Salviamo la soldatessa Speranza

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Durante alcune lezioni il professor Umberto Galimberti in antitesi alla figura cristiana della speranza era solito sbottare dicendo «La Speranza è l’ultima figura dell’impotenza cristiana».

Da vero giovane nietzschiano, studente di Filosofia seduto sui banchi di qualche aula di San Sebastiano esultavo per queste bordate tirate a fondo campo in delle uggiose giornate di autunno fatte di alta marea e piogge battenti.

Del resto non serve scomodare il professor Galimberti per dire quanto la “Speranza” come figura sia del tutto svalutata anche nella cultura popolare: famoso è per esempio il detto “Chi di speranza vive disperato muore”. È questa un’immagine abbastanza grottesca che rimanda a tutte le speranze umane che inevitabilmente deflagrano di fronte all’implosione di ogni senso data dalla morte come ben descritto da Heidegger e dagli Esistenzialisti francesi, l’idea in questo caso turpe che la speranza che ha attraversato i nostri corpi mentre aspettavamo Babbo Natale e i regali sotto l’albero, la Felicità, il Futuro, finiscano inevitabilmente nella liberazione del post mortem. La Speranza viene usata come immagine di un mondo che non appartiene a nessuno, un mondo senza litigi. Dove è viva la luce è anche viva l’oscurità, nello stesso luogo dove esultano i vincitori si disperano anche i vinti, il desiderio egoista di mantenere la pace genera la guerra. L’odio nasce per proteggere l’amore. Tutto questo sorgerebbe da un unico male, morbo, chiamatelo come vi pare anche noto come “Speranza”, l’idea di far saltare in aria il Soldato o la Soldatessa Speranza nasce dall’idea di creare un mondo di soli vincitori, un mondo di sola pace, un mondo di solo amore, cose che possono sembrare puramente utopiche, ma che vengono portate avanti da anni da studiosi illustri come il Professor Vero Tarca sui banchi di Filosofia Teoretica, un sogno perfetto per tutta l’Eternità.

È un bellissimo ragionamento, peccato che la speranza − anzi, dobbiamo chiamare col suo nome la nostra Soldatessa − non nasce nell’alveo della cultura cristiana. Diamole un nome, il suo nome è Elpìs. Nell’opera del poeta greco Esiodo Le opere e i giorni essa è tra i doni che erano custoditi nel vaso regalato a Pandora (letteralmente “tutti i doni”), donna creata da Efesto. Pandora aveva avuto l’ordine di non aprire mai il vaso, ma la curiosità fu più forte e la donna aprì il vaso facendo così uscire tutti i mali; soltanto Elpìs rimase dentro perché Pandora riuscì a richiudere il vaso. Solo un dono non riuscì ad uscire dal vaso: la speranza.

Nella mitologia romana l’equivalente di Elpìs è la Spes.

«Solo Speranza, come in una casa indistruttibile,
dentro all’orcio rimase, senza passare la bocca, né fuori
volò, perché prima aveva rimesso il coperchio dell’orcio
per volere di Zeus e gioco che aduna le nubi».

Esiodo non ha mai spiegato il motivo per il quale Elpìs è l’unico dono a rimanere all’interno del vaso di Pandora, ma è davvero interessante come sia proprio Elpìs a rimanere all’interno del vaso, come qualcosa che resta in qualche modo celato e nel contempo ancora inattuato, l’unica cosa che resta in possesso di Pandora che in questo caso simboleggia l’intera umanità.

Elpìs andrebbe recuperata perché in essa alberga l’ottimismo dell’umanità, il suo continuo tentativo di superare i propri limiti cercando di proiettare e tramandare la propria voce al di là dell’ovatta del tempo, provando a spezzare la dimensione entropica dell’universo gettandoci, anche laicamente, oltre il concetto di limite che come ben ci ricorda Heidegger è la morte, l’orizzonte della nostra esistenza.

La Speranza è un concetto che si tramanda ed è un dono che spezza l’illusione di vivere consegnandoci una vita più autentica nella convinzione che il domani sarà migliore dell’oggi, è il motore della Storia collettiva dell’umanità che se non se ne fa carico finisce per negare se stessa. Il Nichilismo ci consegna un mondo che in fondo è destinato al nulla, ci sottolinea che la morte finisce per essere l’implosione di ogni senso e pretende di sollevare il velo di illusioni che abbiamo costruito per continuare a vivere, ma dimentica che l’umanità è anche segnata dall’incedere del progresso, del tentativo di superare i propri limiti e che la vita spesso è un viaggio che possiamo accettare di percorrere sentendoci sconfitti ancora prima di partire o invece provando ad accettarne le difficoltà, le strade che si interrompono, gli ostacoli, ma anche vedendone la bellezza, la gioia e sostenendo che essa resta comunque un’opportunità sempre aperta al nostro miglioramento e alla nostra crescita individuale e come specie.

Come scrive Bloch:

«L’importante è imparare a sperare. Il lavoro della speranza non è rinunciatario perché di per sé desidera aver successo invece che fallire. Lo sperare, superiore all’aver paura, non è né passivo come questo sentimento né, anzi meno che mai, bloccato nel nulla. L’affetto dello sperare si espande, allarga gli uomini invece di restringerli, non si sazia mai di sapere che cosa internamente li fa tendere a uno scopo e che cosa all’esterno può essere loro alleato. Il lavoro di questo affetto vuole uomini che si gettino attivamente nel nuovo che si va formando e cui essi stessi appartengono».

Anche quando perdiamo la fiducia e la voglia di vivere, le difficoltà ci appaiono come insormontabili e il dolore troppo per continuare nel nostro cammino è importante sapere che dentro ognuno di noi come nello scrigno di Pandora la Soldatessa Speranza continua a combattere per noi, continua a sussurrarci che possiamo farcela, essa non può agire attivamente e sta a noi riscoprirla e in qualche modo “salvarla”, conservarla e quando è giunto il nostro tempo consegnarla a chi verrà dopo perché solo in questa condizione si cela il più intimo segreto per una vita più autentica e per la realizzazione di un mondo migliore.

Matteo Montagner

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Da cittadini a consumatori: il valore del singolo nella postdemocrazia

Il Capitalismo ha vinto. La collettività soccombe sotto il peso degli interessi individuali, l’incubo descritto in Il Capitale di Marx si sta pienamente concretizzando. Il mondo del lavoro cambia, le identità collettive, che hanno caratterizzato il Novecento, vengono meno. La Democrazia che diamo come dato acquisito sembra oggi sempre più in balia di spinte che provengono da un libero mercato sempre meno controbilanciato da robusti, seppur flessibili, diritti sociali di cittadinanza, che garantiscano una ragionevole redistribuzione della ricchezza.

Il nuovo millennio si apre con un cambiamento radicale: più che cittadini siamo consumatori. Siamo molto più rilevanti come consumatori che come cittadini. Crouch ha coniato giustamente il termine “postdemocrazia” che designa un semplice eppur gigantesco paradosso: i sistemi politici europei e statunitensi sono in una fase di atrofia democratica, la globalizzazione rende questo fenomeno evidente, la democrazia resta nazionale in un mondo globale e cessa di esistere sulla soglia di quei luoghi dove vengono prese decisioni che influiscono sull’assetto mondiale.

L’identità di classe e la religione, che un tempo erano elementi fondanti della politica tradizionale, si sgretolano e con essi i partiti politici ormai sempre più distanti dalla popolazione e in balia del “marketing” politico. La svalutazione della politica e l’idea che il marcio della società si annidi nella classe dirigente ha reso sempre più la democrazia esposta alle pressioni di élite e grandi imprese che esercitano ora un ruolo di primo piano. Il nuovo millennio è una sorta di mondo post-feudale dove il potere non è più in mano agli stati e agli organi democratici, ma in mano a una sorta di nuova aristocrazia formata dalle grandi imprese. Uno Stato ha bisogno di legittimazione democratica, le élite non ne hanno bisogno. La crescente nostalgia per gli Stati-Nazione è appunto nostalgia per un passato che sta passando, quei dispositivi si dimostrano oggi strumenti del tutto inadeguati a organizzare e gestire la vita pubblica rispetto ai compiti politici che abbiamo di fronte.

