana di annata 1992, appassionata di temi di attualità e dell’interazione multi- e interdisciplinare tra le branche del sapere, ha conseguito con lode la laurea magistrale in filosofia contemporanea presso l’Università degli studi di Messina. Oltre alla lettura, alla scrittura, al cinema e alla musica, si diletta nel lavoro a maglia e nella ideazione e creazione di collage analogici e digitali.

 

[Photo credit Zach Key via Unsplash]

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Ispirazione, interruzioni e scelte. Sull’impotenza progettuale dell’eccesso

Ispirazione. Questione alquanto dibattuta nel mondo artistico e quasi mai compresa al di fuori di esso, potrebbe essere definita, forse un po’ rozzamente, come un cartello ad un bivio, come il  motivo forte di una scelta. Come ciò che, finalmente, ci smuove. E smuovere è più che muovere, poiché  presuppone una situazione di precedente stallo.

Si racconta che, nel 1967, niente meno che l’architetto Carlo Scarpa, convocato all’ultimo minuto da  due colleghi per l’allestimento italiano per l’Expo di Montreal previsto per quell’anno, sollecitato a  dare una risposta in tempi brevissimi, abbia detto loro qualcosa come: “Non lo so, forse domani mi  viene un’idea, forse tra un anno, forse mai”1. A tal proposito, si potrebbe forse affermare: questione di “ ispirazione ”.
Ecco, queste parole di Scarpa, forse il più grande architetto d’Italia del secolo passato, potrebbero  tornare utili per una riflessione intorno alla progettazione, a più di mezzo secolo di distanza – una progettazione intesa in senso ampio, che non vuole riguardare solo l’ambito artistico ma, più in generale,  quello della vita

Viviamo nell’era dell’abbondanza. L’attuale surmodernità – Marc Augé battezza con tale termine l’epoca contemporanea – è, per definizione, opulenta ed eccessiva, qualcosa di tracotante: «È dunque attraverso una figura dell’eccesso […] che si  può cominciare a definire la condizione di surmodernità» (M. Augè, Nonluoghi, 2009). Un altro pensatore che avalla la condizione  di odierna “abbondanza” – in primis, abbondanza di reti sociali e di risorse artificiali – è il filosofo  Byung-Chul Han, che parla di depressione e burnout, le due nuove malattie del secolo, come causate  da un eccesso:

«Si tratta di stati patologici da ricondurre a un eccesso di positività. […] La violenza della  positività [è] derivante dalla sovrapproduzione, dall’eccesso di prestazione o di comunicazione» (B.C. Han, La società della stanchezza, 2020). 

All’interno di questa cornice, viviamo, anche, nell’era dei “big data”: dati non di per sé grandi e rilevanti, ma tanti. Tantissimi. Grandi masse di dati che, assieme con l’ovunque diffusa sovrainformazione, sono indiscutibilmente utili in molti ambiti, inequivocabilmente troppi se si parla di progettualità e progettazione.
Difatti, pensare che da una situazione sovrainformata o sur-dataistica – ovvero costituita di una quantità smoderata ed apparentemente infinita di dati – possa nascere in automatico un progetto è come  pensare che da un’orgia di impotenti possa nascere una creatura: piuttosto difficile. L’abbondanza non  sempre è sinonimo di fertilità

Riassumendo, si potrebbe affermare che l’odierna sur-modernità, più che nel passato, ci allontana dal fare e compiere delle scelte. La sovrainformazione mediatica, poi, nasce anche dall’infinita disponibilità di spazio per lo stoccaggio e per l’archiviazione: spesso non ci curiamo della rilevanza delle informazioni proprio perché tanto si tratta solamente di qualche kilobyte in più – che sarà mai? Ecco, allora, che il nostro “archivio mentale” assomiglia sempre più a quell’orgia infeconda. Insomma, direbbe Jason Bourne: «Cerca di capirmi: devo sapere alcune cose. Non tutte: tante quante ne bastano per prendere una decisione» (R. Ludlum, The Bourne identity, 1980).
Alla base del progetto, infatti, c’è sempre una scelta. E la scelta, sin dalla sua etimologia, sta a rivendicare l’atto del separare: la scelta presuppone dei rifiuti, delle negazioni e degli scarti. Prendere delle decisioni – ovvero, in termini minimi, progettare – significa compiere delle scelte, così discernendo e separando l’enorme, e di per sé inutile, montagna dataistica ed informativa. Lo scegliere ci costringe a dei bivi che, uno dopo l’altro, ci fanno fare a fette l’immensa mole dei dati che ci si parano di fronte – ché questi, da soli, non porterebbero ad alcunché.

