Ad occhi chiusi: recensione di “Cecità” di José Saramago

C’è un mare di latte in una città imprecisata di questo nostro Pianeta che ferisce tutti, succhia la vita e la getta via. Un guidatore sta fermo al semaforo in attesa del verde quando si accorge che i suoi occhi non riescono a vedere più nulla. All’inizio pensa si tratti di un disturbo passeggero, ma una visita medica gli diagnostica una cecità assoluta, di quelle che avvolgono le sue vittime in un candore luminoso. Tale destino, tuttavia, colpirà progressivamente l’intero paese e tutti i malati verranno messi in quarantena in un manicomio, isolati e controllati, finché non rimane più nessuno capace di vedere, eccetto una donna, la moglie di un medico, che sembra essere immune da questa terribile malattia, ma che, per rimanere vicina al marito, finge di essere cieca a sua volta, così da farsi internare con lui. Sarà in questo luogo, privo di controllo e di alcuna legge se non quella del più forte, che l’unico personaggio vedente diverrà metafora del bene in mezzo al male, in quanto farà dono e sacrificio di sé per la salvezza degli altri.

523fb5f93f92d96d6e3978f7efcaba30Scritto con una durezza spiazzante, Saramago ci racconta una storia unica su quegli istinti che, non potendosi sfogare all’esterno, si rivolgono all’interno. Concepito come una grande metafora su un’umanità primordiale e feroce, incapace di vedere con lucidità e distinguere le cose su una base razionale, ne deriva un saggio sul potere e la sopraffazione, sull’indifferenza e l’egoismo, una forte denuncia del buio che pervade l’animo umano. Cecità è un flusso costante e ininterrotto di pugni allo stomaco che ci invita a guardare il nostro mondo e le sue sfumature più nere, che scuote il nostro lato più subdolo rendendoci tutti potenzialmente cattivi. Con uno stile per nulla sincopato, il premio Nobel portoghese spolpa i suoi personaggi della loro carnalità per trattarli esclusivamente come anime cieche e prive di compassione. Ed è proprio, infatti, in una condizione di panico estremo che l’uomo rivela il peggio di sé, anteponendo la cattiveria, l’irrazionalità e la brutalità alla ragione. Libro che fa riflettere, claustrofobico, angosciante. Eppure un libro che tutte le persone adulte dovrebbero leggere. Perché di fronte al buio e all’abiezione più totale, è possibile una rinascita attraverso la riscoperta degli elementi essenziali alla vita come l’acqua, di gesti così semplici da non ricordarne neppure più l’importanza, di emozioni che sgorgano spontanee, non inficiate da alcuna contaminazione visiva. E quando tutto questo sarà finalmente acquisito, quando la metaforica sporcizia di cui sono rivestiti tutti i ciechi viene lavata dalla pioggia della purezza, allora ad uno ad uno ritornano a vedere e soprattutto a vedersi.

Luzia Ribeiro

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Alla deriva – Recensione di “Agostino” di Alberto Moravia

C’è una spiaggia nel Viareggio, in Versilia, che è senza spiegazioni, senza certezze, che con il suo moto ondoso sa perpetuare le inquietudini di un tredicenne, Agostino, che per la prima volta si scontra con le durezze della vita. Egli è in vacanza con la madre, “una grande e bella donna ancora nel fiore degli anni” e con lei gioca, si tuffa, nuota, ristagna felicemente in quella loro perfetta sintonia.

Quando però la madre comincia a frequentare Renzo, un giovane alto, bruno e abbronzato, Agostino si sente tradito nella sua sicurezza e il cambiamento diventava inevitabile, la sua crescita personale una scelta. Fu in quell’occasione che avvertì la prima grande lacerazione tra se stesso e colei che lo aveva messo al mondo, sarà da quell’occasione in poi che Agostino continuerà ad urlare in silenzio il nome della madre fino a quando non tenterà di ricucire la ferita con un altro tipo di amore, di certo più sintetico, senza però riuscirci.

Umiliato ed amareggiato, Agostino fa la conoscenza di Berto, un coetaneo lentigginoso dalle “pupille celeste torvo”, dalla canottiera “con un largo buco in mezzo alla schiena” e dalla voce che tradiva “un rozzo accento dialettale” e di un paio di altri ragazzini, tutti facenti parte della stessa banda. Con loro, unico adulto, un bagnino di quasi cinquant’anni, il Saro, due mani tozze da sei dita ciascuna.

La seconda metà del libro si snoda perciò tra scherzi grossolani e triviali, pesanti allusioni e seduzioni in un mondo in cui la giovane età non conta, perché nel frequentarli, al di là del ribrezzo, in Agostino restava un inspiegabile piacere. I nuovi amici, rozzi, ottusi e violenti, certo ben lontani dal suo essere un raffinato borghese di città, lo conquistavano, gli rendevano scoloriti i giochi sorvegliati dagli adulti, la collezione dei francobolli e i modi dabbene dei suoi ex compagni di vita, lo allontanavano da una realtà che non sentiva più sua.

