Tecnologia e terrore

Quando comparvero i primi treni che andavano a ben 80 km all’ora alcuni detrattori dell’utilità di quella tecnologia sostennero che a quella velocità inaudita i passeggeri avrebbero subito gravi danni alla salute, la velocità avrebbe impattato sugli organi interni dei passeggeri portandoli a morte certa. Edison, fermamente contrario alla corrente alternata, arrivò a friggere una povera elefantessa in una orribile esecuzione pubblica. La tecnologia non è né buona né cattiva, dipende dall’uso che ne facciamo: i telefoni cellulari hanno rivoluzionato il nostro modo di vivere in positivo, ma possono anche essere usati per attuare attentati terroristici.

La foto di Mark Zuckerberg al discorso scandito dal palco di Samsung al Mobile World Congress: “La realtà virtuale è la piattaforma del futuro. Cambierà le nostre vite” che sceso dal palco viene immortalato di fronte a una moltitudine di persone dagli occhi coperti da un innovativo dispositivo tecnologico immerse in una realtà virtuale, basta per rievocare orde di neo luddisti pronti a immaginare scenari apocalittici. Facciamo un passo indietro, chi è Ned Ludd? Il luddismo è stato un movimento di protesta operaia sviluppatosi all’inizio del XIX secolo in Inghilterra particolarmente noto per accanirsi contro i macchinari industriali.Ned Ludd, forse una figura mitologica, è descritto come un giovane che nel 1779 avrebbe distrutto un telaio in segno di protesta. Ludd incarna la distruzione delle macchine percepite come nemiche di tutti i lavoratori salariati oppressi dai padroni e sconvolti dalla rivoluzione industriale. Ludd può apparirci come una figura distante, ma è ancora tra noi nella misura in cui ci si approccia alle nuove tecnologie con atteggiamento denigratorio, la storia dell’umanità è piena di esempi di resistenza sociale al mutamento tecnologico.

Intanto bisogna sgomberare il campo da una grande ipocrisia: si cerca spesso di descrivere una tecnolgia in senso negativo come se questo fosse un dato oggettivo, ad esempio la fissione nucleare è un male in sé a prescindere dall’utilizzo che se ne fa, cosa smentita dalla realtà nella misura in cui essa va a beneficio della salute di pazienti malati di gravi patologie. I detrattori della tecnologia sono costretti ad ammettere che la diffidenza verso la novità deriva più da un dato soggettivo, una sorta di nostalgia per le cose com’erano una volta, la manifestazione del desiderio che tutto resti com’ è. La spinta alla conservazione tende ad essere sempre più forte di quella all’innovazione eppure il dato è che il mondo cambia ed è in perenne movimento, esigere che le cose restino statiche significa negare la vita.

Il concetto economico di “decrescita felice” è sensato nella misura in cui parliamo di razionalizzare sprechi e consumi, diventa invece nemesi della vita e utopia nella misura in cui nega la tensione umana al progresso, che è il superamento costante dei propri limiti, motivo per cui siamo stati spinti ad esplorare ogni angolo del nostro pianeta e le stelle. Forse proprio da questa tensione a superarsi l’umanità trarrà un giorno la forza per esplorare lo spazio e fuggire da un sistema solare morente, a lungo termine la tecnologia è l’unica condizione di possibilità della salvezza dell’intero genere umano.

Bisognerebbe riprendere Hegel: la storia dell’umanità è storia del progresso e la soluzione ai problemi derivanti dalla tecnologia non possono che derivare dalla tecnologia stessa e dallo sviluppo della conoscenza scientifica, a patto che dalla dialettica uomo-macchina, sapere umanistico e sapere scientifico si tragga infine una indentificazione nel concetto che essi sono in definitiva la stessa cosa, identificazione tra chi fa quella determinata tecnologia e quella tecnologia stessa.

L’innovazione è l’unica condizione di possibilità dell’essere umano dal momento che guarda sempre al futuro e ne vive la dimensione temporale: ansia, speranza e aspettative fanno parte del nostro modo di vivere il tempo. Il modo in cui l’umanità vive il tempo la rende del tutto diversa dalle altre forme di vita animale e vegetale che conosciamo.

Viviamo in un futuro prossimo in cui uomo e macchina raggiungeranno livelli di simbiosi inauditi e non è certo utopico pensare che un giorno saremo supportati da macchine androidi, possiamo opporci a tutto questo sapendo che accadrà comunque oppure possiamo abbracciare il futuro cercando di guidarlo nel migliore dei modi a partire da un insaziabile desiderio di superarci come individui e come specie?

Matteo Montagner

Difendere il pensiero umanistico: per una grammatica dell’immaginazione

Viviamo in tempi in cui trionfa il pensiero scientifico, cioè il dominio razionale, conscio, ordinato, del pensiero dell’azione. Meglio ancora se il pensiero razionale porta a risultati concreti, bisogna che il sapere sia utile. Basta con il sapere per il sapere, concretezza e immediatezza sono le parole d’ordine; perfino i filosofi per sopravvivere sono diventati consulenti di vita pratica, e quindi anche la Filosofia si piega a offrire consigli per affrontare la quotidianità. Nelle scuole vengono raccomandati corsi che “preparino alla vita” e anche se Einstein diceva “L’immaginazione è molto più importante della conoscenza” nella selezione delle discipline si continua a preferire la conoscenza utile, spendibile nel mondo del lavoro, concreta, naturalmente relegando in secondo piano Letteratura e Arte. Importanti case editrici chiudono collane dedicate alla Poesia,non perché non ci sono più poeti, ma perché nessuno le compra.

Letteratura, Poesia, Arte si stanno estinguendo e con esse una facoltà fondamentale per gli esseri umani: l’immaginazione. Gli insegnanti non dovrebbero limitarsi a insegnare nozioni prefabbricate, oppure i tanto conclamati “metodi” di ricerca, il loro è un compito molto più importante, creativo, cioè devono educare, ovvero “portar fuori” l’allievo, indirizzarlo verso la libertà di pensare e creare, aiutarlo a capire che il futuro è una potenzialità anche per lui a prescindere da ceto sociale e difficoltà della vita, un futuro che ciascuno può immaginare e costruire. Non è detto che i frutti dell’immaginazione debbano essere solo Arte e Poesia: anche le iniziative produttive più nuove sono nate da essa, cioè il saper pensare il futuro che si forgia sulla base della capacità di generare idee originali. Ma coltivare l’immaginazione significa avere del tempo libero davanti, provare desideri per un tempo lungo, desideri importanti, per realizzare i quali è necessario sforzo, riflessione e voglia di mettersi in gioco. Una società in cui ogni desiderio è creato artificialmente, e subito realizzato attraverso l’acquisto, non valorizza l’immaginazione. Una società in cui invece di leggere, ascoltare musica, andare al cinema prevale l’abitudine a dedicare la maggior parte del tempo a giocare sul tablet, a controllare i social e a fare giochetti elettronici non favorisce l’immaginazione.