Cosa ci smuova di fronte a questi bivi è ancora, in realtà, incerto. A quanto pare, perlopiù nel mondo artistico, alcuni la chiamano “ ispirazione ”. Sta di fatto che c’è di mezzo il concedersi del tempo proprio, del tempo-con-sé.
Riprendendo Paul Valéry, la scelta inizia con un’interruzione: interruzione rispetto al flusso e rielaborazione critica – e quindi progettuale – dei dati a disposizione. E l’ispirazione prende le mosse da un’interruzione: essa è più simile ad un rebus dentro di noi (fenomeno interiore) che ad una folgorazione dal cielo sopra la nostra testa (fenomeno esteriore).

E a qualcuno che dovesse ancora chiedere cosa si intende la parola ispirazione, allora, dovremmo modesta- mente rispondere: “Non lo so, forse domani mi viene un’idea, forse tra un anno, forse mai”.

Tommaso Antiga
Nato a Conegliano nel 1998, è Architetto e Dottorando di Ricerca presso l’Università degli Studi di Trieste, precedentemente laureatosi al corso di Laurea Magistrale in Architettura presso l’Università degli Studi di Udine con una tesi in forma di discorso sul tema della morte e dei suoi luoghi, portato avanti con il Prof. Giovanni La Varra. Da sempre appassionato anche di arte e filosofia e, nel tempo libero, aspirante scrittore

 

NOTE
1. Cfr. O. Lanzarini, Carlo Scarpa e il disegno, in DISEGNARECON n. 3 – Codici del Disegno di progetto. Appunti di  studio, Vol. 2, 2009, p. 6.

[Photo credit Shane Rounce via Unsplash]

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Il linguaggio osceno della comunicazione politica populista

Se c’è una cosa che tutti sicuramente impariamo durante la nostra esistenza è che l’oscenità rappresenta qualcosa che stimola contemporaneamente disgusto e interesse. E in fondo, forse, anche piacere. Dall’osceno nasce un nuovo linguaggio simbolico, che viene impiegato per creare un’inedita rappresentazione dell’umanità e della società. Anche grazie al processo di mediatizzazione e piattaformizzazione, tipico del terzo millennio, si può notare come l’oscenità sia diventata via via la forma-regina del linguaggio politico, in particolare quello populista. Analizzando la persona politica di Trump, ad esempio, Žižek, a ragion veduta, afferma:

«Attraverso tutte le sue scioccanti volgarità, sta dando ai suoi seguaci una narrazione che ha un senso – molto limitato e contorto, nondimeno un senso – che ovviamente funziona meglio della narrativa della sinistra moderata. Le sue spudorate oscenità servono come segni di solidarietà con le cosiddette persone comuni (“vedi, sono come te, siamo tutti uguali sotto la pelle”) […]» (S. Žižek, Hegel e il cervello postumano, 2020).

In questo modo l’oscenità è veicolo e strumento non solo di solidarietà, ma anche e soprattutto di riconoscimento. Il senso di riconoscimento, come quello di appartenenza, è essenziale a tutti gli uomini, a tutte le autocoscienze, come direbbe probabilmente Hegel. Tutti desiderano essere inclusi da qualche parte e in qualche cosa. Allora, la politica populista, che forza sul concetto di somiglianza, tende a sfruttare in maniera continuativa, quasi estenuante, un linguaggio performativo tale da ricreare un’immagine organica di popolo, e quindi un’identità collettiva.

