Joker: una critica violenta ma inefficace dei disagi del capitalismo

Se Joker di Todd Phillips si sta imponendo così massicciamente nel dibattito pubblico non è solo per la grande prova attoriale di Joaquin Phoenix, né per i meriti cinematografici dell’opera, riconosciuti in modo unanime dalla critica italiana, ma messi in dubbio da quella inglese e statunitense. Il successo di Joker sta nella sua capacità di aver inserito il fascino della storia del villain più famoso dei fumetti nella realtà concreta, nel disagio sociale sempre più avvertibile nel mondo occidentale. E non è infatti un caso che il regista abbia dichiarato di ispirarsi più al realismo e alla narrazione del mondo degli esclusi di Martin Scorsese che alla spettacolare ma volutamente irrealistica trilogia di Batman firmata da Christopher Nolan.

Certamente Phillips ha avuto il merito (e la furbizia) di aver legato la storia di Joker a un tema attuale e bruciante come la disparità sociale e la conseguente rabbia degli esclusi del progresso. E bisogna ammettere che non è affatto scontato che una grande produzione hollywoodiana lasci trasparire un ritratto così cupo e negativo della società capitalista. Il problema però è che Joker si accontenta di riprodurre questa rabbia sociale, di metterla in scena in modo particolarmente violento e shoccante, senza tuttavia tentare di offrirne un’alternativa. Il film culmina così in una scena finale di caos e morte, dove i negozi vengono distrutti e le macchine della polizia bruciate e Joker si dipinge sulla faccia un sorriso di sangue che non ha nulla di gioioso, ma è solo la sublimazione violenta di una rabbia che non ha trovato senso o risposta.

Phillips sembra aver traslato nell’universo pop una strategia già da tempo attuata nell’arte contemporanea, che il filosofo francese Jacques Ranciere nei suoi scritti descrive come arte critica. Si tratta cioè di un’arte che per combattere le contraddizioni del capitalismo si limita a raddoppiarle ed esagerarle, a costringere lo spettatore a confrontarsi con quegli effetti dell’esclusione sociale che nella nostra quotidianità sono rimossi, senza però cercare di modificarne la nostra percezione e lasciando quindi nel pubblico una sensazione di disagio e impotenza. Anche di fronte a Joker lo spettatore non può che rimanere annichilito, reso consapevole dell’insopportabile disparità sociale prodotta dal capitalismo, ma lasciato di fronte a due possibilità ugualmente spiacevoli: o celebrare la ribellione furiosa di Joker, oppure condannarlo, rimanendo quindi nel sistema dominante e accettandone l’ingiustizia.

Ranciere sostiene quindi che un’arte e un cinema critico nei confronti del capitalismo siano oggi quanto mai necessari, ma che non possano accontentarsi di denunciare le condizioni presenti e ricercare lo shock dello spettatore. In tal modo si rischia soltanto di diffondere ulteriormente degli stereotipi e di confermare in modo drammatico che non ci sia via d’uscita ai disagi della società contemporanea. Al contrario l’arte avrebbe il compito di aprire nuovi spazi di possibilità, di mettere in dubbio le condizioni esistenti per riformularle, di lasciar emergere un nucleo positivo e costruttivo e non un discorso puramente nichilistico. Che anche il grande cinema hollywoodiano si stia avvicinando ai temi della disparità sociale è un passo in avanti e al contempo il sintomo di un problema così pressante da invadere anche gli spazi del cinema commerciale, ma è tempo di cercare risposte diverse.

 

Lorenzo Gineprini

 

[Immagine di copertina tratta dal film Joker]

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La forza perduta della narrazione in Game of Thrones

La conclusione di una serie tv amata e seguita come Game of Thrones non poteva che causare polemiche, ampliate a dismisura dai social network. Eppure, come nota Nick Cohen in un articolo su The Guardian, è insolito che la fine di una saga fantasy così amata porti con sé più perplessità che commozione. Non era accaduto nulla di simile quando Il signore degli anelli e Harry Potter si erano conclusi; a nessuno ad esempio era venuto in mente di chiedersi: perché dopo aver ripreso l’anello Gollum danza felice sulle pendici del monte Fato invece di fuggire con il suo tesoro? Questo perché tanto la coerenza dei personaggi con le proprie azioni quanto il coinvolgimento emotivo dello spettatore erano mantenuti su un livello più alto. Quello che invece è mancato nel finale di Game of Thrones è stata proprio la narrazione, la capacità di affabulare il lettore e persuaderlo della credibilità degli eventi (da qui in poi attenzione agli spoiler).

