Karl Marx scienziato cognitivo

<p>Portrait of Karl Marx, date unknown. (AP Photo/Kurt Strumpf)</p>

Nella prefazione a Per la critica dell’economia politica (1859) Karl Marx esprime uno dei concetti più determinanti e rivoluzionari della sua intera opera filosofica. Il riferimento è alla distinzione tra struttura e sovrastruttura come sistemi regolatori della società: la struttura è «il vero fondamento su cui sorge una sovrastruttura […] non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza». Per Marx ogni ipotesi di modifica dei dati sovrastrutturali sarebbe illusoria ed improduttiva in assenza di un profondo rivolgimento della struttura. Le rivoluzioni si compiono modificando la struttura e non la sovrastruttura. Nella filosofia marxiana la struttura è insita nei rapporti economici di una realtà sociale e la sovrastruttura dall’apparato ideologico utile al consolidamento della struttura di riferimento. «La cornice giuridica […] codificata e formalmente egualitaria» è stata l’espressione sovrastrutturale con cui è stato eretta l’ideologia dello Stato fondato sui rapporti economici egemonici della borghesia (Michel Foucault).

La vera e grande provocazione è rivedere Marx in chiave di filosofo della mente ed alla luce delle scienze cognitive. Marx filosofo cognitivo è realmente rivoluzionario. Per le scienze cognitive “noi siamo il nostro cervello” e dunque, ciascun essere umano, al di là di illusorie utopie sovrastrutturali fondate sul libero arbitrio assoluto ed incondizionato, non è altro che un intricato gomitolo di neuroni, sinapsi, neurotrasmettitori ed epigenetica; quando l’individuo deve scegliere, il cervello “pesca” le mosse da intraprendere da quanto ha stampato in questo apparato biologico che costituisce la propria personalissima libreria, senza possibilità alcuna di uscire dal proprio gomitolo biologico. In questo modo relegando l’idea di libero arbitrio “uguale per tutti” al libro dei sogni e delle ideologie più fantasiose. Il libero arbitrio non è impedito da psicologismi ed impalpabili devianze della personalità ma è dettato dai timbri cerebrali che hanno impresso nei componenti del cervello il loro disegno. La psicologia e la legge sono le grandi mistificanti ideologie volte a sorreggere l’utopia del libero arbitrio assoluto; sono l’espressione massima della dottrina sul feticismo delle merci, questa volta al servizio dell’ideologia del libero arbitrio.

Legge e psicologia sono i servi sciocchi di questa ideologia sovrastrutturale dominante, dall’Illuminismo sino ai giorni nostri. Una rilettura della dottrina marxiana di struttura e sovrastruttura, ideologia e merce  in chiave neuroscientifica rende il grande filosofo un vero rivoluzionario. La struttura e la sovrastruttura marxiana rappresentano un modello cognitivo dell’io agente. Esattamente come accade nella società, anche nel cervello si può individuare una struttura più profonda, ancestrale, che caratterizza ed influenza tutto l’io cerebrale (la struttura) ed una sovrastruttura “neurale-ideologica” rappresentata dall’impianto cerebrale e comportamentale meno profondo ancorché, all’apparenza, più visibile e vistoso (si pensi, banalmente, ai ruoli sovrastrutturali di medico, giudice, avvocato, pubblicitario, musicista, marito, moglie, amante, ecc. Tutte condizioni portatrici di propri statuti cognitivi sovrastrutturali). Per Marx la sovrastruttura è l’ideologia mistificante volta solo a consolidare la struttura economica; per la filosofia della mente è, a sua volta, un’ideologia mistificante, costituita dal sistema appreso nel corso degli anni che svanisce e si dissolve dinnanzi alla necessità di salvaguardare la struttura. Come già sostenuto sul coté letterario da Giovanni Verga (Fantasticheria e I Malavoglia), ciascuno rimane legato a poche ma decisive tradizioni ataviche che fanno sentire l’ostrica (di qui il suo concetto letterario-filosofico-cognitivo) al sicuro dai pesci feroci del mare. Motivo per cui l’ostrica può anche ipotizzare e convincersi di voler tentare determinate strade che la sua sovrastruttura cognitiva ha conosciuto e appreso, ma la struttura atavica del mondo cognitivo dell’ostrica (secondo la metafora verghiana) relegherà tali conoscenze a sovrastruttura, a pura ideologia incapace di modificare realmente la struttura (neurale) e dettare le scelte dell’io. Con buona pace per il libero arbitrio kantiano che ci vorrebbe pronti e razionali, al momento dell’agire, per essere, addirittura, con le proprie scelte, giudici universali di se stessi e dell’umanità intera (Critica della ragion pratica). Marx in chiave cognitiva è ancor più stupefacente che in chiave politico-economica.

Cosa resta allora della grande dottrina del libero arbitrio, della possibilità per l’uomo di indirizzarsi razionalmente e di decidere in nome delle regole, della legge e dei costumi morali e sociali in essere? Insomma: cosa resta dell’Età dei Lumi su cui è stato costruito il nostro mondo contemporaneo, le nostre leggi, i nostri sistemi di responsabilità giuridica, morale e sociale? Una merce da vendere nel mercato ideologico delle mistificazioni. Solamente la convinzione che l’essere umano ricade sempre nel peccato originale, nel volersi erigere a Dio terreno, ad essere superiore e razionale, esattamente come il Dio in cui vuole credere. Rimane la vanità delle vanità: il libero arbitrio assoluto ed incondizionato.

Luca D’Auria

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Arte e giustizia: la Pop Justice e Leonardo da Vinci

L’immagine della giustizia è una non immagine. Già il maestro del cinema Stanley Kubrick aveva stigmatizzato questa questione: un fatto umano tanto centrale nella vita cognitiva dell’uomo non vive di immagini e ciò comporta un grosso limite per la sua comprensione. Di contro, comprendere il diritto e, di conseguenza, comprendere la giustizia, vuol dire interpretare la società ed anche dare valore concreto al principio secondo cui la pena deve avere anche una funzione general-preventiva (cioè essere rivolta alla società). Senza immagini resta una giustizia liofilizzata, una meta-giustizia.

