Woodstock Teatro è nato nel 2013, a Venezia, dove stavamo studiando Scienze e Tecniche del Teatro allo IUAV (per la nostra formazione registica, scenografica, drammaturgica e di light designer) e all’Accademia Teatrale Veneta (per la formazione attoriale). I componenti stabili sono Alessandra Dolce (scenografia e costumi) e Marco Gnaccolini (drammaturgia e regia). Lavorano nei diversi progetti Rossana Mantese (attrice), Irene Canali (attrice), Andrea Wob Facchin (musicista), Matteo Moglianesi (luci) e Alejandro Garcia Hernandez (percussioni). Hanno lavorato in precedenza anche Michele Guidi (attore) e Eleonora Ribis (attrice).
Fin da subito hanno voluto concepirsi e formarsi una equipe di lavoro teatrale, liberi di creare progetti in proprio e anche di sviluppare collaborazioni con altri artisti, mettendo quindi al lavoro le loro competenze professionali nei progetti altrui.
La poetica del gruppo è quella di affrontare visioni, pulsioni e problematiche del nostro essere contemporanei, confrontandosi con la realtà che li circonda. Credo che questo loro orizzonte sia espresso in questa loro citazione: «di un raggio di luce osservare e raccontare l’ombra da esso creata.»
L’obbiettivo è di proporre teatralmente delle opere d’immaginario, sviluppate con diversi linguaggi scenici e attente alle particolarità cognitive con cui ognuno di noi percepisce la realtà, per portare così in scena delle storie nel migliore dei modi possibili, qualunque vento soffi.
I primi progetti che hanno realizzato sono stati: Spring Boy, lavoro di prosa e teatro di figura sulla vita e gli scritti di Brendan Behan, drammaturgo irlandese e attivista politico degli anni ’50, e Un Piccolo Principe, percorso sensoriale e d’installazioni tratto dalla sceneggiatura che fece Orson Welles del famoso romanzo di Saint-Exupery. Si può dire che questi due lavori sono i semi da cui tutt’ora sbocciano le loro nuove idee sceniche.
1-Buongiorno Woodstock Teatro, intanto come nasce il vostro nome?
Buongiorno a te, Marco! Il nostro nome è nato in una notte d’estate, tra il vino e gli alberi di Forte Marghera a Mestre, ed è legato al nome dell’uccellino giallo e di specie ignota che fa da spalla a Snoopy nelle strisce a fumetti dei Peanuts di Charles Schulz. Lo abbiamo assunto a nostro animale totemico perché seppur di piccole dimensioni non si nega le avventure più immense, volando spesso a testa in giù, innamorandosi di fiocchi di neve e drogandosi con briciole di pane. Ci guida, quindi, nel pensare il nostro fare teatro trovando costanza e caparbietà nell’indipendenza, coraggio nell’insicurezza e amore incondizionato verso le sconfitte e le cause perse. Inoltre, il nome ha le lettere e il suono giusto per noi: inizia lungo e lontano come l’ululato di un lupo, e finisce rapido e secco come lo schiaffo di saetta che annuncia un temporale.
2-Vi ho incontrati personalmente e vi giuro non ho mai visto due sguardi così appassionati. Cosa vi piace del mondo teatrale? Come lavorate nei vostri ruoli di drammaturgo, scenografa, attore e regia?
Del teatro ci piace il suo provenire da tempi immemori, e la sua continua e infinita riserva di sorprese che lo rende inconoscibile.
Del teatro ci piace la continua ricerca. A prescindere dal fatto che si parta da testi sconosciuti o al contrario da testi conosciutissimi, ci piace il fatto che si arriva sempre a creare un nuovo messaggio visivo e uditivo a volte anche olfattivo, pare di sentire gli odori che descrivono un ambiente.
Ci piace ma allo stesso tempo ci preoccupa, ci inquieta e ci eccita scegliere di cosa parlare, capire se le nostre priorità, le nostre impellenze siano comuni a molte persone, ragazzi e non.