Solo ciò che si immagina comincia a essere vero, anticipa la realtà, la rende possibile. Si può pensare al futuro solo se abbiamo speranza, fiducia in qualcuno, solo se ci è stata fatta una promessa. I giovani per pensare in modo creativo al futuro hanno bisogno di una promessa da parte degli adulti, i quali promettendo, promettono se stessi, il proprio appoggio, la propria solidarietà, rinnovando così il tradizionale patto tra generazioni che oggi sembra vivere senza un prima, e quindi senza un poi, in un eterno presente. Certo abbiamo conquistato una libertà assoluta da ogni senso di appartenenza, intesa come far parte di una comunità, una famiglia, uno Stato, ma questa tanto ambita libertà ci rende molto fragili, incapaci di immaginare un futuro, soprattutto dal momento che non sappiamo più vivere con calma e felicità il nostro lato contemplativo e riflessivo, l’unica condizione che ci permette di conoscere e ampliare la nostra interiorità, matrice di ogni capacità di immaginazione. Solo approfondendo la nostra vita interiore possiamo orientarci nella vita, scoprire il nostro personale cammino e credere nel futuro, cioè immaginare cosa saremo. E’ nell’immaginazione che ogni cambiamento acquista diritto e possibilità di esistenza. Oggi sembra che a questo vuoto di immaginazione umana, a questa crisi di futuro, si possa rispondere solo in modo utopico e standardizzato riproponendo la canzone Imagine, che viene suonata nelle occasioni in cui si vorrebbe far rivivere la speranza, ma non basta. Per far sperare ci vuole molto di più, ci vuole un addestramento umano, una grammatica dell’immaginazione umana che stiamo perdendo.

Matteo Montagner

L’Italia e la sindrome di Calimero

Ogni Capodanno si ripete la stessa storia: tutti parlano di cambiamento. Ogni anno che si appresta a passare sembra lo spartiacque pronto a segnare un nuovo inizio e in effetti la “fine” dell’anno è un evento carico di un potente valore simbolico. Eppure questo 2016 che si appresta a venire sembra segnato inevitabilmente da due atteggiamenti molto differenti, c’è chi guarda ad esso con maggiore speranza e positività mentre c’è chi in esso non vede che un futuro più fosco.

In Italia l’atteggiamento segnato dall’azione e dalla voglia di mettersi in gioco sembra sempre più scontrarsi con una spinta al lamento, all’inerzia e alla disperazione. Nel nostro Paese si potrebbe parlare per una certa parte della popolazione di una vera e propria “Sindrome di Calimero”, ve lo ricordate il pulcino nero dei cartoni animati che esordiva ad ogni puntata dicendo: “Sono Calimero, sono piccolo e nero”?. Calimero appare per la prima volta nella trasmissione televisiva Carosello, la trama è abbastanza semplice: essendo caduto nella fuliggine il pulcino si sporca e diventa nero, per questo motivo non verrà più riconosciuto dalla madre. Si susseguiranno poi molteplici avventure, nelle quali Calimero verrà sempre colpito negativamente, ma grazie a un noto detersivo torna bianco, lindo e contento. Il vero problema oggi in Italia è che coloro che si sono soffermati troppo a lungo a rotolarsi nella fuliggine sembrano ormai goderne quasi in modo masochistico, d’altra parte sembra ancora distante il trovare un detersivo che “sbianchi” molte persone che sembrano ormai deluse e che si sono votate all’inazione.

La “Sindrome di Calimero” porta in seno il fenomeno ormai ampiamente noto fin dalla mitologia greca della profezia che si autoavvera, in sostanza l’asserzione per cui tutto va male implica in definitiva che le cose vadano davvero così. Esempi noti a tutti sono nella mitologia greca le vicende che investono Edipo, mentre nel teatro inglese vi è la figura di Macbeth.

Per profezia che si autoavvera riprendiamo le parole di Robert K. Merton che introdusse il concetto nel 1948:

“INTENDIAMO PER PROFEZIA CHE SI AUTOAVVERA UNA SUPPOSIZIONE O PROFEZIA CHE PER IL SOLO FATTO DI ESSERE STATA PRONUNCIATA FA REALIZZARE L’AVVENTIMENTO PRESUNTO, ASPETTATO O PREDETTO, CONFERMANDO IN TAL MODO LA PROPRIA VERIDICITA”.

Prendiamo poi il teorema di Thomas:

“SE GLI UOMINI DEFINISCONO CERTE SITUAZIONI COME REALI, ESSE SONO REALI NELLE LORO CONSEGUENZE”

La dinamica che ne consegue è che se le persone si abbandonano al lamento ripetono ossessivamente che le cose non vanno alla fin fine è proprio ciò che accade. L’atteggiamento derivante dalla “Sindrome di Calimero” ha anche profonde ricadute comportamentali e psicologiche: i discorsi sono dominati dalla critica degli altri, si crede di sapere tutto, si indulge sempre sul lato negativo delle questioni, vi è dell’egocentrismo misto a picchi di insicurezza, pessimismo cosmico, si ripete che la vita è sempre uno schifo. La qualità della vita si abbassa notevolmente e si ricade nella spirale dell’invidia che finisce per consumare molto più l’invidioso che l’oggetto dell’invidia, alla fine chi è affetto dalla “sindrome di Calimero” finisce per forgiare negativamente una esistenza priva di stimoli e votata alla rivendicazione.

Se l’Italia nel 2016 sarà dominata per l’ennesima volta da questa “Sindrome di Calimero” non potremo che aspettarci un anno scarno di opportunità e di prospettive perché come in una battuta di un vecchio film “la vita che vuoi è l’unica che avrai”, il rischio è che questi compagni di viaggio lamentosi e per i quali la colpa è sempre degli altri tirino a picco anche coloro che invece guardano all’oggi come a una base sulla quale costruire un domani migliore.

Matteo Montagner

Eroi sotto l’albero

Il vero successo degli ultimi anni è stata la proliferazione di film incentrata sugli eroi dei fumetti e il cinema riprende sempre di più trame e ambientazioni dalle pagine patinate dei fumetti, abbiamo assistito a blockbuster sempre più ambiziosi partendo dal singolo eroe fino alle ammucchiate rappresentate dagli Avengers della Marvel e dall’atteso Batman v Superman: Dawn of Justice.

Gli eroi piaccia o meno, sono lo specchio della società. C’è chi preferisce il solido Tex, chi l’inquietante Dylan Dog, chi è rassicurato da Superman e chi si rivede nell’Uomo Ragno. Ogni stagione ha avuto i suoi eroi, e la nostra non differisce di certo. Gli eroi hanno cresciuto intere generazioni e tanti saranno gli eroi che i bambini troveranno sotto l’albero di Natale.