Persino l’arte ha dovuto uscire dal suo stereotipo dematerializzato dell’antichità e del Medioevo (prima con le armonie geometriche delle statue di uomini ideali e poi con l’assolutamente sacro della scultura e della pittura); è avvenuto nel 1473 quando Leonardo da Vinci ha disegnato il suo Paesaggio con fiume, che ha segnato il definitivo passaggio delle arti figurative verso una nuova dimensione paragonabile a quella che propose filosoficamente Heidegger nel 1927 con Essere e tempo ed il suo esser-ci come “progetto gettato” (nel mondo). L’uomo non vive fuori dal suo contesto. La storicità del proprio tempo, la condizione soggettiva, la sua “geolocalizzazione”, sono tutti elementi decisivi per l’espressione e la comprensione dell’essere e dunque del fare. L’arte lo ha compreso nel Rinascimento: l’individuo va collocato nel paesaggio, diversamente resta un meta-individuo.

La giustizia, come accennato, ha sempre difettato di immagini, ancorché il pubblico sia attratto dal giudizio e dal crimine: in parte come voyeurismo verso “il male”, in parte per controllare l’operato del giudizio, così da capire se gli uomini, chiamati a giudicare i propri simili, svolgono correttamente la loro funzione. La mancanza di immagini della giustizia ha portato la medesima a rappresentarsi in due modalità differenti: mediante il suo lato più crudele (Giordano Bruno bruciato in Campo dei Fiori o le moderne “manette in mondovisione”) oppure in modo caricaturale (Kafka e Manzoni in letteratura o Kubrick e Alberto Sordi nel cinema). Neppure l’avvento massificato dei media aveva realmente creato immagini che consentissero di avere una cognizione piena del funzionamento della macchina giudiziaria. La giustizia mediatica è stato uno strumento del consenso per l’attività dello jusdicere ma non ha mai rappresentato il suo reale funzionamento. Il capitalismo sfrenato del Duemila, che ha superato quello della produzione industriale, così mercificando anche i suoi valori e disvalori (in questo caso la giustizia ed il crimine) e dunque superando le tesi marxiane che si attestavano sulla “mercificazione delle merci” come prodotti industriali, ha creato “Il Paesaggio con Giustizia”, in una riedizione in chiave processuale del disegno rinascimentale di Leonardo.

È l’avvento della Pop Justice, la “giustizia-merce” fatta di spot pubblicitari e immagini. Questa forma di giustizia ha abbandonato il “processo vero” (cosa che non aveva fatto la giustizia mediatica) e ha trasformato le vicende giudiziarie in libri gialli a puntate, dove il colpevole non è quello che emerge dall’aula ma dal sentire popolare; e la vicenda è quella del fumetto costituito dalle immagini televisive e dai post sui social network. È del tutto evidente che questa giustizia pop non vive delle regole del codice, ma vive di altro. È accaduto quanto avvenne con “la svolta paesaggistica” di Leonardo che ha sfilato il meta-uomo e l’essere divino dall’arte, per calare il soggetto nel “suo mondo”, senza distinzione tra individuo e paesaggio. Questa non è solamente una mossa estetico-artistica ma una svolta cognitiva. È l’affondo al problema della giustizia come individuato da Kubrick. Assai spesso l’aula del tribunale smaterializza il diritto quando invece le scienze neuro-cognitive hanno un approccio heideggeriano. Per questo la giustizia rischia di non essere recepita come giustizia giusta. La Pop Justice è come il quadro di Leonardo. Ma il paesaggio della giurisdizione cambia. Diventa un thriller da libro giallo.

Luca D’Auria

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Leggere le decisioni di giustizia attraverso Marx, le scienze cognitive e un cantastorie

Tradizionalmente il diritto e la giustizia vengono raccontati ricercando l’equilibrio tra la fissità della norma giuridica e le interpretazioni del fatto alla luce della logica giuridica. Tutto ciò in una apparente apollinea perfezione delle forme. Lo fa il giudice (o almeno crede di farlo, sempre in buona fede) e lo fanno anche (o almeno credono di farlo, usualmente in buona fede) il pubblico ed i media che si occupano di vicende di cronaca. Questa rigidità cognitiva presenta due limitazioni: da un lato non rispecchia le varie sfaccettature che il diritto e la giustizia applicata (lo jusdicere) portano con sé nell’esercizio di questa complicatissima attività del decidere umano; dall’altro, come conseguenza della prima limitazione, trasforma un fare ‘molto concreto’ dell’agire umano in qualcosa di estraneo alla percezione, non solo sensoriale ed istintiva, ma persino intellettuale.

Il ‘fare giustizia’ viene così trasfigurato in qualcosa che può essere trattato come il prodotto di un duello rusticano o di una prova ordalica, privi di regole popperianamente falsificabili o, almeno, empiricamente riscontrabili. Dove il vincitore (colui che decide) è, al contempo, l’effetto dell’espressione di una morale mitologica o di una altrettanto mitologica immoralità. Rompere la dialettica improduttiva tra fatto e diritto vuol dire creare un percorso cognitivo sulla giustizia che può ‘suonare’ come eccessivamente dissacrante, spudoratamente dionisiaco, banalmente da cantastorie. Ma sono le scienze cognitive ad imporre di rompere lo schema apollineo di una presunta dialettica costruttiva tra fatto e diritto, a favore dello schema ‘senza confini’ ed eracliteo (più aderente, appunto, allo spirito musicale dei cantastorie folk) dettato dalla psicologia cognitiva, la filosofia della mente e l’antropologia culturale.

Il cervello del giudice è composto di neuroni e sinapsi, neurotrasmettitori e DNA metilato. Non è un ‘angelo cognitivo’, ma un soggetto antropologicamente analogo a tutti gli altri individui, che ‘vivono’ di euristiche (scorciatoie cognitive) e bias (errori cognitivi) trappole mentali e pregiudizi. Le scienze cognitive, con il loro approccio ‘aperto’ e multidisciplinare indeterminato, consentono di affondare l’interpretazione sulla giustizia applicata nel cuore pulsante della decisione (nel cervello) evidenziando come questo sia paragonabile ad una biblioteca, laddove lo spazio del libero arbitrio è direttamente correlato e dettato dai ‘testi’ che formano la biblioteca medesima. Non possono essere ‘lette’ scelte differenti dai ‘volumi’ presenti in ‘archivio’ ed il contenuto di detti volumi segna il ‘colore’ del libero arbitrio e del libero convincimento (e dunque, anche, le euristiche, i bias e le trappole mentali del decisore).

Per comprendere realmente le vicende di giustizia, oltre alle scienze cognitive, è decisiva anche la filosofia, che da sempre studia i grandi temi dell’umanità, tra i quali la libertà del fare è certamente uno tra quelli più ponderosi. Sul piano filosofico lo spunto qualificante e direttamente correlato con gli statuti scientifici sulla cognizione, risiede nel pensiero di Marx ed in specie nella parte afferente il concetto di struttura e sovrastruttura. In Per la critica dell’economia politica (1859) l’autore afferma che «non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza»; più specificatamente, ed in modo precipuo circa il rapporto uomo-legge, Marx sottolinea che questo ‘essere sociale’ (l’uomo) è determinato dalla struttura della produzione economica e la legge è solo una sua sovrastruttura. Dunque, per cambiare la legge, è necessario, preliminarmente, modificare la struttura che ne sta alla base.

