Ispirazione, interruzioni e scelte. Sull’impotenza progettuale dell’eccesso

Ispirazione. Questione alquanto dibattuta nel mondo artistico e quasi mai compresa al di fuori di esso, potrebbe essere definita, forse un po’ rozzamente, come un cartello ad un bivio, come il  motivo forte di una scelta. Come ciò che, finalmente, ci smuove. E smuovere è più che muovere, poiché  presuppone una situazione di precedente stallo.

Si racconta che, nel 1967, niente meno che l’architetto Carlo Scarpa, convocato all’ultimo minuto da  due colleghi per l’allestimento italiano per l’Expo di Montreal previsto per quell’anno, sollecitato a  dare una risposta in tempi brevissimi, abbia detto loro qualcosa come: “Non lo so, forse domani mi  viene un’idea, forse tra un anno, forse mai”1. A tal proposito, si potrebbe forse affermare: questione di “ ispirazione ”.
Ecco, queste parole di Scarpa, forse il più grande architetto d’Italia del secolo passato, potrebbero  tornare utili per una riflessione intorno alla progettazione, a più di mezzo secolo di distanza – una progettazione intesa in senso ampio, che non vuole riguardare solo l’ambito artistico ma, più in generale,  quello della vita

Viviamo nell’era dell’abbondanza. L’attuale surmodernità – Marc Augé battezza con tale termine l’epoca contemporanea – è, per definizione, opulenta ed eccessiva, qualcosa di tracotante: «È dunque attraverso una figura dell’eccesso […] che si  può cominciare a definire la condizione di surmodernità» (M. Augè, Nonluoghi, 2009). Un altro pensatore che avalla la condizione  di odierna “abbondanza” – in primis, abbondanza di reti sociali e di risorse artificiali – è il filosofo  Byung-Chul Han, che parla di depressione e burnout, le due nuove malattie del secolo, come causate  da un eccesso:

«Si tratta di stati patologici da ricondurre a un eccesso di positività. […] La violenza della  positività [è] derivante dalla sovrapproduzione, dall’eccesso di prestazione o di comunicazione» (B.C. Han, La società della stanchezza, 2020). 

All’interno di questa cornice, viviamo, anche, nell’era dei “big data”: dati non di per sé grandi e rilevanti, ma tanti. Tantissimi. Grandi masse di dati che, assieme con l’ovunque diffusa sovrainformazione, sono indiscutibilmente utili in molti ambiti, inequivocabilmente troppi se si parla di progettualità e progettazione.
Difatti, pensare che da una situazione sovrainformata o sur-dataistica – ovvero costituita di una quantità smoderata ed apparentemente infinita di dati – possa nascere in automatico un progetto è come  pensare che da un’orgia di impotenti possa nascere una creatura: piuttosto difficile. L’abbondanza non  sempre è sinonimo di fertilità

Riassumendo, si potrebbe affermare che l’odierna sur-modernità, più che nel passato, ci allontana dal fare e compiere delle scelte. La sovrainformazione mediatica, poi, nasce anche dall’infinita disponibilità di spazio per lo stoccaggio e per l’archiviazione: spesso non ci curiamo della rilevanza delle informazioni proprio perché tanto si tratta solamente di qualche kilobyte in più – che sarà mai? Ecco, allora, che il nostro “archivio mentale” assomiglia sempre più a quell’orgia infeconda. Insomma, direbbe Jason Bourne: «Cerca di capirmi: devo sapere alcune cose. Non tutte: tante quante ne bastano per prendere una decisione» (R. Ludlum, The Bourne identity, 1980).
Alla base del progetto, infatti, c’è sempre una scelta. E la scelta, sin dalla sua etimologia, sta a rivendicare l’atto del separare: la scelta presuppone dei rifiuti, delle negazioni e degli scarti. Prendere delle decisioni – ovvero, in termini minimi, progettare – significa compiere delle scelte, così discernendo e separando l’enorme, e di per sé inutile, montagna dataistica ed informativa. Lo scegliere ci costringe a dei bivi che, uno dopo l’altro, ci fanno fare a fette l’immensa mole dei dati che ci si parano di fronte – ché questi, da soli, non porterebbero ad alcunché.

Cosa ci smuova di fronte a questi bivi è ancora, in realtà, incerto. A quanto pare, perlopiù nel mondo artistico, alcuni la chiamano “ ispirazione ”. Sta di fatto che c’è di mezzo il concedersi del tempo proprio, del tempo-con-sé.
Riprendendo Paul Valéry, la scelta inizia con un’interruzione: interruzione rispetto al flusso e rielaborazione critica – e quindi progettuale – dei dati a disposizione. E l’ispirazione prende le mosse da un’interruzione: essa è più simile ad un rebus dentro di noi (fenomeno interiore) che ad una folgorazione dal cielo sopra la nostra testa (fenomeno esteriore).

E a qualcuno che dovesse ancora chiedere cosa si intende la parola ispirazione, allora, dovremmo modesta- mente rispondere: “Non lo so, forse domani mi viene un’idea, forse tra un anno, forse mai”.

Tommaso Antiga
Nato a Conegliano nel 1998, è Architetto e Dottorando di Ricerca presso l’Università degli Studi di Trieste, precedentemente laureatosi al corso di Laurea Magistrale in Architettura presso l’Università degli Studi di Udine con una tesi in forma di discorso sul tema della morte e dei suoi luoghi, portato avanti con il Prof. Giovanni La Varra. Da sempre appassionato anche di arte e filosofia e, nel tempo libero, aspirante scrittore

 

NOTE
1. Cfr. O. Lanzarini, Carlo Scarpa e il disegno, in DISEGNARECON n. 3 – Codici del Disegno di progetto. Appunti di  studio, Vol. 2, 2009, p. 6.

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Il linguaggio osceno della comunicazione politica populista

Se c’è una cosa che tutti sicuramente impariamo durante la nostra esistenza è che l’oscenità rappresenta qualcosa che stimola contemporaneamente disgusto e interesse. E in fondo, forse, anche piacere. Dall’osceno nasce un nuovo linguaggio simbolico, che viene impiegato per creare un’inedita rappresentazione dell’umanità e della società. Anche grazie al processo di mediatizzazione e piattaformizzazione, tipico del terzo millennio, si può notare come l’oscenità sia diventata via via la forma-regina del linguaggio politico, in particolare quello populista. Analizzando la persona politica di Trump, ad esempio, Žižek, a ragion veduta, afferma:

«Attraverso tutte le sue scioccanti volgarità, sta dando ai suoi seguaci una narrazione che ha un senso – molto limitato e contorto, nondimeno un senso – che ovviamente funziona meglio della narrativa della sinistra moderata. Le sue spudorate oscenità servono come segni di solidarietà con le cosiddette persone comuni (“vedi, sono come te, siamo tutti uguali sotto la pelle”) […]» (S. Žižek, Hegel e il cervello postumano, 2020).

