Carne “etica”, ovvero uccidere o non uccidere

“Cosa scegliereste tra un pezzo di carne per cui è stato necessario abbattere un vitello e lo stesso identico alimento, ma più economico, prodotto senza emettere gas serra e senza macellare alcun animale?”.

Questa domanda è stata posta al popolo cinese in merito alla sicurezza alimentare e alla tutela ambientale, questioni che sono diventate fondamentali dopo gli scandali in Oriente degli ultimi dieci anni, così come la sicurezza e la salute dei cittadini stessi.

Il futuro della carne tuttavia potrà realmente essere solo quello legato ad una artificiale? Questa scelta porterà i consumatori a preferire “carne etica” prodotta in laboratorio? Diverse aziende nel mondo stanno infatti scegliendo di sperimentare questo tipo di carne in piccole quantità, utilizzando cellule prelevate dagli animali e che poi maturano e si riproducono. Una scelta che fa discutere perché sono diverse le ragioni etiche che spingono verso questa tecnologia, dal trattamento degli animali all’emissione di gas serra; argomenti che si aggiungono poi al risparmio economico e ai costi competitivi.

A questo proposito la CEO dell’azienda (tra i leader del settore) Memphis Meats, Uma Valenti, afferma che «questo sarà il futuro», perché la carne prodotta in laboratorio sconvolgerà completamente la nostra vita; questo a suo parere conseguirà al fatto che nel prossimo futuro diventerà impensabile allevare animali e ucciderli per mangiarli, evitando dunque oltre gli allevamenti intensivi anche lo sfruttamento del territorio che ne consegue.

Non sappiamo dunque se questo sia il futuro ma è certo che già oggi stiamo iniziando sempre più a modificare le nostre abitudini alimentari.

Dal punto di vista etico questo passo sembra colpire l’uomo nella sua integrità, in quanto cerca di superare la condizione in cui si trova a causa del fatto che i paradigmi culturali ai quali è stato distrattamente legato sembrano essere falliti. Basta pensare alla trasformazione dell’uomo come forza della natura contro la natura stessa, in quanto la vita sulla terra è sempre di più legata al destino dell’uomo; un antropocentrismo che molto spesso non ci permette di conoscere ciò che abbiamo di fronte.

Per questo motivo diventa fondamentale darsi degli strumenti di lettura diversi, rivedendo posizioni religiose, filosofiche e giuridiche, se si vuole agire come se fosse possibile fermare, agire come se ci fosse la possibilità di uscire dalle contraddizioni.

Se noi stessi non iniziamo a comprendere il dolore che ci circonda, non arriveremo a comprendere nemmeno noi stessi all’interno della complessità del reale. In questi casi diventa fondamentale rifondare i nostri valori e concetti come quello di persona ma anche di equilibrio e di benessere, perché molto spesso i centri decisionali non stanno nelle politiche, ma altrove.

A voi la soluzione.

 

Martina Basciano

 

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Riconsiderare il concetto stesso di intelligenza: verso una politica degli algoritmi

Potrà un algoritmo gestire le nostre relazioni? Qual è realmente il progetto umano nelle società che si stanno sviluppando in quei Paesi tecnologicamente avanzati? È fondamentale porsi queste domande perché gli algoritmi ci circondano, in molti casi possono aiutarci ad avere una vita meno complicata, a salvare il nostro tempo ma, soprattutto, come afferma Luciano Floridi (direttore di ricerca di etica presso l’università di Oxford), un algoritmo potrà essere in grado di strutturare anche la politica: politica che purtroppo è fatta in gran parte di comunicazione e decisioni.

Gli algoritmi in questione sono in grado di fare entrambe le cose: vengono infatti utilizzati per comunicare e decidere meglio, non solamente per la comunicazione su Facebook. Questo significa che la tentazione di sostituire la politica degli esseri umani con quella degli algoritmi è molto forte, soprattutto se questa non è delle più democratiche! È importante, dunque, chiedersi se queste due “forze” siano in grado di coordinarsi tra loro.