In questo mondo paradossale abbiamo molto più potere come consumatori che come cittadini, determiniamo molto più il mondo e noi stessi per quello che compriamo piuttosto che per quello che votiamo, dimenticandoci che il mercato senza poteri a controbilanciarlo è destinato strutturalmente a inasprire le diseguaglianze e quindi a catalizzare i malesseri sociali che sfociano a loro volta in politiche protezionistiche, retrograde e difensive, che risultano rimedi peggiori del male che vorrebbero curare. Lo svilimento della classe dirigente e la politica “gratuita” per uscire dai soliti “magna magna” e l’idea che essa non dovesse essere un lavoro ha reso la politica stessa un ambito aristocratico, cioè ristretto a persone benestanti, per non dire ricche, e qui gli esempi si sprecano.

La crisi aumenta, i malesseri agitano le masse contro la classe politica a cui si vogliono togliere i privilegi, il che fa sì che avvenga l’ascesa di una classe politica di ricchi, spesso imprenditori, che rappresentano molto di più la matrice dei mali delle masse piuttosto che la loro salvezza, il paradosso dell’epoca contemporanea sta tutto qui. Gli Stati-Nazione nella loro concezione novecentesca sembrano dei nani mentre a turno sfilano davanti ad essi grandi compagnie che impersonano a turno Biancaneve.

Matteo Montagner

Politica, follia e altre brutte storie

Sì, No, Remain, Leave, la politica e la vita sembrano ormai in balia di una logica binaria che si addice più alle macchine che alle persone, i referendum e la continua pretesa di oclocrazia, una parolaccia greca che indica semplicemente il far scegliere e il demandare qualsiasi decisione al popolo sembrano aver catalizzato questo atteggiamento. Ma quella stessa logica si insinua molto più profondamente nel dibattito pubblico di tutti i giorni.

Prendete ad esempio la questione dei flussi migratori:

  • Destro-fascio:

A1) prenditeli a casa tua!

B2) se usassimo le risorse per gli italiani tutto andrebbe meglio

C3) ci rubano il lavoro e non portano risorse in un periodo di crisi finendo per impoverire ulteriormente le fasce più deboli della popolazione “autoctona” (ammesso che questo termine abbia un senso). Portano malattie e malavita!

  • Sinistro-buonista:

A4) ma allora cosa dobbiamo fare lasciarli morire?

B5) gli immigrati ci pagano le pensioni!

C6) gli immigrati fanno i lavori che noi non vogliamo più fare e sono un elemento di sviluppo per il paese in cui si trasferiscono

In alcuni enunciati ci sono fonti di verità, ma la contrapposizione sterile che esclude la ragione ci fa dimenticare le cose più importanti, cioè che stiamo parlando di vite umane, in questo forse credo che la posizione di sinistra ideologicamente sia più condivisibile salvo non voler spezzare qualsiasi legame di fratellanza con il genere umano e concludere quindi che ci sono vite di serie A e di serie B.

A4) nella sua formulazione grezza in fondo non dice nulla di sbagliato, la vita umana è un valore, peccato che posta così finisca per essere solo un sasso argomentativo da tirare in testa a chiunque provi a problematizzare le cose e quindi a renderle concrete come ad esempio chi fa notare che sì la vita umana è un valore e va preservata, ma che conta anche la qualità della vita e quindi le politiche legate all’accoglienza e alla gestione di flussi migratori che hanno impatti economici e sociali. La mancata ottemperanza della presa in carico in maniera seria dei problemi implicherà dar più forza alle posizioni A1), B2) e ci C3) fino a derive sempre più estremiste. Come risolve il Sinistro il problema, un solo enunciato: “zitto fascista!”. Ci sarebbe da chiedersi come mai tra le fasce più deboli della popolazione siano spuntati, anche in zone storicamente di sinistra, orde di neofascisti mascherati, non sarebbe più semplice accendere il cervello e dire che non sempre le persone quando votano di “pancia” per posizioni estreme non per forza sono ideologicamente fasciste, naziste o simili, ma semplicemente stanno esprimendo un malessere? Andatevi a guardare i voti delle periferie.

Salvare vite umane ha senso, ma dobbiamo preoccuparci anche della qualità della loro vita, invece pensiamo che basti tirarli di qua della costa e stoccarli (uso il termine provocatorio) da qualche parte mettendo delle risorse un po’ a pioggia in maniera assistenzialistica e provare a vedere cosa succede. Dove l’integrazione, quella vera, è demandata ad associazioni di volontari spessi squattrinati e mal organizzati.

Vi racconto questo interessante episodio che chiamerò “I Cento Panini e la Ben Pensante”:

Una volta il giovane che chiameremo Cento Panini ebbe la bella idea di scrivere su Facebook per dire che l’aspetto delle risorse economiche è importante e non va sottovalutato la seguente frase:

“Se ho cento panini e devo sfamare duecento persone posso dividerli a metà, se le persone sono quattrocento posso farne un quarto a testa, ma se le persone diventano un milione con un atomo di panino a testa moriamo tutti di fame. A risorse finite non si può immaginare una divisione infinita.”

Che cosa accadde? La nostra temeraria ben pensante che al posto di leggere l’appello del povero Cento Panini che invocava semplicemente l’aiuto dell’Europa nella questione dei flussi migratori e il fatto che l’Italia non fosse lasciata da sola si lanciò in rocamboleschi attacchi per dimostrare che il povero Cento Panini non era altro che un tremendo fascista e chi più ne ha più ne metta.

Quando la razionalità e la ragione abdicano alla tifoseria politica ecco che esplode la follia. Così sono i social, ma a noi piace dividerci, adoriamo massacrarci dividendoci in fazioni, gruppetti e tutto a discapito della qualità della vita nostra e degli altri. Aneliamo vessilli sotto i quali nasconderci, perché come scrive bene Canetti in un bellissimo libro disperdendoci nella massa siamo tutti responsabili e non lo è nessuno, siamo tutti decisori, ma in fondo ignavi quando ci schieriamo senza aver correttamente ragionato. La nostra protagonista Ben Pensante, che mal pensava, ha preferito trovare un oggetto su cui sfogare frustrazioni che forse provenivano da altrove che provare a cogliere il senso (giusto o ingiusto) del povero Cento Panini che di sicuro non voleva mettere in dubbio l’accoglienza e la vita come un valore, ma richiamava solo alla concretezza delle cose.

“LA NOTTE DELLA RAGIONE GENERA MOSTRI”

Gli intellettuali hanno poco da indignarsi per l’ascesa del populismo di Donald Trump e del Movimento 5 Stelle essi non sono la cura, ma il sintomo definitivo che il male è dilagato, che la politica non ha saputo dare risposte e quindi le persone che stanno male si abbandonano inevitabilmente a una protesta cieca senza proposta, perché ormai l’orizzonte di qualsiasi risposta possibile gli sembra ormai irraggiungibile, distante, vuoto. Il loro grido di dolore si leva oltre l’ovatta del tempo per generazioni ricordandoci tutti i fallimenti, tutte le ingiustizie e tutte le risposte mancate dove non c’è mai, MAI, nessuno che osi dire “Scusate, ho sbagliato” o se lo fa lo fa con una leggerezza tale da risultare incomprensibile anche ai propri simili.

Ho usato l’esempio dei flussi migratori per descrivere qualsiasi presa di posizione aprioristica, qualsiasi atteggiamento negativo nei confronti del prossimo e delle sue scelte. Capita centinaia di volte nei social media vedere vegani contro onnivori, vegetariani contro carnivori e un tutti contro tutti malsano, sbagliato. Gente che fa una grigliata e si sente in dovere di “trollare” allegramente sulla propria bacheca gente che semplicemente ha fatto una scelta diversa. E mi chiedo, ma l’umanità è veramente questa roba qui?