Il leader politico populista, attraverso la tecnica della disintermediazione, si racconta come un cittadino ordinario, esattamente come i propri elettori, sia nei suoi discorsi sia nei suoi gesti. Egli ha il carisma e la capacità di intercettare l’umore del suo elettorato, per riproporlo allo stesso in una chiave che nella maggior parte dei casi viola le più basilari norme di decenza, giacché egli parla come parlerebbe il popolo. Il linguaggio osceno sperimentato dalla comunicazione populista instilla il seme dal quale nasce l’idea che il leader politico è e fa ciò che il popolo vuole che sia e che faccia.

Il sentimento del popolo, o meglio risentimento, viene raccolto e politicizzato dalla dinamica populista, la quale, quasi mai lo risolve. Il populismo, infatti, si nutre delle falle che si manifestano all’interno del sistema democratico, tenta sempre di mantenerle e sa che per sopravvivere ha bisogno di un’Opinione Pubblica che percepisca costantemente l’instabilità e il pericolo della crisi.

L’oscenità, non solo piace, ma si eleva a sacro e a pubblico:

«Le oscenità non si limitano più agli scambi privati, esplodono nello stesso pubblico dominio, permettendomi di soffermarmi sull’illusione che sia tutto solo un gioco osceno mentre io rimango innocente nella mia intima purezza» (ibidem).

Il popolo crede, perché la politica populista viene coltivata quasi come se fosse una missione di fede, in cui il focus è tutto concentrato sul popolo “vero”, che di conseguenza legittima il potere d’azione del leader stesso. Così, l’osceno populista agita gli elettori contro dei “nemici”, li fomenta contro un malessere che un Altro ha creato. “Nothing’s your fault. It’s them, it’s them, it’s them, probabilmente Trump tornerà a ripeterlo agli statunitensi e al mondo, dopo il recente annuncio della sua ricandidatura alle primarie del 2024. 

Nel frattempo, tutti noi, che formiamo la camaleontica Opinione Pubblica, possiamo riflettere su quanto l’oscenità sia oscena, specialmente nel momento in cui produce discorsi e gesti conflittuali e primitivi di “un me contro un te”, perché essi inevitabilmente ci conducono ad un esito di poteri totalmente asimmetrico. La deriva verso cui si spinge e ci spinge la comunicazione populista, come una bomba, allora, può essere disinnescata dall’uso ragionato e ragionevole del senso di riconoscimento che in modo positivo include, ossia ci dà l’opportunità di percepirci e sostenerci a vicenda anche nella nostra diversità e pluralità, e non elude.

 

Ilaria Turrisi
Siciliana di annata 1992, appassionata di temi di attualità e dell’interazione multi- e interdisciplinare tra le branche del sapere, ha conseguito con lode la laurea magistrale in filosofia contemporanea presso l’Università degli studi di Messina. Oltre alla lettura, alla scrittura, al cinema e alla musica, si diletta nel lavoro a maglia e nella ideazione e creazione di collage analogici e digitali.

 

[Photo credit Jon Tyson via Unsplash]

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Agire in modo ecologico: Jonas e la responsabilità

Il Climate Clock di New York riporta quanto tempo abbiamo per evitare l’innalzamento di CO2 e scongiurare una catastrofe climatica senza precedenti: ad oggi segna all’incirca sei anni1.Di fronte a questo pericolo che ci sovrasta, sembra mancarci un segnavia, una bussola morale che possa guidare le nostre azioni al fine di salvare il nostro pianeta, il nostro futuro, noi stessi. Esistono numerose associazioni che, tramite manifestazioni e proposte, cercano e di offrirci una via di fuga da questa situazione che sembra unidirezionale. Eppure, manca una presa di coscienza effettiva da parte della maggior parte della popolazione che permetta di concepire la gravità della questione e a che cosa si stai andando incontro.