L’approccio da cantastorie all’interpretazione ed alla narrazione della giustizia, rompendo con lo schema dialettico tra fatto e diritto come unica chiave di lettura dello jusdicere, consente una reinterpretazione del libero convincimento alla luce della psicologia cognitiva e del rapporto conflittuale tra struttura e sovrastruttura di tradizione marxiana. Mi spiego: il cervello del giudice è, come detto, antropologicamente identico a quello di ogni altro individuo. L’io cognitivo del singolo individuo determina la prima struttura cognitiva del giudicante. Tale cervello (con la sua biblioteca personalissima sopra descritta) è però inserito all’interno di un diverso sistema cognitivo, con uno statuto suo proprio, costituito dall’apparato di giustizia che si concretizza (esplicitato in modo generico) nella garanzia di proteggere i cittadini onesti da coloro che delinquono, nel tutelare la vittima, nel sanare una ferita sociale (Durkheim), nello svolgere una funzione di ‘crime control’ e nell’ ‘istruire’ la collettività attraverso la pena ed il processo nei confronti del singolo (funzione general-preventiva della pena). L’inserimento del giudice all’interno di questo apparato o sovrastruttura di secondo livello costituisce, secondo il modello-Zimbardo (esplicitata nel testo L’effetto Lucifero), una forma assai cogente di mente estesa che ragiona, in armonia o in conflitto, con quella dell’io (di primo livello).

A questi due livelli di cognizione si deve aggiungere un ulteriore livello cognitivo, ennesima sovrastruttura rispetto all’io pensante ed all’io mente estesa, e cioè dire la legge. Come per Marx, per il quale la legge è sovrastruttura della coscienza collettiva, la medesima legge costituisce, reinterpretata in chiave scientifico-cognitiva (‘vestita’ sul giudice) una sovrastruttura (l’ennesima) nel rapporto cervello, mente estesa e mondo (laddove il mondo è il non-io del giudice, l’oggetto del giudizio, il fatto da giudicare attraverso lo jusdicere). La legge è, così, a sua volta, un nuovo livello cognitivo ed anche una nuova forma di mente estesa, che gioca un suo ruolo dialettico e confliggente con l’io cognitivo e la mente estesa costituita dall’apparato della giustizia.

A questo schema complesso e composito va poi aggiunto, in specifici casi di giustizia applicata, un altro mondo cognitivo, assai spesso alieno rispetto alle conoscenze del giudice e costituito da ‘menti estese’ quali la scienza e la tecnica (al servizio della prova penale), la normativa amministrativa (si pensi a quella antiriciclaggio rispetto al delitto di riciclaggio), oppure la scienza medica, l’ingegneria o altre specialità peritali.  Il precipitato di questa lettura della cognizione processuale, estranea alla tradizionale interpretazione giuridica (ma, come detto, da cantastorie folk) comporta delle conseguenze decisive, sia in ambito filosofico che, più specificatamente, in ambito cognitivo. Per quelle di ordine filosofico: Marx ha statuito che la liberazione dalla trappola struttura-sovrastruttura consiste nella rottura della struttura, volta poi a modificare la sovrastruttura (è la dottrina del materialismo storico); per Hegel, secondo il quale la legge è un momento della fenomenologia dello spirito, nel percorso dialettico tendente all’assoluto, detta liberazione è protesa verso l’unità epistemica nel rapporto io-mondo. Per entrambi i sistemi filosofici il riscatto e la piena coscienza è dunque possibile, così mettendo in salvo l’io dall’alienazione del sé. Per il giudice questo non può accadere. Costui non può rompere né la struttura né la sovrastruttura (l’io cognitivo di primo livello o l’io della mente estesa dei livelli successivi); né, del pari, può abbattere la sovrastruttura costituita dalla legge. In questo modo la dialettica dell’ io-giudice (con gli apparati cognitivi predetti) ed il citato non-io, costituito dalla questione di fatto da risolvere mediante lo jusdicere, resta intrappolata, senza scampo, nei percorsi cognitivi del giudice e ciò in quanto priva di una soluzione armonica. Tale indissolubile trappola si risolve, sempre marxianamente, in una continua alienazione della coscienza cognitiva. Il risultato di questa alienazione è un gioco di euristiche e bias cognitivi continui che, come in un flipper impazzito, rischiano di ‘giocarsi reciprocamente’ la pallina del fatto, oggetto del giudizio (il non-io del giudice) e della conseguente decisione. Con la evidente perdita del tasso di certezza della scientificità cognitiva di ogni decisione e del rispetto delle regole di diritto.

Luca D’Auria

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Spirito apollineo e dionisiaco nel processo penale: l’estetica del giudizio criminale

Il processo penale contemporaneo, per il vero come anche quello antico, medioevale e moderno, suscita interesse, pulsioni sociali, contesa emotiva; tende all’odio verso il colpevole e compassione verso la vittima. Basta pensare ai casi di cronaca più recenti per rendersi conto di quanta enfasi popolare accompagni la storia dei processi. Ne cito solamente alcuni: la strage di Erba, gli omicidi di Garlasco, Perugia e, da ultimo, il processo a Massimo Bossetti. Questo tuttavia accade anche per vicende giudiziarie meno cruente e sanguinose, ma ugualmente “sentite” dall’opinione pubblica, come i procedimenti contro l’ex premier Berlusconi, “mafia-capitale” o gli scandali per i conti esteri di questo o quel personaggio pubblico.

La tensione che si crea tra l’aula di giustizia e la società è palpabile e sostenere, come talvolta ha fatto la Corte di Cassazione, che tutto questo non possa incidere sul giudizio tecnico è un’illusione. Lo è per due motivi fondamentali: l’uno perché l’essere umano non è una macchina, il secondo perché è il diritto stesso che attribuisce al giudicante una funzione sociale attraverso lo scopo general-preventivo della pena che consiste nella portata educativa della pena stessa, non solamente nei confronti del reo, ma di tutta la società. Già l’antropologo e sociologo Émile Durkheim aveva categorizzato quest’esigenza laddove affermava che il delitto causa una frattura nel tessuto sociale che viene rimarginata proprio attraverso la sanzione penale e dunque il processo. La collettività ha bisogno del colpevole per emendarsi dal delitto e per essere sicura di poter vivere in pace, senza pericolo.