Siamo davvero diventati questa rumorosa massa litigiosa sempre pronta a scannarsi come nei viaggi di Gulliver per decidere se le uova vadano rotte dalla parte inferiore o superiore?

Qualche tempo fa ho dovuto sopportare, mio malgrado e facendoci i conti, di non esser stimato né rispettato da una persona che tutto sommato a modo mio ritengo pure interessante, avrei potuto provare a raccontarle la mia storia da dove vengo, addurre mille giustificazioni, magari raccontarmi, come fanno certi politici, che forse è semplicemente la gente che non capisce, ma le nostre azioni pesano molto più delle nostre intenzioni e alla fine traspare solo ciò che mostriamo. Avrei potuto raccontare l’infanzia difficile, paure, insicurezze, ma come la somma di tutte queste cose avrebbe anche solo intaccato il fatto che ho reiteratamente calpestato i suoi sentimenti? Alle volte semplicemente tediandola, altre infastidendola? Alla fin fine nessuno di noi si accorge mai quanto in basso può cadere e nella nostra vita quotidiana lo facciamo continuamente, i social aiutano, una cosa scritta dietro uno schermo sembra meno grave di molte altre cose. Alla fin fine tutto si riduce con la formula “Eh, ma io stavo scherzando”, credo che quasi tutte le cazzate del mondo siano nate con uno scherzo. Ci sono molti modi di ridere, si può ridere con qualcuno o di qualcuno, la differenza è abissale.

Questo mio appello a provare ad essere meglio di come siamo, ad accendere il cervello cadrà probabilmente nel rumore che ci circonda e forse avrete già chiuso questo palloso articolo per tornare a qualche social “scazzottata”, ma per chi è arrivato fin qui vuole solo essere un appello a provare a essere migliori e nessun giorno è mai troppo tardi per iniziare, basta sceglierlo. Usiamo il cervello, usiamolo tutti meglio.

Matteo Montagner 

Tra Aristotele e “Sliding Doors”: la teoria del caos

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Da sempre ci interroghiamo sul nostro rapporto con il tempo, ci chiediamo se siamo davvero liberi, quale sia il rapporto tra le nostre scelte e quanto ci accade. Alla fin fine possiamo spremerci le meningi quanto vogliamo, ma le possibili risposte al nostro rapporto con il tempo e l’eziologia (questa parola si riferisce a tutti i fenomeni che hanno un rapporto di causalità causa-effetto) sono sostanzialmente tre:

  • tutto è dominato dal caso;
  • tutto è predestinato, vi è cioè un Destino per ognuno di noi predeterminato che però sfugge alla nostra capacità previsionale (o forse no?), l’astrologia e le arti divinatorie tentano di sondare questo confine insondabile con uno statuto epistemologico però insufficiente, almeno per come intendiamo la scienza contemporanea;
  • ci sono cose che dipendono da noi e cose che non dipendono da noi, ma le nostre scelte aprono a futuri condizionali (esempio: decido di scavare in un dato punto perché penso che ci sia un tesoro sotterrato che effettivamente c’è, azione: scavo=trovo il tesoro, il mio scavare o non scavare implica due futuri condizionali diversi. La catena di azioni è determinata, la mia scelta no).

A seconda di come decidete di interpretare le vostre esistenze, magari senza saperlo, sappiate che appartenete a una diversa scuola di pensiero greca. Non lo sapevate? Adesso sì.
Rispettivamente:

  • Scuola atomista: Epicuro ci dice che tutto è dominato dal caso;
  • Scuola stoica: Crisippo sostiene che tutto è predeterminato e “tutto è pieno di segni” che ci preannunciano ciò che deve venire, sta a noi la capacità di interpretarlo;
  • Scuola aristotelica: Aristotele prima e Marco Aurelio poi ci spiegano che ci sono delle nostre scelte che aprono o meno futuri condizionali o se vogliamo scenari/futuri paralleli diversi.

Sliding Doors è un film del 1998 che racconta le vicende di Helen, una giovane donna che lavora nelle pubbliche relazioni fidanzata con Gerry. Dopo essere stata licenziata si dirige affranta verso la metropolitana. Il momento topico da cui si origineranno due dimensioni parallele parte dall’ascensore, quando andando via dal posto di lavoro le cade un orecchino e incontra James (che diventerà un potenziale amante e un coprotagonista della storia).

Le nostre scelte anche più piccole contribuiscono a forgiare il nostro futuro, ma alcune sono più importanti di altre. Se forse scegliere tra una pasta al pomodoro, un petto di pollo o un’insalata impatta relativamente poco sul nostro futuro, scegliere di andare all’Università o meno e quale Università frequentare implicherà una nostra frequentazione di un certo ambiente per molti anni e ci esporrà ad alcuni tipi di scelte escludendone altre.

La nostra intera esistenza è sempre esposta alla dimensione del “se”, la dimensione condizionale del “se quella volta avessi scelto” o del “se non fossi andato lì allora”; l’immaginazione è uno strumento importante perché ci permette in maniera proiettiva di farci un’idea dei futuri possibili ed è così che l’umanità è sempre esposta alla dimensione utopica e ucronica dell’esistenza, utopica senza un luogo, ma realizzabile nel tempo, ucronica senza un tempo, ma in un luogo, un paradosso che si genera nella dimensione in cui possiamo immaginare cosa sarebbe successo se gli Alleati non avessero mai sconfitto i Nazisti o se ad esempio Giulio Cesare non fosse stato eliminato a seguito della congiura ordita da Gaio Cassio e Decimo Bruto.

Aristotele aveva ragione? Possiamo notare come la teoria formulata da Aristotele si possa ricondurre alla teoria del caos cioè «lo studio attraverso modelli di fisica matematica dei sistemi fisici che esibiscono una sensibilità esponenziale rispetto alle condizioni iniziali». In pratica prendiamo un sistema, in esso ci sono delle leggi deterministiche che non mutano (la gravità muta, ma non il modo in cui funziona la gravità), nonostante tali costanti deterministiche in tale sistema ci sono anche delle variabili dinamiche, che cambiano, che determinano una casualità empirica nell’evoluzione del sistema stesso. I fisici ci dicono che il comportamento casuale è in realtà solo apparente, dato che si manifesta nel momento in cui si confronta l’andamento temporale asintotico di due sistemi con configurazioni iniziali arbitrariamente simili tra loro, ma la parte che davvero ci interessa è che a condizioni iniziali simili i risultati possono essere estremamente diversi, come potrebbe darsi nel caso di due gemelli allevati in condizioni completamente differenti.

Un treno o una metropolitana sono esempi calzanti per quello che Aristotele considera un futuro condizionale: saliti su quel treno il nostro andare in una direzione o in un’altra non sarà più in nostro potere, almeno tra una stazione e l’altra. Una scelta determina cioè una catena di eventi, per Aristotele la nostra esistenza è composta da catene.

A questo punto tiriamo in ballo l’effetto farfalla, una semplificazione della nozione tecnica di “dipendenza sensibile alle condizioni iniziali” presente nella teoria del caos. L’idea è che piccole variazioni nelle condizioni iniziali producano grandi variazioni nel comportamento a lungo termine di un sistema, per esempio se un viaggiatore proveniente da una macchina del tempo tornasse indietro di milioni di anni e nel suo “safari” calpestasse accidentalmente una farfalla ciò potrebbe comportare un futuro completamente diverso dove magari l’umanità non si è mai evoluta o forse nemmeno esistita.

«Lo spostamento di un singolo elettrone per un miliardesimo di centimetro, a un momento dato, potrebbe significare la differenza tra due avvenimenti molto diversi, come l’uccisione di un uomo un anno dopo, a causa di una valanga, o la sua salvezza» Alan Turing, Macchine calcolatrici e intelligenza, 1950.

