Alla scoperta di me

Avevo 14 anni quando, varcando le porte il primo giorno di liceo, mi prefissai degli obiettivi promettendo a me stessa di non mancarli, mai, qualsiasi sarebbe stato il costo dei sacrifici necessari per giungervi.

Non mi sono mai fermata, nemmeno un secondo, neanche un attimo, un Natale o un Capodanno… neanche il giorno della laurea il cervello ha fatto pit stop; non era necessario.
Non ho goduto nessun momento degli ultimi dieci anni, troppo proiettata verso il domani, troppo concentrata sulla corsa che, estenuantemente, mi stava conducendo a tagliare il mio traguardo.

E le stagioni mi sono scivolate tra le mani, tempo non vissuto che, come sabbia, passa tra le dita lasciando solo alcuni granelli a ricordare ciò che è stato perso nell’impossibilità di riaverlo.

Così, persa nei meandri di un piano strutturato verticalmente e rigidamente costruito anno dopo anno, mi sono fermata, bloccata dalle mie pretese verso me stessa per il raggiungimento di uno stato di perfezione totale, e mi sono
scoperta spaesata; realizzata certo, ma spaesata.
Abitante di una città da me fondata della quale non mi sento cittadina.

Ho camminato per giorni, viaggiatrice di me stessa, bramosa di entrarne a far parte fino a quando, satura, stanca, mi sedetti sulla cima della torre dell’orologio… e mentre le lancette scandivano incessanti minuti di un’alba
nuova, inclinando la testa per scorgere l’orizzonte, ho visto arrivare verso di me tutti quei macigni e fardelli che, durante la mia corsa, avevo scansato, evitato, saltato e ignorato. Mi hanno raggiunta, e io sono totalmente impreparata ad affrontare i resti di una montagna che credevo crollata alle mie spalle…

Mi sono chiesta più e più volte i perché intrinseci di tutto ciò: del mio non fermarmi mai, della mia determinazione che non prevede limiti.
Determinata fino al limite della sconsideratezza.
Determinata a raggiungere la perfezione.
Determinata ad essere, non ad apparire.

La determinazione mi ha spinta verso un desiderio profondo, quasi subdolo e ingannevole, di voler primeggiare, con il solo scopo di non sentirmi sbagliata.

Solo oggi ne prendo coscienza, mentre, con le mani tremanti e gli occhi carichi di lacrime, sollevo macigno dopo macigno, leggendo attentamente tutte le domande incise sopra, domande a cui credevo di poter non dare risposta, a cui ora DEVO dare risposta.

E la piccola me non crede di essere pronta ad ascoltare se stessa, spaventata dall’incessante ricerca di scrivere finalmente la conclusione a quel lungo libro che è stata la mia vita PRIMA, in attesa trepidante di vedere cosa ci sarà dopo.

Nicole Della Pietà

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Io sono abbastanza

“Io sono abbastanza.”

Me lo devo ripetere infinite volte, quasi a svestire le parole stesse del loro più intimo significato, per convincermi, per capire, per regalarmi possibilità che ho negato a me stessa, nella distorta visione di non valere, di essere insignificante.

“Io sono abbastanza.”

Devo sussurrarlo piano nella mente, una cantilena che accompagna le notti estive, irrigate dalle lacrime che la paura di aver coraggio di buttarsi porta con sé.

Io sono abbastanza per poter sorridere, per poter consapevolmente scegliere di percorrere la strada che più mi rende felice… perché ognuno di noi, in fondo, sa esattamente quale sia il percorso da compiere per giungere al sorriso che culla i sonni. Tuttavia, il lavoro interiore da compiere per “autorizzare” il proprio io a travalicare il confine è estenuante, logorante, distrugge ciò che era, quasi a sottoporre l’individuo ad una prova pratica: se dalla distruzione riuscirà a ricavare nuova vita, la linea di mezzo si dissolverà, lasciando spazio alla serenità.

Perché quando tutto va male, quando la montagna inizia a crollare macigno dopo macigno e il tuo corpo cade nel vuoto, la mente corre a ritroso, cercando di individuare il passo falso che ha smosso il primo, minuscolo, insignificante sassolino… e gli errori non potrebbero apparire più nitidi, come pugnalate sferrate con foga dal rimorso che per anni ha divorato l’animo, sussurrando incessantemente che non sono abbastanza, che ho meritato ogni taglio, ogni graffio, ogni lacrima…

Rincorro la perfezione, perché il minimo segno e gesto di approvazione mi danno l’attimo di orgoglio e tranquillità per poter credere di valere; ma il velo si scosta, la realtà è come il vento del nord, forte e fermo, in grado di spazzare via le difese e le maschere che celano e, molte volte, proteggono fragilità.

E l’ultimo millimetro, mi separa dal terreno, dall’inevitabile distruzione di ciò che è stato.

Dentro di me urlo, urlo che ne vale la pena, che trasformare i resti di me in qualcosa di nuovo è giusto, perché io “sono abbastanza”… Lo urlo, ma non sento.

