La linea di meta mai raggiunta. Storia di desaparecidos.

Solitamente a passare alla storia sono quelle imprese sportive capaci di emozionarci per lo stemma che portano, per lo sforzo che trasmettono, per gli aneddoti che rivelano o per i pronostici che sovvertono. In ogni caso ad essere riportate annualmente dai notiziari sono sempre quelle sfide sportive che, per un verso o per l’altro, raggiungono il loro obiettivo: dal segnare una rete decisiva in Zona Cesarini al battere il record del mondo durante una finale non adatta ai deboli di cuore.

Affianco, o meglio indietro, ai vincitori, ci sono i vinti, la categoria più sfortunata al mondo. Solo per un episodio o per un crampo sopraggiunto poco prima del traguardo, questi accompagnatori affidabili e riservati della Storia (quella scritta da chi e per chi ha vinto) hanno visto sfumare quel risultato per il quale han consumato suole e polmoni.

Non è sfortunatamente dei vinti, soggetti estremamente interessanti quanto contingenti, né dei vincitori, quasi sempre irremovibili dal più alto gradino del podio, che vorrei parlare. Si trattano di categorie troppo vincolate dal verdetto di un evento e inserite in copioni scritti da registi senza estro.

Invece, mi preme raccontarvi di una vicenda capace di valicare i campi da gioco non tanto per i meriti, o demeriti, sportivi, quanto per la valenza simbolica che porta con sé.
Siamo nell’aprile del 1975, in una Argentina politicamente instabile guidata da Isabel Perón. In una Argentina dove gli squadroni della morte dell’organizzazione paramilitare della Triple A (Alianza Anticomunista Argentina) scorrazzano già per le strade a bordo delle tristemente note Ford Falcon. Il golpe militare sarebbe avvenuto solo l’anno successivo, nella notte del 24 marzo 1976.
In modo particolare siamo a La Plata, una città eretta dal nulla non troppo lontana dai clamori porteñi. Una città costruita sfruttando masse di emigrati, anche italiani, durante gli anni venti del Novecento.
Il luogo della vicenda è un campo di rugby dove ogni domenica scende in campo una delle molte squadre di La Plata, la più importante in ogni caso: La Plata Rugby Club, una società singolare perché vi giocano ragazzi provenienti dalle scuole pubbliche, un connubio (giocare a rugby – università pubblica) raro in un Sud america dai mille paradossi dove si sceglie di praticare uno sport in base al censo.
In ogni caso i rugbisti del La Plata Rugby Club vincono spesso, la squadra è forte, forse la migliore che si sia mai vista da quelle parti. Si vuole vincere il campionato, l’obiettivo è alla portata; basta portare la palla al di là della linea … magari in mezzo ai pali per avere così una trasformazione più facile.

La squadra continua a vincere nonostante le assenze dei giocatori più forti. Ogni anno, infatti, al ritiro ne manca sempre qualcuno. Certo ci sono i ragazzi provenienti dall’università, pieni di talento, di sicuro avvenire con i quali si vince comunque, ma il gruppo storico ogni stagione diminuisce ed è un peccato perché sarebbero stati  una squadra incredibile; poesia per gli occhi il loro gioco alla mano tanto che l’allenatore voleva partecipare ad una tournée in Francia. Peccato però che sia finita così, poco prima della linea di meta.

Il primo a saltare una partita è Hernan Roca, il mediano, il direttore d’orchestra per una squadra di rugby. La sua assenza piomba come un fulmine a ciel sereno nello spogliatoio del La Plata. Non si è fatto male, no: è stato prelevato a casa sua da una ‘patota’1 per errore. Volevano il fratello, un militante peronista.

La notizia sconvolge l’ambiente prima della partita contro il Cordoba. Si chiede un minuto di silenzio per il compagno svanito nel nulla (ritrovato morto con le mani legate dietro la schiena pochi giorni dopo) che diventano due, tre … dieci minuti di silenzio. L’atmosfera è pesantissima. In ogni caso si gioca, si vince, si va a casa. L’evento ha toccato tutti, la squadra fin dal giorno seguente si dà alla piena militanza nella convinzione che non potessero uccidere tutti. Al diavolo la Francia, vogliono stare in Argentina nonostante le continue assenze.