Ad oggi, in molti Paesi, la voglia è quella di sostituire le decisioni e la comunicazione umana con quella digitale, di fronte a una società che, d’altro canto, sembra essere abituata ad avere timore difronte all’onnipresente Grande Fratello, orwellianamente parlando, ma che può anche essere definito come figura di controllo. In realtà si può arrivare a parlare di un vero e proprio orientamento dei comportamenti e quindi non solo di controllo-punizione per un comportamento negativo. Questo può essere considerato molto più pericoloso per una democrazia in quanto gli algoritmi e i dati digitali sono in grado di monitorare le persone in ogni momento, all’interno del loro cosiddetto “profilo”e decidere che per sempre saranno quel tipo di persona, ma soprattutto sono in grado d’influenzare silenziosamente, a seconda delle varie direzioni. Il nostro comportamento viene in questo caso sicuramente modificato perché, analogamente, è come se fossimo sempre intercettati. Anche per questi motivi è difficile pensare a una democrazia della libertà o a quella politeia priva di personalità autonoma al di fuori della persona stessa; piuttosto, come afferma il sociologo A. Aneesh, ci si avvicina sempre più ad una “algocrazia”.

C’è chi sostiene che l’intelligenza artificiale sia un’estensione di quella umana o che un giorno i robot prenderanno il nostro posto, pensieri che si possono definire naturali proprio perché nascono spesso da una scarsa conoscenza e informazione scientifica. Piuttosto diventa decisivo chiedersi se problemi come questi possono ricadere su temi importanti come quello della giustizia o dell’autonomia, che sono sicuramente più vicini a noi. Gli algoritmi e l’intelligenza artificiale da un lato aiuteranno a gestire le relazioni ma, dall’altro, tratteranno tutti allo stesso modo, senza preferenze. Quando qualcosa non funziona di chi sarà la responsabilità se la decisione verrà presa da un sistema artificiale indipendente? E dal punto di vista dei conflitti sarà giusto riservare le decisioni e le relative responsabilità alle macchine invece che a noi?

E ancora, se pensiamo alla prospettiva di essere visti in ogni angolo della strada, in ogni parte del mondo, si aprono altrettanti interrogativi perché, con lo sviluppo delle tecnologie, sicurezza e privacy saranno destinate a entrare in conflitto. L’algoritmo anche in questo caso struttura la politica: saremo più sicuri ma anche meno liberi.

Pensare che tutto ciò sarà messo in discussione in futuro richiede una grande partecipazione umana poiché questioni come queste, in molti casi, stanno determinando la natura della nostra società. Se ci troviamo difronte ad un’era talmente complessa, all’inizio di una grande rivoluzione tecnologica onnipresente e sempre in connessione, ma soprattutto se noi umani in realtà siamo già diventati interfaccia di tutto questo, diventa fondamentale riconsiderare il concetto stesso di intelligenza e chiedersi: quale sarà il vero algoritmo che regolerà il rapporto tra noi e l’Altra intelligenza?

Come scriveva Pariser in un articolo pubblicato su Internazionale: «Quando la personalizzazione riguarda anche i nostri pensieri, nascono altri problemi. La democrazia dipende dalla capacità dei cittadini di confrontarsi con punti di vista diversi. Quando ci offre solo informazioni che riflettono le nostre opinioni, la tecnologia, può spesso limitare questo confronto. Anche se a volte ci fa comodo vedere quello che vogliamo, in altri momenti è importante che non sia così».

 

Martina Basciano

 

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Tra misura ed ebrezza per una (sobria) filosofia di vita

La combinazione tra vino e filosofia può svelare uno dei fondamenti più attraenti del filosofare. Il principio immateriale più autentico della filosofia, infatti, sembra essere caratterizzato da un’essenziale variazione, che divide i confini della misura consentita: ovvero, ciò che può essere definito buono e vero.

Così, solo a partire da una prospettiva “smisurata” può essere affrontata la questione della misura, che può essere misurata solo ponendosi oltre, al di là di essa.

Lo stesso Holderlin (in Poesie, 1971) considerava l’armonia come ragione ultima dei limiti del mondo, delle sue misure e proporzioni. Mondo in cui l’uomo spesso viene spinto a liberarsi dai suoi legami, mentre non è in grado di cogliere la misura (quella vera).

Da questo punto di vista, il vino può essere considerato come simbolo “vivificatore”, che non può essere semplicemente ridotto a delirio dionisiaco. Infatti, gli effetti di come lasciarsi andare a dis-misura a questo piacere, possono essere considerati parte dell’esperienza filosofica. Perché il solo fatto di sperimentarlo in modo positivo e ragionevole, porta l’uomo stesso a farsi consapevole di questo limite, che divide il bene dal male (o il vero dal falso).

Attraverso la sua storia, in questo caso, il vino può essere considerato l’emblema di questa ambiguità, perché da un lato emerge come qualcosa di sacro, mentre dall’altro esprime la vita quotidiana dell’uomo consumatore da sempre legato al desiderio di superare i propri confini.