Me lo chiedo, se ciò che credo possa essere, se l’aver preso la mia vita, averla distrutta e ricomposta sotto nuova forma, è stata la scelta giusta per me, se il sorriso di oggi sarà anche domani presente… se tutto ciò è realtà, verità… o se è solo inganno della mente… se è solo nebbia tra gli alberi di montagna dopo il temporale: destinato a svanire, quasi a non esserci mai stato.

Nicole Della Pietà

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Il subconscio trae in inganno, i sensi cadono in fallo, la mente corre

Sono giorni che sento il tuo profumo, lo stesso che ti nebulizzavi sui vestiti e sulle lenzuola prima di andare a dormire… e oggi è così penetrante, tanto da farmi scorgere tra le mille vie della mente il maglione lilla e bianco. E’ come se la nostra città, il nostro mondo, fossero annebbiati… quasi la rabbia superficiale che nutro per tutto ciò che è accaduto fosse diventata patina spessa, che si insinua tra me e te.

È difficile riuscire a comprendere ciò che sento per te, in superficie la rabbia opacizza ogni cosa, nel profondo, cercando di andare oltre a quei sentimenti alimentati dall’impulso; ti auguro il meglio, perché meriti la felicità, ma la felicità vera, la più alta che sia concepibile, la felicità che inebria ogni atomo del proprio sé, l’unica in grado di farti realizzare che ogni sacrificio ne valeva la pena.

Solo che un figlio può divenire sacrificio? Ognuno di noi usa scusanti, perché entrambe sappiamo che per molto tempo hai ingannato gli altri, e soprattutto te stessa. Hai vissuto in un mondo che mai comprenderò, di cui, forse, mai vorrò nemmeno spiegazione, perché talvolta la conoscenza delle ragioni reali che sottostanno ad azioni e decisioni incomprensibili, destabilizza molto più che l’ignoranza che ha condotto a quello strano e paradossale susseguirsi di eventi, quello che ci ha condotte ad un oggi che mai io avrei potuto immaginare.

Divenire sconosciute.

E tu per me non eri solo mia madre, tu eri la mia migliore amica, il mio sorriso sulle labbra, la mia coccola della sera, il mio buongiorno… il mio canto in macchina, la mia risata, la mia complice in un mondo così ostile…

E si, mi manchi. Mi manca ogni cosa di quei nostri vent’anni, mi manca la nostra silenziosa colazione, il tuo allungare la mano sul tavolo per trovare la mia; mi mancano quei nomi sciocchi, i nostri segreti; mi manca appoggiarmi a te e prenderti in giro; mi manca la mia mamma

Mi manca la donna che per 20 anni ho avuto accanto, che da un po’ di tempo non trovo più, mi manca la donna che tu tanto hai rinnegato; mi manca ciò che eravamo noi, ciò che tu non hai più voluto…

Per quanto, forse dovuto alla giovane età, forse solo dettato dalla volontà di conservare un po’ di quel tempo in cui le mie lacrime ricadevano sul tuo animo e tu le asciugavi, portandole lontano dal mio cuore, vorrei continuare a piangere, sperando di rivederti un giorno tornare da me, io ti ho lasciata andare…

“Se ami qualcuno, rendilo libero”.

Sei libera… e non perché io mi sono arrogata il diritto di concederti tale cosa, non potrei mai, ma perché, in cuor mio, ho compreso come ciò che mi hai dato, l’amore che hai emanato ad ogni battito per 20 anni, mi basti per il resto di ciò che sarà.

Non so come sarà quest’anno, la festa della mamma, lo devo confessare. Forse camminerò senza meta, persa tra la folla in modo che la nostalgia non si nutra di tutto l’animo; forse tornerò nei nostri posti, forse sarò pronta a sorridere, consapevole che ogni accadimento ha un suo perché, consapevole che il nostro non essere più noi ha un perché.

So che leggerai, so che vorrai dirmi qualcosa, forse per sentirti un po’ meglio, forse per dirmi che tu non te ne sei andata, ma noi lo sappiamo, mamma, che non è così. Non sto parlando alla genitrice che oggi sei, ma alla mamma che ieri eri.

Sto parlando all’unica persona in grado di capirmi, di riuscire a camminare tra le fila del mio gomito emotivo. Parlo a te – e sai, devo ringraziarti molto più per gli ultimi anni, perché se fossi rimasta, forse la sera, cullata dal tuo amore, avrei chiuso gli occhi al posto di combattere per i miei desideri. Ti ringrazio, per essere stata, in ogni caso, indicazione della via.

Questi anni mi hanno insegnato molto: mi hanno insegnato a conoscermi, a valutare i miei limiti, la forza derivante dalla determinazione, il grado di tolleranza del dolore… E lo devo unicamente a te, all’effetto domino che hai scatenato con un respiro, con un soffio che è stato in grado di abbattere ogni mia difesa, rivelando, però, un percorso molto più vero e valido rispetto a quello che stavamo percorrendo insieme.