In questo modo l’oscenità è veicolo e strumento non solo di solidarietà, ma anche e soprattutto di riconoscimento. Il senso di riconoscimento, come quello di appartenenza, è essenziale a tutti gli uomini, a tutte le autocoscienze, come direbbe probabilmente Hegel. Tutti desiderano essere inclusi da qualche parte e in qualche cosa. Allora, la politica populista, che forza sul concetto di somiglianza, tende a sfruttare in maniera continuativa, quasi estenuante, un linguaggio performativo tale da ricreare un’immagine organica di popolo, e quindi un’identità collettiva.

Il leader politico populista, attraverso la tecnica della disintermediazione, si racconta come un cittadino ordinario, esattamente come i propri elettori, sia nei suoi discorsi sia nei suoi gesti. Egli ha il carisma e la capacità di intercettare l’umore del suo elettorato, per riproporlo allo stesso in una chiave che nella maggior parte dei casi viola le più basilari norme di decenza, giacché egli parla come parlerebbe il popolo. Il linguaggio osceno sperimentato dalla comunicazione populista instilla il seme dal quale nasce l’idea che il leader politico è e fa ciò che il popolo vuole che sia e che faccia.

Il sentimento del popolo, o meglio risentimento, viene raccolto e politicizzato dalla dinamica populista, la quale, quasi mai lo risolve. Il populismo, infatti, si nutre delle falle che si manifestano all’interno del sistema democratico, tenta sempre di mantenerle e sa che per sopravvivere ha bisogno di un’Opinione Pubblica che percepisca costantemente l’instabilità e il pericolo della crisi.

L’oscenità, non solo piace, ma si eleva a sacro e a pubblico:

«Le oscenità non si limitano più agli scambi privati, esplodono nello stesso pubblico dominio, permettendomi di soffermarmi sull’illusione che sia tutto solo un gioco osceno mentre io rimango innocente nella mia intima purezza» (ibidem).

Il popolo crede, perché la politica populista viene coltivata quasi come se fosse una missione di fede, in cui il focus è tutto concentrato sul popolo “vero”, che di conseguenza legittima il potere d’azione del leader stesso. Così, l’osceno populista agita gli elettori contro dei “nemici”, li fomenta contro un malessere che un Altro ha creato. “Nothing’s your fault. It’s them, it’s them, it’s them, probabilmente Trump tornerà a ripeterlo agli statunitensi e al mondo, dopo il recente annuncio della sua ricandidatura alle primarie del 2024. 

Nel frattempo, tutti noi, che formiamo la camaleontica Opinione Pubblica, possiamo riflettere su quanto l’oscenità sia oscena, specialmente nel momento in cui produce discorsi e gesti conflittuali e primitivi di “un me contro un te”, perché essi inevitabilmente ci conducono ad un esito di poteri totalmente asimmetrico. La deriva verso cui si spinge e ci spinge la comunicazione populista, come una bomba, allora, può essere disinnescata dall’uso ragionato e ragionevole del senso di riconoscimento che in modo positivo include, ossia ci dà l’opportunità di percepirci e sostenerci a vicenda anche nella nostra diversità e pluralità, e non elude.

 

Ilaria Turrisi
Siciliana di annata 1992, appassionata di temi di attualità e dell’interazione multi- e interdisciplinare tra le branche del sapere, ha conseguito con lode la laurea magistrale in filosofia contemporanea presso l’Università degli studi di Messina. Oltre alla lettura, alla scrittura, al cinema e alla musica, si diletta nel lavoro a maglia e nella ideazione e creazione di collage analogici e digitali.

 

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Agire in modo ecologico: Jonas e la responsabilità

Il Climate Clock di New York riporta quanto tempo abbiamo per evitare l’innalzamento di CO2 e scongiurare una catastrofe climatica senza precedenti: ad oggi segna all’incirca sei anni1.Di fronte a questo pericolo che ci sovrasta, sembra mancarci un segnavia, una bussola morale che possa guidare le nostre azioni al fine di salvare il nostro pianeta, il nostro futuro, noi stessi. Esistono numerose associazioni che, tramite manifestazioni e proposte, cercano e di offrirci una via di fuga da questa situazione che sembra unidirezionale. Eppure, manca una presa di coscienza effettiva da parte della maggior parte della popolazione che permetta di concepire la gravità della questione e a che cosa si stai andando incontro.

Tra le file della filosofia, in nostro soccorso interviene Hans Jonas, il quale può davvero aiutarci in questo nostro intento. Infatti, nella sua celebre opera Il Principio Responsabilità, sottolinea che il vero problema è l’uomo stesso: il suo potere di agire è arrivato a sovrastare e a incidere sulla natura stessa, mettendo a repentaglio ogni esistenza prossima. Di fronte a tutto ciò si apre un vuoto etico incolmabile.

L’azione umana ha sempre preso parte entro un orizzonte limitato, in cui l’uomo non generava squilibri nel sistema della biosfera: la natura si prestava sempre come autonoma e superiore. Da questa posizione, risulta che le finalità umane non erano mirate a sfruttare la natura quanto piuttosto a garantire un innalzamento verso una condizione migliore individuale, proponendo etiche di carattere escatologico. Con l’avvento del positivismo e della rivoluzione industriale questa prospettiva cambia radicalmente: si fa spazio una idea di società che segue un progresso tecnico verso un benessere concreto, comportando uno sfruttamento del presente in vista del futuro. In questo nuovo modus operandi, l’uomo si considera in grado di dettare una direzione dinamica del tempo, a discapito di una staticità temporale entro cui operare per il proprio presente.

A una stretta visione di questi nuovi fatti, ci si accorge però subito di una problematica: ogni proiezione del futuro vive solo di immaginazione perché non riguarda un qualcosa di già noto e tutelabile, ma una novità mai testata. È questo il limite di ogni progresso: costruire una immagine generale senza entrare nei dettagli, ma sono proprio questi che sono rilevanti in una società operante. Subentra quindi un primo fattore da prendere in considerazione: l’ignoranza. Tra la conoscenza predittiva e gli effetti veri futuri esiste una discrasia incolmabile; ogni favorimento del futuro che comporta sacrifico del presente, può ritorcersi contro l’uomo nel suo sviluppo.