Tuttavia proprio il Natale ci dovrebbe spingerci a interrogarci criticamente circa la figura dell’eroe. Sembra ormai sfumato il confine tra eroe, martire e santo. In parte è da imputare all’arbitrio con cui soggettivamente attribuiamo l’aggettivo “eroico” a chicchessia. In parte dipende poi da un certo modo non sempre corretto di raccontare la vita dei santi e di figurarcela. Gli eroi e i santi si mescolano nell’immaginario generando una sorta di neopaganesimo dove i piani si confondono e le immagini si sovrappongono creando mosaici difficili da decifrare. I santi non sono eroi, ma umili peccatori. La differenza fra gli eroi e i santi è la testimonianza, l’imitazione di Gesù Cristo che mostra sia necessario che al posto della forza cresca in noi la misericordia e che noi veniamo noi. I santi sacrificano loro stessi per gli altri e porgono l’altra guancia al nemico che li schiaffeggia, gli eroi invece per essere tali hanno sempre bisogno di una nemesi da combattere. Bisognerebbe forse chiedersi se il mondo contemporaneo non abbia un disperato bisogno di santi e di meno eroi viste le guerre che continuano a succedersi nel mondo.

Un altro equivoco è messo bene in luce dal filosofo Silvano Petrosino nel confondere “compimento e successo”. Il santo è la persona compiuta, non è la persona di successo. Sono due realtà diverse. L’eroe persegue un ideale eugenetico: è forte, attraente, affascinante incarna il nostro ideale di bellezza estetica e morale. Ma il compimento assume tratti diversi, tratti modesti: è la povertà di San Francesco. Un uomo che fa il padre di famiglia, che vuole bene alla moglie, fa il calzolaio, guarda la luna e vuole bene ai figli, può essere una persona che ha fatto esperienza di un certo compimento, ma dal punto di vista del successo è un fallito.

La santità è un concetto che in molti rifuggono anche sotto Natale, senza comprendere che al di là della valenza religiosa questo concetto è, o dovrebbe essere, nella vita quotidiana di tutti noi che è per antonomasia la meno eroica secondo determinati cliché. Intorno a noi tutti i giorni ci sono santi nascosti. Pensate a chi offre le proprie energie e il proprio tempo per gli altri. Pensiamo a tante mamme e padri che portano avanti con tanta fatica la loro famiglia, l’educazione quotidiana, il lavoro quotidiano, i problemi, ma sempre con la speranza che domani sia un giorno migliore di oggi.

Dietrich Bonhoeffer nell’imminenza della morte per mano nazista scrisse: “ci rimane soltanto lo stretto sentiero (…) di prendere ogni giornata come se fosse l’ultima e di vivere con fede e senso di responsabilità, come se ci attendesse ancora un gran futuro. (…) L’estremo interrogativo di un uomo responsabile non è come ne vengo fuori con eroismo, bensì come deve continuare a vivere una generazione futura”.

Matteo Montagner

I calvinisti inconsapevoli

I calvinisti inconsapevoli sono tanti, alcuni credono di essere Cattolici Apostolici Romani perché vanno in Chiesa la domenica, altri credono di essere Buddisti perché credono nella reincarnazione, altri ancora si credono atei convinti, invece in tanti, troppi sono dei calvinisti inconsapevoli. Laicamente sono in tanti ad aver abbracciato il calvinismo inserendosi perfettamente nella dottrina protestante anche se ormai laicizzata. Quante volte abbiamo sentito persone fare spallucce o peggio davanti a barconi pieni di esseri umani che si inabissavano alla ricerca di nuova fortuna? Quante volte abbiamo sentito dire “se l’era cercata”? Quante volte abbiamo sentito dire qualcuno, anche vicino a noi, “ma ‘sti qua non potevano stare a casa loro?”?.

Uno dei presupposti fondamentali del calvinismo è che

“Dio ha predestinato dall’eternità chi sarebbe stato oggetto della grazia salvifica indipendentemente da qualsiasi loro merito, per solo Suo insindacabile e giusto beneplacido.”

In questo modo si sancisce che chi ha fortuna è con Dio, chi non ha fortuna in qualche modo si accolla una sorta di “colpa” originaria per cui era inevitabile che fosse così, senza speranza. Consapevoli o meno quando diamo per scontata la sofferenza del prossimo o in qualche modo pensiamo che non ci riguardi in fondo pensiamo che noi abbiamo una qualche sorta di diritto di sentirci superiori, cosa che capita spesso anche rispetto all’orgoglio di essere nati in un posto e non in un altro, una mera questione di longitudine insomma! Che lo sappiate o meno quando pensiamo così siamo tutti d’accordo con il buon Jean Cauvin, Giovanni Calvino un teologo francese scomparso nel 1564

In un articolo del 1864 Charles Dickens, lo straordinario scrittore che raccontò i costi umani del progresso industriale avanzato, lanciò anche questa domanda ai difensori dell’arricchimento a qualunque costo: “L’umanità in genere, la carità più piccola, è sensazionale?” Oggi molti definirebbero Dickens “buonista”, ed è una parola che non vale nemmeno più la pena commentare tanto è insopportabile.

Nell’autunno che sta cambiando l’Europa, con la presa d’atto che le migrazioni enormi ci riguardano ed è meglio governarle che farcene travolgere, abbiamo visto immagini che ci hanno rassicurato sull’esistenza di tante persone buone: i cittadini che in Austria e Germania hanno accolto profughi stanchissimi con applausi, cibo e giocattoli, le centinaia di auto che si sono dirette verso l’Ungheria per accelerare il viaggio di molte famiglie allo stremo, partite dalla Siria o dall’Afghanistan e, in ogni caso, da luoghi dove non si può vivere, l’ex premier socialista dell’Ungheria Ferenc Gyurcsany, che ha accolto in casa famiglie di rifugiati, sfidando l’accusa di anti-patriottismo contenuto in leggi volute dall’attuale primo ministro Viktor Orban.

Non pretendo di dare ricette su come valutare e gestire i fenomeni enormi delle migrazioni sulla Terra, su questo faticano persino quei politici che sono davvero d’alto livello. Nel mio piccolo mi basta la commozione provata nel vedere in azione i buoni sconosciuti. Un termine che ormai si usa poco è “brave persone”. Evidentemente “bravo” sarà meno glamour di “bello”, eppure, tra i miliardi di parole che si scrivono ogni giorno, ci piacerebbe che qualcuno componesse un “elogio alle brave persone”.

Fedor Dostoevskij diceva che la bellezza salverà il mondo, e noi possiamo solo sperare che avesse ragione. Di certo c’è bellezza nella sensibilità verso il dolore degli altri e nella quotidiana, sommessa difesa della bontà. Si pagano prezzi per questo, ma esiste sempre qualcuno che capisce una “sonata per le persone buone”.

Matteo Montagner

Tutti pazzi per Hegel

Che lo sappiate o no, consapevoli o meno siamo tutti pazzi per Hegel, la filosofia hegeliana non è qualcosa di relegato a un passato ottocentesco, ma permea profondamente l’Occidente e ormai, in un mondo globalizzato, l’umanità intera in una unica e semplice idea al di là dello stile spesso complicato del nostro autore: la convinzione che la storia dell’umanità sia segnata dal progresso. Progresso è una parola che porta in seno etimologicamente pro-gradius salire di un livello, insomma per farla semplice l’intera storia di tutti noi sarebbe segnata dal salire una scala verso l’autocoscienza dello Spirito. La Fenomenologia è una enorme narrazione di come la storia proceda e di come l’umanità continui imperterrita nel suo sviluppo. E qui viene l’elemento di forse quella che è una follia, siamo tutti pazzi per Hegel perché di fronte alla popolazione mondiale che aumenta e le risorse che si riducono sempre di più siamo convinti che la storia non sia altro che un enorme sviluppo all’infinito dove ogni contrazione è solo un passaggio per una ulteriore espansione. Ne siamo convinti in economia, nella società a ogni livello pensiamo che la tecnica e l’ingegno umano siano destinate a incrementare il nostro benessere e al portarci ogni giorno un po’ più avanti rispetto al percorso che stiamo percorrendo nella storia di questo pianeta.