Quanto è strana la vita vero? Credevo che a legarci fosse un filo di diamante, indistruttibile: oggi ho compreso che era solo nylon.

Quindi auguri, alla mia mamma, se mai da qualche parte uno spiraglio di lei è rimasto… E auguri a te, che mi hai dato la forza di affrontare il dolore, di non aver paura se alle mie spalle non c’è nessuno pronto a prendermi in caso di caduta. Auguri a te che mi hai insegnato che non importa da dove si arriva, importa dove si va e come si percorre la strada, e anche se il mio sarà parzialmente un pellegrinaggio in solitaria, ad un certo punto della via so che davanti a me ci sarà un qualcuno, un qualcuno che difenderò sempre, che proteggerò e afferrerò nelle cadute… e forse, anche se è un bel forse, mi avvicinerò alla conoscenza di tutti i perché ti hanno spinta lontana da me.

Nicole della Pietà

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Lettera ad un uomo che mi ha cresciuto.

“Il tempo è labile…il confine tra ieri e oggi è così sottile…un filo, pronto a spezzarsi alla prima brezza di vento del Nord..e si ricade indietro, incoscienti del momento che si vive…di dove si è…se è la realtà o solamente ricordi troppo vividi per essere riposti nel proprio spazio di quello scaffale immenso chiamato memoria…

Sto correndo verso il cordless…quell’azzurro fastidioso è davanti ai miei occhi, mentre lascio il telefono e la prima lacrima marchia il mio viso indelebilmente.

Prendo la mano di mia sorella, ci sediamo accanto al tuo letto e ci stringiamo la mano, fino a lasciar i segni delle unghie l’una sulla mano dell’altra, consapevoli che è realtà, è successo, sei morto.

Ripercorro la vita insieme, tu con la settimana enigmistica, tu che la mollica del pane la riducevi in piccole palline per gli uccellini…le tue polo e i tuoi pantaloncini…il tuo guardarci quando il pomeriggio correvamo in bici per tutto il cortile…

Dopo la tua scomparsa, ho ritrovato per mesi le barrette di cioccolato che, di nascosto da mamma e papà, mi regalavi…però, è strano sai, non le ho mangiate…

Ho talmente tante storie da raccontare di te, di quanto eri rompiscatole, amorevolmente rompiscatole..

Ma come si può raccontare la straordinaria anima di un uomo in poche righe? Come si può descrivere il tuo essere padre per noi, in uno spazio così ridotto?

Ho deciso di non raccontare ieri, ma oggi…oggi, dopo 10 anni, non avrei immaginato potessi mancarmi più di ieri.

Dopo dieci anni, vorrei averti qui, per riuscire a renderti fiero di me, per dimostrarti che quell’amore non è andato sprecato, che tutto quello che i tuoi immensi occhi mi hanno insegnato, giorno dopo giorno, è rimasto con me…perché tu sei il buono che mi porto dentro.

Per mesi, anni, dopo la tua morte, ho aspettato che tu tornassi, che aprissi la porta di casa, ti ho sognato e pianto così tanto da logorarmi dentro, da non poter credere di riuscire a sopravvivere senza di te.

Per quanto cerchi di negarlo a me stessa, ti vedo. Apro la porta e sei ancora seduto al tuo posto, con le gambe accavallate, ti volti e mi chiedi se tutto è andato bene oggi.

La parte più dura dell’andarmene è stata la consapevolezza che non ti avrei più visto…e ho paura sai? Di non riuscire più a ricordare le tue mani, quel sorriso che se chiudo gli occhi brilla nella mente, quel tuo accavallare le gambe a letto…le notti passate abbracciata a te…il tuo ultimo sguardo..il tuo odore…e allora corro e spezzo il filo, corro da te, per vivere ancora noi…

Marzo non è la primavera, marzo è il buco nero che ti ha portato via.

Sono stata per molti versi sfortunata, ma se rifletto un istante in più, mi rendo conto che nulla importa, io ho avuto te come padre per i primi 14 anni della mia vita, tutto il resto scivola via, incapace di intattare il ricordo di te.

Quando la notte ho paura, guardo la tua foto sul mio comodino.

Mi interrogo su quanto l’amore possa far male…quanto distaccarsi permanentemente da chi ami possa essere in grado di sgretolare l’animo a tal punto da non poterlo ricomporre.

Nel corso del tempo, ho compreso che ci sono diversi modi di soffrire…perché si è vittime di abusi, perché l’indipendenza ha un prezzo molto diverso da quello stabilito dall’economia, perché la forza costa caro, anche se nessuno lo dirà mai…

La sofferenza più grande, tuttavia, é quella a cui non si può porre rimedio…che bisogna inevitabilmente accettare.