Persino l’avvocato cavalca questo istinto allorquando, sostenendo l’innocenza del proprio assistito, crea pressione emotiva sostenendo che “il colpevole è ancora in libertà”. Il caso di Bossetti è paradigmatico in questo senso: il rapimento e l’omicidio della giovane Yara ha sconquassato la quiete della ristretta e civilissima comunità della provincia bergamasca ed il bisogno di sapere “chi è stato” è un’esigenza di vita quotidiana. Nel caso oramai quasi dimenticato dell’omicidio di Milena Sutter (Genova, anni Settanta) accadde qualcosa di molto simile: una bellissima ragazzina fu “prelevata” all’uscita dalla scuola, tenuta non si sa dove per alcuni giorni e poi gettata in mare. A Genova la “terra di nessuno”, dove far ritrovare un corpo esanime, è il mare; a Bergamo un campo incolto. A quel tempo i genitori avevano paura a mandare i propri figli a scuola, oggi accade lo stesso. E’ il “pericolo dell’accettare le caramelle dagli sconosciuti”.

Il processo, chiamato a giudicare di vicende così emotivamente devastanti, è, al contrario, un laboratorio scientifico di regole, di eccezioni, di cavilli che non sono perversioni da Azzeccagarbugli ma garanzie contro gli abusi, regole che garantiscono la logicità delle decisioni, strumenti per evitare che i protagonisti del processo operino da vittime dell’impulso e dell’emozione invece che da algidi tecnici. La toga rappresenta, metaforicamente, proprio questo: la necessità di far trionfare il diritto, cioè dire la scienza giuridica. L’errore cognitivo che “stacca” il ragionamento giuridico, per offrirsi all’impulso della sola general-prevenzione e quindi la necessità di ristabilire l’ordine e soddisfare la collettività con la sua “sete di giustizia” è manifestazione della “pop justice” e dunque del prodotto giudiziario “per la collettività”, come le opere pop, rispetto a quelle della tradizione, sono nate per essere trasfuse nei manifesti e nei posters, alla portata di tutti e per tutti. Il diritto tenta di cautelarsi contro questo rischio attraverso la “rimessione del processo” che impone lo spostamento del luogo dell’udienza quando le condizioni ambientali non consentono un giudizio sereno. E’ del tutto evidente la difficoltà di capire quando il processo travalichi così tanto nel “pop” da incidere sulla terzietà del giudice.

Ancora una riflessione sul caso Bossetti: quanti possono comprendere l’anomalia di quella prova del DNA ritrovata sull’indumento intimo di Yara e quanto, proprio quella dislocazione della traccia sul suo indumento, diviene una rappresentazione estetica capace di portare ad errori di prospettiva rispetto al migliore giudizio (va ricordato che altre tracce genetiche di soggetti non identificati sono state trovate altrove ma ad esse non è stata data importanza). Com’è possibile che il Tribunale di Brescia abbia, durante l’indagine, dichiarato che è necessario fare chiarezza su quella prova e la Corte di Assise di Bergamo abbia potuto bypassare questa indicazione ritenendo quell’indizio “preciso”, oltre che “grave” e quindi pienamente capace di provare la colpevolezza di Bossetti? I giudici di Brescia si sono espressi in base ad una valutazione tecnica, che esigeva persino meno approfondito (perché la fase processuale era diversa) rispetto a quella del primo grado; eppure hanno stigmatizzato quella prova, dando le indicazioni, in diritto, di come rimediare al dubbio. Senza il rimedio suggerito quel dubbio resta come un macigno sul futuro del processo. In linguaggio giuridico il dubbio sulla prova si chiama “ragionevole dubbio” e porta all’assoluzione.

Io credo che il processo, anche quello contro Bossetti, viva e sia vissuto con questa doppia natura: una tecnica, complessa e scientifica, l’altra emotiva, passionale, general-preventiva e sociale. Tutta la vita vive di questa dicotomia, dunque anche il diritto. Lo ha spiegato al mondo il grande filosofo Nietzsche nella sua opera La nascita della tragedia, laddove ha raccontato dell’eterna lotta tra lo “spirito apollineo” e lo “spirito dionisiaco”: il primo rappresenta la perfezione delle forme, l’armonia, la logica, ed il secondo la passione, l’emotività, l’irrazionale. Il processo è come l’arte, deve trovare l’equilibrio tra il diritto apollineo e la società dionisiaca, tra il giudice apollineo e il coro (la pubblica opinione) dionisiaca. La vicenda di Bossetti è anche questo e forse, proprio per questo, appassiona la gente (il coro della tragedia greca).

Luca D’Auria

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La fine della psicologia e l’avvento delle scienze cognitive come strumento irrinunciabile per l’operatore giuridico

Trattare il tema dei risvolti cognitivi, cerebrali, neurologici e mentalisti che possono avere ricadute sul processo penale, sia per ciò che attiene il soggetto destinatario del giudizio di colpevolezza (od innocenza) sia per i “protagonisti tipici” della “contesa togata” (accusa, difesa e, in ultima analisi, il giudice) non deve rimanere un esercizio di stile o una “chiacchiera” più o meno colta; è necessario cogliere le ricadute di detta materia nuova “nel pratico” e ciò al fine di gestire meglio la materia processuale e, se possibile, individuare una nuova frontiera al tema della legalità e del giusto processo (il “due process of law” della Costituzione americana ed il “giusto processo” del nostro articolo 111 della Carta Costituzionale).

Al fine di evitare che la sponda giuridica spazzi via le nuove conoscenze è importante non rischiare di cadere nella trappola (quasi un bias cognitivo-processuale) in cui è cascata la psicologia: questa infatti si è affermata con forza nella società come un aspetto determinante del decidere dell’uomo, ma le regole giuridiche l’hanno relegata ai margini della vicenda giudiziaria, stabilendo, sia in ambito sostanziale che processuale, la sua irrilevanza. Valgano ad esempio due dati normativi: gli “stati emotivi e passionali” non incidono sulla libertà di scelta e dunque sulla volontà dell’agire criminale e, dall’altro, il decidere del giudice è, sempre e comunque, libero (e dunque non influenzato o influenzabile dalla psiche) salvo le patologiche e quasi paradossali condizioni soggettive di cointeressenza con la vicenda del giudizio, così come statuito dalla disciplina sulla ricusazione e l’astensione. Come dire: chi delinque e chi deve giudicare sono soggetti che, nel loro “fare” specifico, si distaccano dall’uomo comune, il cives di tutti i giorni per il quale, al contrario, i giudizi (e talvolta le giustificazioni) di ordine psicologico sono il consolidato e normale metro di valutazione rispetto alle condotte prescelte (purché extragiuridiche). E’ ultroneo scomodare il filosofo Popper per affermare che la psicologia non è una scienza in quanto i suoi assunti sono (forse) affascinanti ma del tutto privi di falsificabilità e dunque mai potranno entrare nell’Olimpo delle conoscenze “vere”.