Di tutto un altro parere fu Thomas Robert Malthus il quale riteneva che un incremento demografico avrebbe spinto a coltivare terre sempre meno fertili, con conseguente penuria di generi di sussistenza per giungere all’arresto dello sviluppo economico, poiché la popolazione tenderebbe a crescere in progressione geometrica, quindi più velocemente della disponibilità di alimenti, che crescerebbero invece in progressione aritmetica. Questa teoria riferita a terreni coltivabili sembra oggi poco attuale, ma in realtà essa lavora nell’inconscio di teorie come la decrescita e l’esigenza di una maggior sostenibilità dei processi economici e sociali di fronte all’esaurimento di risorse come il carbone prima e il petrolio poi.

La crisi economica che sta investendo il mondo iniziata nel 2007 e che toccò il suo apice nel 2009 ci ha colpiti così profondamente non tanto nella riduzione della nostra possibilità di acquisto di beni, ma ha agito nella nostra psicologia profonda perché ha messo in crisi le nostre aspettative per il futuro e messo in discussione il nostro modo di vivere e di immaginare la società come qualcosa che tende sempre, o quasi, a un miglioramento. La distruzione della fiducia nel futuro e la distruzione della fiducia stessa è per certi versi la messa in crisi della promessa hegeliana del progresso. Tuttavia nemmeno la crisi o le crisi mettono in difficoltà il modello hegeliano del futuro incrementale perché le crisi non mettono in discussione il modello, ma vi sono ricomprese come momenti propedeutici ad altri scatti in avanti dell’umanità e così tanti economisti si sono prodigati nello spiegarci che “la crisi può essere anche una opportunità”.

L’apice della visione di Hegel, o se vogliamo della sua lucida follia, è l’immagine della grande opera nella sfera delle infrastrutture. La popolazione in difficoltà chiede che le risorse vengano ridistribuite invece i governi optano per convogliare quelle risorse in opere infrastrutturali mastodontiche con la promessa che esse restituiranno lustro al Paese, la promessa è sempre sul futuro. Questa logica può essere estesa anche ad altri ambiti, ad esempio perché investire tanto denaro pubblico in ricerca e sviluppo, perché creare il CERN di Ginevra quando nel mondo ci sono ancora così tanti problemi e in molte regioni si muore ancora di fame?

Da questo conseguono i molti movimenti del NO che vanno dalle Grandi Navi a Venezia, alla TAV e ad altri investimenti pubblici a livello infrastrutturale che vengono giudicati assurdi. Hegel cercherebbe di difendersi nella sua idea di sviluppo proponendoci qualche paradosso come “Quanto ci è costato inventare la lavatrice? Fare due pozzi in Africa costava troppo?”, come se un proprietario terriero dell’Ottocento ci dicesse “Cercate di trovare una soluzione alla pellagra nei miei mezzadri, invece di studiare l’elettricità!”, e ancora come se nel mondo antico qualcuno si fosse sollevato al grido “Scrittura..scrittura, ma invece di perdere tempo con queste cose inutili si pensasse a sfamare i poveri!”. Risulta evidente che tutte queste affermazioni sono paradossali e che se parte delle risorse non fossero state destinate allo sviluppo di nuove tecnologie, scrittura in primis, probabilmente l’umanità sarebbe ancora relegata all’età della pietra.

Spingiamo questo discorso fino ai giorni nostri in tema di grandi opere, se quando iniziarono a costruire le prime ferrovie si fosse applicata la stessa logica dei NO TAV gli argomenti avrebbero potuto essere:

 

“Ma perché non miglioriamo il sistema di trasporto con le carrozze a cavalli? Potremmo renderlo più efficiente! Aumentiamo le stazioni posta!”

“Aumentiamo il tiro dei cavalli!”

“Rendiamo le carrozze più confortevoli.”

“Non ci sono sufficienti passeggeri per spendere tanti soldi per costruire una ferrovia!”

Il tutto dimenticando che il miglioramento dei trasporti aumenta il numero di passeggeri e di merci, perché l’investimento infrastrutturale retroagisce anche sui flussi. Ogni balzo tecnologico è un investimento per il futuro esattamente come lo intende Hegel.

 

Ma continuiamo.

“Sul piano economico i cavalli costano meno delle ferrovie!”

“Prima di migliorare ferrovie per i “signori” bisogna migliorare le carrozze a cavalli per il popolo! Perché ad esempio i pendolari tra Venezia e Treviso non hanno sufficienti carrozze a cavalli e sono costretti a muoversi con i muli, quindi prima di pensare alle ferrovie dobbiamo puntare a far viaggiare tutti a cavallo!”

 

Gli ambientalisti dell’epoca avrebbero potuto incalzarci ancora dicendo:

“Perché sconvolgere il paesaggio con questi orribili binari, ponti e stazioni? In più il carbone è inquinante e quindi inciderebbe sulla salute delle persone!”

 

Se avessero avuto la meglio loro oggi non avremo le ferrovie…

 

Forse la maturazione dell’umanità passa proprio attraverso il non indulgere né nell’essere tutti pazzi per Hegel, né nel assolutizzare il monito di Malthus, ma nel cercare di ibridare le due teorie cioè nell’immaginare che si debba tendere al progresso tenendo però ben conto che le risorse disponibili sono finite e non chiedendo all’umanità sforzi insormontabili, ma dosando bene spinta all’innovazione con il benessere dell’esistente. E’ sicuramente più complicato, più difficile, meno immediato del dividersi subito in due squadre tra un Sì e un No che credo rispondano più alla logica binaria delle macchine che a quella dell’intelligenza umana.

 

Matteo Montagner

[immagine tratta da Google Immagini]

 

Good bye Schopenhauer! Scelgo la bellezza

Scrive  Dostoevskij

“La bellezza salverà il mondo”

Ricordo che mio padre stava guidando adagio lungo una strada tra i boschi della Val Badia, in  Trentino Alto Adige, era l’imbrunire. Mentre la macchina, una vecchia FIAT Punto grigia, esce da una curva a tre metri da noi sbuca dal bosco un grande cervo, maestoso e solenne come una musica liturgica senza tempo, le grandi corna che si stagliano contro il cielo. Eravamo tutti immobili al centro della strada. Trattenemmo il respiro, un lungo incrocio di sguardi e senti quella sensazione che Aristotele chiama meraviglia afferrarti. Mi sarebbe piaciuto trattenere quella creatura stupenda con gli occhi mentre rientrava lentamente nella sera nel bosco. Facemmo fatica a ripartire.