Tutto ha un tempo e un modo…io allo step dell’accettazione devo ancora arrivare, vagante nei meandri della mente che custodiscono te…

È questo è l’unico modo che ho trovato consono per sopravviverti ogni giorno.

Sembra strano, perché ancora ora, dopo 10 anni, inconsciamente mi ritrovo davanti alla camera d’ospedale in cui eri ricoverato, prima di ricordarmi che non ci sei più.

Al cimitero non riesco a realizzare che l’uomo che mi ha cresciuta non sia più con me.

Uno dei motivi per cui le persone ci mancano è perché abbiamo dei rimpianti…beh, tu sei l’unica parte della mia vita, del mio IO, che non porta con sè rimpianti o rimorsi.

Mi hai insegnato ad amare davvero, vivendo qui ed ora, assaporando ogni attimo che ci viene regalato, senza riserve, senza paure.

Le lacrime continueranno a scorrere, non lo posso negare, ma il più delle volte il ricordo di te dà vita al sorriso più puro che mai potrò avere…il sorriso con il quale mi hai lasciata, il sorriso con il quale mi alzo la mattina, un sorriso che mi fa amare la vita, malgrado le difficoltà…quel sorriso che mi ha fatto amare te ieri, che mi fa amare te oggi, che mi farà amare te per il resto della mia vita.”

Al miglior uomo, padre e nonno che potessi avere, all’unico amore che mi fa sentire al sicuro in ogni istante, all’unico uomo al quale apparterò per sempre, nel quale mi riconoscerò, il quale sarà il mio porto sicuro, malgrado gli occhi non lo possano più scorgere tra la folla.

Lui sarà accanto a me, passo dopo passo.

Nicole Della Pietà 

 

Il limite sottile tra ‘normale’ e ‘tradizionale’ – Family Day

Essere genitori non è un diritto né un dovere. Essere genitori è il più grande privilegio destinato all’uomo..e questo, in particolare, è legato alla presenza d’amore e volontà, di forza e tenacia, un pizzico di follia e spirito di sacrificio, ma sicuramente essere genitori prescinde dalla sessualità di una persona.

“Family day”

Una scritta, un niente che porta con sé immensità di implicazioni.

Avrei voluto crescere con la famiglia perfetta, dove la mattina di Natale si corre sotto l’albero, dove i genitori si guardano complici, dove un abbraccio viene sempre prima di ogni cosa, dove l’amore si respira nell’aria.

Non è forse questa l’idea alla base di questa giornata?

La famiglia perfetta, quella della pubblicità della Mulino bianco.

Beh, volete la verità? Di famiglie così ce ne sono poche, troppo poche purtroppo, ma, come ribadisco sempre, l’apparenza conta molto di più della verità, in questa società.

Sono imposizioni implicite…tutti devono apparire sereni, felici, nessuno dovrà mai capire che le espressioni indossate mascherano realtà atroci.

Si è “costretti” a vergognarsi dei soprusi subiti, a vergognarsi della propria realtà…mi sono state rivolte tante accuse, nel momento esatto in cui ho deciso di non acconsentire e liberarmi da quella gabbia di bugie e odio, qualcuno mi disse di dover tacere, altri non mi hanno creduta, perché i loro sorrisi sono sempre stati più facili da accettare.

Ho iniziato a vergognarmi d’aver avuto il coraggio, la forza, di essermi asciugata le lacrime da sola….

Con gli anni ho compreso che la famiglia non è necessariamente e obbligatoriamente il nucleo parentale in cui si nasce.

Un legame sanguigno non potrà mai vincolare le persone ad amarsi, per quanto tale verità possa turbare la mente di chi ha vedute troppo ristrette per accettare che non tutto ciò che si scorge è rappresentativo della realtà dei fatti.

Mi hanno sempre insegnato a dire che la mia famiglia era meravigliosa, che eravamo felici, ma solo noi sapevamo cosa accadeva la notte.

Solo io so cosa voglia dire trovarsi soli, perché i propri genitori hanno deciso che quelle mura, che hanno costituito una galera, fossero l’unico vero collante tra noi.

La famiglia è una scelta.

Io la mia scelta l’ho compiuta, quando ho compreso che coloro che mi hanno concepita non erano, nel vero senso della parola e non in quello che riporta un dizionario, i miei genitori.

Una donna a me molto cara mi ha sempre ribadito come i genitori non potessero scegliere i figli, ma come la situazione fosse analoga dall’altra parte.

La famiglia, la casa, sono sentimenti…sono quelle sensazioni che liberano le tensioni quando le braccia di chi ami ti stringono, sono quelle lacrime asciugate amorevolmente malgrado gli errori, sono là segnaletica che ti indica la retta via senza presunzione, sono la condivisione di ogni lato del proprio sé, senza paure né riserve.

