Gli intellettuali oggi

Oggi l’intellettuale è una delle figure più vituperate insieme a quella dell’insegnante e del medico. Dai giornali, dai social network, dai talk televisivi si attacca sempre più spesso colui che desidera riflettere in maniera più approfondita su un certo tema poiché non sarebbe un’azione abbastanza pratica; d’altronde termini quali intellettualoide, professorone, filosofo ecc sono tra i dispregiativi più utilizzati per delegittimare chi esercita il pensiero.

Da dove deriva questo rancore?

Una delle ragioni principali deriva dal fatto che l’intellettuale non produce materialmente ricchezza. Non è dunque un lavoratore o un individuo che si mette a fare, un termine quest’ultimo talmente abusato ormai che se non si fa o non si mostra quanto si fa (in Facebook ad esempio), ci si sente colpevoli o perfettamente inutili in un mondo dove l’ordine di produrre ha esteso le sue lunghe braccia anche nel cesso di casa.

Dunque per ottenere rispetto da parte del pubblico, l’intellettuale contemporaneo è costretto a definirsi un professionista, un colletto bianco con una ventiquattrore contenente l’ultimo sensazionale libro dalla copertina dai colori sgargianti e con un titolo stampato a caratteri cubitali. Inoltre, essendo un professionista dovrà limitarsi a commentare solo ciò che è inerente al suo campo di competenza, un quadratino sempre più piccolo nell’epoca della parcellizzazione dei saperi: sei il massimo esperto delle mele, ottimo. Non azzardarti però a parlare delle pere, son troppo diverse quindi non puoi comprenderle. Oltre a limitarsi al suo campo di competenza, l’intellettuale contemporaneo per forza sarà costretto a schierarsi o tra le file dei buonisti acritici che credono in un mondo a forma di cuore, oppure fra i complottisti di mestiere che dietro a ogni zona d’ombra ricamano teorie da milioni di Like. Non ci si può astenere altrimenti sei uno della casta.

In realtà, io credo che l’intellettuale debba avere un altro profilo.

Innanzitutto dovrebbe avere fiuto, ossia la capacità di leggere e calibrare gli equilibri sociali prima degli altri. Per questo, occorre che l’intellettuale sia dotato di un senso critico estremamente sviluppato. Si può difendere una causa, si può dare voce a un punto di vista, ma la critica deve per forza venire prima della solidarietà (di fedeltà neanche parlo). Di conseguenza, l’intellettuale non potrà schierarsi apertamente prima di non avere sottoposto all’esercizio della critica questo primo legame in particolare e tutti quelli che legano le infinite componenti di una società. A tal proposito, per chi lavora con il pensiero non esistono ordini fissi, gerarchie naturali, presupposti intoccabili e verità a priori in quanto tutto è mutabile, rovesciabile e segmentato.

Insomma da questa breve descrizione l’intellettuale sembra essere un guastafeste, l’amico noioso che alle feste vuole ascoltare il vecchio e saggio Guccini al posto del giovane e superficiale Rovazzi. In realtà non è proprio così. Chi vuole partecipare ai dibattiti e alle riflessioni d’oggi non può vivere al di fuori del mondo come un eremita o provare nostalgia per quel passato della serie “si stava peggio quando si stava meglio”, ma bisogna che si immerga con tutto sé stesso nel suo tempo. Per questa ragione è impensabile non avere un account Facebook e/o Twitter dal quale commentare, anche in maniera provocatoria, ciò che succede con il pericolo di essere attaccato su tutta la linea da diversi leoni da tastiera.

Per concludere, l’intellettuale non può permettersi di essere schizzinoso di fronte agli strumenti di comunicazioni odierni e in generale di fronte alla società contemporanea. Occorre sporcarsi nello stesso fango dove nuotano gli altri, controbattere colpo su colpo senza perdere il senso critico, la vera arma di chi lavora con il pensiero. Magari insieme a un vocabolario incisivo e comprensibile da tutti.

Marco Donadon

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Incroci letterari a Venezia: un festival per l’incontro culturale

Anche quest’anno si è svolto a Venezia, dal 29 marzo al 1 aprile, Incroci di civiltà, il consueto festival internazionale di letteratura promosso dall’Università Ca’ Foscari, dal Comune e dalla Fondazione di Venezia, con la partnership di Marsilio, di Fondazione Musei Civici Venezia e di Bauer Venezia.

Come ogni anno, Incroci di civiltà ha aperto le porte a moltissimi scrittori provenienti da tutto il mondo: dalle firme più prestigiose, come l’israeliano Abraham B. Yehoshua e lo statunitense Michael Chabon (premio Pulitzer nel 2001), alle nuove speranze quali Jonas Hassen Khemiri, il giovane talento proveniente dalla Svezia, e l’argentina Mariana Enriquez (vincitrice del premio Bauer Giovani).

Oltre a incrociare, per l’appunto, culture, lingue e stili narrativi, il festival è stato ospitato in varie strutture veneziane e mestrine. Fra queste si ricorda la splendida Fondazione Querini Stampalia, il Fondaco dei Tedeschi da poco restaurato e l’auditorium di Santa Margherita, splendide cornici per un festival in grado di abbracciare ogni angolo della città entrandone in armonia attraverso la forza della letteratura.

A presentare la manifestazione, che quest’anno festeggia il suo primo e personalissimo anniversario decennale, ci hanno pensato la vicesindaco di Venezia Luciana Colle, il rettore di Ca’ Foscari Michele Bugliesi, il prorettore alle Attività e Rapporti culturali Flavio Gregori, la direttrice del Festival Pia Masiero e il direttore della Fondazione di Venezia Giovanni Dell’Olivo.

«Nascono molti festival – ha esordito Colle – ma pochi arrivano all’importante traguardo della decima edizione raggiunto da Incroci di civiltà. Un graditissimo appuntamento culturale il cui successo cresce ogni anno grazie alla capacità di rinnovarsi, pur rimanendo nel solco di quella tradizione che da sempre ha visto Venezia come luogo di passaggio e di incontro tra diverse culture. Gli scrittori di tutto il mondo che parteciperanno a questo prestigioso festival onoreranno con la loro presenza e le loro opere l’intera città, orgogliosa di riscoprirsi elemento vitale del panorama letterario nazionale e internazionale».