Ci piace appassionarci al nostro nuovo “progetto” fino a che, quello che noi proviamo, non lo trasmettiamo a ogni nostro compagno di viaggio, attore, musicista o pubblico che sia.
Il nostro lavoro lo definiremmo un ensemble, una sinfonia in cui ognuno porta il proprio contributo, un brainstorming su un tema in modo che ognuno si appassioni e porti a parlare di ciò che gli preme, poi, tutto si snoda, il drammaturgo scrive, lo scenografo porta immagini e suggestioni fino al punto in cui ci si riunisce nel momento della messinscena, dove si chiede anche all’attore di portare il proprio mondo e il proprio io, è così che nasce la regia di Woodstock teatro, un contributo di tutti che viene poi armonizzato.
3-Il teatro è un po’ visto come un figlio messo in ombra dalle prestazioni dell’altro, il cinema. Perché secondo voi?
Se il teatro viene visto in ombra rispetto al cinema è perché li si vuole ancora paragonare sullo stesso piano di risultati, e cioè quello di arte spettacolare che chiama in assemblea un’intera società a riflettere su un determinato argomento. Il cinema, indubbiamente, è ai giorni nostri l’arte dei grandi numeri di pubblico, mentre il teatro è una realtà di nicchia (almeno in Italia). Questo succede perché nel nostro paese ci abituano a pensare troppo spesso in forma assolutistica il mondo delle arti all’interno delle nostre città, e poco in maniera sinergica.
Il teatro e il cinema sono due arti con linguaggi completamente diversi, seppur simili: il cinema è un formarsi di fantasmagorie, mentre il teatro di visioni. Il cinema ti fa vedere, mentre il teatro ti fa immaginare. Chiedono un diverso tipo di attenzione nel pubblico, un diverso grado di partecipazione. Quello del teatro può risultare più complesso e faticoso, perché ha bisogno di un luogo fisico e di un momento preciso per farsi, ma può rivelarsi molto affascinante perché chiede al pubblico di essere attivo nella costruzione dell’evento: nel cinema è la macchina da presa a scegliere cosa far vedere di una storia, mentre a teatro sono gli occhi e soprattutto la mente dello spettatore a operare e addirittura creare questa scelta. Senza il pubblico e il tempo presente, l’espressione teatrale non può esistere: il teatro è un accadere irripetibile, al contrario di un filmato che, in quanto registrato, è un accaduto replicabile.
Ecco perché si deve necessariamente incontrare la gente con il teatro, ed è una sfida faticosa. Con Talkin’ Woody Guthrie, nostro ultimo progetto di ballad-opera, l’obiettivo è stato: andiamo nei locali dove si riunisce la gente, dove mangia e va ad ascoltare musica. Il teatro rimane fondamentale posto in cui ci si incontra e si discute, e ci si appassiona come succede a un concerto, dove molto spesso i musicisti suonano con maggiore vita i loro brani dal vivo rispetto a quelli stessi che possiamo ascoltare registrati. A teatro, la differenza la fa ancora la percezione dell’uomo.
4-Passiamo un po’ al nostro territorio. Com’è fare teatro a Venezia? Avete avuto esperienze fuori della provincia?
Per noi al momento sta risultando difficile andare in scena a Venezia città, a Mestre invece stiamo al contempo incontrando un formicaio di realtà non teatrali ma molto attive culturalmente, spazi che vogliono aprirsi e contaminarsi; andare in scena in questi posti comporta soprattutto molte difficoltà di natura tecnica, non essendo spazi teatrali bisogna pensare a un teatro che faccia a meno di molte creazioni e attenzioni sceniche, ma tutto ciò ci regala una bellissima sfida, e soprattutto incontri splendidi. Abbiamo aperto una collaborazione poi con il Centro Culturale Candiani in qualità di operatori culturali, con un progetto nel loro Campus per Not Only For Kids di questo giugno. Inoltre, stiamo incontrando moltissime occasioni di collaborazione con professionisti teatrali veneti: Andrea Pennacchi, Pantakin, Stivalaccio Teatro, Il Libro con Gli Stivali.