La mia famiglia l’ho trovata negli amici di sempre, che malgrado i litigi sono qua con me, in ogni istante…la mia famiglia l’ho scoperta in due signori incontrati in spiaggia per caso che mi hanno protetta e accolta, dandomi gli strumenti per comprendermi ed amarmi…la mia famiglia si presenta davanti la porta ogni volta che giro nella toppa le chiavi e vedo un cumulo di pelo che scodinzola e mi guarda con un amore infinito…amore lo sento accanto a coloro che scelgono di stare accanto a me, perché la vita insieme è più bella…amore che non ho mai potuto scorgere negli occhi dei miei genitori.

L’amore non può essere standardizzato da una serie di stereotipi che la storicità e la propria società impongono.

Lo ammetto, io avrei voluto una famiglia da sempre, sulla quale contare in ogni istante…ma una famiglia normale, per me, per coloro che non hanno avuto il privilegio immenso di averla, non significa avere la presenza di una mamma e di un papà necessariamente.

Avrei preferito mille volte due mamme, due papà, piuttosto che non sentire mai sulla pelle nemmeno un sospiro d’amore.

Avrei desiderato mille volte mangiare con due mamme o due papà, ma non auguro a nessuno di non poter cenare con il proprio padre per 20 anni “perché lui non ha voglia di sedersi a tavola” e predilige a te una serie TV guardata in soggiorno mangiando col vassoio.

Avrei voluto…avrei desiderato mille cose…vorrei, adesso, che la famiglia fosse considerata un luogo dove dei bambini possano sentirsi amati, sempre, e non additati come l’errore che incatena due persone.

La vera famiglia non ha bisogno di una giornata, è l’amore quotidiano che rende possibile festeggiare ed essere grati.

Vorrei che qualcuno lo spiegasse a queste persone, quanto fa male sentirsi esclusi da un insieme così importante, unicamente perché per noi TRADIZIONALE non vuol dire NORMALE.

Nicole Della Pietà

Ciò che era (cosa sarà?)

Non esiste un libretto di istruzioni, ho provato a cercarlo, ho controllato ovunque ma non vi è traccia di nessun manuale che ti spieghi come gestire il dopo.
Mi è sempre piaciuto studiare, leggere, imparare, interiorizzare, fare propria la scienza di altri, trasformarla, renderla strumento di vita ma io lo strumento per questa vita, per questa nuova esistenza, non so dove poterlo trovare.

 
È un vortice inarrestabile di pensieri, di sorrisi interrotti da pianti isterici, di gioia e solitudine mista a malinconia; non capisco più chi sono e dove sto andando, non vedo più il sentiero, quasi la foschia autunnale si facesse sempre più fitta, ostruendo la visuale, perché, mio malgrado, tutto quello da cui sono scappata, è parte della persona che sono. Quel dolore, quello squallore emotivo sono ciò da cui io sono nata, come potrei non portarne traccia dentro me? come posso convivere con la consapevolezza che nonostante ciò che potrò fare, nulla cambierà una realtà che mi ha terrorizzata così a lungo da non farmi dormire di notte?
Non è facile da scrivere, perché le parole scritte su un foglio restano, indelebili; ammettere che, per quanto io abbia sempre lottato strenuamente per essere il più diversa possibile da loro, mi porterò sempre dentro tutti quegli accadimenti, fa male.

 
Fa male rendersi conto che non passerà mai, che, senza chiedere permesso, i ricordi riaffioreranno all’improvviso, per trascinarti per l’ennesima volta verso la voragine e le unghie sono sporche di terra, sto provando ad aggrapparmi a quell’ultimo ramo spoglio e temo che la mia mano possa non sopportare il mio peso.
Sono sempre fuggita da una realtà che aggrediva la mia interiorità, ma adesso? Ora che la corsa è finita tutto ciò che è stato cos’è destinato a diventare? Quel pesantissimo “bagaglio emotivo” di cui in tanti parlano lo dovrò portare con me per sempre?
Perché di questo si tratta: di riuscire a prendere il peggio della vita, della propria esistenza, della propria persona, farlo evolvere in uno strumento in grado di sintetizzare tutto ciò che nella sua interezza ferisce e logora.
Non è facile riniziare, il lavoro interiore che un individuo deve compiere con estrema meticolosità è lungo e restare in piedi, senza farsi travolgere è ancora più complicato.

 
Perché nessuno spiega come potersi lasciare alle spalle la sofferenza e guardare al domani col sorriso, nessuno sarà mai in grado di fornire delle spiegazioni alla moltitudine di emozioni che travolgono, togliendo il respiro.
Ho sempre saputo chi non volevo essere, dove non avrei mai voluto stare, a chi non avrei voluto somigliare, lotto contro me stessa per ricacciare quei tratti delle loro personalità che sono insiti in me, e non potrebbe essere altrimenti, anche se tutti vogliono far credere il contrario, purtroppo essere figli implica inevitabilmente l’accettazione di dover convivere con quella somiglianza e forse è questo il punto cruciale.
Lotto per non essere, fermarmi un secondo a riflettere su chi sono davvero, quale sia la mia reale natura.