Come tra vino e conoscenza, come la filosofia…

Epicuro stesso aveva insegnato come valore fondamentale la misura, limite che oggi indica l’esatto opposto, ovvero Edonè, che in Lettera a Meneceo viene considerato come misura che aiuta a raggiungere il vero godimento di vita.

L’intero pensiero greco in questo senso emerge come pensiero della misura, concetto avente la funzione di simbolo collettivo che rispecchia la distanza degli eccessi, c che viene ristabilito tra i desideri e i turbamenti che attraversano l’animo umano. Solo così questa possibilità di misurarsi, per un autocontrollo effettivo, può essere legata a quel dominio di sé connesso alla virtù.

Anche questo può mostrare il vino: esso rende possibile l’esercizio di equilibrio sul limite tra misura e dismisura; esperienza che può rendere possibile all’uomo una vera e propria pratica del razionale, ma anche dell’impossibile.

Costituisce una relazione altra tra una determinazione e la sua negazione, per vivere il negativo come semplice alternativa rispetto al positivo, e non contradditorio. Solo attraverso questa prospettiva, l’ebrezza, come afferma Massimo Donà in Filosofia del vino (2003), può essere considerata come il vero modo in cui si mostra la sobrietà, perché «nulla di realmente diverso può esserci offerto da un’alterità che da questo mondo venga esclusa»1. Sobrietà che è anche fatta di questo senso della misura, riconoscendo un valore reale alle cose in ogni circostanza e ritrovando un contatto con se stessi che non ha mai perso la sua parte più vera.

Martina Basciano

NOTE:
1. Massimo Donà, Filosofia del vino, Bompiani, 2003, 232 p.

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Il gusto della forma: la percezione fisica come esperienza

Degustiamo ogni giorno cibi dalle forme diverse, forme che in un contesto in cui si sta perdendo la visione legata al piacere e all’esperienza sensoriale, si esprimono sempre più come quel gesto legato al nutrimento privo di ogni caratteristica e qualità.

Non ci accorgiamo che il cibo può essere anche interpretato come una forma, più importante del linguaggio umano, perché è quell’atto superiore che costituisce la causa, il senso e il fine stesso, che in questo caso mette in relazione il piacere con il bisogno.

E sono queste diverse forme che sono in grado di produrre effetti diversi nella bocca di chi mangia, perché sul piano sensoriale il loro gusto cambia. E perché la forma, come la sostanza, si traduce in sapore.

Lo stesso Aristotele definiva il gusto come una «forma di tatto», proponendo una gerarchia dei sensi come modi di percepire la realtà esterna, associando anche i colori ai sapori. Nell’Etica Eudemia in particolare viene descritto il comportamento dell’uomo saggio nei confronti di questi piaceri materiali del gusto, dove ai sensi era riconosciuta la capacità di emozionare e rafforzare l’umanità dell’uomo.

L’analisi sensoriale rappresenta lo strumento attraverso il quale ognuno di noi è in grado di sviluppare la propria esperienza culinaria attraverso una stimolazione in cui rientrano molte qualità. Tra queste, la forma stessa assume un senso o un sapore nel momento in cui si risponde al bisogno di variare il gusto e ci si appella alla percezione fisica come esperienza.

Se il sapore può essere inteso come sapere, nel momento in cui si acquisisce una consapevolezza legata agli ingredienti, lo stesso sapere può essere associato al sapore. Perché se le sostanze che concretamente mangiamo ci nutrono facendoci percepire qualcosa, allora il cibo come linguaggio può essere considerato all’interno di un sistema di differenze, non solo astratte ma anche essenziali e identitarie.

Come la forma che riferendosi sempre alla materia è in grado di rendere significativo un piatto…

Lo stesso Italo Calvino in Sotto il sole giaguaro descrive la cucina come campo di esperienza sensoriale, ovvero «l’arte di dare rilievo ai sapori con altri sapori», un percorso di sensi complesso a cui sia arriva attraverso la cultura e la consapevolezza che con questa diversificazione non si intendono solo le proprietà gustative ma tutte le qualità sensibili utilizzate nell’elaborazione culinaria.

Perché i sapori del cibo non sono solo espressione diretta della realtà ma possono rappresentare il risultato multisensoriale nel contesto in cui si consumano; dove il gusto prende forma e si esprime come punto di partenza in grado di sviluppare il nostro rapporto con il cibo.

Martina Basciano

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Un’idea di felicità: la filosofia servita a tavola

Sempre di più oggi la cultura alimentare sembra essere estranea a se stessa: l’uomo non è più ciò che mangia, non sa più cosa mangia e neppure perché. Progressivamente si stanno perdendo i suoi riferimenti fondamentali definiti nel tempo.