Spintosi oltre i confini della prosa, con questo romanzo breve Alberto Moravia indaga le pieghe psicologiche di quell’uomo che, anche se deve ancora crescere, non sa guarire da ciò che gli manca, si adatta, si racconta altre verità. Perché si può nascere vecchi, convivere di già con la nostalgia di qualcosa.

Considerato da molti il suo capolavoro insieme a Gli Indifferenti, Agostino è un libro che con finezza e obiettività ti mostra il passaggio dalla giovinezza all’età adulta senza l’uso di intermediari ma basandosi esclusivamente sul punto di vista di un ragazzino che precipita inconsapevolmente in quella metà di mondo accasciante, dove si sopravvive come si può. E da tutto ciò, Agostino non chiede alcun risarcimento, né dalla scoperta angosciosa e traumatica del sesso né dal tentativo di superare un attaccamento edipico eccessivo. Perché, come dice Moravia, le esperienze che contano sono spesso quelle che non avremmo mai voluto fare, non quelle che decidiamo di fare noi.

Luzia Ribeiro da Costa

Il mio supereroe sei tu – Anna di Niccolò Ammaniti

C’è un’epidemia di quelle che ti succhiano via la vita, di quelle capaci di lasciare al mondo solo dei bambini se è vero che non si diventa adulti semplicemente quando a morire sono i tuoi genitori.
In una Sicilia proiettata in un 2020 desertico, l’umanità è in via d’estinzione perché la “Rossa” macchia a morte chi si trascina gli ormoni della maturità. Anna, la protagonista-bambina del romanzo, è dunque votata alla sopravvivenza insieme al fratellino Astor, l’amico Pietro e un cane di nome Coccolone. L’imperativo è quello del “bisogna farcela” in qualsiasi luogo e condizione, perché fermarsi è concesso solo a chi sale, non a chi scende. È un viaggio pieno di avventure quello di Anna che oltre ad avere il compito di insegnare la lettura al fratello e di salvarlo quando verrà rapito dai “bambini blu”, cerca disperatamente di uscire dalla Sicilia perché forse, oltre l’isola, c’è una cura.
Scritto con l’arte visionaria propria di chi abbandona la normalità perché sa troppo di presente, Anna è un romanzo che romba da solo perché nelle inconsapevolezze dei bambini si annidano e si sciolgono naturalmente i problemi etici dell’esistenza. Case abbandonate o bruciate, autostrade, gruppi di ragazzini che si comandano a vicenda, animali randagi e incattiviti, la pesca pericolosa di un polipo e una traversata in mare sono gli elementi essenziali di questa distopica e curiosa narrazione. E non viene da storcere il naso quando ad un certo punto c’è un rave-party della speranza, celebrato in una Spa defunta, dove due bambini capibanda hanno fatto credere che ci si può salvare dalla “Rossa” prima di entrare nell’adolescenza. Né ci coglie totalmente impreparati quel lungo e affollato pellegrinaggio di piccoli cuori che, idioti e completamente abnegati da una credenza-Ikea, corrono per celebrare e bere il sangue (o ingoiare le ceneri) di una finta santa tutta particolare inventata per l’occasione e chiamata la Picciriddona nella speranza di raggiungere l’immunità dall’epidemia.
Quello che leggiamo è l’ultimo libro di Ammaniti, scrittore pop che ci ha abituato ai tentacoli di immagini vivide, forti, quasi si tratti di un fumetto dai ritmi accelerati.
Particolarmente significative sono le pagine nelle quali si costruisce il legame tra Anna ed Astor, nel reciproco tentativo di correggersi per restare a galla, perché nessuno si salva da solo. Sulla scia di altri suoi romanzi precedenti come “Io e te” o “Io non ho paura”, questa storia non vuole essere un romanzo di formazione alla Golding o alla Dickens (sebbene ci siano delle somiglianze) quanto piuttosto un continuo alternarsi di squarci spasmodici tra visioni apocalittiche e diaboliche, e riflessioni sulla vita e sulla morte. Sopra tutto, la certezza che, in maniera forse un po’ prevedibile, alle volte essere un fratello è ancora meglio che essere un supereroe.

Luzia Ribeiro da Costa

Fotografia – “Non ora, non qui” di Erri de Luca

Recensione di “Non ora, non qui” di Erri de Luca

C’è un mare, il Tirreno, che rende i bambini sacri alla sua acqua, li pettina come una lingua madre di lupa e si ammala dei loro resti. E c’è un Erri de Luca un po’ balbuziente che ripercorre la sua infanzia guardando una fotografia di madre, un’istantanea con la quale poter dialogare del passato. “Non ora, non qui” non ha una trama da riassumere, solo uno sciabordio di episodi che si rincorrono, è il palpito agitato di un animale appena nato.