Da questa situazione di inconoscibilità, un aiuto viene offerto dalla paura. Questo sentimento, infatti, permette all’uomo di riconoscere i suoi limiti strettamente naturali: quello che egli è lo deve alla natura, compresi i suoi giudizi di valore, frutto di un bagaglio accumulato nel tempo. Ne risulta che l’uomo non ha capacità di onnipotenza, ma che anzi deve essere colui che garantisce quello stesso equilibrio naturale, che gli permette di essere ciò che è. Qualsiasi visione ideologica di supremazia deve essere frenata dando precedenza a una progettazione che consideri la posizione naturale dell’uomo come essere limitato. In questo senso il detto “il fine giustifica i mezzi” non è un motto degno di attenzione, perché quello stesso fine potrebbe turbare l’equilibrio.

Ciò che deriva da tutto ciò è un senso di responsabilità che l’uomo deve garantire verso il suo stesso futuro: ogni azione deve essere pesata con autocontrollo e critica, senza manie ideologiche non fondate. Questa stessa responsabilità non può fondarsi su una reciprocità, in quanto i venturi non hanno voce in capitolo nelle decisioni presenti ma ne subiranno le conseguenze. Il rapporto instaurato, infatti, non risulta essere di matrice empirica, ma di matrice ontologica: garantire un’idea di umanità adatta alla vita, con la possibilità di vivere in modo autentico e con dignità. Non si tratta di un obbligo esterno imposto, quanto piuttosto di un rispetto di ciò che siamo e di ciò che tutti devono godere, in quanto ognuno non è né più né meno di altri.

Jonas stesso offre un monito da usare come guida:

«agisci in modo che le conseguenze delle tue azioni siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra» (Hans Jonas, Il Principio Responsabilità, 1979).

 

 

Tommaso Donati

Nato a Busto Arsizio il 04/05/2002, decide di intraprendere gli studi in Filosofia presso l’Univerisità Degli Studi di Milano. Lettore vorace, considera la riflessione critica come uno strumento indispensabile per la quotidianità.

 

NOTE
1. Dato acquisito direttamente dal sito di riferimento.

 

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L’invisibile potere del digitale: dove ci trasportano le sue correnti?

Nel 2006 il sociologo americano Aneesh ha coniato la parola algocracy, per indicare l’emersione del dominio e del potere degli algoritmi all’interno della struttura e dell’ordine sociale. Ogni momento della nostra esistenza sembra sempre di più collegato all’ecosistema digitale, che smonta la classica dicotomia tra il pubblico e il privato, tra ciò che fa parte della nostra intimità e ciò che ci determina davanti agli occhi degli altri. Ed è così che l’avvento del digitale può essere sottoposto a più di una lettura. La prima corrisponde a una visione positivista, attraverso la quale consideriamo la nuova società come ricca di promesse, di aperture, di crescita, soprattutto di maggiore consapevolezza di sé, delle proprie scelte e azioni sia in ambito sociale sia in ambito politico. Niente di più vero. Ma non finisce qui. L’analisi diventa più profonda ed è lì che la visione prende una piega (o tante pieghe) diversa.

Proviamo a leggere la rivoluzione digitale come una controrivoluzione. In associazione a premesse rosee e cariche di aspetti positivi, contestualmente si è sviluppato uno strano indebolimento delle libertà individuali, che si può cogliere dalle emergenti dinamiche di potere. L’ambiguità del nuovo assetto sociale – nella sua apparenza così liberale e democratico – nasconde un assoggettamento trasparente. Può essere definito in questo modo giacché a prima vista non si nota, ci passiamo attraverso, senza nemmeno notarlo.

«Proprio là dove non viene tematizzato, il potere è indiscusso; più grande è il potere, più silenziosamente agisce. Esso accade, senza bisogno di segnalarsi in modo clamoroso.» (B.C. Han, Psicopolitica, 2016)

Certo, non si intende dire che siamo schiavi di un regime totalitario con a capo un tiranno, ma ci siamo trasformati a mano a mano in dipendenti volontari. Lo (psico)potere non agisce in maniera violenta, bensì con benevolenza: la libertà non viene mai negata, ma usata e sfruttata. Proprio per questo motivo non esiste la figura conclamata di dittatore che gestisce il classico potere disciplinare. La società algocratica, infatti, ci rende complici attivi della nostra stessa sottomissione. Ne abbiamo bisogno perché riceviamo una quantità esponenziale e sempre più crescente di stimoli, provenienti dall’habitat digitale in cui siamo immersi, che si trasformano in desideri, in un continuum che è diventato tipico dell’assetto sociale. Tra innumerevoli scelte che possiamo compiere in maniera consapevole e razionale, alla fine preferiamo che le nostre azioni ci vengano ‘consigliate’: “Che cosa mi consiglia Netflix da guardare?”.

Può venire in mente l’amara considerazione che fa Shoshana Zuboff sulla perdita di autonomia profonda dell’individuo: ognuno di noi rappresenta un capitale (umano) e la sua esperienza un surplus di esso. (S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, 2019).

Il capitalismo digitale si insinua senza freni in tutte le menti, inevitabilmente.
E se viene instillata un’ideologia, che cosa rischiamo?
Per esempio, se un’ideologia diventa egemonica, senza che gli individui sociali la riconoscano come tale, interiorizzandola, la potrebbero applicare come unico modello possibile. Allora, il pericolo è l’ottenimento di una conformazione sociale e di un appiattimento degli individui, fino a raggiungere la loro pacifica obbedienza, a scapito della consapevolezza e personale e collettiva.

Questo pensiero può ricordare il racconto in cui dei pesci che si chiedevano cosa fosse l’acqua di David Foster Wallace. Ancora oggi non sappiamo effettivamente cosa sia l’acqua in cui navighiamo. La rete per noi rappresenta un archivio potenzialmente infinito di informazioni e di dati, ma i confini e i limiti del suo corpo sono ancora troppo poco conosciuti, come anche i modi inediti attraverso i quali genera nuove forme di interazione. Pur vivendoci, non sappiamo dove inizia e finisce l’asse di potere, da che parte si orienta e in che direzione ci conduce. Le mutazioni a cui siamo sottoposti e le possibili e variegate forme di “dominazione silente” possono rappresentare una grande sfida sociale, per ripensare ciò che siamo e vogliamo essere e in che genere di relazione viviamo con gli altri e con l’ambiente. 