Mi è tornato in mente questo incontro ravvicinato con la bellezza riflettendo sul perché riflettiamo su quanto ci circonda e sui misteri del mondo. Spesso la Filosofia tra ‘800 e ‘900 con esponenti che vanno da Leopardi, Schopenhauer a Nietzsche ha dipinto il mondo come un luogo dominato dalla crudeltà al punto da contestare l’esistenza stessa di Dio o della bellezza, ammessa solo come qualcosa di fugace, effimero e destinato al nulla. Eppure la bellezza rinasce ogni giorno nel mondo. Il male ci fa dubitare, ci sembra troppo nel mondo, è feroce, è pazzo: i ragazzi del Kenya come agnelli sgozzati a centinaia; bambini ai quali insegnano a dare la morte con il coltello, mi fanno dubitare; il martirio crescente dei cristiani e di altre confessioni religiose sembra contestare nel contempo l’esistenza di un Padre buono e provvidente tanto quanto l’idea stessa che la bellezza appartenga a questo mondo. Aggiungeteci milioni di persone che non hanno cibo, acqua, casa, amore; il cancro, la corruzione, il cinismo, il nocciolo durissimo dell’apatia, la terra avvelenata per denaro e che avvelena il futuro mi fa dubitare che si possa parlare di bellezza.

Scrive Aristotele nella Metafisica:

Gli uomini, sia nel nostro tempo sia dapprincipio, hanno preso dalla meraviglia lo spunto per filosofare, poiché dapprincipio essi si stupivano dei fenomeni che erano a portata di mano e di cui essi non sapevano rendersi conto, e in un secondo momento, a poco a poco, procedendo in questo stesso modo, si trovarono di fronte a maggiori difficoltà, quali le affezioni della luna e del sole e delle stelle e l’origine dell’universo.

Meraviglia come “sentimento vivo e improvviso di ammirazione, di sorpresa, che si prova nel vedere, udire, conoscere una cosa che sia o appaia nuova, straordinaria, strana o comunque inaspettata”, qualcosa che ci colpisce, ma che non ha sempre una accezione positiva perché la sorpresa può anche suscitare paura e timore, del resto tutta l’esistenza umana è spesso un grosso tentativo di annullare la casualità proteggendoci dall’inaspettato. La Scienza è un enorme dispositivo creato proprio per mettere in “sicurezza” e “controllare” la vita, disinnescare l’inaspettato attraverso l’individuazione di leggi e costanti che garantiscano all’umanità di prevedere ciò che ci attende. Un tempo gli uomini scrutavano il cielo con meraviglia e immaginavano che i cambiamenti atmosferici fossero il frutto dell’azione di divinità antropomorfe, oggi guardiamo i nostri Smart Phone, le previsioni del tempo quando non ci vengono spiegate in televisione. E’ in un certo senso questa nostro esserci messi al riparo dall’imprevedibile, inteso sempre e solo come minaccia e mai come opportunità, ad averci resi meno capaci di cogliere la bellezza del mondo.

Se solo l’umanità si fosse addestrata alla bellezza, all’imprevedibile, ad abbracciare la gratuità di qualcosa di bello come quando una mano viene tesa a chi ne ha bisogno, che mondo meraviglioso sarebbe! Siamo figli e nipoti del nichilismo, coviamo nell’inconscio l’idea che in fondo tutto sia destinato al nulla, figli di Jean-Paul Sartre per cui “l’inferno sono gli altri” fino ad arrivare all’estrema conseguenza che la bellezza non esista e che il mondo in cui viviamo sia già un po’ un inferno. Perché? Perché abbiamo paura e così ci difendiamo dall’imprevedibile, dal malato, dall’anomalo, dal diverso senza capire che rinunciare all’imprevedibilità della vita significa in sostanza rinunciare alla vita stessa, alla meraviglia. Aprirci alla bellezza significa anche discendere negli inferi della storia, nelle catacombe dei fuggiaschi, nei buchi dei dannati della terra, nei barconi degli immigrati che affondano perché anche nell’abbraccio di una madre su una barca dispersa in mezzo al mare che non sa se giungerà mai a riva si annida la bellezza, solo che noi forse non siamo più capaci di vederla, di ascoltarla. Bisognerebbe invece discendere nelle profondità della materia e delle persone, nella vittima e anche nel carnefice, la bellezza come forza di risurrezione, come forza di gravità celeste, come forza di attrazione verso l’alto, l’annuncio che i carnefici non avranno ragione in eterno a patto di non diventarlo noi stessi perché non riusciamo più a scorgere la bellezza che ci attornia in piccoli gesti, in dettagli effimeri come ci racconta Manzoni in “I Promessi Sposi”, una storia di puro male nella quale emerge però la Provvidenza dei piccoli gesti, nelle lacrime inattese dell’Innominato. Il mondo sembra una immensa collina di croci. Certo. E tuttavia è altrettanto certo che nel mezzo dell’oscurità comincia sempre a sbocciare qualcosa di nuovo. Dove la terra è stata spianata vedo spuntare un filo d’erba testardo, e poi un fiore che si impunta, ostinato a fiorire, e poi un prato verde irremovibile. Vedo mucchi di macerie, eppure sulle macerie torna ad apparire un germoglio di vita, ostinata e invincibile. Vedo che la bellezza alza di nuovo ogni giorno il suo stendardo sul mondo. E questo perché? Perché al di là della narrazione nichilistica del mondo la bellezza è all’opera, in silenzio e con piccole cose. La bellezza e la vita riscattano l’entropia del mondo, la vita non è qualcosa che un giorno sarà relegata a un lontano passato, ma una forza che ha penetrato il mondo dell’inanimato, dello statico, del costante e che non riposerà finché non avrà raggiunto l’ultimo ramo dell’Universo e rovesciato la lapide dell’ultima tomba dell’inorganico.

Il mondo combatte per fiorire. L’autunno si avvicina, le foglie degli alberi si ingialliscono eppure una nuova primavera è già annunciata e nuovi fiori verranno alla luce. Scrive padre David Maria Turoldo “E’ Dio che in essi fiorisce / si espande, dilaga / e poi torna a fiorire”. In senso laico potremmo dire che la bellezza è quella forza che fa fiorire il mondo. La Bellezza combatte per farci fiorire; ogni mattino combatte per svegliarci dal sonno del cuore. La bellezza è la sicurezza che guarda bene in faccia le sofferenze del mondo e promette che non va perduta nessuna delle sincere preoccupazioni per gli altri. Non va perduto nessun atto d’amore per chi ne è bisognoso, non va perduta nessuna generosa fatica, non va perduta nessuna dolorosa pazienza. Tutto ciò continuerà a circolare attraverso il mondo come una forza di vita.

Questa è la linfa profonda che scorre nelle arterie del mondo, una corrente di atti buoni, di parole buone, di gesti puliti che hanno la loro sorgente nella bellezza e contribuiscono a rinnovarla. “Io credo in questo tesoro nascosto dentro il vaso di creta e fango del mondo” (2Cor 4,7). La bellezza per chi sa guardarla e crearla intorno a sé produce, in ogni luogo, germi di questo mondo nuovo. Potranno tagliare tutti i germogli, potranno recidere tutti i fiori, ma non potranno impedire alla primavera di tornare. La bellezza non si lascia sgominare, la bellezza non si lascia sconfiggere, non si ritira, ha penetrato la trama nascosta di questa storia del mondo che stiamo costruendo insieme, tutti, nessuno escluso, con i piccoli gesti quotidiani e con le nostre parole.