Scrivevo prima che se magari possiamo sottovalutare l’importanza tra lo scegliere una pasta al pomodoro, un petto di pollo o una insalata (anche se l’effetto farfalla ci direbbe di stare attenti anche a questo tipo di scelte) forse ci converrebbe riflettere di più su quelle scelte importanti che aprono a futuri condizionali diversi perché alla fin fine la nostra vita non è che la somma di tutte le nostre scelte. Se quando la nostra vita inizia il tasso di indeterminazione è molto alto e fino a quando siamo giovani il nostro spettro possibilistico è molto ampio, mano a mano che invecchiamo siamo sempre più soggetti all’effetto imbuto, cioè la riduzione del nostro spettro di possibilità: anche a 90 anni possiamo viaggiare, ma magari non sarà come farlo a 20 o almeno la quantità di futuro opzionale e opzionabile sarà probabilmente più ridotto.

 

Matteo Montagner

 

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La mia generazione: abbiamo fallito, avanti il prossimo

Quando ho visto Matrix per la prima volta ero seduto in un cinema, in una giornata assolata di maggio come tante, eravamo seduti sui gradini del cinema perché eravamo arrivati in ritardo e nel buio non eravamo riusciti a trovare dei posti a causa della sala gremita. Avevo 14 anni e stavo seduto accanto alla ragazza più affascinante che avessi visto, uno di quegli “amori” tipicamente adolescenziali. Non sapevo che in quel film di fantascienza si sarebbero coagulati tanti significati e tante questioni che avrebbero poi influito sulla mia generazione. Era il 1999. Era un film strano che parlava di volontà, destino, amore, senso della vita, il tutto coagulato in un blockbuster ben confezionato in pieno stile hollywoodiano.
Qualche anno dopo rimasi colpito, deluso, ma comunque attento per i riferimenti cristologici inseriti in Matrix 2 e 3 e ancora ripenso alla frase che descrive un messia cieco, un simbolo per tutti quelli come lui, patetico, in attesa che qualcuno gli dia il colpo di grazia.

In fondo ripensandoci era proprio un film adolescenziale, senza usare il termine in maniera dispregiativa, anzi, era una enorme storia in salsa cinematografica della Volontà di Potenza di Nietzsche che ha profondamente attraversato la mia generazione, una generazione sorta all’alba della decadenza dell’Occidente e della sua crescita: gli anni ’90 hanno rappresentato il preludio di un declino. La volontà di potenza ci mette un attimo a trasformarsi in volontà di impotenza, indolenza e ozio.

Penso che la mia generazione abbia delle grandi responsabilità per quanto è accaduto, sta accadendo e accadrà: siamo stati incapaci di dar vita a grandi prese di posizione generazionali, ma anche di dare alle cose una nostra inclinazione, seppur non all’insegna di rotture nette; siamo caduti preda di una anestetizzazione tecnologica, imbambolati da Mediaset e figli del berlusconismo, a prescindere che fossimo pro o contro.

Che fossimo pro o contro siamo pur sempre cresciuti all’ombra della figura di Berlusconi, una figura paradigmatica perché come i nostri genitori la sua generazione si è dimostrata quella dei moderni Crono e come tali non hanno che potuto divorare i propri figli. Gli anni di governo personalistico e finalizzato alla produzione di leggi ad personam più che di leggi per lo sviluppo non ci ha messo al riparo dalla crisi ed anzi hanno catalizzato quanto di peggio ha finito poi per abbattersi sul nostro Paese.

In un’ ottica marxiana i boomers (le generazioni che hanno vissuto la prosperosa epoca del boom economico) hanno fatto quello che i capitalisti fanno con i mezzi di produzione, hanno cioè fagocitato diritti in modo ipertrofico finendo per privare i propri figli e le generazioni future delle medesime opportunità, lo stesso dicasi per quanto riguarda gli impatti ambientali.

Lungi da me tuttavia indicare il male, additare le generazioni passate e sgravare così noi tutti da un onere di responsabilità al quale eravamo chiamati a dare una risposta, perché se le generazioni che ci hanno preceduto non sono state virtuose noi abbiamo peccato di una ignavia ben peggiore, ci siamo infatti ben guardati dal rompere gli schemi e ci siamo invece trincerati nel consumismo e nella moda.
La nostra risposta ai cambiamenti del mondo è stata quella di comprarci l’ultimo Ipad, di tirare per le lunghe lo studio e continuare a farci foraggiare dai nostri genitori. Se da un lato l’aiuto è servito a sostenerci in questi tempi difficili, dall’altro ha avuto l’effetto di renderci apatici e poco inclini a rompere gli schemi costituiti. Siamo stati come gli animali da allevamento, come un animale domestico che non esce mai di casa e come tali non abbiamo mai saputo elaborare una visione del mondo che ci permettesse di crescere al di fuori della pesante ombra dei nostri genitori.
Siamo dei novelli Benjamin Button: privi di progettualità a lungo e medio termine, finiamo per vivere una vita all’incontrario. Se la fine degli studi universitari un tempo significava l’accesso all’età adulta, è qui che il processo si inverte, assistiamo così alla devoluzione, un regresso inquietante quanto diffuso, un perenne rifiuto di confrontarsi con il mondo e prendere in mano il proprio destino.

Spesso vedo ragazzi di ormai quasi trent’anni farsi foto in discoteca che normalmente si era soliti farsi fare quando si avevano quindici o sedici anni, ma al posto di provare vergogna per l’immaturità manifesta tali foto sono invece oggetto di orgogliosa ostentazione. In un mondo dove conta sempre meno essere ciò che si è e conta invece apparire per ciò che la società ha presunto che dovremmo essere.

La mia generazione è fatta di cani di Pavlov, ma a differenza del celebre cane noi siamo restii a imparare dall’esperienza. Più subiamo la nostra impotenza e la vessazione di chi non ha alcuna tutela lavorativa e quindi nessuna dignità umana, più continuiamo ad abbeveraci dalla fonte che sta anche all’origine di tutti i nostri mali. Anziché ribellarci o quanto meno rifuggire gli stimoli negativi, nel migliore dei casi finiamo per chinare il capo diventando gregari e subalterni delle generazioni che ci hanno preceduto, nella vana speranza che prima o poi tocchi anche a noi, come se la nostra mente non avesse registrato che all’alba del nuovo millennio l’aspettativa di vita è tale che è molto più probabile che saremo noi a perire di stenti prima della dipartita di chi oggi regge le leve del potere.

Ci hanno detto che il lavoro doveva essere flessibile, ci hanno fatto imparare le lingue e tantissime competenze diverse, ci hanno raggirato usando accattivanti termini anglosassoni come long life learning o learning by doing, ma mi chiedo quanti dei grandi ideologi di questo modo di pensare, quanti professori che ci hanno proposto questo modello di vita e quanti funzionari che hanno stilato protocolli amministrativi che deliberavano in tal senso si sono sottoposti allo stesso trattamento. Quanti di loro hanno veramente provato ad assaggiare la ricetta che avevano preparato per noi e per i loro figli? Penso ben pochi visto che la pubblica amministrazione è piena di gente che non parla nemmeno l’inglese e che per anni non ha fatto altro che ripetere sempre e solo la stessa mansione, senza mai aggiornare le proprie competenze, tanto che se si rimettessero oggi sul mercato del lavoro a stento troverebbero posto come posteggiatori di auto o lavapiatti in un ristorante. Non bisogna però fare di tutta l’erba un fascio e nella Pubblica Amministrazione ci sono ancora tante persone che si aggiornano e combattono ogni giorno per garantire servizi migliori ai cittadini: perché non siamo stati capaci di allearci con loro?

Siamo stata la generazione che ha potuto studiare fino ai gradi più alti della formazione, ci hanno viziati dicendo che eravamo tutti speciali, ma se siamo tutti speciali vuol dire che non lo è nessuno e così il nostro grado di istruzione crescente ha finito con l’unico scopo di far crollare la retribuzione salariale di coloro che potevano essere impiegati nel lavoro cognitivo.