Alla fine del 1978 La Plata Rugby Club conterà dai 17 ai 20 giocatori uccisi o desaparecidos.2

La linea di meta è lontana, così come i pali per un drop allo scadere. Il risultato non conta più. La memoria si però, anche dopo quarant’anni.

Marco Donadon

NOTE

1 banda di poliziotti, militari e paramilitari durante la dittatura militare argentina, 1976 – 1983.

2 Il numero non trova riscontri precisi a causa della natura stessa del essere desaparecidos.

Bibliografia:

– Gomez C., Maten al rugbier. La historia detrás de los 20 desaparecidos de La Plata Rugby Club, Sudamericana, Buenos Aires 2015.

– vari articolo sul quotidiano argentino Pagina|12.

– G. Veiga, Deporte, Desaparecidoso y Dictatura, 2006.

Filmografia:

– Silvestri M., No bajar los brazos (2014)

Immagine tratta da:  http://mondovale.corriere.it/2015/11/02/la-vera-storia-del-mar-del-plata-rugby-club-i-desaparacidos-dellovale-arrivano-in-teatro/

We are everywhere!

“We are the Stonewall girls

We wear our hair in curls

We wear no underwear

We show our pubic hair

We wear our dungarees

Above our nelly knees!”

 

Intonando questo ironico motivo, alcune drag queen cercarono di schernire l’arrivo di una squadra anti-sommossa a New York. Un incontro inusuale che si materializzò in Christopher Street davanti al bar The Stonewall Inn, un nome che a molti non suggerirà niente, ma capace negli anni Sessanta e Settanta di ispirare moltissime mobilitazione sociali. In ogni caso The Stonewall Inn viene ricordato per un evento singolare, ma quanto mai attuale: il luogo “where pride began”.

Nella notte del 27 giugno del 1969, in seguito all’ennesima irruzione armata della polizia, un gruppo che vestiva “con abiti del sesso opposto” si ribellò aizzando la folla che nel frattempo si addensò davanti al edificio incuriosita. In poco tempo iniziò una mischia nella quale a farne le spese furono i poliziotti, costretti a rinchiudersi nel locale. Nonostante l’arrivo di rinforzi, i rapporti di forza non si ribaltarono; anzi la folla si andava ad ingrossare man a mano che passavano le ore, fino a contare nelle proprie file circa duemila unità.

Si trattò di una notte carnevalesca, dove i ruoli si ribaltarono. Si trattò di una notte fondante, dove al movimento omofilo si sostituì il movimento militante di liberazione omosessuale. Si trattò di una notte radicale, coraggiosa, nella quale i gay decisero di uscire da quei margini costruiti da una soggettività deformata di una società rinchiusa nella sua educastrazione1. Si trattarono dei moti di Stonewall, la palingenesi del movimento LGB (Lesbiche, Gay, Bisessuali; dagli anni Novanta l’acronimo comprenderà anche la lettera T -Transgender) contemporaneo che ogni hanno viene celebrata provocatoriamente con il Gay Pride parade.

A quell’epoca all’immagine del gay erano associati termini che rimandavano ad un universo promiscuo, sporco e peccaminoso. Spesso erano accostati alla pedofilia, alla corruzione degli alti quadri di Wall Street, alla mala vita organizzata o ancora al coinvolgimento in una possibile tratta dei bambini. Tutte presunte attività che il sindaco repubblicano John Lindsay voleva ripulire, perché rappresentavano modelli nocivi per i bambini d’America pronti per essere già educastrati dalla società borghese perbenista. Ma dopo Stonewall si cambiò strada:2 un mese successivo nacque il Gay Liberation Front, un’associazione che si diffuse capillarmente in tutti gli Stati Uniti e in molti altri Paesi del mondo come Canada, Regno Unito, Germania, Paesi Bassi, Francia, Belgio, Australia e Nuova Zelanda. Come le guerre di decolonizzazione che si stavano combattendo in quegli anni, anche quella intrapresa dal movimento omosessuale contemporaneo mirava alla libertà, all’inserimento democratico in una società: “we are everywhere”.3

Con i moti di Stonewall volevo introdurre una piccola riflessione sulle ultime vicissitudini italiane. Mi scuserete l’anacronismo, ma credo sia opportuno. Per un ddl che non aveva niente di rivoluzionario (l’Italia è uno degli 8 paesi in Europa che non possiede alcuna normativa sia in merito alle unioni civili – fra persone di differente o dello stesso sesso – sia per quanto riguarda le adozioni per coppie dello stesso sesso), si è svelata un’opposizione quanto mai becera e povera concettualmente. Per buona parte della classe politica, nella speranza che questa non rappresenti lo specchio della nostra società civile, i gay sono equiparati a pedofili, a promotori di programmi di avviamento della masturbazione per i bambini, o ancora a trafficanti di infanti e di uteri.