“Il fiore che sboccia nelle avversità è il più bello e il più raro di tutti.”
​​​​​​Mulan

Solo che adesso le domande affollano la mente e forse devo solo lasciarle crescere, sperando che possano tramutarsi in un qualcosa che possa darmi la serenità, un qualcosa che mi dia il coraggio di pazientare l’arrivo del mattino e il diradarsi della nebbia, per poter finalmente lasciarmi incantare dalla vista di quell’unico fiore in mezzo al campo arido, quel fiore che è stato in grado di vivere laddove vita pura non ve ne è mai stata.

Nicole Della Pietà

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Violenza: il coraggio di ritornare a vivere

Sono cresciuta nell’illusione che lo sbagliato fosse giusto, che il male fosse il bene. Sono stata cresciuta a cereali e ipocrisia, a latte e menzogne. Sono stata educata ai mille sotterfugi, alle mezze verità, all’amore per profitto, alla comodità…sono stata cresciuta da persone per le quali una bella maglia possedeva più valore di un bell’animo.
Ognuno di noi, o quasi, avrà da raccontare qualcosa di celato, quel “non dirlo a nessuno”, quello scheletro che non riesce più a restare nell’armadio.
Mi sono sempre piaciute le metafore, i paragoni, potevo immaginare la mia realtà “come se…” E forse il mio vivere in un mondo parallelo mi ha salvata: sono stata io o qualcos’altro a salvarmi? Ancora oggi non lo capisco.

“In un mondo altamente improbabile, ciò che è altamente improbabile, è probabile quanto ogni altra cosa.”

Si creano meccanismi di difesa, il mio è questo: ho creato centinaia di mondi paralleli, ho vissuto con i ragazzi della 56esima strada, ho ascoltato Jack frusciante, per poi farmi cullare dalla Niebla di Unamuno. Ho percorso centinaia di chilometri attraverso i parchi del Trinity College con Wilde, ho vissuto la maestosità della solitudine con Rilke.
Questo sognare mi ha dato la forza di costruire le mie ali, copiando Icaro, ma con la consapevolezza di un Sole in grado di scioglierle. Ho atteso, sorriso, acconsentito, ho messo in un cassetto me stessa, ho custodito la sensibilità e la forza lontano da fonti di odio, debolezza, rancore e malattia dell’animo, perché, troppo spaventata dall’oggi, sono stata lungimirante e ho corso a perdi fiato fino al domani.

Nel varcare la soglia con l’ultima sacca di fortuna contenente gli ultimi calzini, ho rivissuto tutto ciò che mi ha condotta a quel passo, a quell’ ultimo gradino; a quel l’addio, addio alle mura background di mille viaggi, ai ricordi del nonno, alle mie mattine con la mamma, alla saga del “Padrino” vista mille volte con papà, a quel cantare a squarciagola con mia sorella, due spazzole in mano e io e lei come Emma e la Halliwell.
Quei pochi attimi di felicità, li ho lasciati, insieme alla paura, all’insicurezza, alla poca autostima, al sentirmi un fallimento, a sentirmi il più grande errore dei miei genitori, ho lasciato il bene e il male di un ventennio irrorato da lacrime, nutrito di sentimenti talmente bassi da non poter essere nemmeno afferrati, perché troppo viscidi per esser colti.

Un mese.

Il primo mese di VITA.
La mia casa, la mia luce del mattino, il mio addormentarmi senza paure, il mio piangere dalla felicità perché posso girare la chiave nella toppa e trovare solo la mia Brooki, che mi aspetta per amarmi.

E non ho mai respirato davvero, non fino ad oggi.

Non abbiate paura, non fatevi schiacciare, fate sì che ogni goccia di sudore nasca sulla vostra fronte per una motivazione in grado di darvi la gioia della vita.

Coloro che dicono che non importa quanto sia lungo il cammino, ma come lo si intraprende, non possono essere più in fallo.
Importa eccome quanto sarà lunga la sofferenza, quanto l’animo dovrà subire, quanta forza si dovrà aver per rialzarsi ogni singola volta che vorranno la tua caduta, importa ma nulla varrà di più di tutto ciò che vi aspetterà dopo, quando riuscirete a varcare la soglia.

L’inferno è il paradiso esistono, sono qui e ora, il punto di partenza non è mai una scelta, ma l’arrivo (e la salita è appena iniziata) è una decisione che solo noi possiamo prendere.

IODICOBASTA.ETU?

Nicole Della Pietà

Volata via.