Abbiamo ostinatamente voluto credere alle promesse dei nostri genitori circa il fatto che il mondo fosse un posto facile dove vivere, che eravamo unici e irripetibili e che strabilianti opportunità ci avrebbero atteso, chiusi sotto una amorevole campana di vetro che ci ha tenuti al riparo dal mondo. Abbiamo rimandato un confronto con la realtà destinato ad essere devastante, quella ovattata campana non era altro che una bolla paranoica di mediocrità. Non siamo stati meglio di coloro che si sono affrettati a votare Berlusconi perché persuasi che avrebbe davvero creato – già il termine mi cagiona ilarità – un milione di posti di lavoro, abbiamo preferito credere che creare le nostre opportunità con un po’ di fatica e di sudore. Abbiamo voluto far finta che ci fossero risposte semplici a domande complesse.

In politica e nel lavoro ci siamo relegati noi stessi al margine, ogni volta che abbiamo chinato il capo e ci siamo fatti imboccare, tutte le volte che non abbiamo provato noi stessi a mostrare che le cose potevano essere diverse nascondendoci dietro a una presunta italianità della raccomandazione, ogni volta che non abbiamo anteposto il merito al nostro interesse abbiamo replicato la mediocrità dei nostri padri e delle nostre madri che facendoci trovare sempre la pappa pronta non hanno fatto altro che crescerci deboli e fragili, ma anche supponenti perché mai posti di fronte ai nostri stessi limiti. Così si è costituita la generazione dove tutti siamo speciali, tutti siamo qualcuno, abbiamo tutti vite interessanti e fantastiche, mentre viviamo una condizione miserabile contronatura perché costretti a restare presso i nostri genitori senza la possibilità di svilupparci diventando ciò che siamo come adulti e perché no anche nella senilità.

L’ultimo grande demerito è che non abbiamo saputo restare uniti, ci siamo fatti investire dalle ideologie già precostituite dai nostri padri finendo per farci molto più la guerra tra di noi che provare a imporre una nuova visione delle cose, noi che siamo nati alla fine delle grandi ideologie, dove la religione è più mite nella rigidità, dove il muro di Berlino è caduto, dove se da un lato ci hanno accusati di non credere in niente avevamo invece l’opportunità di credere in tutto con uno sguardo nuovo e invece non abbiamo fatto altro che suonare uno spartito datoci da altri e danzato su quelle stesse note.

Non abbiamo fatto tesoro delle parole di Michael Young che ci ha provato a dire:

«I giovani devono combattere il potere degli anziani invece di allearsi con loro per ricevere favori».

Spero solo che le generazioni che stanno crescendo oggi e che verranno domani imparino dai nostri errori e non ce ne abbiano troppo a male per il mondo che ci apprestiamo a consegnare loro.

Matteo Montagner

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FIDUCIA COME CURA DELLA PAURA

Il nostro mondo è stato sconvolto dalla crisi economica che ha avuto inizio nel 2008, una crisi che è ben presto diventata anche una crisi valoriale, il panorama dei fenomeni che disgregano la comunità è radicalmente cambiato. I mezzi di comunicazione ci informano ogni giorno che se da un lato gli omicidi e le grandi rapine sembrano in diminuzione dall’altro si registra un aumento dei furti, scippi e altre aggressioni di relativa scarsa entità, che provocano però malessere e diffidenza diffusi. Se l’avvenimento doloso, come ad esempio un furto in appartamento, colpisce qualcuno di distante si riesce con facilità a relativizzare, ma quando riguarda noi ci investe profondamente, quando lo scippo viene perpetrato nel nostro quartiere, quando colpisce la nostra vicina di casa o un nostro parente ci sentiamo coinvolti in prima persona e ci spinge all’attivazione di misure difensive molto spesso sproporzionate rispetto alla minaccia. Pur essendomi sempre ritenuto molto di sinistra, molto incline a dare fiducia al prossimo e tendenzialmente restio a farmi prendere dai pregiudizi quando uno sconosciuto un po’ trasandato, magari anche di colore, mi si avvicina alla stazione ferroviaria mi metto già sulla difensiva, è qualcosa di istintivo che provo a mitigare con la razionalità, ma che mi vede comunque chiuso rispetto all’altro o prevenuto. Tutte le volte che qualche persona mi si avvicina magari con un aspetto un po’ trascurato devo fare appello a tutta la mia razionalità per provare ad analizzare la situazione, eppure nel passato quando mi è capitato davvero di essere stato rapinato o minacciato da qualche balordo ho sempre pensato che si trattasse di una eccezione, che in realtà gli esseri umani sono fatti per aiutare gli altri e non per danneggiarli.

Bisognerebbe pensare alla dimensione educativa delle persone a cui siamo stati sottoposti tutti fin dall’inizio della nostra vita, soprattutto nell’ambiente familiare. Che cosa insegniamo ai bambini circa i rapporti con il mondo esterno? A fidarsi di tutti o a non fidarsi di nessuno? O a fidarsi solo di chi si conosce? Quante volte vi hanno detto di non accettare caramelle dagli “sconosciuti”? L’educazione ci insegna a diffidare degli “sconosciuti”. Perché abbiamo così paura di correre il rischio di essere delusi pur di sperimentare nuovi rapporti?

Ogni tanto faccio una passeggiata in un parco vicino a casa, mi godo qualche pomeriggio di sole fumando una sigaretta su una panchina e osservando le persone che passano, tra la moltitudine di persone in cui ci si imbatte ci sono ovviamente anche genitori con bambini. Di recente ho assistito a una scena molto significativa. La scena vede protagonista un bambino piccolo, forse di tre anni, che corre intorno a una fontana stringendo con fierezza un robot colorato, sotto gli occhi attenti di una giovane madre seduta su una panchina poco distante dalla mia. Il bambino a un certo punto si orienta verso i giochi per bambini diretto alla scaletta di uno scivolo, nella sua corsa abbandona il giocattolo a terra poco distante dalla madre. Questa, messasi subito in allarme poiché aveva avvistato l’avvicinarsi guardingo di un altro bambino, avvisa immediatamente il figlio della minaccia “Giulio, guarda che così te lo rubano!”. Mi ha fatto pena Giulio, così piccolo e già così gravato dalle incombenze della proprietà. Un finale triste per questa scena. Quanto sarebbe stato bello se la mamma di Giulio avesse lasciato l’altro bambino godere del giocattolo e fosse intervenuta solo se Giulio avesse mostrato il desiderio di riappropriarsene? Ancora meglio: quanto sarebbe stato bello che la mamma di Giulio avesse incoraggiato il bambino a condividere il robot giocattolo con il nuovo amichetto? Quanto sarebbe stato bello sentirle pronunciare non un monito, ma un bel “Perché non giocate insieme?”.

La fine della società intesa come comunità di pari inizia il suo declino quando il primo uomo pronunciò: Questo è mio! L’inizio della comunità e l’avvento del capitalismo

Friedrich Engels

Da Aristotele a Engels, ma anche recenti studi psicologici ci indicano che i comportamenti altruistici sono sostanzialmente innati, come del resto la natura cooperativa degli esseri umani. Sono iscritti nel nostro DNA e tale indole compare in età molto precoce.

L’uomo è un animale sociale

Aristotele

Ciò non esclude che possano esistere altri comportamenti di tipo egoistico di natura innata che rispondono al bisogno di autoconservazione, di autoaffermazione e di possesso. Si tratta di due facce della stessa medaglia che costituiscono anche la massima contraddizione degli esseri umani tra ego riferimento e bisogno dell’altro, degli altri. Nel binomio tra Fiducia e Paura è racchiusa tutta la complessità della natura umana e dal loro equilibrio dipenderà il nostro star bene al mondo. Entrambi gli aspetti vengono plasmati dall’educazione. Per quanto riguarda la Fiducia e quindi l’altruismo se alcuni circuiti non vengono attivati in certi momenti critici c’è il rischio che si atrofizzino e che le persone restino imprigionate nell’isolamento dettato dall’ego riferimento. Per la paura e l’egoismo l’educazione dovrà incaricarsi di mettere in atto strategie che limitino l’attivazione di reazioni irrazionali o sproporzionate. Che fatica la Fiducia! Ma ne vale la pena, perché una vita all’insegna dalla Paura e dove prevale la diffidenza forse non vale nemmeno la pena di essere vissuta e può dirsi vivere davvero?