Per concludere, non occorre neanche sottolineare la grande affluenza di pubblico che si è dimostrato, come ogni anno, estremamente interessato alle voci internazionali della letteratura. Un successo, dunque, che incentiva le istituzioni veneziane a pensare già a Incroci di Civiltà 2018.

Marco Donadon

Breve riflessione sull’importanza delle scartoffie

Quando la pigrizia ci abbandona e finalmente si decide di mettere ordine in casa, ci accorgiamo cassetto dopo cassetto di aver cresciuto, a nostra insaputa, un mostro fatto di carta e polvere. A meno che non si scelga di adottarlo e di dargli un nome, quasi sempre il nostro caro amico finisce per essere gettato nella campana − color giallo mi raccomando − dei rifiuti. Tra l’insensibilità generale.

E se vi dicessi che compiendo quest’azione lasciamo cadere nell’oblio parte della nostra memoria?

Del resto se avessimo un po’ di pazienza e compassione in più, scorgeremmo in quella creatura non solo delle scartoffie bollate come “inutili”, ma anche delle testimonianze in grado di ricostruire parte della nostra vita. Infatti, tra gli storici professionisti è risaputo che gran parte dei «testi in cui l’autore scrive delle proprie azioni, pensieri e sentimenti»1 siano da considerarsi a tutti gli effetti delle fonti storiche, degli ego–documenti. Un termine quest’ultimo coniato da Jacques Presser, uno storico olandese che sul finire degli anni ’50 non sapeva come classificare quelle scritture personali come i diari, le autobiografie, le lettere e i giornali di viaggio. Inoltre questa categoria solo recentemente è stata allargata ad altre tipologie di documenti quali i curriculum vitae, le testimonianze orali girate in vecchie VHS o registrate nelle audiocassette, gli scontrini utili a sottolineare la nostra dipendenza dalla cioccolata o ancora le agende sature dei nostri impegni lavorativi. Tutte scritture dell’Io che hanno consentito l’ingresso nella Storia non solo ad autori appartenenti alle classi sociali subalterne, ma anche a una enorme quantità di temi che hanno dato vita a filoni di ricerca estremamente innovativi. La storia dei sogni ad esempio: cosa si sognava negli anni ’30 del ‘900? Un diario personale sarebbe in grado di fornirci la risposta. O ancora la storia culturale: quando gli italiani cominciarono a mangiare la pasta al pomodoro? I minuziosi ricettari delle nonne potrebbero darci qualche indicazione.

Gli ego–documenti si sono rilevati fondamentali, quindi, per aprire nuovi spazi di ricerca facilitando in questo modo le interconnessioni fra le varie discipline scientifiche. Non solo. Le fonti del sé hanno ricoperto un ruolo fondamentale per l’approfondimento di quegli aspetti delle scienze storiche considerati, molto spesso erroneamente, centrali come la politica, l’economia e la guerra. Per quest’ultimo macro-argomento ad esempio, le testimonianze orali si sono dimostrate estremamente efficaci per evidenziare quel processo di indottrinamento e de–responsabilizzazione che ha investito molti americani una volta arruolatisi nei marines. In che modo? Studiando l’uso dei pronomi personali soggetto (l’Io, il Noi e il Loro) e la loro disposizione nel tempo e nello spazio2.

Come, spero, avrete inteso leggendo questo articolo, le scartoffie e più in generale ciò che produciamo hanno ancora oggi un loro valore. Non si può conservare ogni cosa, ma almeno si dovrebbe riflettere sulla relazione che intercorre tra noi e la parte di noi dalla quale abbiamo deciso di separarci.

Marco Donadon

NOTE:
1 – Caffiero M., Testi e contesti. Le scritture femminili private a Roma nel Settecento: i diari tra soggettività individuali e appartenenze socio-culturali, 2010,  www.giornaledistoria.net, consultato il 10 marzo 2017.
2 – Portelli A., “Come se fosse una storia. Narrazioni personali dei reduci e storia orale del Vietnam”, in Storie Orali. Racconto, immaginazione, dialogo, Donzelli Editore, Roma 2007, pp. 349 – 372.

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Contro la cementificazione della Memoria

Ogni 27 gennaio ricorre il Giorno della Memoria, una data istituita in Italia per ricordare:

«la Shoah (lo sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, e a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati».
Legge 211, 20 luglio 2000

Da questo momento, ogni 27 gennaio, le sale cinematografiche proiettano un film sul tema − quest’anno è la volta di Nebbia in agosto di Kai Wessel −, le biblioteche o le istituzioni culturali promuovono conferenze o spettacoli teatrali − solitamente su Hannah Arendt − e le scuole concedono il permesso a fugaci visite ai musei della Memoria, solo per obblighi istituzionali. Ed io, scrivendo un articolo sul giorno della memoria, mi cimento nel ruolo ricoperto da altri milioni di autori, che ogni anno dedicano 800 parole al 27 gennaio.
Tutto ben organizzato per trovare il tempo di ricordare. Alla fine occupa solo un giorno, o al massimo una settimana. Da domani ci si può finalmente sentire meno in colpa perché il nostro dovere di buon cittadino è stato eseguito. Anche da casa con Facebook. Da domani finalmente potremo condividere e postare a piacimento notizie riguardanti le terribili malattie portate dagli immigrati o quelle sui cani bisognosi di cura. I sommersi (nel vero senso della parola) e i salvati dei nostri tempi.

Il Giorno della Memoria è una memoria abitudinaria, ferma e passiva che sbiadisce con il tempo. Per quale motivo, allora, ci si ostina a fissarla − la memoria − in un preciso istante, quando è essa stessa un meccanismo in movimento che conserva e riformula le tracce di ciò che vediamo, sentiamo, guardiamo e tocchiamo?
Perché tendiamo a istituzionalizzarla e a monumentalizzarla in modo tale da isolarla e allontanarla dalle persone, rischiando che quest’ultime nel corso degli anni perdano la sensibilità nei confronti di ciò che è stato? Insomma, perché vogliamo mummificare la memoria delle stragi naziste?