Dobbiamo scegliere, allora, se incarnare il personaggio dantesco di Ciacco, abbuffandoci di dati e di informazioni, senza assumere una prospettiva che rifletta la direzione verso cui stiamo procedendo al fine di diagnosticare quali sono i possibili effetti collaterali per noi e per il nostro futuro. Oppure possiamo potenziare la nostra intelligenza collettiva, per ripensare criticamente il rapporto tra la conoscenza, l’uomo, la realtà e la tecnica. Il pensare riflessivo e collettivo permette, infatti, agli individui di non cadere nella spirale dell’automatismo, ma di svegliarsi dal torpore cognitivo.

 

Ilaria Turrisi

 

[Photo credit Markus Spiske via Unsplash]

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Nulla da vedere nell’arte contemporanea? Basta riflettere

Chi ha un minimo di confidenza con l’arte contemporanea sa che, a differenza delle precedenti, in molti casi essa ci presenta gli stessi oggetti della vita di tutti i giorni: il caso principe è l’orinatoio che Marcel Duchamp espose nel 1917 ad una mostra d’arte a New York. A questo primo episodio ne seguirono molti altri, tanto che oggi è forse più comune vedere alle mostre opere “fatte di” oggetti banali che non dipinti e sculture: certo, l’arte ha in questo secolo calcato diversi sentieri, si sono adoperati neon, animali impagliati, addirittura ora si utilizzano file digitali come opere. Tuttavia la Fontana di Duchamp è un evento paradigmatico poiché rappresenta l’inizio dell’irruzione del quotidiano nell’arte: e ciò è stato ed è genuinamente spiazzante. Il senso comune infatti dice che le opere d’arte sono cose ben diverse dagli oggetti normali, poiché, generalmente, belle ad un livello speciale.

Il problema con la bellezza, è che essa è un valore che, come tutti i valori, è riconosciuta per certe qualità solamente da coloro che credono che quelle qualità la esprimano: non ne esiste un’idea condivisa da tutte le culture, né da tutte le società e gli individui. Chi pensa che qualcosa sia bello lo fa sempre per dei preconcetti che ha riguardo alla bellezza stessa. Qualcuno può dire che bello è ciò che dimostra in tutte le proprie parti una proporzione perfetta, chi invece crederà che alla bellezza serva un minimo di disarmonia per vivacizzarla, chi pensa che certi colori stiano bene assieme perché gli danno una sensazione positiva, e chi il contrario: tutti questi giudicheranno bello soltanto quell’oggetto che possono pensare secondo i loro parametri.

Infatti, in ognuno di questi casi, prima del giudizio si ha un’associazione di idee, il che è sostanzialmente un tipo di pensiero: anche nel caso dei colori, chi li trova belli connette la sensazione di piacere che ha con altre simili, alle quali ha imparato ad associare un evento positivo. L’idea è che un quadro lo “faccia sentire come”, e che perciò sia bello. Si risponde secondo dei presupposti: il problema è che pure questi presupposti possono a loro volta essere relativi. La bellezza infatti non è l’unico valore che risente di una tale situazione: le idee di proporzione, armonia, disarmonia, positività, piacere sono a loro volta suscettibili di condizionamento da parte di memoria, esperienza, cultura e storia. Anche l’espressività e il trovare qualcosa espressivo, fattori solitamente associati con l’arte, sono sia dipendenti dai, che varianti nei, vari contesti in cui il giudizio viene espresso.

Per cui non si può effettivamente pensare che l’opera d’arte – se si vuole che sia tale per tutti coloro che la potrebbero guardare (conditio sine qua non di una buona definizione della realtà) – si possa basare su qualche caratteristica specifica. Altrimenti, per qualcuno qualcosa sarebbe arte, per qualcun altro no. Ciò che permane, sicuramente, è che quando un oggetto è esposto al pubblico, come in un museo o in una galleria, le persone saranno portate a giudicarlo: si potrà dire che è bello o brutto, espressivo o inespressivo, che presenta certe qualità o non lo fa, ad un livello sufficiente o no. Di sicuro, quando mostrato, l’oggetto riceverà un giudizio, anche rispetto alla sua artisticità, giacchè affibbiargli o no le caratteristiche che, secondo chi lo fa, lo denotano come un’opera d’arte, significa infine giudicarlo “arte”.

Dunque, quello che le opere d’arte fanno è sempre stimolare un giudizio, cioè far associare delle premesse con altre idee. L’intuizione di Duchamp fu quella per cui, se un’opera non può essere razionalmente caratterizzata, ma tutto ciò che possiamo dire è che ci fa pensare, allora ogni cosa può mettere in moto la mente umana, dato che su tutti gli oggetti noi possiamo formulare pensieri: anzi, vien da chiedersi, che cosa più di un orinatoio in una galleria d’arte può dar modo di riflettere? Vedendolo, infatti, si potrà pensare che non è arte, che però qualcuno ha pensato che lo fosse, o non sarebbe stato esposto, che se è arte allora la bellezza non c’entra nulla con l’arte, e che questo è controintuitivo ecc. Inoltre, si potrebbe pensare anche che ci sono opere d’arte che non sono “belle” ma espressive (si pensi a Munch), ma che tuttavia anche l’espressività è relativa, perché in un contesto un gesto può essere considerato espressivo mentre in un altro per nulla…

Si potrà pensare che arte (considerata qui come arte visiva, solco in cui si mosse l’ex pittore Duchamp) è solo ciò che rappresenta qualcosa: ma allora l’astrattismo? Che fare arte significa dipingere o scolpire, produrre qualcosa: ma perché farlo, se non devo avere particolari qualità? In breve, si rifarà il ragionamento che ci ha condotti sin qui, e tutti quelli che hanno portato gli uomini nei secoli a fare arte in un certo modo ed altri ad accettarla come tale, per capire cosa diavolo ci faccia un orinatoio in museo.

 

Simone Costantini

Simone Costantini ha studiato Storia dell’arte a Udine e a Milano, focalizzandosi sulla contemporaneità perché ama essere sempre a conoscenza degli ultimi fatti del pensiero e dell’attività umana, e per personale predisposizione. La considerevole quantità di ragionamento dietro alle opere d’arte contemporanea e al loro studio ben si sposa con la sua passione per la filosofia, sorta al liceo, che ha poi felicemente portato avanti per comprendere sempre meglio il suo nuovo oggetto d’interesse. Alterna, così, il girovagare tra chiese, musei e mostre alla lettura e alla riflessione.