Con i nostri progetti lavoriamo molto di più fuori da Venezia e dal Veneto, soprattutto in Lombardia e a Milano, dove gli spazi off sono molti di più e sono molto attenti ai temi che ospitano, e stiamo consolidando ogni anno che passa la nostra presenza sui loro palcoscenici.
5- C’è un filo conduttore nelle vostre storie? Cosa volete trasmettere, quale messaggio insomma?
Il filo conduttore delle nostre storie è una riflessione sull’essere umano, sulla possibilità che una scelta comporta. I nostri personaggi prendono posizione, sono consapevoli di quello che sono, ma soprattutto delle scelte che hanno fatto, non giudicano ma spesso vengono giudicati. Non diciamo cosa fare, solo invitiamo a riflettere sul fatto che non esiste bianco o nero, non esistono persone di serie A o serie B, ma solo scelte e conseguenze che possono influenzare la storia, quella che si studia nei libri. Ci piace spesso parlare dei personaggi secondari, diciamo i “non protagonisti” delle storie: come la strega nella favola di Biancaneve, nel nostro Le mele della strega o dei secondini di una prigione e del boia nel nostro Spring Boy o dei lavoratori profughi, gli hobo, in Talkin’ Woody Guthrie.
6- Avete dei progetti in cantiere?
I progetti in cantiere sono moltissimi! Alcuni sono sul nascere, e ancora troppo fragili per essere esposti qui. Possiamo dire però che lavoreremo Cadorna ’14-17, il testo del nostro drammaturgo Marco Gnaccolini la cui prima parte ha vinto il concorso di “Racconti di Guerra e Pace” indetto dal Teatro Stabile del Veneto, andato in onda anche su Rai Radio 3 oltre che nelle mise en space nei tre teatri di Venezia, Padova e Verona. Sarà una coproduzione Woodstock Teatro con Kalambur Teatro, per la regia di Alessio Nardin che ne curò anche quella per le mise en space.
E poi La Regina della Neve, il nostro prossimo progetto per bambini, nella quale lavoreremo sulla malattia e i mondi in cui essa ci rinchiude.
Aperte già sono nuove collaborazioni con Andrea Pennacchi e la squadra di Teatro Boxer con cui abbiamo creato il favoloso Merry Wives of Windsor!
7- Ultima domanda Woodstock, la vostra esperienza che state coltivando si collega in qualche modo alla filosofia? O meglio, c’è della filosofia nel vostro lavoro?
Il nostro lavoro è filosofia, nel senso etimologico del termine “amore per la sapienza”, come ti abbiamo detto prima del teatro ci piace il fatto di poter conoscere, imparare sempre perché amiamo la conoscenza. Con i nostri spettacoli riflettiamo sull’uomo, sulla sua esistenza così come la filosofia ci insegna a fare e poi abbiamo una nostra filosofia di lavoro, condividere e collaborare.
Una delle spine dorsali del nostro agire teatrale è il pensiero del filosofo Agamben sul concetto di essere contemporanei, di chi e cosa lo si è, e del che cosa significa essere contemporanei. Abbiamo assunto su di noi una delle sue risposte, per la quale ci sentiamo appartenere al nostro tempo non coincidendo perfettamente con esso, non adeguandoci alla sua linearità; ci relazioniamo così al nostro tempo attraverso una sfasatura e un anacronismo, avendo una distanza con cui poter percepire luci e soprattutto tenebre del nostro vivere d’oggi. E questo portiamo in scena.
Marco Donadon
[immagini concesse da Woodstock]
Intervista a Woodstock Teatro: il teatro che mette in scena l’uomo e le sue scelte luglio 8th, 2017Marco Donadon