Credo fermamente che occorra pensare a un qualcosa di permanente, al quale si possa aderire volontariamente senza l’incombenza di “dover” ricordare. Serve, dunque, un progetto che si riappropri del tempo e dello spazio, individuale e sociale, in maniera riservata e silenziosa, ma costante.
Un esempio, a mio parere, estremamente positivo è rappresentato dall’iniziativa Pietre d’inciampo1 partita da Colonia, una cittadina tedesca, grazie al genio dell’artista Gunter Demnig. Di cosa si tratta? Di un’idea semplice ed efficace: un sampietrino ricoperto da una piastra di ottone posto davanti alle abitazioni di chi venne deportato nei campi nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale. Una piccola targa quadrata sopra la quale è riportato il nome della vittima, l’anno di nascita, la data e il luogo di deportazione. Se conosciuta, anche la data di morte.
Ad oggi di questi sampietrini ne son stati depositati circa 60 mila in quasi tutta Europa. Anche a Venezia se ne possono trovare alcuni2. Occorre fare attenzione però, perché le pietre d’inciampo non son semplici targhe dall’importanza irrilevante, bensì vere e proprie tracce in grado di relazionarsi con la quotidianità delle persone. In breve, le pietre d’inciampo sono vulnerabili: è possibile calpestarle inavvertitamente, o magari levarle volontariamente per negare ciò che è stato e ancora sono inermi di fronte alle intemperie e all’inquinamento urbano. Senza alcun tipo di timore reverenziale, come spesso accade davanti ai grandi monumenti ottocenteschi, si avrà qualche incontro con queste presenze permanenti e integrate nella città. Magari casualmente, ma in ogni caso si dovrà fare i conti  con questi quadratini dorati che pazientemente ricorderanno le storie delle “possibilità negate” dal nazismo.
La memoria, d’altronde, non deve essere astratta dalla vita, ma deve avere il coraggio di confrontarsi e scontrarsi con essa per tornare ad essere viva.

Marco Donadon

NOTE:
1. Per approfondire, si veda il sito dell’iniziativa.
2. Qui trovate una mappa aggiornata delle Pietre d’inciampo poste a Venezia.

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Vi è traccia di divertimento nello studio della storia?

Puntualmente, per esperienza personale, quando chiedo ai bambini un indice di gradimento numerico per l’insegnamento di Storia, il valore che ottengo solitamente è prossimo allo 0. Nel migliore dei casi. Motivi? La Storia è noiosa e vecchia così come il maestro che la insegna, anche se magari ha 35 anni. Una sorta di consustanzialità fra il documento storico ammuffito e il classico pile sgualcito dell’insegnante. In pratica una crisi d’identità assicurata intorno ai 40 anni per chi come me è in procinto di laurearsi in Storia e non disdegna una carriera futura da passare dietro la cattedra.

Quali sono i motivi di tale declino? Perché piace addirittura più la Matematica e soprattutto l’ora di Religione con i suoi film pieni di amore e lieti fine stucchevoli?

Innanzitutto è necessario premettere due cose: in primo luogo ogni fascia d’età possiede esigenze e capacità differenti e specifiche. Quindi è assolutamente improprio far imparare migliaia di date a memoria agli adolescenti; tanto il giorno dopo scambieranno la caduta dell’Impero Romano d’Oriente con quello d’Occidente. Tranne per i nerd: loro le sapranno grazie alle mille ore passate davanti ai giochi di strategia per il Pc.
In secondo luogo, invece, si deve ammettere che non tutte le epoche hanno sentito la mancanza di volgere lo sguardo verso il passato per studiarlo. Basti pensare a oggi, dove la modalità classica di trasmissione del sapere – dall’anziano al giovane, dal maestro all’alunno, dai genitori ai figli, dal passato al futuro – si sta rapidamente invertendo: ora sono i figli ad imprecare contro i genitori, colpevoli nel 2016 di non sapere utilizzare la tecnologia.

Oh Clio, come fare allora per recuperare quel divertimento che lo studio della Storia recava a Marc Bloch?1

Sicuramente compiendo azioni rivoluzionarie.
Togliamo la cattedra! Le lezioni frontali producono un’insensata voglia di giocare a Snake e per chi ha il cellulare scarico appisolarsi risulterebbe la miglior opzione. A parte l’ironia, credo che una disposizione a cerchio delle sedie faciliti il dibattito perché mancherebbero riferimenti spaziali – gerarchici. In questo modo, da un lato gli studenti parteciperebbero attivamente senza timore dell’entità suprema confinata dietro la cattedra e dall’altro il maestro migliorerebbe la propria relazione con i propri allievi ed emergerebbe nella discussione in ogni caso come fonte di sapere, visto le sue maggiori conoscenze.

La Storia è vita vissuta! La Storia è fatta di carne e di ossa! Molte volte i manuali raccontano le guerre, le scoperte e le rivoluzioni come fossero di altri mondi. La Terra ne sembra incolume.
Beh, aggiornamento dell’ultima ora: noi tutti facciamo parte della Storia. Sono convinto che esserne consapevoli sia estremamente utile e affascinante per due ragioni: da un lato pungolerebbe la curiosità di coloro che vedono nel sussidiario con copertina verde – la Storia l’ho sempre associata a questo colore. Retaggi delle scuole elementari – un potenziale allergenico; dall’altro pensarsi all’interno del flusso storico stimolerebbe le riflessioni sul rapporto che intercorre tra l’individuo e gli eventi, sia passati che contemporanei. Alla fine lo studio della Storia non è altro che un’intervista continuamente aggiornata rivolta al passato, un interlocutore difficile da capire, ma allo stesso tempo affascinante per la molteplicità di punti di vista che può darti.