Matteo Montagner

Brexit: il Leviatano capovolto

Al di là della valutazione sull’esito del referendum, abbiamo assistito a una pagina di storia importante per l’Unione Europea e per la storia in generale: il Regno Unito entrato nel mercato unito nel 1973 ha deciso di abbandonare l’Unione Europea. La Filosofia e il pensiero hanno l’obbligo di provare a interpretare la contemporaneità e le vicende che ci riguardano tutti, qualcosa è cambiato.
Le mutazioni derivanti dall’innovazione e la svolta digitale stanno modificando in maniera indelebile le democrazie contemporanee, assistiamo sempre di più alla richiesta di partecipazione, alla disintermediazione che sembra minare in profondità l’idea stessa di democrazia rappresentativa. La democrazia rappresentativa sorge da esigenze palesi, non tutti possono decidere tutto o essere informati su tutto, servono luoghi preposti alla decisione, infrastrutture precise e la decisione non può essere sempre estesa a tutti, eppure il modello democratico che vede nel Regno Unito un esempio a partire dal 1700 sembra entrare in crisi in una nuova richiesta di partecipazione.

Il Regno Unito è la patria di Thomas Hobbes, teorico della turborappresentatività: tutti i cittadini devono stringersi intorno a un despota illuminato e dar così vita al Leviatano; oggi quel Leviatano sembra essersi capovolto, le classi dirigenti sembrano sempre più in balìa di una smodata richiesta di partecipazione che non riescono a canalizzare. Del resto una delle lamentele ricorrenti relative all’Unione Europea è proprio la sua distanza, il sembrare scarsamente rappresentativa della volontà del popolo o di una nuova categoria che serpeggia sempre più nel dibattito pubblico quotidiano “la gente”.

«Io autorizzo e cedo il mio diritto di governare me stesso a quest’uomo o a questa assemblea di uomini, a questa condizione, che tu gli ceda il tuo diritto, e autorizzi tutte le sue azioni in maniera simile. Fatto ciò, la moltitudine così unita in una persona viene chiamata uno stato, in latino civitas. Questa è la generazione di quel grande Leviatano o piuttosto – per parlare con più riverenza – di quel Dio mortale, al quale noi dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa…»
Thomas Hobbes, Leviatano

Hobbes oggi ci sembra un autore estremo, dispotico, conservatore e accentratore, ma nel contempo appare altrettanto rischioso far esprimere tutti su tutto se non correttamente informati. Studi recenti mostrano come l’analfabetismo funzionale sia in fase dilagante mentre l’istruzione di base delle persone è complessivamente migliorata, ma se è vero che ormai quasi tutti sanno leggere pare che non tutti siano in grado di interpretare correttamente un testo. La rete, internet e la digitalizzazione sono strumenti potentissimi per l’informazione, ma diventano anche veicolo di disinformazione: quante volte abbiamo visto amiche e amici cadere tranello in qualche bufala? Perché la tentazione di leggere superficialmente e condividere alle volte è forte, l’approfondimento o il controllo delle fonti risulta faticoso e complesso – anche chi vi scrive adesso un paio di volte è cascato in qualche idiozia per pigrizia. L’editoria così come l’abbiamo conosciuta è in crisi e il controllo delle fonti sembra sempre più superato, la comunicazione si è velocizzata a discapito della profondità; e non lo scrivo con nostalgia, non si torna indietro, ma bisogna farci i conti perché la circolazione di informazioni fallaci comporta anche la costruzione di opinioni meno consapevoli o per nulla consapevoli, irrazionali e dettate spesso da rabbia o rivendicazione.

Guardando la BBC stupisce vedere certi intervistati dire:
«I’m shocked e worried. I voted Leave but didn’t think my vote would count. I never thought it would actually happen». Oppure: «What I have done? I actually didn’t expect the UK to leave».
Persone che in fondo non pensavano che il loro voto avrebbe contato, che lo hanno fatto superficialmente o per esprimere un malessere. Persone che magari lo hanno fatto nella convinzione, anche questo è un mito ricorrente nel dibattito contemporaneo, al motto “tanto i poteri forti non ce lo faranno mai fare!”. Ecco, questa vicenda ha dimostrato che si può uscire dall’Europa, che la democrazia diretta può esprimersi liberamente; non ci sono limiti e proprio per questo dovrebbe renderci tutti più responsabili, perché tutti andiamo a determinare quel Leviatano molto strano di cui ci parla Canetti nel libro Massa e Potere. L’autore impiegò 38 anni a scrivere questo libro, ci tengo a segnalarlo per far capire quanto è complessa questa bestia strana che chiamiamo “Massa”, che è formata da tutti e nel contempo è anche “altro” dalla mera somma di tutti noi.
L’Europa, per le generazioni che l’hanno voluta, era l’orizzonte per sentirsi di giorno in giorno in una “casa”, in un posto più sicuro dopo che la divisione intestina degli Stati Nazione aveva portato a quella deriva culminate nelle due guerre mondiali; oggi ci avventuriamo in acque inesplorate dove ci si chiede fino a che punto si sfogherà questa spinta centripeta che potrebbe vedere la disarticolazione del Regno Unito con la separazione di Irlanda del Nord e Scozia. Ma non è solo questo: in Spagna si inizia a chiedere che Gibilterra, dove ha ampiamente vinto al 96% il Remain, possa tornare spagnola.

Hobbes afferma che il suo Stato assoluto può degenerare in una tirannide, tuttavia ripete a più riprese che questa situazione sarà sempre migliore e più sopportabile della guerra civile. Estremo? Decisamente sì. Però bisogna anche far attenzione ad invocare la democrazia diretta attraverso il referendum in maniera poco accorta, perché il paese si può anche spaccare generando fortissime tensioni sociali tra le parti.

C’è chi ha ridotto questo voto alla disuguaglianza derivante dall’Unione Europea e il declino della classe media, ma è interessante notare invece che i giovani britannici, i quali certamente sono il gruppo sociale che soffre più di tutti delle accresciute disuguaglianze economiche, hanno votato in massa per restare, mentre chi soffriva meno, ovvero gli anziani, ha deciso di lasciare. C’è da aggiungere che molti anziani hanno fondi pensione integrative molto sensibili alla fluttuazione della sterlina e che quindi subiranno maggiormente la sofferenza della moneta.

Non esprimo giudizi, ma pare che l’epoca contemporanea sia sempre più in balìa di un Leviatano capovolto: non un monarca al potere, ma l’egemonia della massa nell’epoca della rete e della democrazia diretta, dove ognuno vale uno, ma non sempre si può garantire che ognuno sia informato correttamente.

La Filosofia e i saperi umanistici forse possono essere d’aiuto nella acquisizione di una maggior consapevolezza, perché senza consapevolezza non può essere fatta una scelta davvero genuina: possiamo scegliere nell’ignoranza, ma restiamo pur sempre responsabili della nostre azioni – come dice Aristotele -, quindi meglio assicurarci di aver capito bene cosa stiamo scegliendo prima di impugnare la matita e fare una X su un foglio elettorale.