Tra le file della filosofia, in nostro soccorso interviene Hans Jonas, il quale può davvero aiutarci in questo nostro intento. Infatti, nella sua celebre opera Il Principio Responsabilità, sottolinea che il vero problema è l’uomo stesso: il suo potere di agire è arrivato a sovrastare e a incidere sulla natura stessa, mettendo a repentaglio ogni esistenza prossima. Di fronte a tutto ciò si apre un vuoto etico incolmabile.

L’azione umana ha sempre preso parte entro un orizzonte limitato, in cui l’uomo non generava squilibri nel sistema della biosfera: la natura si prestava sempre come autonoma e superiore. Da questa posizione, risulta che le finalità umane non erano mirate a sfruttare la natura quanto piuttosto a garantire un innalzamento verso una condizione migliore individuale, proponendo etiche di carattere escatologico. Con l’avvento del positivismo e della rivoluzione industriale questa prospettiva cambia radicalmente: si fa spazio una idea di società che segue un progresso tecnico verso un benessere concreto, comportando uno sfruttamento del presente in vista del futuro. In questo nuovo modus operandi, l’uomo si considera in grado di dettare una direzione dinamica del tempo, a discapito di una staticità temporale entro cui operare per il proprio presente.

A una stretta visione di questi nuovi fatti, ci si accorge però subito di una problematica: ogni proiezione del futuro vive solo di immaginazione perché non riguarda un qualcosa di già noto e tutelabile, ma una novità mai testata. È questo il limite di ogni progresso: costruire una immagine generale senza entrare nei dettagli, ma sono proprio questi che sono rilevanti in una società operante. Subentra quindi un primo fattore da prendere in considerazione: l’ignoranza. Tra la conoscenza predittiva e gli effetti veri futuri esiste una discrasia incolmabile; ogni favorimento del futuro che comporta sacrifico del presente, può ritorcersi contro l’uomo nel suo sviluppo.

Da questa situazione di inconoscibilità, un aiuto viene offerto dalla paura. Questo sentimento, infatti, permette all’uomo di riconoscere i suoi limiti strettamente naturali: quello che egli è lo deve alla natura, compresi i suoi giudizi di valore, frutto di un bagaglio accumulato nel tempo. Ne risulta che l’uomo non ha capacità di onnipotenza, ma che anzi deve essere colui che garantisce quello stesso equilibrio naturale, che gli permette di essere ciò che è. Qualsiasi visione ideologica di supremazia deve essere frenata dando precedenza a una progettazione che consideri la posizione naturale dell’uomo come essere limitato. In questo senso il detto “il fine giustifica i mezzi” non è un motto degno di attenzione, perché quello stesso fine potrebbe turbare l’equilibrio.

Ciò che deriva da tutto ciò è un senso di responsabilità che l’uomo deve garantire verso il suo stesso futuro: ogni azione deve essere pesata con autocontrollo e critica, senza manie ideologiche non fondate. Questa stessa responsabilità non può fondarsi su una reciprocità, in quanto i venturi non hanno voce in capitolo nelle decisioni presenti ma ne subiranno le conseguenze. Il rapporto instaurato, infatti, non risulta essere di matrice empirica, ma di matrice ontologica: garantire un’idea di umanità adatta alla vita, con la possibilità di vivere in modo autentico e con dignità. Non si tratta di un obbligo esterno imposto, quanto piuttosto di un rispetto di ciò che siamo e di ciò che tutti devono godere, in quanto ognuno non è né più né meno di altri.

Jonas stesso offre un monito da usare come guida:

«agisci in modo che le conseguenze delle tue azioni siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra» (Hans Jonas, Il Principio Responsabilità, 1979).

 

 

Tommaso Donati

Nato a Busto Arsizio il 04/05/2002, decide di intraprendere gli studi in Filosofia presso l’Univerisità Degli Studi di Milano. Lettore vorace, considera la riflessione critica come uno strumento indispensabile per la quotidianità.

 

NOTE
1. Dato acquisito direttamente dal sito di riferimento.

 

[Photo credit Markus Spiske via Unsplash]

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