Solo attuando queste modifiche (le idee sarebbero molte di più), la Storia da disciplina marginale di un’ora alla settimana, diventerebbe azione quotidiana di comprensione della società.
Alla fine anche Euclide e il suo maledetto teorema sono stati concepiti in questo mondo.

Marco Donadon

NOTE:
1. M. Bloch, Apologie pour l’histoire ou Métier d’historien, 1949.

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La voce scientifica del potere. Un (micro-) caso storico

Il potere, così come lo descrive Michel Foucault1, è qualcosa che si vive perché esistente in atto. Non appartiene a nessuno, ma circola ininterrottamente attraverso infiniti rapporti che si intersecano e si diramano quotidianamente col compito di costruire il mondo. Chiunque di noi lo subisce (azione coercitiva) e lo esercita (azione produttiva) di continuo nel tentativo di ottenere una migliore ridefinizione di sé stesso nella propria realtà. Inoltre, il potere, essendo pervasivo, si esprime anche in ciò che l’individuo produce per esercitarlo: il discorso2, fenotipo del pensiero umano e simbolo di inclusione o esclusione a seconda di chi lo formula, di come lo si articola e di quando lo si proferisce. Si tratta di un passaggio importante per Foucault perché vi individua, nell’ «insieme dei discorsi che domina un’era»3, l’episteme, una macro-narrazione ufficiale che legittima la posizione di potere assunta da qualcuno a discapito di qualcun altro.

Di questa logica del potere si servì il discorso razzista italiano durante gli anni Trenta. Al fascismo occorreva, infatti, qualcuno che potesse elaborare una teoria scientifica capace di appoggiare la guerra di aggressione che il regime si apprestava a condurre contro l’impero etiope. In breve serviva un antropologo come Lidio Cipriani, voce centrale del razzismo antinero sulle pagine della Difesa della Razza, per definire l’etiope un “negro” alla pari delle altre popolazioni sub-equatoriali. Infatti nel suo volume Un assurdo etnico, l’antropologo razzista demolisce l’ipotesi camitica fin allora vigente, secondo la quale gli etiopi sarebbero stati i progenitori di culture “raffinate” come quella egiziana o quella greca e per questo motivo non potevano appartenere alla razza “negra”. Cipriani, in questa maniera, pose al servizio del regime il profilo tipo di una persona dominata solo dagli impulsi della natura, incorreggibile nella sua pigrizia e in grado solo di imitare le azioni dei “bianchi”. Una rapida descrizione di un soggetto da accompagnare paternalisticamente verso la “civiltà” umana (e occidentale), verso quel raziocinio che di lì a poco avrebbe creato la peggior macchina di sterminio di tutti i tempi.

Ritornando alla connivenza fra la politica e la ricerca. Dopo aver confutato le più accreditate tesi antropologiche, altrettanto razziste, per giustificare la fondazione dell’impero, Cipriani, in parallelo alla stabilizzazione dell’insediamento italiano in Africa, introdusse per la prima volta (dalle pagine della Difesa della Razza) l’ipotesi che l’etiope conservasse ancora un tratto mitico della sua originaria superiorità biologica-culturale: uno “spirito bellico” estremamente pronunciato. Una scoperta puntuale che aprì il dibattito intorno all’utilizzo della popolazione maschile etiope come soldati per future conquiste imperiali, fortunatamente mai avvenute.

Lidio Cipriani, per concludere, rappresentò il megafono scientifico del fascismo insieme a molti altri intelletuali. Una tipologia di discorso dalle fondamenta ben salde per quei (presunti) caratteri di rigore, verificabilità e riproducibilità propri del metodo scientifico.

Ogni epoca e ogni parte della Terra ha la propria episteme. Se da un lato appare più semplice scovare le macro-narrazioni passate, dall’altro occorre essere onesti e riflettere su quelle odierne. Idee?

Marco Donadon

NOTE:
1. Si veda M. Foucault, Microfisica del potere: interventi politici, Einaudi, Torino 1977.
2. Per discorso si intende tutte quelle espressioni dell’uomo volte a esercitare, cambiare, appoggiare il potere. O a viverlo per usare un termine caro a Foucault.
3. Benigno, Parole nel tempo. Un lessico per pensare la storia, Viella, Roma 2013, p. 151.

BIBLIOGRAFIA:
1. Benigno, Parole nel tempo. Un lessico per pensare la storia, Viella, Roma 2013.
2. Cassata, La Difesa della razza. Politica, ideologia e immagine del razzismo fascista, Einaudi, Torino 2008.

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Breve elogio di un sindaco-poeta

Un uomo baffuto rivolge il suo sguardo sconsolato (oramai da più di un secolo) alla sua sinistra verso la laguna veneziana in attesa di giorni migliori. Con il capo stancamente appoggiato sul palmo della mano, rassegnato, riflette molto spesso sull’arte, la poesia e il teatro: le sue grandi passioni. Una vocazione artistica ritenuta, dai notabili di professione, un bagaglio inutile per chi si appresta ad amministrare una città. Non serve a nulla “aver scritto due commedie” se non si è imprenditore, economista o avvocato. Non c’è spazio nella cosa pubblica per poeti incapaci di stilare un bilancio.

Eppure Riccardo Selvatico, il sindaco poeta di Venezia, riuscirà a marchiare con il suo nome un’epoca o perlomeno un intervallo di tempo, seppur breve, proiettato al futuro.

La sua elezione, avvenuta nel 1890, venne immediatamente considerata dagli addetti ai lavori come un incidente di percorso, dovuto soprattutto agli errori politici degli avversari e alle dimissioni premature dei delfini alleati. In ogni caso Selvatico, seppur riluttante all’inizio, accettò di ricoprire il ruolo di primo cittadino di Venezia, una città che proprio in quegli anni vide la nascita e l’espansione di stabilimenti industriali insulari con i cantieri Breda a Sant’Elena, il mulino Stucky, il cotonificio etc. Una realtà in cambiamento guidata da una giunta che non professava alcun colore politico preciso: non era conservatrice, ma neanche socialista. Si dichiaravano democratici e progressisti, come sottolineato da un programma estremamente lungimirante. Bisognava fondare molte scuole professionali, riorganizzare il servizio sanitario, alleggerire il carico tributario, muovere verso una più ampia partecipazione politica della società e preparare un piano di edilizia popolare, una delle piaghe maggiori della città.