Matteo Montagner

IL CORVO È IL MIGLIOR NEMICO DELL’UOMO

“Signore, “dissi” o Signora, vi prego,

perdonatemi,

Ma ero un po’ assopito ed

Il vostro lieve tocco,

Il vostro così debole

bussare mi ha fatto

dubitare

Di avervi veramente

udito”. Qui spalancai la

porta:

C’erano solo tenebre e

nulla più”

Il Corvo, Edgar Allan Poe, 1845

In “Il Corvo” di Edgar Allan Poe il rendersi presente dell’oscura presenza del corvo stesso è preceduta dal flebile bussare di qualcosa, l’oscurità e nulla più, una oscurità che rappresenta una paura antica dell’umanità, le tenebre, lo sconosciuto, il nulla. Nell’asimmetria informativa si genera l’ansia e la paura che sono emozioni umane che tutti abbiamo più o meno sperimentato e sperimentiamo. Una insostenibile leggerezza dell’essere ci attanaglia mentre un brivido freddo ci attraversa la schiena perché l’uomo, come ci racconta bene Heidegger, vive la dimensione della sua stessa esistenza nell’essere e tempo, anzi leviamo direttamente di mezzo questa “e” perché l’essere sta nel tempo ed è quindi strutturalmente esposto al non essere, l’essere nulla. L’illusione dell’umanità per sopravvivere al meglio alla perenne esposizione al nulla è quella di provare a enfatizzare e a vivere il presente che per sua stessa natura è una dimensione eternamente esposta e oscillante tra un passato e un futuro, e quindi al suo stesso non essere. Il tentativo insomma è di eludere la nostra strutturale esposizione alla morte, il nostro “essere per la morte”, è quello di inventarci un esserci qui e “ora”, un “ora” che già mentre lo pronuncio non esiste più, l’adesso mentre lo evoco nella dimensione del linguaggio è già un passato che non è più.

Disse il Corvo, “Mai più”

“Nevermore”

“Nevermore”

“Nevermore”

La sentenza del Corvo è spietata e non lascia scampo. L’illusione di vivere è costituita dalla produzione di senso e di progettualità, ma la morte, il non essere costituisce l’implosione di ogni senso e questa consapevolezza è insita in noi, da qui il bisogno della religione come ben individua Nietzsche come gigantesco dispositivo di controllo sociale dell’ansia.

L’effetto placebo della religione, dei nostri progetti e delle nostre illusioni è quello di farci dimenticare la transitorietà e quanto la nostra esistenza sia in fondo effimera, come il tentativo di calcare la mano sulla memoria. In fondo ci consola pensare che i nostri cari ci ricorderanno senza tener conto che in quattro generazioni anche quel ricordo scomparirà. Ammesso poi che il nostro nome finisca in qualche libro di storia in fondo tale storicizzazione della nostra biografia non farà che restituire solo una parte di noi, saremo spettri nella storia dell’umanità, ma la storia non racconta ciò che siamo, racconta la dimensione di come ci vedono gli altri, siamo un racconto pronunciato e scritto dalle labbra di terzi e quindi in sostanza qualcosa di alieno rispetto alla nostra essenza.

Rispetto a” Il gatto nero” e “Il cuore rivelatore” il Corvo non parte da omicidi, non ha nessuna connotazione morale, il corvo in fondo non è altro una grottesca proiezione del male di vivere, l’umana sete di auto-tortura come la chiama lo stesso Poe. Il narratore ha perso la sua amata Lenore, il narratore della storia la evoca poco prima della comparsa del corvo nella stanza.

In Poe non c’è nessuna “colpa” del personaggio, nessuno ha compiuto azioni malvagie, il racconto non vuole insegnarci nulla, ma solo mettere a nudo quanto l’esistenza sia effimera. Emerge forte e lampante solo il desiderio di autodistruzione, siamo oltre il giusto e lo sbagliato, al di là del bene e del male come scriverà poi bene Nietzsche. La nostra paura rievoca inevitabilmente la pulsione umana inspiegabile e inesorabile di distruggere.

“Inconterò Lenore nell’Ade?”

“Mai più” risponde il Corvo.

Il lettore viene sovrastato da tutta la sensazione di masochismo, è ovvio che il Corvo risponderà a qualsiasi domanda ripetendo la sua ardua sentenza eppure il lettore continua a leggere, la voce narrante del racconto a fare domande.

La struggente sofferenza del narratore fa parte della vita di tutti noi sottesi tra il desiderio di ricordare e di dimenticare un passato che non passa eppure non tornerà appunto “mai più”.

La bellezza, l’amore femminile muore senza spiegazione e aggrapparsi al ricordo di ciò che è stato è anche la stessa causa dello sprofondare nell’ansia, nell’angoscia e alla fine comporta l’essere inghiottiti a propria volta nell’oblio. Il narratore, che poi siamo tutti noi, l’umanità intera continua a interrogare il Corvo come l’umanità continua a interrogare l’esistenza, la sua stessa esistenza, sperando che questa risponda “sì” pur sapendo che ad attenderci ci sarà invece un altro “no” o meglio, nessuna risposta salvo un “mai più”.

Il corvo è il miglior nemico dell’uomo che per sua natura produce senso per vivere ed è anche la componente distruttiva che ci portiamo dentro, il corvo è il nostro oscuro passeggero che scivola nelle nostre stanze buie nel cuore della notte, noi siamo, come genere umano, affascinati dalla risposta ripetitiva del corvo, la desolazione che ci pervade dell’animale che è in noi. La natura continua a sottrarsi ai nostri giochi di senso, la nostra vita ci sfugge ogni istante che passa. Possiamo illuderci che conti il viaggio e non il punto di approdo, ma quel punto di approdo come il corvo sta sempre dinnanzi a noi a ricordarci che siamo vissuti dalla vita, siamo soggetti passivi della natura stessa che ci sovrasta al di là di ogni nostro tentativo di dominare le cose.

“Nevermore”

“Nevermore”

“Nevermore”

Combattete quel Corvo che è in voi! Provate a scacciarlo con tutte le vostre forze! Rifuggitelo! Non ascoltatelo! Eppure una notte scivolerà comunque nel cuore dei vostri sogni più profondi per sussurrarvi con tenacia che ogni senso è destinato a scivolare nel non senso, come ogni tentativo dell’essere è destinato ad abbracciare il nulla.

[Scherzavo, è solo noir]

Matteo Montagner

Sviluppo sostenibile per i paesi del Terzo Mondo

Le cronache di ogni giorno, le migrazioni bibliche che ci investono attraverso il Mediterraneo, non solo di persone che fuggono dalla guerra, ma anche, in larga misura, per ragioni economiche, ci pongono in modo pressante il problema di definire un processo di “sviluppo sostenibile” per il Terzo Mondo e soprattutto quali siano i modi migliori per interpretare tale espressione e quali i più diretti per raggiungere gli scopi che esso si prefigge.

Il primo obiettivo da raggiungere è quello di migliorare le condizioni di coloro che sono emarginati economicamente, risultato che si può conseguire attraverso un approccio diretto ai mezzi di sussistenza e alla soddisfazione dei bisogni primari, che deve consistere nella basilare idea che si debbano creare possibilità di occupazione.

Ma quali sono le reali possibilità di intervenire nei Paesi del Terzo Mondo per aiutarli “a casa loro”?

Non è pensabile di programmare interventi di industrializzazione su larga scala, al massimo si può pensare di favorire la nascita di piccole aziende per esempio alimentari e di lavoratori autonomi nel settore meccanico e dell’artigianato. Questi settori potrebbero svilupparsi con un minimo di sostegno ufficiale e assistenza economica dato che queste attività impiegano più abitanti nelle città del Terzo Mondo del “moderno” settore “industriale” e pertanto vale la pena di considerarli attentamente come fonti di mezzi di sussistenza.

Tuttavia le cooperative e le piccole aziende potranno prosperare con difficoltà se mancheranno opportunità di formazione professionale adeguata e di sostegno istituzionale.

Ciò di cui c’è bisogno è la ristrutturazione dei processi di produzione di reddito e una gestione che consenta di diversificare i mezzi di sostentamento per coloro che generalmente dipendono in modo precario dall’agricoltura.

Però perché tali iniziative abbiano possibilità di successo è necessario creare collaborazione e coordinamento con le istituzioni dei Paesi in cui intervenire su piccola scala.

E’ comunque necessario uno studio attento dei sistemi di soddisfazione dei bisogni primari senza base di mercato e/o monetaria, quali sono diffusi nelle società orientate alla sussistenza, il che potrebbe darci la chiave per intervenire nel modo migliore in termini concreti e meno impattanti per quelle comunità.