 

[Photo credit Khara Woods via Unsplash]

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Il valore come mezzo oltre che misura dello scambio

Gli eclatanti, problematici sviluppi degli ultimi anni, verificatisi in ambito economico, sociale, ambientale e politico, ci inducono ormai a percepire la condizione di crisi come elemento strutturale del nostro vivere individuale e collettivo.

Se, alla luce di emergenze come i cambiamenti climatici, alcuni si spingono a richiamare la necessità di mutare i nostri paradigmi economici (è il caso del movimento Fridays For Future), ben più consolidato è il riferimento alla “sostenibilità”, intesa come principio guida che consente di non superare i limiti posti dal rispetto dell’ambiente e dall’esigenza di coesione sociale. Tuttavia, rischia di rivelarsi illusoria l’idea di poter mantenere in equilibrio un sistema di cui si ignorano o danno per scontati alcuni presupposti, fra cui il predominio dell’economia sulla politica, o la non praticabilità di soluzioni terze rispetto alle tecnocrazie e ai populismi.

In un contesto in cui si forniscono incentivi monetari a compiere scelte come inquinare di meno – o si sanzionano comportamenti di segno opposto – è illuminante rileggere le riflessioni di Georg Simmel (1858-1918), relative al modo in cui il denaro strumentalizza tutti i fini e i valori, divenendo esso stesso il solo tangibile punto di riferimento delle nostre relazioni sociali. E, per riprendere una distinzione kantiana, sarebbe almeno onesto chiarire che la nostra civiltà vive esclusivamente di imperativi ipotetici, condizionati dagli scopi delle proprie azioni, emarginando gli imperativi categorici capaci di esprimere la propria autonomia morale.

In nome dell’anarchica, consistente nello scegliere i mezzi più conformi a mutevoli e soggettivi fini, non si concepisce neppure la possibilità di una individualità che, orientandosi a principi di fondo, a narrative trasversali ai ruoli sociali e alle biografie, si possa elevare al di sopra di interessi contingenti. Un’ottica dell’autonomia favorirebbe d’altra parte la definizione di una volontà generale (per dirla con Rousseau), o almeno di una concezione non strumentale di giustizia, quale quella suggerita da John Rawls. Rousseau, infatti, evidenziò ne Il contratto Sociale (1762) come la volontà generale è orientata al bene comune, mentre la volontà di tutti non è che una somma di volontà particolari. Rawls ha proposto nello scorso secolo che i principi di giustizia vengano scelti dietro un velo di ignoranza, ovvero non basandosi sugli specifici ruoli che si rivestiranno nella società. Anche tale ottica rimanda, peraltro richiamandosi all’ideale kantiano, al trascendimento delle convenienze contingenti.

Il mercato e le transazioni economiche possono ancora essere dotati di una dimensione etica, finalizzata a una nozione di bene comune. La mercificazione dominante non deriva principalmente dal libero scambio tra attori consenzienti, ma dall’assenza di mezzi di scambio connotati in senso valoriale, con la conseguente impossibilità di interpretare la transazione economica come un atto che vada oltre la soddisfazione di esigenze private e l’istante del pagamento, della cessione di denaro.

Si potrebbe immaginare la definizione per legge di indicatori volti a connotare determinate azioni come rilevanti in base a principi come l’ambientalismo (ad esempio una certa riduzione delle emissioni inquinanti da parte delle imprese) e la giustizia sociale (ad esempio la riduzione della dispersione salariale nelle imprese e della disuguaglianza nella distribuzione del reddito, nell’ambito delle regioni). Una piattaforma potrebbe consentire a individui, imprese e comunità locali di scambiare documenti, ciascuno dei quali, riferito a un determinato valore morale, organizzativo o culturale, elencherebbe i benefici, ad esempio reputazionali, sperimentati in passato adottando una o più iniziative in linea con i detti indicatori (cfr. M. Senatore, Scambiare autonomia, 2013).

Tali documenti potrebbero essere ceduti in cambio di beni e servizi, e fungerebbero pertanto da mezzo di pagamento, ma non sarebbero scambiabili con denaro. D’altra parte, essi avrebbero un controvalore monetario, precisamente per poter essere scambiati con merci. Tale controvalore, o prezzo, sarebbe funzione sia del numero di esperienze contenute in ciascun documento, sia della domanda e offerta di tutte le esperienze sul mercato, collegate al valore cui il documento si riferisce. Il livello iniziale del prezzo delle esperienze sarebbe commisurato al costo medio da sostenere per conformarsi agli indicatori rilevanti. Prezzare i documenti fornirebbe un incentivo a partecipare agli scambi: la possibilità di cedere ognuno di essi a un controvalore monetario superiore a quello di acquisto, come risultato da un lato dell’aggiunta di nuove esperienze, dall’altro dello scegliere un valore destinato a divenire più rilevante per i partecipanti al mercato.

Determinare un “valore dei valori”, senza la mediazione del denaro, consentirebbe di interpretare gli scambi economici non come un momento necessario esclusivamente per confermare il proprio ruolo sociale, nel nome di un’efficienza puramente quantitativa, ma anche come un’occasione per modificare tale ruolo e, nel far ciò, contribuire a una deliberazione pubblica sul bene comune.

 

Marco Senatore

Marco Senatore (Genova, 1975) è un dipendente pubblico impegnato nel contesto della governance economica dell’Unione europea. Dopo la laurea in Scienze Politiche all’Università La Sapienza di Roma, ha approfondito la propria formazione negli ambiti dei mercati finanziari e del commercio internazionale. Ha inoltre avviato un progetto individuale di indagine orientato al dialogo tra economia ed etica. Esprime le proprie esigenze creative tramite la poesia, la narrativa, la fotografia, la musica, e ha da alcuni anni intrapreso una più profonda ricerca spirituale.

[Photo credit Alexander Mils via Unsplash]

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Estetica anestetica: una riflessione sulla coscienza umana

Oggi si potrebbe forse racchiudere lo studio dell’ontologia (ovvero di quella branca filosofica che indaga l’essere in quanto tale) all’interno di due categorie di indagine: 1) una astrofisica, riguardo l’insoluto temporale di ciò che ha preceduto l’essere – ovvero l’interrogativo sull’origine del nostro universo e, dunque, indirettamente anche sulla nostra – e 2) una “neuroesistenzialista”, invece, propriamente riferibile al tentativo di comprenderne l’essenza e il suo collegamento con la coscienza umana. 