Come si può notare alcuni giudizi sono rimasti, seppur dopo 40 anni di lotte. Come si può notare l’ignoranza impera ancora (non venite a parlarmi di libertà d’espressione, visto che non si poggia su nessuna argomentazione o alcuna minima conoscenza). Ciò nonostante gli orridi spettri di una cultura maschilista ancora dominante si sono svelati in tutta la loro potenza, quasi avessero paura.

Il cambiamento è imminente.

We are everywhere.

Marco Donadon

Note:

  1. Il termine educastrazione fu coniato da Mario Mieli nel suo scritto “Elementi di critica omosessuale” (Einaudi 1977).
  2. Occorre aggiungere che prima dei moti di Stonewall, negli States era già presente un movimento omofilo molto radicato. Stonewall, in ogni caso, rappresenta una rottura radicale.
  3. Slogan durante i moti di stonewall.

Filmografia:

  1. Stonewall, 1995.
  2. Stonewall, 2015.

 

Immagine: http://aftersantana.altervista.org/wp-content/uploads/2013/06/worst-fear-best-fantasy.png

Lezioni di storia internate

Ci sono lezioni memorabili e altre, invece, totalmente inutili.

Ci sono lezioni che ti procurano ripetuti crampi alle mani, per i troppi appunti scritti; ma frequenti sono anche le lezioni scialbe, dove non succede mai nulla.

Ci sono lezioni dove si dialoga; altre ancora dove a discutere è solo il professore.

Ci sono, però, anche lezioni inascoltate, e non per la pigrizia degli studenti.

Ci sono lezioni represse, e non per divergenze ideologiche.

Ci sono lezioni emarginate perché internate. Come quelle tenute da Ruth, una professoressa di Storia di origini austriache.

 

Nome: Ruth

Anno, luogo di nascita: 1880, Vienna

Caratteristiche: persona colta, agiata, intelligenza buona, piagnucolosa, cattolica.

Data di ricovero: maggio 1943

Sintomi: esaltazione, allucinazioni, capacità affettiva troppo esagerata, tendenza marcata al suicidio

Data di rilascio: ritirata il 1 agosto 1944 da militari delle SS

Annotazione: di “razza ebrea”

Ruth era stata ricoverata nel maggio del 1943 al Sant’Artemio, l’Ospedale psichiatrico di Treviso nato nel 1904 dopo i gravissimi scandali riscontrati nella gestione dei manicomi veneziani di San Clemente e, in particolar modo, di San Servolo. Assistita in un Istituto di Cura di Treviso, la degenza di Ruth fu proposta al Sant’Artemio in seguito al manifestarsi di alcuni comportamenti ritenuti clinici: sbalzi umorali frequenti, una capacità affettiva esagerata e il desiderio violento di farsi del male. Un elenco che ci consegna l’immagine di una donna afflitta da numerosi traumi, ricordi infernali sedimentati nella sua memoria insieme a quelle nozioni apprese, con notevole fatica, sui i libri di storia durante la sua carriera universitaria. Rimembranze disordinate, piene d’angoscia e disperazione. Tra queste, sicuramente, c’era la fuga da Spalato dell’autunno del 1941, insieme ad altri 2.000 ebrei, quando l’avanzata nazista, oramai inarrestabile, era giunta nei Balcani per imporre le sue ideologie. Altri sprazzi di memoria agitavano la quotidianità di Ruth, come i reticolati di filo spinato del campo di internamento di Cison di Valmarino che non le permettevano di fuggire ancora più lontano, ancora più distante da quelle logiche belliche colpevoli di averle tolto l’amore del marito, morto durante delle incursioni, e quello del figlio, ucciso a causa delle sue origini ebraiche.

Ecco perché aveva voglia di farla finita; ecco perché a momenti di estrema lucidità alternava istanti di rabbia e di profondo rancore. Era sta depredata di tutto: la terra, la casa e gli affetti. Non possedeva più radici, punti di riferimento ai quali aggrapparsi. Non possedeva più una storia.