Al suo primo romanzo, lo scrittore napoletano decide di rivivere la sua infanzia nello stesso modo in cui farebbe chiunque: sul bilico della maturità, tenendo stretto nei denti e nelle mani i nomi e i volti di chi lo ha cresciuto e voluto bene, tuffando indietro gli occhi per riemergere nella realtà e salvare il salvabile.9788807723094_quarta.jpg.312x468_q85_upscale

Dice di se stesso, l’autore, di essere sempre stato un bambino che non sapeva domandare, ma che non sapeva neppure allo stesso tempo, dare risposte. E la potenza di questo romanzo breve sta tutta qui: nel rapporto tra una madre e un figlio, fatto di parole spesse volte a senso unico, bisbigli ferventi e continui che tessono leghe sotterranee dure come piombo. La giovinezza di Erri de Luca è la giovinezza di un cuore legato a chi lo ha fatto nascere, a quella madre giovane che gli raccontava le disgrazie del mondo, che gli passava un ciclo di dolori fatto di vecchi, malati, miseri e bestie che rantolavano, che gli insegnava a vivere come sapeva. È la maturità di un ragazzo che soffre i primi amori e le prime perdite, tra tutte quelle dell’amico Massimo, affogato in mare. Di lui ricorda il fisico da nuotatore, le bracciate, il suo pianto lasciato in fondo al Tirreno, i suoi sudori, le sue stanchezze. È la storia di un uomo che si sposa con chi sa provare solo affetto ma non amore, perché resa esperta da molte leggerezze fatte e subite.

“Non ora, non qui”, scritto con una musicalità struggente, fatta di piccole note amare che vanno a depositarsi in fondo allo stomaco di chi legge, è un click sui rapporti umani, su quel vizio di darci per scontati come se dovessimo esserci sempre, come se fosse impossibile vedere i propri genitori morire prima di noi. È una fila di parole che non vuole ammonirci né spaventarci, semplicemente farci vedere come si possa e si debba ammettere il passato, prima o poi, perché se ci si ferma un istante allora si raggiunge un punto d’equilibrio, un tempo, un’occasione per incontrarsi e capirsi.

Non importa se non accade ora né qui, non importa se tra due persone le parole sono state usate male, masticate a forza; Erri de Luca ci insegna, con la sua voce frammentata, che anche un figlio anziano e una mamma giovane possono incontrarsi al di là di un qualsiasi spazio predefinito.

Perché il tempo fa come le nuvole e i fondi del caffè: cambia le pose, mescola le persone. E il senso di ri-appartenenza ci aspetta.

Luzia Ribeiro da Costa

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“Possedeva l’antidoto contro il terribile veleno della vecchiaia”

Recensione de Il vecchio che leggeva romanzi d’amore di Luis Sepulveda

C’è una foresta senza limiti a El Idilio, di quelle con l’aria calda e pesante che ti si appiccica alla pelle come una pellicola, di quelle il cui cielo coperto pare una pancia d’asino rigonfia e si sa che da un momento all’altro si apriranno le cataratte del cielo. Lì, a bordo di una canoa, ci arriva Antonio José Bolivar Proaño, un colono bianco. Il suo passato è un ritratto di coppia con assenza: si sposa a tredici anni con una ragazzina che ama molto ma dalla quale non riesce ad avere un figlio, motivo questo che costringe la coppia ad allontanarsi dal loro paese natio. Si trasferiscono così ai margini della foresta ecuadoriana ma quando la donna resta finalmente incinta muore di parto e Antonio José Bolivar Proaño prosegue la sua vita, solo, accanto agli indios. Sono loro che gli insegneranno i modi per sopravvivere nella foresta. Un giorno, tuttavia, andando a caccia, viene morso da un serpente chiamato IX e arriva moribondo al villaggio shuar più vicino: essi lo curarono, lo accudiscono, gli salvano la vita. Presso di loro conosce il suo compagno di battute di caccia che però un giorno viene ucciso per errore da alcuni coloni bianchi giunti lì in esplorazione. Antonio José Bolivar Proaño si trasforma rapidamente in un assassino per vendicare l’uccisione dell’amico ma lo fa alla “maniera dei bianchi”, causando cioè la morte del nemico con un fucile e non con dei dardi velenosi come gli avevano insegnato gli indigeni shuar. Da quel luogo verrà dunque cacciato, esiliato dagli stessi indios che non riescono più a riconoscerlo come parte integrante della loro famiglia. Antonio José Bolivar Proaño vivrà quindi i restanti anni della sua vita a El Idilio, leggendo romanzi d’amore che pensa possano riempire il vuoto lasciato dalla morte della moglie e mettendo a disposizione degli abitanti del posto le sue conoscenze sulla foresta nella caccia ad un animale pericoloso.