Per comprendere cosa rappresenta oggi il cibo, bisognerebbe ritornare al significato stesso della parola, come facevano i grandi filosofi, riacquistando il suo senso autentico che non si riferisce solamente a ciò che si consuma e che nutre, ma a ciò che è in grado di esprimere anche un intreccio di prospettive legate a identità, appartenenza e relazione, perché è la tavola stessa a raccontarci il suo cibo.

L’etimologia della parola appetito, ossia l’essere attratti da qualcosa, non si riferisce ad una pulsione istintiva che obbliga a mangiare, ma è attrazione per qualcosa che ci invita. Ecco che il cibo può essere considerato lo strumento di relazione per eccellenza: la condivisione, la ritualità quotidiana, il convivio, rappresentano il cuore del vivere insieme e l’uomo, che Aristotele descriveva come essere sociale, ha sempre desiderato di vivere assieme agli altri; un vivere che si esprime solo attraverso lo scambio e l’esperienza.

Il sedersi a tavola insieme può rappresentare quella dimensione reciproca fatta di valori che è in grado di ridare significato e spessore a un gesto di vita spesso tralasciato, perché semplicemente non viene interrotta l’abituale corsa frenetica,  in un contesto in cui soprattutto la percezione e l’organizzazione dello spazio e del tempo vengono trasformati e sottratti allo scambio e alla relazione. Godere dell’esperienza quotidiana, comunicare e consumare la narrazione del cibo, sono infatti dei rituali che nella società frammentata di oggi si stanno perdendo. Il mangiare insieme, quando legato al concetto di convivialità, oltre a ridare dignità al gesto in sé, può rafforzare la ricerca della felicità condivisa, perché anch’essa è raggiungibile attraverso il cibo e il rapporto con esso, ricerca che a volte può essere articolata come la natura intrinseca delle relazioni.

L’esistenza stessa si fonda sul legame che si instaura tra il mangiare e il quotidiano, portatore di significati e mediatore nei confronti di una realtà la cui conoscenza e comprensione spesso non può che avvenire in modo diretto. Come mangiare un piatto di pasta assieme, in cui gli elementi base restano prodotti semplici, ma che insieme sono in grado di costruire un forte valore identitario e di soddisfare il gusto tanto da diventare un’abitudine quotidiana. Non a caso il piacere della semplicità e dello stare a tavola assieme si condivide con facilità. La quotidianità del mangiare quindi rappresenta quel semplice spazio di condivisione ripetuta, in grado di aggiungere valore e sentimento anche ad un modesto piatto di spaghetti al pomodoro.

Una pratica che può essere riconosciuta come patrimonio immateriale proprio perché si riferisce ad uno stile di vita e alla tradizione, non solamente ai singoli ingredienti, che vengono ricreati e trasmessi garantendo un senso di identità e continuità tra i soggetti, in risposta alla loro cultura.

All’interno di questo contesto il rapporto con l’altro trova sulla tavola di tutti i giorni il luogo speciale per la sua manifestazione più genuina, perché è nel quotidiano e nella continua ricerca che cibo e filosofia possono trovare il loro punto di unione: il cucinare, il mangiare assieme e il fare filosofia, in modi diversi, accompagnano continuamente l’uomo nella ricerca costante di una vita che ha bisogno dell’impegno umano per poter essere riconosciuta, se non felice, quantomeno nostra.

Riprendendo le parole di J. Inés de la Cruz, «si può benissimo filosofare e preparare la cena. E io dico spesso pensando a tali bagatelle: se Aristotele avesse cucinato, avrebbe scritto molto di più».

Martina Basciano

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Sguardo a Oriente: Tiziano Terzani e il concetto di malattia

Il tema della qualità della vita è uno degli argomenti più discussi degli ultimi anni. Senza un giusto bilanciamento tra sopravvivenza e qualità della vita, si corre il rischio che gli inconvenienti determinati dalle cure, ad esempio, interferiscano con lo stato di benessere soggettivo della persona tanto che tutto il periodo di sopravvivenza arriva a coincidere con quello di sofferenza, indotto da una terapia.