Nonostante il mondo le fosse crollato addosso, Ruth, dal Sant’Artemio, scriveva delle lettere che, a sua insaputa, non saranno mai inviate poiché erano considerate documenti clinici e come tali dovevano essere inseriti nel fascicolo personale del paziente. In ogni modo, in alcune di queste missive Ruth chiedeva che le fossero spediti alcuni libri in tedesco, quella lingua che oramai da tanto tempo non ascoltava; in altre, invece, raccontava i rapporti interpersonali che intratteneva, nelle eterne giornate trascorse nell’Ospedale psichiatrico di Treviso, con il Direttore, i medici e gli infermieri, con i quali le relazioni non erano sempre idilliache: qualcuno la trattava male perché era straniera o forse perché era tedesca, un’appartenenza mal sopportata nel 1944 da ampi strati della popolazione italiana via a via che la guerra procedeva.

Chissà quali altri ricordi sarebbero trapelati, chissà quali altre lettere sarebbero state inviate se non ci fosse stata quella piccola postilla “razza ebrea”. Il primo agosto del 1944, l’ufficiale delle SS Franz Stangl, ex capo dei campi di sterminio di Sobibor e Treblinka, prelevava la signora Ruth dal Sant’Artemio insieme ad altri due uomini e una donna, secondo quanto disponeva il piano Aktion T4.1 Il programma nazista di eutanasia degli adulti disabili, iniziato nel 1939 in Germania, arrivava così in Italia: oltre a Treviso, anche gli ospedali psichiatrici di Trieste, Pergine e Venezia vennero epurati con la collaborazione dei funzionari repubblichini. I prescelti? Tutti disabili di “razza ebrea”, come annotato scrupolosamente nei fascicoli personali dei ricoverati.

Qui finisce la storia di Ruth. Da qui inizia la sua lezione.

Ci sono lezioni che ti ritornano in mente.

Ci sono lezioni di dignità e di rivalsa, anche a distanza di anni:

“sono un essere umano, non una bestia”

cit. Ruth

Marco Donadon

Note:

1 Con Aktion T4 si intende il programma nazista di eutanasia attuato in Germania tra l’ottobre 1939 e l’estate 1941, che prevedeva la soppressione di tutte le persone adulte affette da malattie ereditarie considerate inguaribili o da malformazioni fisiche tali da pregiudicare l’inserimento nel mondo lavorativo. Dopo l’estate 1941, il programma continuò ufficiosamente negli ospedali psichiatrici, ma anche all’interno dei campi di concentramento sotto la sigla “Aktion 14f13”.

Bibliografia:

– Taccuino di lavoro, a cura di M. Paolini e M. Signori, Einaudi, Torino 2012.

Immagine:

[https://cartesensibili.files.wordpress.com/2014/03/testa-di-creola-1913-olio-su-cartone.jpg]

Riprendere la pura positività di Aldo Capitini dopo i fatti di Parigi

Si è scritto molto sui fatti di Parigi del 13 novembre scorso, fiumi d’inchiostro per raccontare nel dettaglio quei momenti di puro terrore che hanno lasciato con il fiato sospeso e gli occhi gonfi di lacrime milioni di persone. Si è scritto molto quindi e molte volte impropriamente, ma non è questo ciò di cui voglio parlarvi per diversi motivi che ci porterebbero fuori tema. Ho ripreso, invece, gli avvenimenti del mese passato per soffermarmi sulla reazione politica della Francia, passata sottotraccia, quasi non la reputassimo degna di nota. In altre parole, la decisione di bombardare i territori in mano all’Isis (o Daesh), la mattina seguente agli attentati (anche sull’utilizzo improprio di questo termine bisognerebbe discutere), è stata considerata un’azione normale di fronte all’eccezionalità degli attacchi avvenuti il giorno precedente. In breve, la risposta sia esterna (i bombardamenti) che interna (la richiesta dello stato d’emergenza, misura in seguito prorogata fino a 3 mesi) data dalla Francia risultava essere necessaria. Da un punto di vista logico, insomma, rispondere con la violenza ad un atto di violenza è l’espressione più naturale (altra parola che correliamo innocentemente al termine necessario) concepibile dall’uomo.