SEPULVEDAScritto con una semplicità naïve in memoria dell’attivista ecologico assassinato Chico Mendes, la struttura narrativa di questo romanzo si arena con determinazione in quegli spazi vitali propri dei nativi indiani Shuar che sanno scuotere la coscienza del lettore come dardi velenosi conficcati in cuori pulsanti. La foresta rigogliosa dell’Ecuador, infatti, di fronte alla costante minaccia di essere trasformata in terra desolata per colpa di cacciatori d’oro o squallidi avventurieri lotta e si ribella. Solo chi sa interiorizzare il linguaggio segreto della terra ed entrare in armonia con essa si salva e vive. Antonio José Bolivar Proaño si fa dunque simbolo della resistenza, resistenza contro le macellazioni anti-ecologiste dei bianchi, resistenza contro la furia e la cattiveria umana come a dire che opporsi alla barbarie in-naturali è ancora possibile. Non sa solo resistere però, ai ricordi e alla vecchiaia, a quei tafani che rodono miserabilmente le nostre solitudini, a quelle leggi immutabili proprie degli uomini. Leggere romanzi d’amore pare dunque essere l’unico antidoto efficace, perché nessuno riesce a legare un tuono, e nessuno riesce ad appropriarsi dei cieli dell’altro nel momento dell’abbandono. Come a dimostrare che non resta che continuare meravigliosamente a respirare.

Luzia Ribeiro da Costa

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Gente sommersa – Fermento di Luglio di Erskine Caldwell

C’è un cielo al crepuscolo in Georgia, nell’estremo sud degli Stati Uniti, che sa di incessante fermento.

In poco tempo, infatti, comincia a circolare la notizia che un negro ha violentato una giovane bianca di nome Katy Barlow e la comunità precipita immediatamente nella rabbia. Gli uomini del paese si organizzano in gruppi con l’intento di intraprendere una serrata caccia all’uomo mentre i loro cuori accecati si alimentano di paure e frustrazioni vecchie tanto quanto le loro proprietà agricole. E anche se la falsa accusa di stupro verrà ritirata, nulla muterà di fronte ad un destino già segnato, per nulla sibillino.

Al suo ultimo sforzo narrativo, Caldwell genera un romanzo dalla trama dolorosa e scarna nella quale a guidarci è un personaggio secondario, lo sceriffo Jeff McCourtain, che nella sua debolezza piena di pregiudizi oscilla tra due bestialità: quella scura di due giovani ragazzi di colore in fuga e quella chiara di una folla fermamente convinta che il loro paese appartenga ai bianchi e che nulla possa essere fatto per cambiare lo stato delle cose.

Scritto per denunciare la pratica del linciaggio, il romanzo ripercorre la cicatrice profonda propria di chi sa vivisezionare le forme di razzismo più crude senza eccessi patetici e senza trascurare le ombre altrettanto cave che precedono l’umanità come il cinismo e gli interessi politici. Emblematica, a questo proposito, è la scelta iniziale dello sceriffo che, pur di non perdere voti alle elezioni successive ostacolando la scelta di uccidere il presunto colpevole, decide di andare a pescare, come a dire che la vita di un uomo di colore vale tanto quanto un hobby qualsiasi.

fazi

 

Ecco, Caldwell si fa rappresentante esattamente di questo: di un narrare sincopato e veloce nel quale i personaggi emergono da quel piattume autodistruttivo proprio delle terre americane del sud per farsi latori o di azioni e pensieri eccessivi o di un’apatia e indifferenza totali. Chi legge, dunque, non può che restare disorientato dal sonno di quella gente sommersa, un sonno della ragione che si sa, spesso genera mostri. Non sono ammessi sentimenti di alcun tipo, quì, nemmeno di fronte a chi pensa:

Molto meglio fare come ho appena detto. Impiccarne uno ogni tanto, in modo che gli altri non dimentichino qual è il loro posto. Cavolo, se non ci fossero più negri in questo paese, finirei per sentirne la mancanza. E poi, se mandassimo via i negri chi li farebbe certi lavori?”.

Questa storia la si legge astenendosi da qualsiasi giudizio, come se si leggesse la propria vita, la propria realtà, con le emarginazioni che ognuno di noi compie a danno di una parte di sé o dell’altro; quotidianamente, inconsapevolmente, forse. E nemmeno i tentativi di redenzione, come quelli intrapresi dai protagonisti bianchi nel libro, avranno fortuna perché in fondo, siamo un po’ tutti gente sommersa.

Luzia Ribeiro da Costa

[immagine presa da 4ever.eu]