E’ indimostrabile che l’uomo agisca in virtù di moti dello spirito o di impalpabili reminescenze della propria vita inconscia. In questo senso le scienze cognitive (considerate nella globalità delle discipline che compongono lo studio del cervello) riportano il pensiero interiore (la mente) ad analisi molto più “terrene” e concrete. Il cervello è come una montagna innevata e le connessioni neurali come le tracce che gli sciatori lasciano sulla neve. Più un percorso viene solcato, maggiore ed automatica sarà la scelta a favore di quei solchi già impressi che saranno la pista prescelta per una nuova “discesa dalla montagna” (metaforizzando così il tema del sistema decisorio del cervello). Modificare i percorsi neurali è possibile (per la plasticità del cervello) ma è, allo stesso tempo, quasi impossibile in quanto, “electa una via”, il cervello, che è una macchina a risparmio energetico, adotterà, in via intuitiva, sempre quella sperimentata. Da qui le euristiche ed i bias che sono proprio il frutto degli automatismi con i quali la corteccia decide “saggiamente”, secondo una modalità paragonabile al sistema del “copia e incolla”. Ma la diversità delle situazioni reali costituisce un pericolo di errore nella scelta del percorso; la bibliografia esperienziale può infatti azzeccarci oppure no, rilevare assonanze e similitudini più o meno reali. I passaggi della psicologia sono, dunque, messi in crisi, non solo dal diritto, ma anche dalle scienze cognitive. Al posto degli “umori soggettivi” vi sono gli stati fisici da cui possono derivare gli stati mentali ma senza che questi ultimi possano avere vita autonoma (semmai l’aspetto emotivo della memoria bibliografica è data da un altro stato fisico, quello offerto dal “condimento” – positivo o negativo – che i neurotrasmettitori “spruzzano” nel momento in cui si ha una connessione neurale e dunque la formazione di un “pattern” bibliografico nel cervello).

Ed ancora: in luogo dell’inconscio si ha la memoria bibliografica che è composta da queste “stampe esperienziali” che si accumulano quotidianamente nel cervello (con il sistema dei “like” operato dai neurotrasmettitori) e che vengono riesumate dai neuroni al momento del fare. Questi, a velocità altissima ed in modalità precosciente, pescano dalla memoria neurale l’azione da compiere (quella con il miglior “rating”) e danno vita al copia e incolla del fare. Il diritto teme che tutto ciò vada ad intaccare il libero arbitrio. In effetti la gamma delle scelte, alla luce di questo funzionamento cerebrale, non è assoluta e kantianamente universale, ma è il frutto del vissuto e dunque parziale e limitata. Ma ciò non deve far temere per la tenuta del dolo: questo infatti diviene il prodotto delle micro-scelte quotidiane, non spostando la responsabilità dal soggetto agente verso scelte deterministiche e neolombrosiane.

In ogni caso, per evitare che le scienze cognitive siano respinte dal diritto (nel timore che queste possano sconvolgerne i dogmi) non bisogna forzarne l’inserimento nel tessuto normativo ma debbono diventare uno strumento da utilizzare “sotto traccia”, al fine di “leggere il processo” nei suoi passaggi salienti. Al pari di come lo sportivo “legge” la gara e sa adattarsi alla realtà per raggiungere la mossa vincente, così l’operatore del diritto deve muoversi nell’agone giudiziario tenendo sempre per mano, da un lato, la norma e la sua interpretazione, dall’altro, il funzionamento del cervello, le modalità operative delle euristiche e dei bias e ciò per cogliere, attimo dopo attimo, la mossa migliore sulla scacchiera processuale. Questa non è psicologia (che, come scienza, è ormai divenuta un utensile del passato): è conoscenza del funzionamento del cervello.

Certamente anche le scienze cognitive ed in specie la prammatica delle neuroscienze possono avere dei risvolti pratici. Basti pensare alla scoperta di lesioni della corteccia cerebrale tali da influenzare in modo patologico il decidere. Ma questi risvolti, al pari di quelli psichiatrici, operano in via eccezionale e, come detto, sulla patologia (l’infermità). Mentre la conoscenza della materia cognitiva opera sulle modalità ordinarie del fare umano. Che non cambiano e non possono cambiare per il solo fatto della commissione del reato o dell’indossamento della toga. Ma non solo: anche il tema probatorio può far emergere la materia cognitiva: basti pensare alle euristiche ed alle trappole mentali che può causare la prova scientifica. Ancora una volta: non è psicologia, è il prodotto di ciò che il cervello sa di una determinata materia. Per tutte queste ragioni, talune di ordine “tattico”, altre di ordine più tipicamente probatorio, il diritto penale cognitivo, materia introdotta da Justice of Mind come pilastro del diritto del Nuovo Millennio, deve divenire lo strumento fondamentale per chiunque voglia approcciarsi ai temi giuridici.

Luca D’Auria

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Diritto e giustizia alla luce dell’antropologia culturale

Una riflessione sull’utilità evolutiva dei sistemi di procedura penale per la mente del giudicante.