Già a questo punto mi si potrà criticare di aver semplificato la situazione, di aver taciuto sui mille interessi e le migliaia di sfumature che ogni conflitto porta con sé. E’ vero. Però se ci si soffermasse su ognuno di questi aspetti si constaterebbe come seguano inevitabilmente una logica oppositiva -negativa.

Lo slogan “fare la guerra contro chi ti fa la guerra” sembra essere il principio primo, la Verità assoluta.

Vi sono vie o logiche alternative (altro vocabolo ormai utilizzato per fini denigratori) in grado di distinguersi dalle strutture cognitive imperanti? Si può pensare un sistema che si differenzi in maniera assolutamente positiva, quindi trascendendo la logica del negativo e del positivo inteso come non negativo, cioè negativo del negativo? Personalità di spicco hanno cercato di intraprendere questa via nel corso della Storia: Gesù (un modo gentile per sottolineare come la cultura occidentale sia andata abbastanza fuori rotta rispetto alle sue radici cristiane, difese in maniera becera ogni giorno dai mass media), san Francesco di Assisi, Tolstoj, Gandhi, Bertrand Russell e Martin Luther King sono solo alcuni esempi. Grandi simboli della Storia ai quali affiancherei una figura meno nota dal punto di vista storiografico: Aldo Capitini, l’organizzatore della prima marcia della pace in Italia, avvenuta il 24 settembre del 1961 tra Perugia ed Assisi in un clima fortemente influenzato dalla questione del  terzomondismo e dal terrore delle bombe H.

Fin dagli anni Trenta, quando rifiutò di aderire al fascismo abbandonando così il posto da Segretario generale presso la Scuola Normale di Pisa, Capitini si impegnò ad assumere i principi gandhiani della non – violenza e della disobbedienza civile rielaborandoli a suo modo, in maniera puramente positiva. Per quanto riguarda il primo aspetto, unendo le parole “non” e “violenza “ – perché

se si scrive in una sola parola, si prepara l’interpretazione della nonviolenza come di qualche cosa di organico e dunque, come vedremo di positivo

(Capitini A., Tecniche della non violenza, Roma, Edizioni dell’Asino, 2009, p. 11)

che possa includere anche i violenti – Capitini dimostrò di aver riflettuto profondamente sull’inconscia violenza insita nel nostro linguaggio, una caratteristica che consente una manipolazione quotidiana, volta ad acuire la tensione (si veda il titolo del quotidiano Libero il giorno dopo gli attentati di Parigi), da parte dei maggiori mass media. Il secondo aspetto, la disobbedienza civile, venne ridefinito da Capitini in un orizzonte più largo: non solo come semplice azione di rifiuto, ma ponendosi in termini di compresenza e libero accordo, fondamenta di un modello di società, la omnicrazia, dove l’identità e le differenze andranno a coesistere senza rapporti di violenza. Solo il libero accordo, quindi, permetterà la formazione di appartenenze e partecipazioni libere da ogni necessità che consentiranno, condividendo la propria esperienza del mondo, di giungere ad una verità costruttiva che tenga conto delle diversità personali e culturali che inevitabilmente esistono.

Un’utopia (altro vocabolo volto ad esautorare e delegittimare in partenza qualsiasi proposta alternativa) mi direte? Non credo. Aldo Capitini era un uomo d’azione: stilò una serie di tecniche individuali e collettive per costruire una realtà nonviolenta concreta, un sistema facilmente applicabile a qualsiasi azione personale e globale.

Un matto? Non fu l’unico: alla marcia parteciparono 10 000 persone in un’atmosfera di festa al di fuori di qualsiasi irreggimentazione partitica. Un’altra via sembrava possibile.

Se siete d’accordo, pensate alternativo liberamente.