Niente male per un poeta crepuscolare e un commediografo del teatro vernacolare veneziano.

Oltre a dimostrare rare preoccupazioni per gli strati più poveri della popolazione, il sindaco diede sfogo anche alla propria vocazione artistica fondando la Biennale, l’Esposizione Internazionale d’Arte della città di Venezia. Una vetrina notevole per i giovani artisti italiani e uno spazio interamente laico dove anche le richieste del patriarca non trovavano ascolto alcuno, come dimostra il caso del quadro Il supremo convegno di Giuseppe Grosso1. Un accentuato anticlericalismo che contraddistingueva la politica del sindaco poeta, coraggioso e ingenuo nell’affrontare una figura come Giuseppe Sarto, patriarca di Venezia e futuro Papa col nome di Pio X. Molto probabilmente, proprio a causa di questa ostilità, il gigante Golia mise fine all’esperienza politica di Selvatico sostenendo la lista guidata da un altro sindaco importante nella storia della Venezia contemporanea: Filippo Grimani. Un profilo più consono agli obiettivi politici ed economici di una classe imprenditoriale clerico–moderata.

Lo sguardo di quel poeta baffuto, nonostante le delusioni che la sua Venezia spesso gli serba, continua con le ultime sue forze a guardare oltre l’orizzonte. Oltre il tempo, come ha sempre fatto.

Marco Donadon

NOTE:
1. Il 10 aprile 1895 l’opera giunse all’Esposizione. Secondo l’opinione pubblica il quadro poteva recare oltraggio alla morale pubblica poiché la scena, ambientata in una chiesa, raffigurava una camera ardente e cinque figure femminili nude. Nel feretro doveva contenere Don Giovanni.
Il Sindaco Selvatico decise di sottoporre la questione, se esporre o meno l’opera, ad una commissione di letterati. Si scelse di esporla. La decisione turbò il Patriarca di Venezia, il quale inviò una lettera a Selvatico richiedendo che la tela non fosse esposta. Il sindaco si appellò al verdetto e la tela fu in questo modo messa in mostra.
Proprio per l’attenzione mediatica che il quadro suscitò, a fine Esposizione, un referendum popolare votò a grande maggioranza per l’opera di Grosso. Infine, una società acquistò il quadro per farlo conoscere negli Stati Uniti, dove era già arrivata la sua fama Per un destino beffardo, attraversando l’oceano, il Supremo convegno venne distrutto da un incendio.

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Convinzioni adolescenziali. Storia di un moto rettilineo uniforme

Egon Schiele fu solo uno fra i tanti che cercava, lui a colpi di pennello, di fissare nella tela un attore sociale ancora libero da qualsiasi compagnia teatrale: il giovane, colui che non è un infante ma nemmeno un adulto. Per farlo, il pittore austriaco si servì di contorni sfumati, colori contrastanti e volti androgini segnati da turbamenti esistenziali tanto estremi quanto ingenui. Una volta intrappolato in dei confini, si passò alla catalogazione: un metodo utile per riordinare gli scaffali dell’ordine mondiale. Sezione? Psicologia genetica. Autore? Stanley Hall, uno psicologo americano che nel 1898 coniava il termine “adolescens” per descrivere i giovani tra i 14 e i 24 anni.1 Improvvisamente un nemico interno, sconosciuto e formato da sessuomani psicotici si vide trasformato in una massa pronta da sfruttare o mandare al macello per mano di padri frustrati per la propria inettitudine. Tutt’altro che un’invenzione quella degli adolescenti, ma un piano accurato di sicurezza interna e riorganizzazione del corpo della nazione che proveniva da lontano.2  

Una delle possibili radici di questo, quanto mai forzato, piano inclinato venne scoperta nel 1835 da sprezzanti giuristi e famelici psichiatri nel comune di Aunay, in Normandia. Qui un giovane contadino (doppio grado di subalternità), Pierre Rivière, era stato condannato alla pena di morte per aver sgozzato sua madre, sua sorella e suo fratello. In questo micro-contesto dove l’alto (gli studiosi) venne morbosamente ad invadere il basso (il villaggio) in cerca dell’indicibile, Pierre Rivière venne assunto come caso studio.

Ancora una volta la scienza si appropria indebitamente di una personalità fluttuante, fissandola scrupolosamente in una nota a piè di pagina.

Inoltre, poiché considerato un contadino bifolco, Pierre Rivieré verrà riposto ai margini velocemente dopo un’insperata popolarità che molte volte la cronaca nera trascina con sé. Ad interessare non è tanto la persona, quanto sono le sue azioni, le sue pulsioni e il suo aspetto, tutti elementi plasmati a piacimento secondo le diverse logiche che caratterizzano narrazioni pronunciate da svariati attori. Vi è il giurista che descrive Pierre Rivière come una persona malvagia e capace di commettere qualsiasi crimine a causa di una educazione ricevuta ritenuta non adeguata. Vi è il medico con la sua onnipotenza professionale che bolla il giovane come un alienato mentale in base a principi ereditari e comportamentali, i quali a loro volta si basano su aneddoti raccontati dalle persone del villaggio; ma questo non ditelo agli studiosi, ne va della loro presunta imparzialità. Vi sono infine, per l’appunto, i testimoni incalzati da domande che portano in serbo risposte già previste. Ecco allora fuoriuscire dal ventre della Normandia racconti di episodi che certificano come il giovane fosse destinato fin dall’infanzia a commettere un tale esecrabile delitto.