Ad esempio varie popolazioni agro-pastorali, benché abbiano un accesso limitato a moderni strumenti di miglioramento economico, riescono bene a soddisfare i loro bisogni. Esse ci riescono attraverso un attento adattamento all’ambiente in cui vivono combinando opportunità limitate di coltivazione e allevamento, queste popolazioni sono in grado di mantenere se stesse e i loro animali all’interno di un fragile ecosistema.

Infatti il secondo obiettivo da perseguire è quello di prevenire il degrado ambientale.

Lo sviluppo economico non deve comportare il peggioramento relativo alla qualità dell’ambiente e delle funzioni ecologiche. In base ai meccanismi istituzionali del sistema economico il “mercato” coglie solo indirettamente e parzialmente il degrado ambientale attraverso l’impatto sulla produttività, sulla salute umana, sui costi di sfruttamento delle risorse, ecc., e le risposte che ne conseguono non sempre sono adeguate.

E’ quindi necessario intervenire con mezzi innovativi per scongiurare che un ulteriore sviluppo economico su larga scala non faccia altro che accelerare il degrado ambientale, purtroppo già in atto in quei Paesi, con conseguenze disastrose anche a livello planetario.

In generale esistono quattro principali approcci diretti alla prevenzione e al controllo dei danni ambientali:

  • analisi costi-benefici
  • valutazione delle risorse
  • politica macro-economica
  • ricerca applicata alla sostenibilità.

Un approccio di questo tipo alla soluzione sia dei problemi del Terzo Mondo che dell’ambiente può essere incentivato dalla partecipazione ampia e ponderata dell’opinione pubblica.

Una attenzione diretta a creare mezzi di sussistenza, attraverso la promozione e la costituzione di attività integrate su piccola scala, richiede l’attiva collaborazione dei potenziali beneficiari, mentre per lo sfruttamento dell’ambiente l’opinione pubblica occidentale può agire sui propri rappresentanti politici e ristrutturare gli interventi economici per tali finalità.

L’interpretazione di sviluppo sostenibile richiede quindi di orientarsi non verso un massiccio sviluppo, ma ad alternative meno dannose nei loro effetti secondari per tutte le popolazioni interessate e più efficaci nel migliorare le condizioni di vita dei più emarginati.

Poiché un approccio utilitaristico del tipo appena indicato esige che, se c’è possibilità di scelta, venga seguito il corso di azione che considera maggiormente gli interessi di tutte le persone coinvolte, si dovrebbero, “eticamente” parlando, intraprendere queste alternative.

Quindi possiamo concludere che lo “sviluppo sostenibile” non è una panacea, ma che neppure, necessariamente, è una aporia. Pertanto lo sviluppo sostenibile, considerato come ricerca di opportunità di sussistenza entro i mezzi offerti dall’ambiente naturale, è un concetto veramente fondamentale nella ricerca di un approccio coordinato e integrato ai problemi sia del Terzo Mondo che dell’Ambiente.

Matteo Montagner

Misericordia a colazione

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E’ possibile un recupero laico dei valori cristiani? Probabilmente alcuni valori sono legati a questioni dogmatiche, ma la morale cristiana porta in seno anche dei valori che possono essere utili nella vita di tutti i giorni e aiutarci a vivere meglio a prescindere dall’essere credenti o meno.

Vivere è l’infinita pazienza di ricominciare. E la misericordia offre, senza condizioni, senza stanchezza, senza limiti, esattamente la possibilità di ricominciare sempre, “settanta volte sette” proiettandoci verso il futuro, coltivando non rimorsi o rimpianti, ma le condizioni per rendere feconda ogni vita. Un’offerta, questa, un invito che profuma di eternità. Nel pensiero cristiano Dio è colui che presiede a ogni nascita, lo fa attraverso la sua misericordia, parola che nella lingua della Bibbia antica è detta rahamin, che è il plurale di utero, grembo, di madre, matrice, fonte di vita. Allora nel confronto con Dio le donne e gli uomini sanno di non essere una creatura che ogni giorno “lentamente muore”, ma figlie e figli che dolcemente e tenacemente nascono, si affacciano alla vita, crescono a libertà, a consapevolezza e amore.

«Con Dio si va di inizio in inizio attraverso inizi sempre nuovi» scrive Gregorio di Nissa. Nel mondo dello Spirito nessuno è mai finito per sempre. Dio non permette che ci arrendiamo, con lui c’è sempre un “dopo”: vede primavere nei nostri inverni, il sole che sorge nelle nostre albe così ricche di tenebre, profezia di spighe mature nel germoglio appena spuntato dalla terra. Alla peccatrice trascinata là, in mezzo a un universo maschile, per essere uccisa (Gv 8,1-11) Gesù dice: «Vai, e d’ora in avanti…». Quel “d’ora in avanti” è detto a ciascuno di noi, siamo tutti creature non ancora finite, non ancora fiorite e, proprio per questo, tenacemente in cammino. Siamo sempre nella preistoria di noi stessi, stiamo sempre nascendo, per questo possiamo dirci e ripeterci che l’uomo non è un essere “mortale” come spesso ripetiamo, ma è sempre “natale”, un incompiuto che si rinnova ogni singolo giorno. La filosofa Maria Zambrano diceva: «Noi nasciamo a metà. Tutta la vita ci serve a nascere del tutto». «La nostra vita non è arrivare o raccogliere, ma partire a ogni alba, seminare a ogni stagione» scrive Ernesto Oliviero.

Geremia offre una immagine molto suggestiva di Dio: «Sono sceso nella bottega del vasaio, ed ecco ogni volta che il vaso non gli riusciva, rimetteva l’argilla nel tornio e ricominciava a modellarla, come a lui pareva bene» (Ger 18,2-4). Possiamo recuperare tutto questo in chiave laica? Sì, nella misura in cui questo messaggio ci invita a non buttarci mai via, siamo sempre buoni per l’arte del vasaio. Per noi è una sciagura lavorare con vasi rotti, ma per la morale cristiana non è così, anzi è l’opposto. Quando le nostre vite sono spezzate siamo come anfore rotte, ma possiamo sempre rimetterci nel tornio e lavorare nuovamente su noi stessi con la pressione calda delle nostre mani. Quando la nostra anfora si incrina o spezza e non siamo più in grado di contenere l’acqua, proprio con quei cocci che a noi paiono inutili possiamo supporre che essi ci servano ancora, perché l’acqua sia libera di scorrere verso altre bocche e altre anfore, perché altre seti vengano estinte. «Dio può riprendere le minime cose di questo mondo senza romperle, meglio ancora, può riprendere ciò che è rotto e farne un canale» scrive Fabrice Hadjaji.

L’infinita pazienza di ricominciare è espressa nella Bibbia al motto “alzati e va’”. Ad Abramo, al popolo in Egitto, a re e profeti, a malati: “alzati”, stessa cosa vale per il dogma relativo alla resurrezione di Gesù, il motto resta sempre “alzati e va’”. L’invito è quello di mettersi in cammino, seguire i sentieri che si hanno nel cuore. A ogni caduta, a ogni stanchezza, a ogni tentazione di arrenderci o di adagiarci in ciò che abbiamo raggiunto, a ogni illusione di aver raggiunto definitivamente la nostra casa o il nostro nido, la figura della misericordia nella morale cristiana oppone quella della missione: tu puoi amare di più, puoi sempre migliorarti, essere più libero, essere più donna o uomo, con sempre meno paure e meno maschere, puoi far fiorire ancora di più la tua vita. La misericordia, anche intesa laicamente, è la custode dei sogni, sogni di futuro: sovranamente indifferente per il passato di colpe di ogni persona, è madre di futuro nuovo, di un domani migliore.

Tutto questo è un patrimonio tanto per il laico quanto per il credente? Penso proprio di sì.

 

Matteo Montagner

 

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