Questo secondo ambito di ricerca parte dall’assunto di una materia organica attualmente presente e ne esplora i meccanismi attraverso cui essa pensa sé stessa. Riferendoci alla suddetta materia col termine di cervello (o encefalo, tessuto cerebrale, sistema nervoso centrale, etc.), possiamo subito tracciare un parallelismo con l’oggetto di studio astrofisico: proprio come la progressione vitale dell’universo, infatti, anche quella cerebrale mostra un’espansione entropica. Nel corso del suo sviluppo, i momenti di veglia a maggiore attività (quelli intellettualmente più impegnativi, potremmo dire) sono caratterizzati da un alto livello di attività cerebrale caotica. Attività, questa, che rappresenta il risultato del dialogo tra le varie aree del nostro encefalo, le quali elaborano degli input provenienti dall’esterno (visivi, uditivi, tattili, etc.) elevandoli a coscienza – rendendoci, cioè, consapevoli di essi. Un valido indicatore di questo lavoro cerebrale è l’elettroencefalogramma (EEG) che misura, attraverso degli elettrodi posti sul capo la trasmissione elettrica encefalica (ovvero il passaggio di impulsi elettrici da neuroni ad altri, che di fatto rappresenta il modo in cui essi dialogano tra di loro). Esso restituisce su carta un tracciato fatto di onde che mostrano un andamento caotico – ad alta frequenza ed ampiezza variabile – durante l’espletazione delle cosiddette funzioni superiori (apprendimento, memoria ed immaginazione) e dunque durante la produzione di un linguaggio esteriore – ed esternato – e di un linguaggio interiore – ed interiorizzato – per la creazione di una forma e di un contenuto di autocoscienza, nonché della sua evoluzione.  

Come medico specializzando in anestesia, utilizzo quotidianamente in sala operatoria un altro strumento di misurazione dell’attività cerebrale – che nasce dal bisogno di rapidità di interpretazione della profondità di anestesia in sala operatoria – commercializzato col nome tutt’altro che casuale di Spectral Entropy. Si tratta di un sistema di analisi dell’attività cerebrale che, elaborando le caratteristiche delle onde di più tracciati EEG su varie aree encefaliche ed integrandole tra di loro, estrapola un numero matematico che pone in relazione il grado di entropia sinaptica con il grado di ipnosi: 

  • Entropia = 100-75: stato ipnotico lieve
  • Entropia = 50-25: anestesia generale
  • Entropia = 25-0: stato ipnotico profondo 

L’anestesista, tramite l’azione farmacologica che espleta sulla coscienza, ogni giorno ne sperimenta le caratteristiche, il contenuto e le sue diverse forme. Potremmo dire che il lavoro che mi sto formando a fare, dalla sua postazione in sala operatoria, alla testa del paziente, ha una seduta in prima fila sullo spettacolo della coscienza umana, sulle sue stratificazioni e sulle modalità della transizione tra i suoi piani. Aspetto questo, che credo valga la pena prendere in esame nel ciclo vitale dello sconfinato ed appena nato discorso “neuroesistenziale”. In tal senso si potrebbe pensare un’«estetica anestetica» – per citare i Baustelle – nel senso di una percezione anestetica di alcuni spazi del reale, nell’idea che in fisiologia il metodo storicamente più efficace di studiare un meccanismo è sempre stato quello di interromperne il funzionamento. Questo, comunque, a mio avviso è solo il punto di vista dell’anestesista sul cervello umano; ce ne sono però molti altri in ambito medico; come ad esempio quello del neurologo, del neuro-radiologo, del neurochirurgo, dell’anatomo-patologo, etc. Ma il punto centrale della questione “neuroesistenziale” resta quello del salto sinestesico, che consiste nel dover spiegare come un tessuto organico, tramite la sua attività elettrica, possa superare il gap materiale immagazzinando un concetto o un ricordo, e produrre di reazione un moto riflessivo o immaginativo apponendo un piccolo tassello nell’enorme stoccaggio della nostra memoria, che altro non siamo che noi stessi, il nostro self più profondo. La nostra memoria connotata, rivisitata, rivalutata, ripresa, ripescata per andare a riprodurre i nostri pensieri, quell’ io con cui soltanto noi possiamo dialogare. 

Come spiegare dunque questo salto? Le neuroscienze ci stanno provando, ma è qui che la filosofia odierna deve indagare la scienza, aiutarla. Perché è da un’idea, spesso, che si disegna uno studio da effettuare attraverso la raccolta e l’eventuale verifica di dati. Bisogna essere inventori, immaginatori, per imbarcarsi nel viaggio infinito che è ancora al suo inizio, per l’esplorazione –  come dell’ignoto spazio profondo –  così anche dell’ignoto io profondo.

 

Riccardo Accattoli

Riccardo Accattoli è nato a Macerata il 10/11/1993. Si è laureato in medicina e chirurgia ed abilitato alla professione di medico all’università di Perugia, dove sta attualmente svolgendo il suo percorso di specializzazione in Anestesia, rianimazione, terapia intensiva e del dolore.

 

[Photo credit Pawel Czerwinski via Unsplash]

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Nuovi Eden, o di un’estetica dell’attesa

Da studenti di architettura una delle questioni che più si sente ripetere è quella del significato più proprio del progettare: l’architetto non è colui che costruisce ma è colui che indica come farlo. Per questo “progetta”, ovvero pro-iecta cose future (dal latino: pro-iectum, “gettare avanti”). A parer mio l’implicazione più importante del significato etimologico del pro-iectum è che l’architetto è colui il quale, innanzitutto, sa pazientare. In primo luogo, pro-gettare significa dare importanza all’attesa, e la variabile di cui troppo spesso ci si dimentica è il tempo. Difatti, se lancio qualcosa di fronte a me devo come minimo poi darmi il tempo di percorrere lo spazio che ora mi distanzia da essa. La vera implicazione del latinismo in questione è che il progetto è una questione temporale. Il progetto è tempo dell’attesa.