Buon Natale

Bibliografia:

  • Capitini A., Tecniche della nonviolenza, Edizioni dell’Asino, Roma 2009.
  • Capitini A., Il potere di tutti, La nuova Italia, Firenze 1969.
  • Madera R. – Tarca L. V., La filosofia come stile di vita, Mondadori, Milano 2003.
  • Tolomelli M., L’Italia dei movimenti, Carrocci, Roma 2015.
Immagine: http://archiviomemoria.comune.perugia.it/index.php?/tags/308-marcia_della_pace
Marco Donadon

 

Dagli incisi non si scappa, parola del pigro

Avete ragione, devo ammetterlo, le migrazioni che coinvolsero i nostri antenati conterranei non hanno niente a che vedere con questa massa zingara – anche gli zingari adesso?! – e indisciplinata che oggi si accinge a bussare – magari bussare!! –  la porta del nostro giardino; un’oasi così ordinata e pacifica che rischia in un prossimo futuro di essere calpestata e di vedersi assediata da quei fastidiosi bivacchi nauseabondi – non è proprio da cristiani starsene così come pezzenti, questi svergognati che chiedono l’elemosina con un mano e con l’altra tengono uno smartphone – che infestano con il loro miasma contagioso la nostra aria. In attesa che l’ultimo sistema matematico e scientificamente ineccepibile, gli hotspot, sia applicato in modo tale da poter “esternalizzare”, un termine utilizzato dal giornalista squinternato Luca Rastello nel suo pseudo libro d’inchiesta La frontiera addosso, questa mandria di barbari pronta a rubarci il lavoro, gli uomini – le donne dell’est mietono innumerevoli vittime dicono – ed a stuprarci le donne – quello dello stupro ce l’hanno proprio di razza –; occorre trovare un metodo per fermare un’altra tipologia di flusso migratorio – un altro, ma basta!!! 30 euro al giorno anche per questi? -, ben più sordida e vigliacca: la migrazione delle parole scritte!

Pare che queste siano difficili da scovare perché non si possono intercettare in quanto non seguono la consueta linea telefonica. Sono a tutti gli effetti dei soggetti invisibili, clandestini – soggetti?! Le parole!? Anche loro clandestine? – da individuare. Come fare vi chiederete, voi che state negli incisi – si, si proprio noi –; beh un antecedente storico ci sarebbe. Nella prima metà del secolo scorso frasi estrapolate da missive come Dimmi mamma! che vita è la mia?? Il destino mi ha separato da tutti i miei cari, tengo per unico amico la solitudine, e con essa tanti giorni tristi”, scritte di proprio pugno dai molti nostri connazionali emigrati – eh si, eravamo sempre povere vittime dei soprusi altrui –, rappresentavano un vero e proprio pericolo – no, aspetta, gli emigrati italiani un pericolo? Ti ripeto che, nonostante il nostro virtuosismo, ci lasciavano morire di fame – per la società perché svelavano una certa soggettività, abbastanza radicata devo ammettere, capace di sconfessare quello che ogni giorno i giornali scrivevano sul loro conto, appunto sui migranti – ma avrà avuto le proprie ragioni, l’italiano intendo, a lamentarsi, non credi? –.  Alcune cose,  per questo motivo, è meglio che non fuoriescano poiché delegittimerebbero alcune strategie volte ad esautorarli della propria identità – non bisogna occultare la verità, riconsegniamo l’onore che gli spetta -.

Ad esempio, solitamente gli immigrati che ci vendono quelle fastidiose cianfrusaglie ai lati della strada li consideriamo stupidi, per il lavoro che fanno, o ignoranti, per quell’accento stonato e infantile che imprimono alla nostra lingua, o ancora pericolosi, per le malattie che ci portano e per le cinture piene di bombe che indossano – eh infatti, chi ci dice che non si intrufolino anche i terroristi nei barconi?-. Ci siamo mai posti il problema che le nostre considerazioni possano essere errate? Abbiamo mai avuto un dubbio che le loro differenze non siano di natura oppositiva rispetto al nostro stile di vita ? Beh, un tentennamento, una tentazione in questo senso l’ho provata proprio davanti a queste parole –  perché? di chi sono? Un altro nostro emigrato? – : “Tanto ho navigato, notte e giorno, sulla barca del tuo amore che o riuscirò in fine ad amarti o morirò annegato. Giardiniere, apri la porta del giardino; io non sono un ladro di fiori, io stesso mi son fatto rosa, non vado in cerca di un fiore qualsiasi”.