L’antropologia culturale studia le mutazioni della conoscenza sul modello di quelle genetiche. Con una differenza fondamentale, che, in quelle culturali, i geni-idee, “viaggiano” assai velocemente e sono così destinate ad essere riformulati ed anche destituiti in poco tempo, mentre le mutazioni genetiche sono rare e intervengono in tempi assai lunghi. Porre l’attenzione ai mutamenti culturali insiti nell’accertamento penale è interessante perché rispecchia pienamente questo approccio antropologico e pone altresì delle questioni spinose relative alla reale utilità di queste mutazioni rispetto alla funzione sociale della giustizia penale. E’ noto come ogni mutazione (prima fra tutte quella genetica) ricombini la struttura su cui interviene e questa “novità”, per essere accettata, debba essere “giudicata” favorevole per l’evoluzione della specie di riferimento, prima di divenire un nuovo patrimonio consolidato. Accade lo stesso per le mutazioni culturali, laddove in luogo dei geni vi sono, appunto, i geni-idee, con la peculiarità precedentemente accennata e cioè che queste sono assai rapide ad entrare a far parte del bagaglio del pensiero ma con altrettanta velocità possono non resistere al principio evolutivo e dunque essere accantonate perché disutili. Valutando le modifiche di paradigma del processo penale ci si rende conto come, nel volgere di pochi secoli, il processo ed in specie la legislazione, che funge da patrimonio genetico del medesimo, siano stati oggetto di mutazioni considerevoli: si è passati rapidamente da una fiducia incontrastata nel giudizio divino (l’ordalia) per arrivare, oggi, al processo “ad armi pari” (il sistema accusatorio moderno) passando per l’Inquisizione, che riponeva la massima fiducia nel giudicante e nella funzione della tortura come naturale via per raggiungere la verità, senza trascurare il sistema della prova legale in cui, a ciascun mezzo probatorio, veniva assegnato un valore numerico di affidabilità predeterminato, togliendo al giudice ogni forma di interpretazione soggettiva ai fatti. Differentemente da ciò che la vulgata sostiene usualmente, il modello processuale penale italiano è certamente, nei suoi connotati normativi, uno dei più evoluti di sempre. Basta infatti pensare che le norme che lo compongono ricalcano tutti i criteri tipici di demarcazione tra metodi scientifici e pseudo-scienze, a favore della soluzione scientifica dell’impianto regolatore del procedimento. Vale ricordare i due principali cardini dell’epistemologia recepiti dal codice: quello neopositivista, già di origine newtoniana, della verificabilità empirica degli assunti e quello falsificazionista di tradizione popperiana. L’accusa infatti deve provare il suo atto d’accusa portando delle prove concrete dei fatti che dimostrino l’accadimento e la sua attribuibilità ad un determinato soggetto. Tale proposta cognitiva non può essere un postulato ma deve altresì resistere alle confutazioni (e dunque deve poter essere falsificata); in questo modo, nella sua motivazione, il giudice è chiamato a esaminare i dati empirici che riscontrano quanto sostenuto dall’accusa ed anche esplicitare il perché l’ipotesi resiste alle smentite. Alla luce di tutto ciò v’è da chiedersi per quale motivo il giudizio di colpevolezza (oltre ad ogni ragionevole dubbio) possa non risultare sempre manifesto o, addirittura, essere smentito, sulla base dei medesimi elementi, dal giudice di rango superiore. Una risposta può essere offerta proprio dall’antropologia culturale, che, si sa, è uno dei formanti delle scienze cognitive. Durkheim ha ben evidenziato come il delitto crei una ferita nella società e la punizione del colpevole rappresenti, non solamente il ripristino della legalità, ma specialmente la cura contro quella ferita ed il male che essa ha prodotto; in questo modo il giudice si trova ad avere una funzione di garante del tessuto sociale e, in ciò, può trovare, nell’evoluzione culturale del processo (che crea orpelli spesso inestricabili rispetto ad una pronta risposta repressiva) un limite a tale ruolo di “clinico” del male prodotto. Ciò non avviene con pregiudizio o cattiva conoscenza delle regole processuali, ma proprio mediante percorsi cognitivi naturali, principalmente dovuti al ruolo svolto. La disutilità dell’evoluzione (giuridico-culturale) può dunque fare da freno alla rigorosa applicazione del diritto. In quest’operazione mentale il giudicante si trova a sostituire l’epistemologia con l’ermeneutica e ciò nel senso che supera la regola attraverso l’interpretazione. L’epistemologia obbliga infatti ad un ragionamento esclusivamente basato sulla disciplina normativa e non consente di aggirare questa in nessun modo; di contro, l’ermeneutica, metodo tipico dello storico, vuole che chi è chiamato a dare significato ad un fatto utilizzi tutte le conoscenze possibili, tra cui l’interpretazione. Se uno storico vuole decodificare uno scritto antico, magari leggibile solo parzialmente, attingerà ad altre fonti per tentare la migliore interpretazione. L’epistemologo, di contro, dovrebbe dichiarare sconosciuta la parte non manifesta. Per la prova penale e per il principio del ragionevole dubbio, la normativa impone la medesima condotta: il giudice deve fermarsi sui “vuoti probatori”, non può utilizzare né la scienza propria né altre conoscenze per superare il dubbio, magari re-interpretando la prova. Spesso, però, ciò non accade. Dal punto di vista delle scienze cognitive questa può essere una trappola mentale (un’euristica) che scaturisce dal ruolo di “crime controller” del giudice; dal punto di vista dell’antropologia culturale si può affermare che l’evoluzione normativa e dunque culturale (del processo) si frapponga alla soluzione sociale del problema-delitto e dunque assurgere al ruolo di evoluzione disutile (per l’evoluzione stessa) della specie (società). Questo “imbrigliamento” della mente del giudicante nel ruolo svolto, richiama gli esperimenti di Zimbardo (raccolti nel volume “L’effetto Lucifero”) secondo cui l’attribuzione di una determinata funzione ad un essere umano ne “ricabla” i percorsi neurali, anche e ben al di là di quelle che sarebbero le propensioni di costui, al di fuori del ruolo assegnatogli. Queste ragioni danno una illuminante spiegazione alla scollatura che assai spesso si può riscontrare tra il diritto e la giustizia applicata, laddove il primo è il lato dell’evoluzione culturale ed il secondo la sponda della modalità adattiva per l’evoluzione della specie dei geni-idee contenuti nelle regole astratte. Il giudice si trova così sul crinale di un doppio ruolo, quello di custode principale dell’evoluzione antropologico-culturale e quello del controllore del buon andamento sociale e del distributore di decisioni che sappiano rispondere a questa sua proiezione extragiuridica. Ciò porta ad inestricabili problematiche di ordine cognitivo per rendere compatibili tali ruoli, con buona pace per gli assunti dogmatici che vogliono il giudice, sempre e comunque, esente da contraddizioni ed errori mentali, diversi da quelli patologici preveduti dal codice come cause di impossibilità a svolgere la funzione (da cui le quasi insignificanti regole sull’astensione e la ricusazione).