Una delle riflessioni recenti più interessanti a riguardo la fa Byung-Chul Han che, parlando di giardini, afferma: «Rifletto sulla mano del giardiniere. […] È una mano che […] attende, una mano paziente. […] Guarda in lontananza» (B.C. Han, Elogio della terra, 2022).
La mano del giardiniere non ci sembra quindi molto diversa da quella dell’architetto: entrambe sono mani che “guardano in lontananza” e, nel farlo, pazientano. O così dovrebbero. Invece, spesso al giorno d’oggi si guarda al progetto solamente con gli occhi del presente. Il “gettato avanti” del pro-iectum diventa così qualcosa che ci cade sui piedi. Il “tutto-e-subito” è un mantra all’interno dell’odierna società della prestazione, che Han definisce stanca (cfr. B.C. Han, La società della stanchezza, 2010). Siamo troppo stanchi per “gettare avanti”.
Una nuova tendenza si sta però delineando. Date le premesse del riscaldamento globale e dell’avvenuto salto qualitativo nelle sensibilità ambientale ed ecosistemica, l’architettura odierna cerca salvezza. Basti pensare ai progetti per il Porto Vecchio di Trieste di Alfonso Femia (2022), a quello di ingente piantumazione lungo il Boulevard Périphérique di Parigi (2022), alla Liuzhou Forest City di Stefano Boeri (2017). Qui ed ora, nuovi Eden vanno cercandosi – e costruendosi.

Una delle profetiche voci di questa generale riforestazione è quella di Gilles Clément. Agronomo e paesaggista, si autodefinisce “giardiniere” ed è diventato famoso con il suo Manifesto del Terzo paesaggio (2004), oltre che con progetti come il Parc André Citroën di Parigi (1985) [che è foto di copertina di questo articolo]. Più che questo primo testo però, ne ritorna qui utile un altro, il suo Giardini, paesaggio e genio naturale (2012), nel quale ci rende consci dell’importante variazione di paradigma estetico che stiamo attraversando:

«Dobbiamo […] liberarci dell’assurdo contratto […] per cui il paesaggista (o il giardiniere) sareb-
be garante d’un paesaggio definitivo […]. Alla consegna del suo lavoro, il paesaggista sa che il giardino comincia» (G. Clément, Giardino, paesaggio e genio naturale, 2013).

Infine, si chiede: «Nel corso del tempo, cosa diventa la sua forma?» (ibidem).
La domanda che si pone Clément è significativa: nell’odierna inversione gerarchica tra natura e costruito è in corso anche un cambiamento di tipo estetico. Il palcoscenico ruota, e con il litico che passa in secondo piano si prende ora la scena il naturale: viene cioè in primo piano il cangiante, il vivente. Ma che forma possiede questo vivente? Per l’architetto, ciò significa accettare la «natura quale coautrice della sua opera» (ibidem). Attenderla, ed accettare la sua non-staticità ed il suo costante variare.
Clément battezza poi il concetto di “giardino planetario”, un giardino che ha allargato i suoi confini fino a farli coincidere con la superficie del pianeta: ognuno di noi diventa, in questa visione, “giardiniere planetario”, (più) responsabile della nostra comune casa. Architetti inclusi.

***

La mano dell’architetto-a-venire è quindi, molte più volte di quanto non lo sia ora, ferma. Non è un rifiuto del progettare. Invece, è un nuovo approccio al progetto, un nuovo approccio estetico che, più che disciplinare, accetta.
L’architetto-artista del Novecento, che si pone come scaturigine unica del progetto, cede il pennello al nuovo architetto-giardiniere, che lo prende, lo posa, e indugia. Fermo, attende e contempla – il gioco sapiente, a suo modo rigoroso e magnifico della natura nella luce.

 

Tommaso Antiga

 

[Immagine tratta da Google]

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La soggettiva oggettività della bellezza

Quando ci sorprendiamo catturati dallo spettacolo della natura o dai capolavori dell’arte e ci ritroviamo a fissare con uno scatto fotografico la sensazione di piacere che stiamo provando, siamo ben consapevoli di aver preso parte all’esperienza della bellezza. Eppure, se ci chiediamo: che cos’è la bellezza? ci ritroviamo prigionieri di uno strano paradosso; ci rendiamo conto che la bellezza sappiamo riconoscerla, ma non siamo in grado di darne una definizione precisa.
E come ad un bivio, ci si presentano una serie di ulteriori domande nelle quali il pensiero si incaglia: è bello è ciò che è bello oppure bello è ciò che piace? Ovvero, la bellezza è qualcosa di assoluto e oggettivo, che tutti riconosciamo allo tesso modo, oppure è relativa ai gusti personali di ognuno? E ancora: la bellezza risiede nell’oggetto che ci ha riempito gli occhi di stupore, oppure in noi stessi che siamo in grado di percepirla?

Cerchiamo di dipanare questi aut-aut, provando a descrivere cosa succede quando siamo partecipi dell’esperienza della bellezza.

Il filosofo Immanuel Kant, nella sua Critica del giudizio (1790), afferma che «chiamiamo bella una cosa per la sua proprietà di accordarsi col nostro modo di percepirla». In altre parole, diciamo bello quell’oggetto che avvertiamo in perfetta sintonia con il nostro gusto e i nostri canoni estetici.

Tante volte formuliamo giudizi estetici in linea con i nostri gusti personali, come quando, anche conformemente alla moda del momento, consideriamo bello e da noi preferibile, per esempio, un pantalone taglio sigaretta piuttosto che a zampa di elefante, il colore blu piuttosto che il rosso. Questa discrezionalità di scelta ci dimostra che la bellezza ha qualcosa di soggettivo in quanto è vincolata a noi, è condizionata dal nostro modo privato di percepirla e di viverla.
È possibile, però, percepire la bellezza anche in un modo “condiviso” e intersoggettivo, e questo può succedere nel momento in cui si verificano le condizioni per le quali la bellezza ci si mostra come qualcosa di oggettivo e assoluto, ovvero quando «la soddisfazione che determina il giudizio di gusto è disinteressata» (Kant, Critica del giudizio, 1997). In definitiva, quando l’alchimia che si sprigiona tra noi e l’oggetto contemplato non è condizionata dall’interesse materiale nei confronti di quell’oggetto.

Fruiamo della bellezza pura e assoluta quando il piacere estetico non scaturisce da alcuna previsione di utilità, né tanto meno da un principio morale o etico oppure da un’attrattiva o desiderio personali. E ciò si verifica quando, ad esempio, godendo della bellezza di un campo di biondeggianti spighe di grano, non penso al guadagno che ne posso ricavare, oppure quando, giudicando bello il dipinto La libertà che guida il popolo di Delacroix, prescindo dall’ideale etico e morale a cui mi esorta e ne ammiro semplicemente l’armonia, il perfetto e interiore accordo tra tutti gli elementi che lo costituiscono e il mio spirito.
Non è poi raro che, quando estasiata esclamo: “Che bello!” al cospetto della vista de La nascita di Venere di Botticelli, del Colosseo o ancora delle splendide spiagge della costiera amalfitana, mi aspetto di condividere la mia soddisfazione estetica anche con chi mi sta accanto, «pretendo il consenso d’ognuno, come se il piacere fosse oggettivo» (Kant, Critica del giudizio, 1997), come se l’esperienza della bellezza che sto vivendo, sia appunto qualcosa di assoluto, che valga allo stesso modo per tutti.