Good bye Schopenhauer! La bellezza come rivoluzione del mondo.

Matteo Montagner

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Lavoro ergo sum…?!

Le istanze portate avanti dal “diverso” nell’ambito sociale esigono una presa di posizione decisa da parte dei ceti al potere, al fine di non veder rimessa in discussione la globalità istituzionale da essi stabilita.

Il “diverso” pone delle questioni alle quali si deve, che lo si voglia o meno, fornire una risposta; infatti trascurarne i comportamenti e le reazioni equivarrebbe a lasciar crescere a poco a poco dentro il corpo statale un’insoddisfazione crescente, una specie di infezione interna che potrebbe produrre delle corrosioni pericolose.

Meglio quindi porsi positivamente o negativamente nei confronti del “diverso”, ma comunque occuparsene dimostrando di riuscire a far fronte alle proprie responsabilità e allo stesso tempo fingendo un interessamento ed un’apertura mentale considerevole.

Su come la società cerca di prevenire ed eventualmente bloccare il “diverso” Deleuze sottolinea in particolar modo l’oppressione e la repressione esercitate sull’individuo e di contro la forza enorme e il pesante sforzo che all’individuo si richiede per non essere del tutto privato delle sue caratteristiche.

Nello sforzo che l’uomo attua, sostiene Deleuze, egli manifesta la propria volontà ma anche la propria superiorità, l’ostacolo diviene il tramite che pur non volendolo sviluppa la facoltà degli individui.

Di rilievo è il confronto compiuto da Deleuze tra questa teoria nietzscheana e la vita stessa di Nietzsche.

Il potere non ha alcun vantaggio, in situazioni di questo genere, a lasciar sfuggire al proprio controllo degli elementi potenzialmente pericolosi; il rischio di venire accusati di chiusura o di disinteressamento è troppo grande. Ecco allora che l’unica cosa utile da attuarsi nell’immediato è proprio venire incontro, far fronte in qualche modo alle esigenze del “diverso”, facendogli perdere molta della sua carica e d’altro canto non consentendogli di assumersi una sorta di vittimismo, che gli potrebbe far acquisire delle simpatie o almeno una parziale attenzione da parte di altri membri del corpo sociale.

Nel far fronte quindi al “diverso” la società borghese può scegliere a grandi linee tra due possibilità di intervento: “integrazione” ed “emarginazione”. La prima consiste nel tentativo di inglobare nel proprio ambito quanto pare generare critica e deviazione, la seconda consiste nel prendere in esame e considerare nelle radici più profonde la diversità per concludere poi che sia consentito al sociale un estraniare da sé il diverso.

Qualora il potere riesca a sviluppare in pieno una di queste possibilità o entrambe, rivela nella pratica la propria forza e sicurezza; esso palesa, non più solo a livello teorico, la capacità di riuscire a regolamentare oppure ad allontanare senza timore di reazioni l’altro.

L’”integrazione” nel sociale si verifica per i “diversi” in condizione di incoscienza oppure in condizione di abbastanza acuta consapevolezza.

Quando si parla di integrazione il riferimento non può che essere ad uno degli strumenti principali con cui nel sociale si attua la regolamentazione: il lavoro.

In proposito significative sono le affermazioni di Nietzsche:

Il bisogno ci costringe al lavoro, col cui ricavato il bisogno viene acquietato; il continuo ridestarsi dei bisogni ci abitua al lavoro. […]. E’ l’abitudine al lavoro in genere, che ora si fa valere come un nuovo, ulteriore bisogno.”.

Nell’esaltazione del “lavoro”, negli instancabili discorsi sulla “benedizione del lavoro” vedo la stessa riposta intenzione che si nasconde nella lode delle azioni impersonali di comune utilità: la paura, cioè, di ogni realtà individuale. […] il lavoro come tale costituisce la migliore polizia e tiene ciascuno a freno e riesce ad impedire validamente il potenziarsi della ragione, della cupidità, del desiderio di indipendenza. Esso logora straordinariamente una gran quantità d’energia nervosa e la sottrae al riflettere, allo scervellarsi, al sognare, al preoccuparsi, all’amare, all’odiare; esso si pone sempre sott’occhio un piccolo obiettivo e procura lievi e regolari appagamenti.

Altri riferimenti di Nietzsche al lavoro sono contenuti in

La gaia scienza:

Esistono però uomini rari che preferiscono morire piuttosto che mettersi a fare un lavoro senza piacere di lavorare.

Lavoro degli schiavi! Lavoro dei liberi! Il primo è ogni lavoro che non viene fatto per noi stessi e che non ha in sé alcun appagamento.

Frammenti postumi (1887-1888):

“Eccesso di lavoro, curiosità e simpatia – i nostri vizi moderni.”

Umano, troppo umano I:

[…] ognuno desidera (prescindendo da ragioni politiche) l’abolizione della schiavitù e aborre nel modo più assoluto del ridurre gli uomini in questa condizione: mentre ognuno deve dirsi che sotto tutti i rispetti gli schiavi vivono più sicuri e felici del moderno operaio, e che il lavoro dello schiavo è molto poco lavoro in confronto a quello del “lavoratore”.”.

E’ possibile confrontare il discorso di Nietzsche con quello, fondato su un’analisi economica, di Marx in particolare per quanto riguarda l’automazione.

L’automazione pare essere il grande catalizzatore della società industriale che opera un mutamento qualitativo nella base materiale e che agendo sul processo sociale esprime infatti la trasformazione o meglio la trasmutazione della forza lavoro, la quale, separata dall’individuo, diventa un oggetto produttore indipendente e quindi un soggetto autonomo.

A proposito di automazione Nietzsche scrive:

La macchina insegna, attraverso se stessa, l’ingranarsi di folle umane in azioni in cui ognuno ha una sola cosa da fare: essa dà il modello dell’organizzazione di partito e della condotta di guerra. Non insegna invece la sovranità individuale: fa di molti una sola macchina, e di ogni individuo uno strumento per un solo fine. Il suo effetto più generale è di insegnare l’utilità della centralizzazione.”.

Essere senza lavoro equivale ad essere emarginati dalla comunità sociale e basti pensare a molte leggi promosse da svariati stati che associano in maniera netta integrazione sociale allo status lavorativo che si rivela niente di più che modo di omogeneizzare e disinnescare la carica innovativa del “diverso”. Il lavoro è la misura della nostra integrazione e a questo punto al di là degli stranieri alla ricerca di una speranza si potrebbe guardare a tante giovani donne e giovani uomini che oggi versano senza lavoro, possono dirsi davvero parte di una comunità? O dobbiamo invece ritenerli più liberi di ripensare un sistema  economico che sembra non stare più in piedi?

Oltre ai flussi migratori crescenti e alla crescente disoccupazione giovanile la società è chiamata a dare una risposta ai “diversi” o forse è affidato ai “diversi” il compito di portare una ventata di innovazione nel sistema sociale stesso, chi prevarrà?