Sono versi di un giovane afgano che potrebbero evidenziare una qualche forma di sensibilità e raccontare di una situazione disperata –  bah, ma quale disperazione! Molti di loro sono anche migranti economici, lo dicono gli esperti – dove la vita e la morte sono separate da una porta. Ecco, se queste parole, come le tante testimonianze naufragate nel mediterraneo, venissero a galla, forse il barbuto musulmano col turbante al lato della strada assumerebbe un’altra dimensione, più completa. Forse –  Non credo proprio, è palese che siano degli incivili. Lo confermano anche le nostre nonne e i nostri amici che questi occupano i marciapiedi, puzzano e nel caso avessero una casa, questa subito la lascerebbero marcire con i loro riti medievali. Sono animali! –. In ogni caso, teniamole nascoste e blocchiamole alla frontiera queste parole, anche se le vostre risposte, voi signori degli incisi, mi fanno capire che tenete già idee chiare, salde e giuste. Non cambiatele. Rilassatevi. Tanto come dite voi, carissimi abitanti degli incisi, sono animali, punto e basta.

 

Non c’è verso insomma, con la pigrizia bisogna sempre farci i conti sul terreno dell’informazione. Buona dormita a tutti.

Ringrazio Giovanni Stella, un emigrato schedato originario di Treviso giunto in Argentina nel 1926, e Zaher Rezai, un tredicenne afgano che nel 2008 morì sotto le ruote di un camion nei pressi di Mestre, per le loro parole senza documento.

Fonti:

  • Archivio Centrale dello Stato, Casellario politico centrale, b. 4950, fasc. Giovanni Stella.
  • Per quanto riguarda Zaher Rezai, vari articoli consultabili on-line.
Marco Donadon
[Immagine tratta da google immagini]

 

Criminale per natura, anarchico per passione

Un criminale violento e brutale o un eroe romantico ed un idealista?

Come consuetudine la società detta dei canoni al di fuori dei quali stanno l’immigrato, il pazzo, il criminale e il pervertito. Ecco, Severino di Giovanni rappresentava l’amalgama di questi quattro ingredienti.
Era un immigrato. Originario di Chieti, nel 1923 giunse con la moglie Teresina e il primo figlio a Buenos Aires, una città da sempre punto di approdo per numerose persone. Nonostante l’Argentina fosse una babele di volti, l’immigrato era visto in ogni caso come un elemento di destabilizzazione.
Era un pazzo. Secondo le teorie lombrosiane, molto diffuse in Sud America, gli anarchici come Severino altro non erano che persone insane mentalmente da sbattere in manicomio.
Era un criminale. Il giovane chietino (o teatino) era un espropriatore e considerava l’uso della violenza uno dei possibili canali per legittimare le proprie idee. Ovviamente gli attacchi dinamitardi, gli assalti alle banche e gli omicidi a brucia pelo erano indirizzati contro precise personalità e precisi obiettivi.
Era un pervertito ed un adultero. Lasciò la moglie, alla quale non fece e non farà mancare nulla, dopo essersi invaghito di una minorenne, Josefina America Scarfò, sorella del suo compagno di idee Paulino.
Inoltre era ateo in una società ultracattolica come quella sud americana.
In breve, Severino di Giovanni rappresentava la figura paradigmatica dell’antiargentino, dell’antioccidentale capace di catalizzare tutti gli istinti di una collettività bramosa di vederlo al patibolo. Un desiderio che venne esaudito il primo febbraio del 1931.

Come al solito un plotone d’esecuzione ha cancellato ogni dubbio – ogni perplessità – ogni

tentativo di ricerca della verità.

Il giochino è semplice e viene ripetuto ogni volta: c’è un mucchio di merda talmente grosso

che non si riesce nemmeno a sotterrare – bisogna distogliere in qualche modo l’attenzione

dalla puzza nauseante – allora si prende un anarchico, uno di quelli che non stanno tanto

tranquilli, uno di quelli che alle parole fanno seguire i fatti, e lo si trasforma nel colpevole di

tutto ciò che di male succede. Se poi quell’anarchico è anche un immigrato italiano, tanto

meglio.

(N. Francalanci, L’anarchico che cade nelle mie mani deve aver litigato con la vita se continua

a essere anarchico, Robin Edizioni, Roma 2007, p. 90)

Severino, però, era molto altro.