Allora, se la bellezza ha la capacità di suscitare, allo stesso tempo, uno stato di piacere che è sì privato, ma anche universalmente condivisibile, non si potrebbe definire la contemplazione della bellezza come un’esperienza intersoggettiva o “soggettivamente oggettiva”?
Non è forse vero che, quando ci troviamo in coda con tanti altri, al Louvre, per godere della bellezza del quadro più famoso del mondo, la Gioconda di Leonardo da Vinci, o quando a un concerto veniamo piacevolmente rapiti dall’ascolto del Chiaro di luna di Debussy, proviamo un’affinità con chiunque partecipi con noi al medesimo spettacolo della bellezza?

Il miracolo della bellezza ci fa riscoprire accomunati dal medesimo sentimento estetico e dalla medesima capacità di giudicare la bellezza. E questo succede perché, in realtà, la bellezza che pensiamo di ritrovare nella natura o dell’arte, non è altro che la bellezza che portiamo dentro di noi.
Nulla sarebbe bello se alcun uomo o donna non lo recepisse come tale, non solo perché nessuno si accorgerebbe della bellezza racchiusa, ad esempio, in un bocciolo di rosa che si schiude, ma anche perché quel bocciolo di rosa può essere giudicato bello solo dalla comunità umana, costituita da individui capaci del medesimo sentire e il cui animo è strutturato esattamente come il mio.

 

Maria Buonadonna

 

[Photo credit Léonard Cotte via Unsplash]

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L’uomo dell’assurdo

«Giudicare se la vita valga la pena di essere vissuta è rispondere al quesito fondamentale della filosofia. Il resto – se il mondo abbia tre dimensioni o se lo spirito abbia nove o dodici categorie – viene dopo» (A. Camus, Il mito di Sisifo, 1942).

Così sancisce Albert Camus all’inizio di una delle sue opere più note: Il mito di Sisifo, saggio a metà tra la letteratura e la filosofia con il quale l’autore si confronta con estrema raffinatezza con l’irrazionalismo e l’esistenzialismo, correnti filosofiche che avevano messo in luce la crisi dell’uomo contemporaneo agli albori del Novecento.

Il testo inizia sottoponendo all’attenzione del lettore alcune considerazioni sul tema del suicidio e sul perché esso sia un concetto così ampiamente diffuso tra gli uomini, tanto nella riflessione teorica quanto purtroppo nei loro atti pratici: la scelta che molti individui compiono è indubbiamente tanto complessa quanto netta; non solo perché spesso è dovuta al sottrarsi dell’uomo alla propria razionalità ma anche e soprattutto perché segna un allontanamento definitivo dell’individuo dalla propria condizione esistenziale e dal continuo oscillare del pensiero umano tra la volontà di creare e l’intima consapevolezza della fugacità di tutte le cose.

Ha veramente senso compiere un cammino verso l’esistenza quando in realtà il destino è uno e comune a tutti gli uomini? Qual è il senso della vita se poi essa è destinata a svanire via?

Sono proprio questi gli interrogativi e i sentimenti che secondo Camus caratterizzano l’uomo dell’Assurdo, nel perenne conflitto che colloca l’uomo contro la vita e l’attore contro la propria maschera. Svanita la prospettiva di un’esistenza eterna, infatti, risultano messi in crisi tutti i concetti umani che su di essa trovavano un solido supporto: l’uomo non sa più come comportarsi con il tempo, dato che esso è limitato; non avverte più il fondamento di una morale, che è quindi destinata a dissolversi con la fine della vita umana; infine, sembra non avvertire più l’esistenza di certezze e di verità irrefutabili, rendendo quindi vano ogni sforzo atto a comprendere il mondo o ad attribuirgli un reale significato.

L’uomo sembrerebbe quindi destinato a vivere giorno dopo giorno la stessa punizione che gli dei inflissero a Sisifo, personaggio della mitologia greca che a causa delle proprie astuzie (e quindi del proprio intelletto) fu costretto in eterno a portare lo stesso masso sulla cima di un monte. Svolto il proprio compito, però, ecco che il masso rotolava nuovamente in basso, rinnovando eternamente la punizione e rendendo futile ed irrazionale l’intero processo.

Il paragone tra la figura di Sisifo e quella dell’uomo contemporaneo risulta quindi essere estremamente preciso, non solamente per la nota irrazionale che caratterizza le loro esistenze ma ancor più profondamente per le cause dell’irrazionalità stessa che in entrambi i casi sono riconducibili alla facoltà intellettiva e quindi al pensiero umano: così come Sisifo fu condannato dagli dei per l’utilizzo improprio della propria ragione ecco infatti che l’uomo contemporaneo appare intrinsecamente condannato dal proprio intelletto ad avvertire pungente il senso dell’assurdo e dell’irrazionalità di tutte le cose, che viene percepito ed evidenziato dal pensiero umano e dalla riflessione filosofica.

L’estrema attualità della Filosofia risiede proprio nella sua intima capacità di permettere all’uomo di adattarsi all’assenza di certezze non sottraendogli però la perenne brama di conoscenza e di significato che lo rende tale: uomo nelle proprie fragilità ma anche e soprattutto uomo nella propria capacità di oltrepassarle, mettendosi radicalmente in discussione e ricostruendo tutta la propria esistenza daccapo.

Secondo Camus, infatti, anche Sisifo, ad un certo punto della propria punizione divina nell’Aldilà,  avrà accettato il proprio destino e avrà rifiutato la speranza e gli Dei, abbracciando un universo senza padroni, né sterile né tanto meno futile. Ed ecco che si delinea la prospettiva di un nuovo atteggiamento per l’uomo dell’Assurdo: essere fedele al processo, a se stesso e a quella che Nietzsche chiamava la propria fiamma. D’altronde, «anche la lotta per la cima basta a riempire il cuore di un uomo» (ibidem).

 

Gabriele Iacono

 

[Photo credit Grag Rakozy via Unsplash]

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