 

Matteo Montagner

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Filosofia Ikea

Credo che Ikea potrebbe sostituire molti test attitudinali per rivelare come ragiona una persona. Preferisce chiedere informazioni al personale o orientarsi con il database rivelando una personalità più relazionale? Va con un “piano” di acquisti già pronto o fa un giro comprando quello che ispira l’ambiente? È più analitico il primo e più un fantasista il secondo? Come imposta le ricerche dal terminale? Fa ricerche nominali, ragiona in maniera più linguistica, oppure fa ricerche numeriche, ragiona in maniera più strutturata e matematica? In più ogni acquisto più è grande più rivela la capacità di problem solving di chi l’ha fatto? Ikea risulta alienante quanto incredibilmente interessante in termini di modello di business, ci si potrebbero scrivere svariati libri.

In Ikea si intrecciano in modo indissolubile la razionalità e l’irrazionalità, aspetti quantitativi e qualitativi, risulta una ricostruzione quasi perfetta e quindi anche abbastanza alienante dell’esistenza umana. Se da un lato l’esposizione gioca sul solleticare i nostri appetiti e presentarci i vari articoli secondo criteri estetici al di sotto si trovano i magazzini dove domina l’ordine razionale, l’ammasso, l’economia di scala dove tutto è finemente catalogato, razionalizzato, dove quelli che al piano di sopra sono prodotti con nomi accattivanti nel magazzino sono riproposti come serie numeriche da ricercare su un terminale o da ordinare a un operatore solitamente abbastanza annoiato e indifferente, che come un bravo ragioniere si limita a verificare la presenza in deposito dei prodotti di cui sei alla ricerca.

Ikea ci impone inoltre di riflettere sul concetto di Libertà riportando alla mente l’eterno scontro tra determinismo e indeterminismo, tra gli stoici e gli aristotelici, tra Crisippo e Carneade. Semplificando tale scontro si basa su un assunto fondamentale: siamo noi artefici del nostro destino oppure siamo frutto di un fato immutabile? Siamo noi liberi? Gli Stoici rispondono che l’accettazione del Destino non implica una cessione della nostra libertà, noi siamo liberi nonostante non possiamo fare altrimenti, vi sembra contraddittorio? Gli Stoici si difenderebbero ancora dicendo che quando agiamo siamo mossi da una forza esterna a noi, ma scegliamo secondo Natura quindi secondo qualcosa di predeterminato, ed al contempo secondo qualcosa di nostro, che ci appartiene.

Cosa ha a che fare tutto questo con Ikea? A Ikea siamo liberi di acquistare prodotti, guardarli, toccarli ci andiamo con l’automobile o con i mezzi pubblici deliberatamente, lo scegliamo noi. Eppure nel contempo dietro una promessa di libertà ci ritroviamo a muoverci in uno schema predeterminato, se ci pensate il percorso è rigido e per certi versi assomigliamo a quelle cavie da laboratorio, in genere dei simpatici topini bianchi, che si muovono in un labirinto scelto per loro da un ricercatore. Quello che vorrei farvi capire è che Ikea travalica il concetto classico di ipermercato diventando un enorme inconsapevole esperimento sociologico su vasta scala. Del resto tutto il percorso è studiato finemente secondo le migliori tecniche di marketing, vi sono infatti studi ormai consolidati secondo cui più aumenta il nostro tempo di permanenza all’interno di un luogo dove possiamo fare acquisti più le nostre “barriere” difensive all’acquisto e all’essere morigerati diminuiscono, in un certo senso i prodotti assomigliano a delle moderne sirene e Ulisse siamo tutti noi. È il motivo per cui alla fine del percorso vicino alle casse da anni troviamo prodotti di piccole dimensioni, apparentemente insignificanti nel loro costo, perché alla fine le nostre “barriere” sono più deboli e perché allora non concederci uno sfizio? Gelati, cioccolatini, gomme da masticare sono lì ad attenderci. In più i negozi si sono strutturati negli anni sul nucleo ritenuto base del consumismo, anche se oggi sta entrando in crisi date le modifiche intervenute nella società contemporanea.

Da anni lo studio di vetrine e scaffali è diventato una vera e propria dottrina, una scienza della manipolazione percettiva della clientela atta ad affascinare e colpire chi guarda i prodotti. Tutto questo viene solitamente definito come Facing cioè la scienza in base alla quale disporre i prodotti e presentarli nelle vetrine nel modo migliore. Nulla è lasciato al caso dalle grandi multinazionali, tutto funziona come una enorme macchina razionale ben oliata. Alle volte le persone stesse soggiaciono a protocolli di comportamento per sapere esattamente quando servire il cliente, quando sorridere, quanto interagire, vedi ad esempio i protocolli destinati a coloro che ci servono da Mc Donald’s. Tutto viene vagliato poi dal Deus Ex Machina del “Controllo di gestione”: dato un tempo medio in cui si serve un cliente e applicato questo tempo medio su base oraria si sarà in grado di monitorare la produttività del singolo operatore in forza all’azienda. Niente sfugge al vigile e algido occhio del “Controllo di gestione” e con esso si compie il sogno positivista di riportare nell’alveo della razionalità assoluta l’agire dell’uomo. La persona non conta, è solo un mero ingranaggio di una macchina che è tutti e nessuno, un meccanismo impersonale dove a preservarsi è solo l’Organismo impresa e come noi perdiamo ogni giorno milioni di cellule del nostro corpo nel ricambio così l’impresa si può liberare dei singoli, perché quello che conta è l’omeostasi della macchina imprenditoriale non chi ne fa parte.

Il mondo sta cambiando e noi a volte non ce ne accorgiamo, Ikea non è solo acquisti e mobiletti da montare a suon di brugola, è una Filosofia che come tutte le filosofie finisce per forgiare il mondo e crearne di nuovi. Ci riporta al ricordo ancestrale dell’Homo Faber che fa le cose, ci riporta alla dimensione infantile del costruire qualcosa, ci rimette in contatto con la nostra parte ludica e incentra moltissima della sua proposta commerciale intorno alle famiglie con Fidelity Card che serve, come per Feltrinelli, a capire cosa compriamo, ci promette sconti in cambio del poterci controllare, perché per certi versi, parafrasando Feuerbach da “noi siamo quello che mangiamo” siamo passati al “noi siamo quello che compriamo”. Compra e ti dirò chi sei è la grande promessa di questi ipermercati.

Vi sentite ancora così liberi come credevate?