Pierre Rivière e l’adolescente di Stanley Hall sono segni rivelatori di una tendenza di stampo paternalistico volta ad assicurarsi ripetutamente il controllo delle loro creazioni, i figli. Entrambi i tentativi si basano su discorsi, quello medico-sociale e quello giuridico, volti a prevenire e a bloccare pulsioni capaci di scardinare gerarchie solitamente basate su quante rughe segnino il volto. In ogni caso per quanto queste due storie possano offrire diversi parallelismi o addirittura una delle tendenze di fondo che portarono alla periodizzazione “adolescente”, state in guardia a non fare come lo psicologo, il medico o il giurista. Ciò che ricerchiamo paradossalmente potrebbe non esistere. Ciò che crediamo è plausibile che non sia mai avvenuto. Teniamoci le nostre convinzioni a patto di essere consapevoli che sono solo un frammento della Verità. Non livelliamo sempre per togliere le increspature, uniche tracce di vitalità intellettuale.

Marco Donadon

NOTE:
1. Se il termine venne coniato nel 1998, “Adolescens” sarà utilizzato da Stanley Hall come titolo del volume che verrà pubblicato nel 1904.
2. Riprendendo le tesi del volume L’invenzione dei giovani del giornalista Jon Savage. Per arrivare al termine “adolescente” ci son voluti fior fiore di articoli e dibattiti scientifici.

BIBLIOGRAFIA:
Io, Pierre Rivière avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello … . Un caso di parricidio nel XIX secolo, a cura di Michel Foucault, Einaudi, Torino 2007.
– Savage Jon, L’invenzione dei giovani, Feltrinelli, Milano 2012.

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Intervista a Woodstock Teatro: il teatro che mette in scena l’uomo e le sue scelte

Woodstock Teatro è nato nel 2013, a Venezia, dove stavamo studiando Scienze e Tecniche del Teatro allo IUAV (per la nostra formazione registica, scenografica, drammaturgica e di light designer) e all’Accademia Teatrale Veneta (per la formazione attoriale). I componenti stabili sono Alessandra Dolce (scenografia e costumi) e Marco Gnaccolini (drammaturgia e regia). Lavorano nei diversi progetti Rossana Mantese (attrice), Irene Canali (attrice), Andrea Wob Facchin (musicista), Matteo Moglianesi (luci) e Alejandro Garcia Hernandez (percussioni). Hanno lavorato in precedenza anche Michele Guidi (attore) e Eleonora Ribis (attrice).

Fin da subito hanno voluto concepirsi e formarsi una equipe di lavoro teatrale, liberi di creare progetti in proprio e anche di sviluppare collaborazioni con altri artisti, mettendo quindi al lavoro le loro competenze professionali nei progetti altrui.
La poetica del gruppo è quella di affrontare visioni, pulsioni e problematiche del nostro essere contemporanei, confrontandosi con la realtà che li circonda. Credo che questo loro orizzonte sia espresso in questa loro citazione: «di un raggio di luce osservare e raccontare l’ombra da esso creata
L’obbiettivo è di proporre teatralmente delle opere d’immaginario, sviluppate con diversi linguaggi scenici e attente alle particolarità cognitive con cui ognuno di noi percepisce la realtà, per portare così in scena delle storie nel migliore dei modi possibili, qualunque vento soffi.

I primi progetti che hanno realizzato sono stati: Spring Boy, lavoro di prosa e teatro di figura sulla vita e gli scritti di Brendan Behan, drammaturgo irlandese e attivista politico degli anni ’50, e Un Piccolo Principe, percorso sensoriale e d’installazioni tratto dalla sceneggiatura che fece Orson Welles del famoso romanzo di Saint-Exupery. Si può dire che questi due lavori sono i semi da cui tutt’ora sbocciano le loro nuove idee sceniche.

1-Buongiorno Woodstock Teatro, intanto come nasce il vostro nome?

Buongiorno a te, Marco! Il nostro nome è nato in una notte d’estate, tra il vino e gli alberi di Forte Marghera a Mestre, ed è legato al nome dell’uccellino giallo e di specie ignota che fa da spalla a Snoopy nelle strisce a fumetti dei Peanuts di Charles Schulz. Lo abbiamo assunto a nostro animale totemico perché seppur di piccole dimensioni non si nega le avventure più immense, volando spesso a testa in giù, innamorandosi di fiocchi di neve e drogandosi con briciole di pane. Ci guida, quindi, nel pensare il nostro fare teatro trovando costanza e caparbietà nell’indipendenza, coraggio nell’insicurezza e amore incondizionato verso le sconfitte e le cause perse. Inoltre, il nome ha le lettere e il suono giusto per noi: inizia lungo e lontano come l’ululato di un lupo, e finisce rapido e secco come lo schiaffo di saetta che annuncia un temporale.

2-Vi ho incontrati personalmente e vi giuro non ho mai visto due sguardi così appassionati. Cosa vi piace del mondo teatrale? Come lavorate nei vostri ruoli di drammaturgo, scenografa, attore e regia?

Del teatro ci piace il suo provenire da tempi immemori, e la sua continua e infinita riserva di sorprese che lo rende inconoscibile.
Del teatro ci piace la continua ricerca. A prescindere dal fatto che si parta da testi sconosciuti o al contrario da testi conosciutissimi, ci piace il fatto che si arriva sempre a creare un nuovo messaggio visivo e uditivo a volte anche olfattivo, pare di sentire gli odori che descrivono un ambiente.
Ci piace ma allo stesso tempo ci preoccupa, ci inquieta e ci eccita scegliere di cosa parlare, capire se le nostre priorità, le nostre impellenze siano comuni a molte persone, ragazzi e non.
Ci piace appassionarci al nostro nuovo “progetto” fino a che, quello che noi proviamo, non lo trasmettiamo a ogni nostro compagno di viaggio, attore, musicista o pubblico che sia.

Il nostro lavoro lo definiremmo un ensemble, una sinfonia in cui ognuno porta il proprio contributo, un brainstorming su un tema in modo che ognuno si appassioni e porti a parlare di ciò che gli preme, poi, tutto si snoda, il drammaturgo scrive, lo scenografo porta immagini e suggestioni fino al punto in cui ci si riunisce nel momento della messinscena, dove si chiede anche all’attore di portare il proprio mondo e il proprio io, è così che nasce la regia di Woodstock teatro, un contributo di tutti che viene poi armonizzato.Foto promo 2

3-Il teatro è un po’ visto come un figlio messo in ombra dalle prestazioni dell’altro, il cinema. Perché secondo voi?