Quando mi ha detto che te ne saresti andata, che le metastasi erano ovunque, ho sentito lo stomaco attorcigliarsi. Ho sentito il terreno cedere e sono caduta.
Non tu, tutti, ma non tu.
Se chiudo gli occhi mi ritrovo ad aprire per la milionesima volta quella porta d’entrata e vedo te, quel sorriso e gli occhi azzurri, quel viso contornato da capelli impeccabili.Mi chiedi ancora una volta se voglio la cioccolata e la risposta non importava, perché me la facevi lo stesso.
Tu, detentrice dei segreti miei e suoi, tu complice, tu mia compagna fidata durante le liti.
Tu.
Non sono stati i primi quattro anni di terapia, non sono stati i pomeriggi a letto per la spossatezza. Credo che a farmi affrontare la realtà agghiacciante del dover accettare di doverti perdere sia stata la parrucca. Non eri tu. In quel momento ho compreso che avrei dovuto far di tutto per farti sapere chi sei stata per me.
Per otto anni ti sei presa cura di me, mi hai regalato una casa dove sentirmi al sicuro, un letto dove poter dormire senza paura, mi hai regalato il più grande amico che avrò mai nella vita, mi hai donato il più prezioso dei sorrisi.
E ancora oggi, ad anni di distanza dal giorno in cui te ne sei andata, mi chiedo perché tale fortuna sia capitata a me.
È vero, sono le persone migliori ad andarsene e io voglio, nel mio piccolo, raccontare quanta meraviglia mi hai mostrato, la vita che mi hai donato.

A me, semplice estranea, capitata per caso per restare con te fino all’ultimo amorevole sguardo d’intesa.
Credo che i tuoi ultimi mesi siano stati i più difficili, non per la malattia, non per noi che abbiamo dovuto accettare di doverti salutare ma per te, quando la sofferenza più grande era percepire il nostro dolore straziante.
Tu eri così, prima pensavi al benessere di chi amavi; per tutto l’arco del tempo trascorso accanto a te, mi hai sempre fatta sentire amata, in ogni caso, senza riserve.
E in quei maledetti due mesi d’estate che ti hanno portata via, la tua preoccupazione siamo rimasti noi: il non poter mangiare in cucina con noi, il dolore nel vedere le nostre lacrime scorrere incessanti, il nostro non riuscire a concepire che qualcosa potesse portarti via per sempre.
Parlare di te è estremamente difficile, perché da quando non ci sei tu quel lettone non è più lo stesso, la cucina non è più la stessa; fa freddo, perché, e lo sappiamo tutti in fondo, il calore eri tu.
Scrivo a te per mostrare al mondo quella piccola parte di te che ho amato con quanta più forza ho avuto. Scrivo a te per raccontare che la forza vuol dire lottare, si, ma anche comprendere quando lasciare la presa.
Tu, la terapia, il tuo correre da me, il tuo prepararmi il pranzo, la cioccolata, il tuo asciugarmi le lacrime e riuscire con un amore infinito a farmi accettare ciò che trovavo ingiusto, il tuo proteggermi.
Ti porterò con me, ovunque andrò, il tuo sguardo, l’amore, la gentilezza, la nobilità del tuo animo, mi accompagneranno.
Mi hai dato parte del buono che dentro mi porto.
Sarai sempre quella farfalla morta sbattendo le ali, che si muovevano per farti giungere a noi.

Un tumore non è unicamente un ammasso di cellule “cattive”. NO. Un tumore è un tornado che spazza via qualsiasi cosa si trovi nel suo raggio distruttivo. Un tumore prosciuga lentamente l’animo, logorando tutti coloro che ne sono coinvolti.
Un tumore è quel parassita che subdolamente priva gli individui della propria esistenza, riducendoli a non riconoscersi, costringendoli, il più delle volte, a lasciare da soli coloro che amano.
Un tumore ti fa conoscere realtà che avresti voluto ignorare, ma ti porta a comprendere che immenso dono possa essere la vita.
Un tumore non è fatto di sorrisi, si nutre di pianti e dolore, di accettazione della morte, dell’attesa massacrante di un addio non voluto, ma che si sa arriverà.
E sono storie di uomini e donne incredibili a far comprender realmente l’entità dei danni causati da un male di questo tipo, tutto il resto è solo l’ennesima bugia raccontata al fine di mascherare l’atrocità delle macerie lasciate dal suo passaggio.

IODICOBASTA.ETU?

Nicole Della Pietà

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Come una fenice

Quando decisi di tornare non immaginavo felicità più grande, ero di nuovo nella mia fortezza, in quella casa scrigno di ricordi preziosi, capace di cullarmi, di farmi addormentare nell’illusione di poter tornare bambina, quando il nonno era ancora con noi, quando tutto, anche se solo in apparenza, prendeva le sembianze della normalità.

 
Per un po’ di mesi è stato così, tutto andava benissimo, tutta la mia quotidianità era racchiusa in un’atmosfera ovattata, un’ immagine distorta che mi era stata declinata come verità assoluta prima impossibile da far emergere.
Credevo di poter aver più tempo, mi illudevo fosse davvero diverso.