Luca D’Auria

Le euristiche del giudice ed il processo penale. Anche il giudice può cadere nelle trappole mentali

Il mondo della giustizia (penale) è un mondo di decisioni. Il giudice è il decisore per eccellenza. Nelle sue mani sono racchiuse le sorti dell’accusato. A sua volta l’accusato è imputato di aver deciso di trasgredire le regole su cui si fonda la comunità in cui vive. Le scienze cognitive affrontano il tema della decisione mettendo in luce come il cervello, con i neuroni, le sinapsi ed i neurotrasmettitori, determina le decisioni nell’interazione col mondo, utilizzando i percorsi “stampati” nelle connessioni cerebrali. Tutto questo è il frutto dell’apprendimento. Questo è il vero pilota della nostra vita, spesso automatico in quanto “sicuro di sé” (l’apprendimento serve proprio a non dover sempre “ragionare” su ogni scelta) e gioca una partita a scacchi con il DNA ed il caso. Ne scaturisce un uomo ben diverso da quel “legislatore universale” che vorrebbe Kant; chi potrebbe dirsi capace di decidere in modo così “angelico” come avrebbe voluto il Padre Nobile dell’illuminismo? E’ vero, l’Occidente è figlio di quella tradizione che, però, presa dogmaticamente, rischia di trasformarsi in un paradigma antistorico. Il diritto penale applicato è uno dei campi che restano maggiormente ancorati a questo dogma. Il giudice deve decidere secondo il suo “libero convincimento” ed il reo deve aver deciso con “libertà d’intendere e di volere”.

Sia concesso qualche ragionamento sul giudice. Il codice impone che la decisione sia logica, libera, rispettosa delle regole processuali. I caratteri quasi religiosi di questo strumento di gestione della collettività sono di immediata intuizione. La toga, lo scranno ed i simboli dell’Ordine giudiziario ne sono la rappresentazione “pop”. Questi sono solo all’apparenza inutili. Lo “jusdicere” deve affascinare, fare paura, creare rispetto. E non essere discusso nei suoi aspetti più profondi: quelli che attengono alla libertà del decidere. Oggi qualsiasi scienziato cognitivo afferma che è una chimera sostenere la piena logicità del nostro fare; le euristiche e cioè le scorciatoie che in ogni istante il cervello plastico prende per agire senza sorprese, determinano il fare e convincono la coscienza di aver scelto “la via giusta”. Talvolta è così; altre volte si tratta di trappole mentali che determinano i bias cognitivi e cioè errori di rapporto tra il mentale e la realtà che vuole una risposta. Questi colpiscono tutti, sempre. Sono modalità decisorie normali, utili ed adattive. Insano sarebbe un metodo diverso. E’ vero per tutti e tutto tranne che per il giudice? Non risultano individuate da nessuno le trappole mentali e dunque le euristiche causatrici di bias cerebrali specificatamente riferite alla funzione della decisione giudiziale. Di contro, la psicologia cognitiva, come è noto, ha catalogato quelle più comuni che inficiano il ragionamento.

Un seppur superficiale e non esaustivo elenco delle trappole mentali giudiziarie è necessario ed utile per una corretta comprensione della decisione giudiziaria. Alle comuni euristiche possono affiancarsi le seguenti trappole mentali tipicamente giudiziarie:

Tolomeo mental trap: la trappola mentale di Tolomeo riguarda tutti gli errori nei quali può incorrere il giudice rispetto alla prova tecnica o scientifica. Tale fonte conoscitiva esula infatti dalle sue competenze e dunque chi decide può essere fuorviato dall’idea astratta che un certo mezzo conoscitivo porta con sé (si pensi alla prova del DNA) trascurando le emergenze che nel singolo caso possono rendere non affidabile la fonte di prova.

Aristotele mental trap: la trappola di Aristotele consiste nel rischio che il giudice confonda il tipo di sillogismo da applicare in sede giudiziaria; in specie non utilizzi il metodo induttivo che va dal particolare (la fonte di prova) al generale (la prova della commissione del fatto) ma si attesti sul sillogismo deduttivo che, per definizione, non dimostra nulla in quanto la premessa maggiore contiene già la conclusione.

Wig mental trap: è la trappola della parrucca (simbolo del giudicante ma anche delle parti processuali). Si può verificare ogni qualvolta il giudice non valuti la prova così come offerta dall’istruzione ma faccia prevalere il proprio ruolo di garante della collettività e dunque si trovi a decidere in base a ciò che ritiene giusto per il ruolo ricoperto più che in base agli atti.

Josef K mental trap: è la trappola mentale dell’accusato. Nel celebre romanzo di Kafka (Il Processo) Josef K viene accusato e condannato e il protagonista stesso non trova la modalità per dimostrare l’infondatezza dell’accusa.

Giovanna d’Arco mental trap: la trappola mentale di Giovanna d’Arco può colpire il giudice nella valutazione della deposizione vittima del reato. In questi casi il giudice può dare eccessivo credito alla versione di chi lamenta di aver subìto un reato oppure, al contrario, la vittima può essere, a suo volta, “vittima” di uno svilimento delle proprie ragioni.

Dr. Watson mental trap: è la trappola mentale del poliziotto. Investe il giudice ogni qualvolta crede alla ricostruzione della polizia anche se questa diventa un postulato.

Black money mental trap: la trappola del “denaro nero” riguarda il giudizio che attiene ogni utilizzo sospetto del denaro stesso.

Eyes mental trap: la trappola mentale degli occhi attiene a tutte quelle situazioni in cui il giudice deve porsi nella condizione di “cosa avrebbe visto” l’agente prima della commissione del fatto e non già “guardando” al suo comportamento in ragione dell’evento accaduto.

Ink mental trap: la trappola dell’inchiostro si ha ogni volta in cui il giudice è chiamato a decidere sulla base di documenti o, ancora di più, di intercettazioni trascritte. Queste ultime possono infatti essere lette in svariati modi e sensi in quanto la trascrizione scritta delle medesime non permette di comprenderne i toni e dunque il valore “indiziante” delle medesime.

Due process of law mental trap: la trappola mentale del “giusto processo” è l’errore di sistema processuale per cui il giudice sente per prima la versione dell’accusa. Questa garanzia giuridica per l’accusato, sul fronte delle scienze cognitive, costituisce trappola mentale in quanto i neuroni vengono “segnati indelebilmente” dalla prima versione proposta (al giudice).

Pop justice mental trap: la trappola causata dal “lato pop” della giustizia attiene a tutte quelle influenze esterne che possono riverberarsi sul processo (si pensi alla così detta giustizia mediatica) ma ancora di più riguarda la funzione general preventiva della pena. Questa infatti può portare il giudice a decidere proiettandosi verso la società e non già rimanendo strettamente legato alla prova.

Old sage mental trap: è la trappola mentale del “vecchio saggio” o “saggio precedente giurisprudenziale” preso in esame dal giudice. In realtà è esperienza comune verificare come la giurisprudenza, anche consolidata, non sia sempre immediatamente utilizzabile come “stare decisis” in una nuova.