Se il teatro viene visto in ombra rispetto al cinema è perché li si vuole ancora paragonare sullo stesso piano di risultati, e cioè quello di arte spettacolare che chiama in assemblea un’intera società a riflettere su un determinato argomento. Il cinema, indubbiamente, è ai giorni nostri l’arte dei grandi numeri di pubblico, mentre il teatro è una realtà di nicchia (almeno in Italia). Questo succede perché nel nostro paese ci abituano a pensare troppo spesso in forma assolutistica il mondo delle arti all’interno delle nostre città, e poco in maniera sinergica.

Il teatro e il cinema sono due arti con linguaggi completamente diversi, seppur simili: il cinema è un formarsi di fantasmagorie, mentre il teatro di visioni. Il cinema ti fa vedere, mentre il teatro ti fa immaginare. Chiedono un diverso tipo di attenzione nel pubblico, un diverso grado di partecipazione. Quello del teatro può risultare più complesso e faticoso, perché ha bisogno di un luogo fisico e di un momento preciso per farsi, ma può rivelarsi molto affascinante perché chiede al pubblico di essere attivo nella costruzione dell’evento: nel cinema è la macchina da presa a scegliere cosa far vedere di una storia, mentre a teatro sono gli occhi e soprattutto la mente dello spettatore a operare e addirittura creare questa scelta. Senza il pubblico e il tempo presente, l’espressione teatrale non può esistere: il teatro è un accadere irripetibile, al contrario di un filmato che, in quanto registrato, è un accaduto replicabile.

Ecco perché si deve necessariamente incontrare la gente con il teatro, ed è una sfida faticosa. Con Talkin’ Woody Guthrie, nostro ultimo progetto di ballad-opera, l’obiettivo è stato: andiamo nei locali dove si riunisce la gente, dove mangia e va ad ascoltare musica. Il teatro rimane fondamentale posto in cui ci si incontra e si discute, e ci si appassiona come succede a un concerto, dove molto spesso i musicisti suonano con maggiore vita i loro brani dal vivo rispetto a quelli stessi che possiamo ascoltare registrati. A teatro, la differenza la fa ancora la percezione dell’uomo.

4-Passiamo un po’ al nostro territorio. Com’è fare teatro a Venezia? Avete avuto esperienze fuori della provincia?

Per noi al momento sta risultando difficile andare in scena a Venezia città, a Mestre invece stiamo al contempo incontrando un formicaio di realtà non teatrali ma molto attive culturalmente, spazi che vogliono aprirsi e contaminarsi; andare in scena in questi posti comporta soprattutto molte difficoltà di natura tecnica, non essendo spazi teatrali bisogna pensare a un teatro che faccia a meno di molte creazioni e attenzioni sceniche, ma tutto ciò ci regala una bellissima sfida, e soprattutto incontri splendidi. Abbiamo aperto una collaborazione poi con il Centro Culturale Candiani in qualità di operatori culturali, con un progetto nel loro Campus per Not Only For Kids di questo giugno. Inoltre, stiamo incontrando moltissime occasioni di collaborazione con professionisti teatrali veneti: Andrea Pennacchi, Pantakin, Stivalaccio Teatro, Il Libro con Gli Stivali.
Con i nostri progetti lavoriamo molto di più fuori da Venezia e dal Veneto, soprattutto in Lombardia e a Milano, dove gli spazi off sono molti di più e sono molto attenti ai temi che ospitano, e stiamo consolidando ogni anno che passa la nostra presenza sui loro palcoscenici.

5- C’è un filo conduttore nelle vostre storie? Cosa volete trasmettere, quale messaggio insomma?

Il filo conduttore delle nostre storie è una riflessione sull’essere umano, sulla possibilità che una scelta comporta. I nostri personaggi prendono posizione, sono consapevoli di quello che sono, ma soprattutto delle scelte che hanno fatto, non giudicano ma spesso vengono giudicati. Non diciamo cosa fare, solo invitiamo a riflettere sul fatto che non esiste bianco o nero, non esistono persone di serie A o serie B, ma solo scelte e conseguenze che possono influenzare la storia, quella che si studia nei libri. Ci piace spesso parlare dei personaggi secondari, diciamo i “non protagonisti” delle storie: come la strega nella favola di Biancaneve, nel nostro Le mele della strega o dei secondini di una prigione e del boia nel nostro Spring Boy o dei lavoratori profughi, gli hobo, in Talkin’ Woody Guthrie.

6- Avete dei progetti in cantiere?

I progetti in cantiere sono moltissimi! Alcuni sono sul nascere, e ancora troppo fragili per essere esposti qui.  Possiamo dire però che lavoreremo Cadorna ’14-17, il testo del nostro drammaturgo Marco Gnaccolini la cui prima parte ha vinto il concorso di “Racconti di Guerra e Pace” indetto dal Teatro Stabile del Veneto, andato in onda anche su Rai Radio 3 oltre che nelle mise en space nei tre teatri di Venezia, Padova e Verona. Sarà una coproduzione Woodstock Teatro con Kalambur Teatro, per la regia di Alessio Nardin che ne curò anche quella per le mise en space.
E poi La Regina della Neve, il nostro prossimo progetto per bambini, nella quale lavoreremo sulla malattia e i mondi in cui essa ci rinchiude.
Aperte già sono nuove collaborazioni con Andrea Pennacchi e la squadra di Teatro Boxer con cui abbiamo creato il favoloso Merry Wives of Windsor!

7- Ultima domanda Woodstock, la vostra esperienza che state coltivando si collega in qualche modo alla filosofia? O meglio, c’è della filosofia nel vostro lavoro?