 
Ho pensato a volte di essere afflitta dalla “sindrome di Stoccolma” o una di quelle patologie psicologiche inspiegabile….invece ho compreso che credo semplicemente è stupidamente nel genere umano. Ci credo così disperatamente da voler giustificare azioni e parole taglienti come lame e l’ho compreso troppo tardi, perché quella notte, quando la porta si è spalancata e ho sentito lui urlare, ho realizzato che tutto sarebbe tornato come prima, che il mantello dell’invisibilità di Harry era tornato al suo proprietario, rivelando le forme dell’orco che da lì sarebbe solo stato in grado di sgretolarmi tra le sue mani, quasi fossi di argilla essiccata al sole, non trattata; perché quando si è “nudi e crudi”, anime prive di artifici, la possibilità di essere schiacciati dalla malvagità e dalla cattiveria si moltiplicano.

 
Ho dovuto accettarlo, ho dovuto accettare di abbandonare la MIA CASA, i miei ricordi più cari; ho compreso di dover sradicare ogni cosa dal terreno dove per anni tutto è vissuto, per trapiantare in un luogo nuovo, da curare, da fertilizzare, di cui prendersi cura. Un luogo, però, solo mio dove non aver più paura la notte, dove essere libera di essere serena e per alcuni è così scontato da non realizzare quale dono prezioso sia.
Stamattina la luce del sole delle sei batteva sul parabrezza, l’aria entrava furtiva dal finestrino, quasi a volermi accarezzare e io mi sono scoperta sorridere; per quanto possa essere complicata la propria origine, nel momento in cui il cambiamento inizia a prendere forma, la libertà inebria ogni parte di quell’animo ferito e martoriato, le cicatrici resteranno, come righe di un diario, perché ogni lacrima ha condotto alla rinascita intrapresa e va ricordata, custodita, come uno dei tesori più cari che si possiede, perché una rinascita non può non derivare dalla sofferenza vissuta.
Ogni cosa passata resterà, perché ogni evento ha portato con sè effetti positivi.

 
Rilke scrisse di aver pazienza per quanto ancora di irrisolto risiede nelle nostre anime, di guardare alle domande stesse come fossero libri scritti in una lingua straniera, di non cercare risposte che non potrebbero arrivare in quanto non vissute, perché l’essenza della vita risiede nella capacità di vivere tutti i momenti; così ci si avvicinerà, senza nemmeno percepirlo, all’ottenimento di quelle risposte così tanto agoniate quanto evitate per il timore facessero troppo male.
E io, oggi, ho le risposte.

Nicole Della Pietà

[immagine tratta da Google Immagini]

Colpevole

– “Sei forte” –
Continuo a sentirlo dire, continuò a ripetermelo quando, nel cuore della notte, cerco di rannicchiarmi il più stretta possibile, sotto quel lenzuolo così leggero che è diventata la mia armatura.
Io non sono forte, però. Sono debole, forse l’emblema della debolezza. Rifuggo i miei fantasmi, sono sotto il letto, dentro l’armadio, dentro il mio esoscheletro…li lasciò li, perché aprire questo maledetto Vaso di Pandora implicherebbe annientare la poca pace, i pochi posti nel mondo che sono riuscita ad aver e a mantenere incontaminati.
È come un diario di bordo, scrivi per far non perder l’orientamento, al fine di non permettere all’ennesima onda di riempire i tuoi piccoli e affaticati polmoni di acqua…acqua salata, sporca, carica dei detriti di una vita dedita alla produzione incessante di immondizia.
Non sono forte.
Non posso rallentare i pensieri, quelli che si tramutano in colpe. Quegli orridi mostri che ti portano a credere, a un certo punto, di meritare di esser la vittima di accadimenti e comportamenti estremamente deterioranti per l’animo.
Non sono forte perché, malgrado la volontà di fuga e l’impossibilità di attuarla, sono si vittima, ma consapevole.
Non sono forte.
Sono una codarda, anche solo per i mille pensieri che invadono la mia testa, senza chiedere il permesso di essere…nascono, si nutrono di paure…stanno iniziando a pesare, tenere la testa alta è troppo faticoso…e io la sto lasciando cadere, quasi mi fosse stato sfilando quel filo di perle chiamato spina dorsale.
Non sono forte.
Per paura sono dovuta diventare accondiscendente, “si, hai ragione, scusami”. Per paura, ma dentro urlo, strepito, scalcio…colpendo inevitabilmente me stessa.
Sono davanti allo specchio, io non so se ciò che vedo corrisponde alla realtà, ma mi sto chiedendo…se quell’immagine scomparisse, sarebbe il capitolo finale di un libro così macabro?”

È l’altra faccia della medaglia, quella che nessuno è disposto a mostrare, quella sporca, quella raffigurante la sconfitta più totale di un individuo, quella che nei tratti racchiude la storia di chi indossa vesti di colpevolezza, incapace di trovare perché razionale ad una violenza così inarrestabile.
È la rappresentazione di chi, oltre che vittima di violenze psicologiche e fisiche, oltre ai tremori e alla paura, sta nutrendo convinzioni malate sulla propria posizione in una realtà squallida e inaccettabile.

IODICOBASTA. E TU?

Nicole Della Pietà