Era un tipografo. Nell’agosto del 1925 fondò il periodico “Culmine” per diffondere le idee anarchiche tra la classe operaia e per fare luce sugli omicidi commessi dalle forze d’ordine locali e dai fascisti residenti in Argentina.
Era un lavoratore instancabile. Oltre a curare la stesura del suo periodico, manteneva contatti assidui con altre realtà anarchiche come quella vicino al giornale newyorkese “L’Adunata dei Refrattari”.
Era un idealista. Anche se votato all’azione, l’immigrato teatino conosceva approfonditamente il pensiero anarchico: sia gli ideali più sublimi, sia i limiti più penalizzanti.
Era un poeta. Le sua musa era America, una giovane donna molto più matura rispetto alle sue coetanee alla quale dedicò versi intrisi di passione:

…Perdernos entre el verdor, lejos, lejos… caminar del brazo en esta aurora hacia

un horizonte intangible e inalcanzable, siempre unidos, siempre fuertemente

ligados como dos hiedras sorbiéndonos la propia existencia una de la otra,

y cantar la rapsodia heroica de la vida difícil.

(Lettera di Severino di Giovanni per America, 10 settembre 1928)

Chi era quindi Severino Di Giovanni? A voi il giudizio dicotomico, a me la complessità.

Marco  Donadon

 

Fonti:

  • Bayer O., Severino Di Giovanni, Un idealista de la violencia, Txalaparta Argitaletxea, Tafalla 2000.
  • Cattarulla C., “Anarchici italiani in Argentina: Severino di Giovanni, l’uomo in camicia di seta”, in DEP. Deportate, esuli, profughe, n.11, Ca’Foscari Venezia 2009.

 

Immagine:

  • http://www.hacerselacritica.com/tacticas-y-eticas-los-ojos-de-america-por-paola-menendez/

L’inadeguatezza dell’informazione e il ruolo delle scienze sociali.

Le cronache, che da sempre leggiamo sui giornali o apprendiamo comodamente guardando la televisione, sono frutto di un processo di sopraffazione nel quale alcune versioni s’impongono su altre decretando quali siano i vincitori o gli sconfitti, quali i buoni o i cattivi della vicenda di turno.

Le storie così violentemente plasmate diventano, con le chiacchiere, microcosmi della nostra abitudine, forgiandoci a loro volta in un’opinione pubblica manichea pronta ad affibbiare etichette durature a chiunque incorra in episodi degni di nota.

Ed ecco, allora, comparire nell’immaginario collettivo l’assassino, il clandestino, il ladro, il pazzo, il drogato e l’eroe, personaggi piatti costretti dalla sorte a ricoprire il medesimo ruolo nella nostra fiaba quotidiana senza possibilità di replica.

In un’epoca come quella attuale nella quale il moltiplicarsi dei mass media dà vita incessantemente ed istantaneamente ad una mole senza precedenti di notizie, vere o presunte tali che siano, l’univocità delle storie raccontate polarizza, in veri e propri fortini di cemento armato, il nostro consenso e il nostro dissenso, estremizzandoli e rendendo impossibile una terza via conciliatoria. Il meccanismo è semplice: per considerarsi informati, bisogna eseguire, con rigorosa sistematicità, un’operazione di scarto delle informazioni, dove a essere eliminate, con ferrea facilità, sono quelle notizie che non confermano una verità (nostra) talmente inoppugnabile.

Basta ripetere quest’azione giornalmente. Come spesso accade è solo questione di allenamento e tutto diverrà più facile, fino ad apprendere inconsapevolmente questo metodo con il quale le nostre convinzioni trovano un riscontro rapido, senza comportare grosse perdite di tempo.

Semplice, non impegnativo ma pericoloso. Il rischio, infatti, esiste. Brandendo la spada della verità inconfutabile, quella che alla prova dei fatti (parziali e tendenziosi) non crolla o comunque non si scompone, possiamo combattere guerre apparentemente giuste e condannare qualcuno con una superficialità disarmante (a proposito di spade) senza tenere conto della complessità insita in ogni singolo evento ed in ogni singola persona.

Che fare per non diventare intolleranti e saccenti spocchiosi? Ecco entrare in scena le tanto vituperate scienze sociali. Una famiglia di discipline che, lungi dal dare verità assolute, utilizza un approccio critico e multidisciplinare, un metodo fondamentale capace di leggere fra le righe e di porre in evidenza il grigio delle storie, quelle sfumature con le quali l’assassino, il clandestino, il ladro, il pazzo, il drogato e l’eroe assumeranno ai nostri occhi altre forme non più ingessate. Una dinamicità che potrebbe aiutarci a riflettere su problematiche ben più radicate, proprie di una società complessa.

 

Marco Donadon

[immagine tratta da Google Immagini]