In questo caso, Tiziano Terzani (1938-2004), giornalista e reporter italiano che ha legato la sua vita, il suo lavoro e la sua ricerca di verità in particolare all’Asia, in Un altro giro di giostra racconta il suo ultimo viaggio, quello attraverso la malattia che lo ha colpito, un viaggio quindi diverso, più intimo e personale, che l’ha portato da New York all’India, lungo le strade della medicina sia tradizionale che alternativa. In una ricerca tra Oriente e Occidente «Ognuno deve cercare a modo suo, ognuno deve fare il proprio cammino, perché uno stesso posto può significare cose diverse a seconda di chi le visita. Quel che può essere una medicina per l’uno può essere niente o addirittura un veleno per l’altro: specie quando si lascia il campo, in qualche modo collaudato, della scienza e ci si avventura in quello ormai affollato delle cure alternative».

All’interno di questa prospettiva, la cultura orientale è stata a lungo ignorata da quella occidentale, impegnata a costruirsi categorie e strumenti razionali di indagine e di dominio della realtà. L’Occidente infatti è venuto a identificarsi sempre più con la razionalità tecnica e scientifica: modello che è stato spesso messo in discussione e che ha maturato una nuova attenzione per la civiltà orientale, espressione di una diversa tradizione culturale. L’Occidente guarda a Oriente perché trova nella sua saggezza qualcosa che ha smarrito e non ha più nel suo patrimonio culturale; secondo Terzani infatti: «l’uomo occidentale, imboccando l’autostrada della scienza, ha troppo facilmente dimenticato i sentieri della sua vecchia saggezza».

Se la cultura occidentale si presenta sempre più segnata da dualismi (soggetto-oggetto, mente-corpo), da conflitti e contraddizioni, l’Oriente, invece, sembra avere molto vivo il senso della ricomposizione armonica degli opposti, del loro equilibrio e la concezione di una unità armonica di tutta la realtà, in tutti i suoi aspetti.

Questa mancanza di armonia nel mondo occidentale è vista come effetto del prevalere di un atteggiamento aggressivo; si sente quindi il bisogno di integrare un altro tipo di atteggiamento, per conquistare l’armonia e l’equilibrio desiderati. La trasformazione comporta però una revisione, sia del modo di vivere che del modo di vedere le cose. Bisogna quindi superare quegli atteggiamenti unilaterali e la volontà di dominio per orientarsi sempre più verso un atteggiamento di complementarietà, verso una visione d’insieme. Questa visione unitaria, nella cultura occidentale sembra mancare, perché in essa è prevalso un modello di razionalità analitica e astratta, che ha sacrificato l’esigenza di avere un’esperienza profonda del mondo e delle cose.

L’Occidente quindi, si impone con la sua razionalità scientifica e tecnologica, ma sembra avere sempre più bisogno di qualcosa che non trova nella propria realtà culturale. E questa crisi della ragione sembra essere sempre più evidente dalle parole di Terzani: «la nostra conoscenza del mondo e di noi stessi è ancora estremamente limitata e dietro alle apparenze, dietro i fatti, c’è una verità che davvero ci sfugge, perché sfugge alla rete dei nostri sensi, ai criteri della nostra scienza e della nostra cosiddetta ragione».

La medicina occidentale, a questo proposito, sembra vedere la malattia e non più il malato, conosce le patologie del corpo, ma non sa vedere l’unità profonda della dimensione fisica e di quella spirituale; per questo il ricorso alle medicine alternative può essere considerato per affrontare e curare i disagi profondi di un’umanità interiormente divisa. Il confronto con l’Oriente quindi può suscitare una consapevolezza dei limiti della razionalità, il bisogno e la necessità di ripensarla, rompendo quelle impostazioni che sono avvertite come un impedimento per affrontare problemi e difficoltà nuovi.

Se l’Occidente quindi in questo senso è in una situazione di blocco, può cercare anche fuori di sé un aiuto e un’integrazione del suo ethos. Questo non significa abbandonare completamente il suo approccio, ma riconoscere di avere bisogno di altre fonti di morale, in un rapporto che sia di conoscenza, di disponibilità al confronto e al cambiamento. Dialogo che deve essere improntato al rispetto e alla convinzione che anche l’ “altro” è portatore di valori; arricchendoci a partire da questo incontro; come avviene nei rapporti di cura.

Ma un’importante indicazione si aggiunge a questo discorso, che ci viene da Terzani, perché egli riconosce che il viaggio per lui è stato una grande occasione di riflessione e di ricerca, ma «quello che alla fine mi pare di aver imparato è parte di quella filosofia perenne che non ha nazionalità, che non è legata a nessuna religione, perché ha a che fare con l’aspirazione più profonda dell’animo umano, con quell’eterno bisogno di sapere come mai siamo al mondo».

 

Martina Basciano

 

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