 

Matteo Montagner

La Peggiocrazia

A scuola, al lavoro nella tua vita quotidiana ti sembra di essere circondato da raccomandati e che le mediocrità domini tutto, o quasi, quello che ti circonda? Non preoccuparti non sei in un remake di “ La Notte dei morti viventi” di Romero, benvenuto in Italia! L’Unione Europea ha deciso di adottare il Social Index Progress (una classifica del benessere mondiale). Questo strumento statistico è curato da Michael Porter dell’Università di Harvard per misurare la qualità della vita in 133 Paesi del mondo. L’Italia si trova al 31° posto, pur essendo tra i primi dodici per Pil. Tra i parametri presi in considerazione vi sono : sanità, libertà politica e d’espressione, accesso all’educazione (e qui siamo bravi), più una serie di altre voci. I risultati? Gli italiani vivono più a lungo di tutti dopo i giapponesi, presentano un tasso di mortalità infantile molto basso e un’istruzione di base ottima. E allora che succede? Gli ambiti dolenti sono : corruzione, scarsa attenzione all’ambiente, criminalità percepita e obesità al di sopra della media europea. Un altro dato interessante è che alla domanda se ci si senta davvero padroni di decidere la propria vita solo il 61% degli italiani risponde affermativamente, così l’Italia scivola al 91° posto dopo Yemen, Mali, Nepal, Libia, luoghi, questi ultimi, segnati da una profonda povertà, ma dove forse le durezze dell’oggi alimentano le speranze per il domani, successe anche ai nostri padri e ai nostri nonni. Ma a noi oggi perché?

In Italia le cose non funzionano, c’è una diffusa indifferenza verso il bene comune che incoraggia corruzione e cinismo. Però gli italiani avrebbero, per propensione, una grande attenzione alla qualità della vita e dei rapporti che stiamo ormai perdendo anche a seguito di un crescente scetticismo nei confronti dell’onestà pubblica alimentato dagli scandali quotidiani.

Che cosa è successo? Possibile che in Italia ci siano più persone “negative” che da altre parti? Credo che la risposta vada invece cercata nelle modalità con cui si struttura la società, spesso per via consociativa, fatta da raccomandazioni e dove senza lo “sponsor” non fai strada. In sostanza il vero problema è aver eretto ai vertici della società italiana tanti, troppi, mediocri che ora tendono a replicare il sistema in un circolo vizioso difficile da spezzare.

Scrive bene Honoré de Balzac:

“La corruzione è l’arma della mediocrità”.

L’elettore con il suo voto  vorrebbe che l’eletto fosse non come lui, ma bensì meglio: più onesto e più competente. In Italia spesso i criteri di selezione dall’ambito politico a quello più generale della nostra classe dirigente è completamente starato.

“Ci si meraviglia, a torto, del successo della mediocrità. La mediocrità non è forte per ciò che è in sé, ma per le mediocrità che rappresenta, e in questo senso la sua potenza è formidabile. Più l’uomo di potere è meschino, più conviene a tutte le cose meschine. Paragonandosi a lui, ciascuno si domanda: «Perché non potrei arrivare a mia volta?» Egli non suscita alcuna gelosia: i cortigiani lo preferiscono perché possono disprezzarlo; i re se lo conservano come una manifestazione della loro onnipotenza. La mediocrità non solo ha tutti questi vantaggi per restare ben salda al suo posto, ma possiede anche un merito assai più grande: esclude dal potere la capacità. Il deputato degli sciocchi e degli imbecilli al ministero accarezza due passioni del cuore umano: l’ambizione e l’invidia.” 

François-René de Chateaubriand, Pensieri, riflessioni e massime.

Bisognerebbe aggiornare Nietzsche che teorizzava la morale dei signori, tipica delle persone forti. Bisognerebbe tradurre Persone Forti in Persone Competenti e persone Deboli in Persone Incompetenti. La competenza si può tradurre in capacità umana di godere della vita e di attuare il “bene” in terra che è però visto, all’altro capo della scala sociale, come un male. Le persone incompetenti infatti interpretano l’agire di quelle competenti come il male per eccellenza: la morale del gregge, quindi, è una morale di reazione guidata dal risentimento verso i nobili e potenti. L’attacco che gli incompetenti muovono al potere dominante consiste quindi nel rovesciare la scala dei valori e nel trasformare ciò che per i competenti è buono in qualcosa di moralmente cattivo e sbagliato. Per attuare questa rivoluzione dal basso è però necessario giustificare il ribaltamento in atto.

Il “buono” delle persone competenti è il “malvagio” degli incompetenti: il buono nell’accezione della competenza è un individuo puro di mente e di cuore, pervaso di salute, audace e gioioso. Queste caratteristiche sono viste dall’incompetente come orribili vizi. L’incompetente, invece, essendo impotente, a differenza del competente che ha il know how, la conoscenza, per guidare potenzialmente gli altri, apprezza quelle qualità che gli consentono di sopravvivere, ovvero l’apparente pazienza e umiltà. In realtà dietro a questo “buonismo” di facciata l’incompetente cova un odio profondo per il competente, ma non potendolo manifestare dal momento che non ha né le capacità né l’energia per opporsi al suo “nemico”, è costretto a trattenere dentro il sé il risentimento perdendo così l’amore per la vita.

Come supera l’incompetente il problema della sopraffazione del competente? Semplice. Se il competente è detentore della qualità egli si affiderà alla quantità per sconfiggerlo. La realtà è infatti un prodotto intersoggettivo. Ad esempio se mi chiudo in una stanza con 10 matti e tengo in mano un pennarello rosso che lo vedono verde allora quel pennarello, secondo la maggioranza, sarà verde. Questa dinamica sociale è meno astratta di quanto si pensi e nel mondo contemporaneo si declina ad esempio nella forma della disinformazione di massa per cui molte persone credono negli alieni che rapiscono le persone, fantasmi, magia e quanto altro. Ciò spiega anche il successo di trasmissioni quali “Mistero” regolarmente in onda su Italia 1 e trasmissioni di quel tipo. Oppure prendiamo il caso delle scie chimiche dove l’incompetenza crea una narrazione del mondo che finisce per ambire a sottomettere la Scienza, per fortuna la Comunità Scientifica rispetto ad altre realtà ha mantenuto un buon grado di certificazione e così si riesce ancora ad arginare il dilagare dell’incompetenza.

Una volta controvertito il sistema dato l’incompetente dilaga prendendo spazio a tutti i livelli della classe dirigente e giunto a quel punto replica l’incompetenza che quindi finisce per autoalimentarsi in sistema che diventa ormai inscalfibile per la persona competente.

L’incompetente ha tutto sommato gioco facile nella società contemporanea, se infatti non vi fareste mai operare al cuore (spero) da una persona che non sia un medico chirurgo per quanto riguarda altre realtà è più difficile riconoscere la persona competente. Se identificare un chirurgo è relativamente facile diventa difficile indentificare un buon politico o un buon comunicatore, da notare anche l’aggiunta del termine “buon” che segna anche la maggior ambiguità sussistente in queste due e molte altre figure.

Così nasce il regno della Peggiocrazia che non è qualcosa di astratto, ma tangibile nella nostra vita quotidiana, la Peggiocrazia ha pervaso l’Italia impedendo troppo spesso ogni tentativo di riequilibrare le cose.

Proprio perché la Peggiocrazia è oggi così diffusa, l’unico modo per provare ad arginarla è che le persone competenti non desistano nel loro piccolo, ogni giorno, ad abbassare il livello di Peggiocrazia che le circonda. Perché esattamente come nella dinamica Servo-Padrone ora che la Peggiocrazia è al potere troppo spesso sono le persone davvero competenti e di buona volontà a doversi sottomettere a un sistema perverso che finisce per corromperne la natura più genuina.

Matteo Montagner

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