Il nostro lavoro è filosofia, nel senso etimologico del termine “amore per la sapienza”, come ti abbiamo detto prima del teatro ci piace il fatto di poter conoscere, imparare sempre perché amiamo la conoscenza. Con i nostri spettacoli riflettiamo sull’uomo, sulla sua esistenza così come la filosofia ci insegna a fare e poi abbiamo una nostra filosofia di lavoro, condividere e collaborare.

Una delle spine dorsali del nostro agire teatrale è il pensiero del filosofo Agamben sul concetto di essere contemporanei, di chi e cosa lo si è, e del che cosa significa essere contemporanei. Abbiamo assunto su di noi una delle sue risposte, per la quale ci sentiamo appartenere al nostro tempo non coincidendo perfettamente con esso, non adeguandoci alla sua linearità; ci relazioniamo così al nostro tempo attraverso una sfasatura e un anacronismo, avendo una distanza con cui poter percepire luci e soprattutto tenebre del nostro vivere d’oggi. E questo portiamo in scena.

Marco Donadon

[immagini concesse da Woodstock]

Il clochard sporco e puzzolente

Il “clochard sporco e puzzolente” che “vive di espedienti”1 sembra una frase fatta apposta per descrivere un’immagine fumetto, come quelle contenute nei quaderni da colorare comprati da genitori spazientiti dai capricci, vittoriosi, dei figli. Quei quaderni dove ad ogni personaggio corrisponde un’etichetta, una didascalia che non lascia spazio ad altre interpretazioni o a profili alternativi.
In realtà “clochard sporco e puzzolente” fu pronunciata durante un’arringa tenuta dall’avvocato Luciano Di Pardo davanti alla Corte d’Assise di Varese, una realtà dove ad essere giudicati solitamente sono i casi giudiziari per i quali è previsto l’ergastolo o una detenzione superiore ai 24 anni. Un mondo, quindi, molto distante dagli ingenui (forse) colorami-tu consigliati per i bambini dai 2 ai 6 anni.

Il “clochard sporco e puzzolente” in un contesto maggiorenne assume dei contorni preoccupanti, se non addirittura allarmanti perché non rappresenta solamente un pregiudizio personale di un avvocato, al quale forse fin da piccolo son state raccontante storie di paura impersonate non dal solito uomo nero, bensì da senzatetto malvagi. A quanto pare il virgolettato nasconde molto di più. In primo luogo il termine francese “clochard”, accostato ai due aggettivi qualificativi seguenti, sembra essere stato utilizzato per avvolgere di una qualche solennità culturale  una affermazione, che senza il francesismo, sarebbe stata reputata non all’altezza di un’istituzione di Stato. Un bagaglio lessicale importante e un politically correct da invidiare, se non fosse che dietro a queste smancerie si intraveda un deserto sterminato di contenuti.
In secondo e ultimo luogo i termini “sporco” e “puzzolente”, in riferimento ad una persona, rimandano all’idea del contagio, al contesto delle malattie virali trasmesse attraverso il contatto o l’esalazione; in quest’ultimo caso tornano alla memoria gli antichi miasmi sui quali si basarono, nel corso della storia, fior fiore di teorie mediche.
Questa analisi linguistica, seppur frettolosa, pone subito in evidenza le radici di simili affermazioni, il sostrato culturale con il quale ci si pone ad osservare il mondo; un impianto cognitivo molto probabilmente accettato da certi ambienti votati all’ordine e a marginalizzare, molte volte inconsapevolmente, chi ordinato proprio non lo è. Il clochard per l’appunto.
A questo punto basterebbe dire che occorre porre al vaglio della critica i nostri pregiudizi, i nostri comportamenti, anche quelli che riteniamo compassionevoli e politicamente corretti, e la nostra visione del mondo. Però sarebbe la solita morale e non basta questa volta perché il “clochard sporco e puzzolente” ha un nome e un cognome, Giuseppe Uva. Non “vive di espedienti”, ma è un gruista. Non è un bambino, ma un uomo di 43 anni, quando nel giugno del 2008 morì all’ospedale di Circolo Varese dopo una notte passata in caserma.

Non voglio entrare nel merito dell’assoluzione dei due carabinieri e dei sei poliziotti accusati di omicidio preterintenzionale, anche se devo ammettere che di rabbia e indignazione ce n’è stata. Preferisco, a mal in cuore, rimanere nel campo del linguaggio che mi ha portato alla mente un rimando storico abbastanza noto: il Casellario politico centrale, l’ufficio nel quale venivano schedati le personalità considerate pericolose per la stabilità interna del Paese. Il numero di chi venne registrato salì vertiginosamente durante l’epoca fascista, nonostante questa pratica risalisse fin ai tempi di Crispi. Il lessico impiegato in questi prontuari ricorda sinistramente quello utilizzato dall’avvocato Luciano Di Pardo.

Ecco, liberiamoci  di questa eredità linguistica che nasconde altrettante recalcitranti eredità storiche.

Marco Donadon

[Aggiornamento 5.02/2017: Il processo di secondo grado si celebrerà su impulso della procura generale di Milano, che ha fatto ricorso con una impugnazione in cui ha attaccato duramente la sentenza della corte d’assise di Varese (presidente Vito Piglionica) che, in primo grado, ha assolto i 6 agenti di polizia e i 2 carabinieri imputati. In primo grado, la pm Daniela Borgonovo aveva chiesto l’assoluzione per tutti e per tutti reati.]

Note:
1. la frase incriminata recitava così: “Si è trattato di una spalmata gratuita di fango sull’onore di una famiglia, come si può pensare che una donna sposata possa tradire il marito per un clochard sporco e puzzolente?”. Come si può notare la frase esprime anche i termini di onore e tradimento, denotando una forte dose di maschilismo.

Bibliografia:
• per una lettura critica del virgolettato, una forte mano mi è stata data dal libro di David Forgacs, Margini d’Italia. L’esclusione sociale dall’unità a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2015

[Immagine: https://www.123rf.com/photo_26081498_cartoon-homeless-man-with-his-dog-friend-sitting-in-a-carton-near-trash-bags.html]