Hans Georg Gadamer mental trap: la trappola mentale di Georg Gadamer si verifica ogniqualvolta in giudice applica l’ermeneutica in luogo dell’epistemologia. L’ermeneutica, infatti, metodologia tipica dello storico, consente di “riempire” i vuoti informativi usando la scienza propria dell’interprete. Comprendere le trappole mentali del giudice non è un modo per svilirne l’attività ma, anzi, per consentire una maggior aderenza giuridica delle sentenze alle esigenze imposte dalle regole sulla prova penale.

Luca d’Auria

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Giustizia della mente: i processi giuridici riletti dalla Filosofia

Tutti gli studiosi del rapporto mente-cervello sostengono che nessun fare umano, per essere compreso, può trascurare gli apporti che offrono le scienze cognitive. Piergiorgio Strata ha evidenziato come «ogni giorno siamo impegnati in una miriade di atti comportamentali che ci sembrano determinati dalle nostre decisioni di uomini liberi e coscienti… Nella realtà la maggior parte delle nostre azioni è eseguita sotto una pesante spinta della quale non siamo consapevoli». La giustizia, le cui decisioni intercettano direttamente la società, non può più esimersi dall’essere letta (o riletta) con la lente delle neuroscienze e delle scienze cognitive. Ancor di più ciò accade per la giustizia penale che, per sua natuta genetica, ha una funzione educativa verso la comunità (funzione general-preventiva) ed è altresì deputata a riparare le lesioni sociali causate dal delitto (Emile Durkheim).

Nonostante questa “sensibilità” sia oramai diffusa in svariate discipline umane, pare che proprio la giustizia applicata fatichi ad accettare incursioni di questo tipo. Come sosterrebbe Thomas Kuhn, sembra di trovarsi in una di quelle condizioni tipiche di cambiamento di paradigma scientifico (nel caso di specie scientifico-giuridico) durante le quali il nuovo viene rifiutato oppure si cerca con tutte le forze intellettuali ed operative di incanalarlo all’interno dei confini tracciati dal vecchio e questo, di fatto, per disinnescarlo. Pare quasi che, all’interno dei tribunali, non si operi come in tutti gli altri ambiti della vita umana: sembra che, una volta entrati nei “palazzi”, la dea bendata sia capace di svuotare i cervelli di tutto ciò che “non è diritto”, le menti vengano ripulite dei loro bias cognitivi, trasformando i protagonisti della vicenda giudiziaria in perfetti robot logici che hanno come unica guida la norma di legge e da quella non possono discostarsi. Il tribunale diviene una sorta di “mondo possibile” (dell’impossibile) capace di trasformare il legno storto di Kant in un legno dritto, l’uomo fallace in un essere perfettamente logico. Forse questa strenua difesa di una irrealistica “torre di avorio”, inattaccabile dalle tortuosità tipiche di ogni decisione umana, è funzionale alla giustizia ed ai suoi risvolti sociali. Certamente però è qualcosa di assai prossimo dall’essere un dogma antistorico.

Justice of Mind nasce nel 2015 proprio al fine di far solcare anche il mondo della giustizia penale applicata dalle novità interpretative portate dalle scienze cognitive, considerando “il tribunale” non un luogo capace di essere immune dalle questioni sulla cognizione ma, al contrario, evidenziandone la funzione decisoria. La giustizia è decisione e, da qualunque dei suoi attori la si voglia analizzare, si basa sulla libertà di scelta come condizione minima di operatività. L’accusato deve essere libero di decidere quando commette il fatto di reato ed anche nel corso del processo (la capacità di stare in giudizio e dunque di decidere e comprendere il processo è sancita dal codice di procedura penale); il giudice, per emettere una sentenza, deve seguire le regole di diritto previste dall’ordinamento (secondo logicità) e ciò in ragione del proprio “libero convincimento” (sono sempre parole del codice). Avvocati ed accusatore debbono, a loro volta, essere in grado di decidere liberamente e non avere cointeressenze che possono compromettere la libertà di “indossare la toga”. Prima ancora, il legislatore deve stabilire con coscienza e libertà le regole che ordinano la società per il futuro. Tutto questo bagaglio di libertà del decidere non può e non deve essere distrutto, ma certamente deve essere compreso alla luce delle nuove scienze. Diversamente, del mondo della giustizia, residuerà solamente il lato “pop” e cioè quella funzione pseudo pubblicitaria e da fiction costituita dalla sua mediaticizzazione, lasciando sempre più indifferente il pubblico (e la società) ai suoi valori, anche tecnici, più importanti (la funzione general-preventiva e quella riparatrice del trauma sociale causato dal delitto). La mente, trampolino delle decisioni, non è più considerabile un’entità staccata dal cervello; il rapporto mente-cervello è inesorabilmente di tipo fisicalista ed il cervello, attraverso l’operare dei neuroni, delle sinapsi e dei neurotrasmettitori, produce i pensieri e questi pensieri (da cui nascono le decisioni) sono il prodotto di tre fattori principali: del codice genetico, delle esperienze e quindi dell’apprendimento e del caso (come insegna Edoardo Boncinelli). Ciascuno di noi traccia il proprio percorso che, poi, lo “farà decidere”. Ciò non vuol dire aderire a tesi deterministiche neolombrosiane ma, piuttosto, tentare di dare delle nuove chiavi di lettura, anche del mondo della giustizia, che non siano vincolate in modo apodittico e preconcetto, ad un vecchio paradigma. Justice of Mind si propone così di spiegare o tentare di capire le ragioni delle scelte del reo, del giudice, del legislatore, dell’avvocato e dell’accusatore. Senza nessun desiderio di censura. Solamente per comprendere e risolvere problemi. Perché, per dirla con Karl Popper, «tutta la vita è risolvere problemi». Capire la giustizia penale ed il processo non è qualcosa che può dirsi esente dai fatti della vita.

Per questa funzione di comprensione è necessario creare una sinergia tra conoscenze giuridiche, filosofiche, cognitive, psicologiche e criminologiche. Questo è Justice of Mind. Per capire e non restare intrappolati nelle inevitabili “trappole mentali”. Edmonds in Uccideresti l’uomo grasso? ritiene che «i tribunali saranno sempre più invitati a prendere in considerazione scusanti ed attenuanti basate su scansioni cerebrali». Non solo: per capire i tribunali bisogna capire i dilemmi etici che Edmonds pone nel suo testo e sono il titolo del libro: come e perché l’essere umano decide in un certo modo; come e perché decide oppure no di uccidere l’uomo grasso per salvarne altri cinque. E qui si va diretti a capire la decisione, il cervello del decisore, il suo libero convincimento, il giudice.

Luca D’Auria