La follia distruttrice di Daenerys ha semi antichi ed è ovvio che una volta che la regina dei draghi si è trasformata in una tiranna – proprio lei che era destinata a “spezzare la ruota” del potere e della sottomissione – debba morire. Ad ucciderla non può che essere Jon Snow, colui che la ama ma sa anteporre il proprio dovere ai sentimenti. E anche la scelta di Bran come re sembra la conclusione di un percorso simbolico: a regnare è colui che possiede la memoria storica dell’intera umanità e che, potendo imparare dagli errori del passato, sarà capace di governare in modo giusto.

A non funzionare non è quindi tanto il cosa, ma il come gli eventi sono stati raccontati. Da quando la serie tv si è separata dal suo creatore George Martin – solo consulente esterno nelle ultime due stagioni – ha perso anche la sua potenza narrativa. Senza dialoghi sagaci e capaci di rivelare la psicologia dei personaggi le azioni hanno cominciato ad apparire arbitrarie invece di essere conseguenze logiche ed inevitabili della personalità dei protagonisti. Se sul web così tanti hanno iniziato a domandarsi perché Arya o Tyrion hanno fatto x invece di y non è solo una conseguenza dell’epoca dei social network, dove tutti si sentono in dovere di criticare, ma anche di una sceneggiatura che ha smesso di evolversi in modo credibile. 

È mancata poi la capacità drammaturgica di costruire i colpi di scena, accumulando tensione e sciogliendola in una sequenza. Eventi come l’esecuzione di Ned Stark o le nozze rosse avevano sconvolto gli spettatori; e non solo per quello che succedeva, ma per il modo in cui esse erano narrate. La morte di Daenerys nell’ultimo episodio avrebbe potuto essere un evento di questo tipo, eppure la scena manca di tensione drammatica: uno dei personaggi più longevi della serie, di cui abbiamo seguito da vicino aspirazioni e sofferenze, viene tolta di scena frettolosamente e senza nemmeno regalarle un’ultima parola. 

Naturalmente sarebbe ingiusto giudicare una serie tv lunga otto anni solo per i suoi ultimi episodi, ma è un peccato che una saga di tale potenza si sia conclusa in modo così fiacco. E al contempo il particolare percorso di Game of Thrones ha molto da insegnarci. Il trono di spade è partita come una serie nerd a basso costo, costretta a recuperare costumi di fortuna. È poi cresciuta al punto da potersi permettere i migliori effetti speciali e scegliere scenografie spettacolari. Eppure, malgrado la qualità visiva abbia raggiunto vertici raramente toccati in tv, la serie ha perso fascino e potere immaginifico: in fondo avere una buona storia e sapere come raccontarla continua a rimanere il nucleo irrinunciabile di qualsiasi narrazione. 

 

Lorenzo Gineprini

 

[immagine tratta da Unsplash]

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Le stelle di Talete: l’oroscopo filosofico per la vostra estate!

È tristemente noto l’aneddoto riguardante Talete che, mentre camminava guardando le stelle, cadde in una fossa e fu deriso da una servetta. Noi de La chiave di Sophia abbiamo deciso di correre lo stesso il rischio di osservare il firmamento per scorgervi il futuro e poter così dare ai nostri lettori alcuni consigli utili, e rigorosamente filosofici. Se credete che il nostro oroscopo di inizio anno ci abbia azzeccato, lasciatevi conquistare dalla nostra proposta estiva! E speriamo che anche questi consigli possano aiutarvi a passare un’estate serena.

 

oroscopo-filosofico_la-chiave-di-sophia_estate-01ARIETE (21 marzo – 20 aprile): «Ciò che nell’uomo è immagine di Dio non è il fatto che egli sia una persona; ma qualcosa che è connesso con questo: è la facoltà di rinunciare a essere persona» scriveva Simone Weil. Nella de-creazione, ossia nella capacità di rinunciare alla centralità illusoria dell’ego, la filosofa francese vedeva la scelta etica più profonda che si possa effettuare, poiché in tal modo il mondo non è più valutato in base al piacere che dà all’Io, bensì vissuto in modo diretto e autentico, lasciando uno spazio per far emergere e ascoltare l’Altro. Voi Arieti dovreste imparare a “de-crearvi” ogni tanto: focalizzarvi su voi stessi spesso vi ha aiutato a raggiungere i vostri obiettivi ma non dimenticavi come si guarda con stupore ciò che vi circonda.

 

oroscopo-filosofico_la-chiave-di-sophia_estate-02TORO (21 aprile – 20 maggio): «Né l’occhio, né l’immaginazione su questi massi informi trovano un punto su cui quello possa sostare con piacere o quella possa trovare un’occupazione o uno spunto per il suo libero gioco. Solo il mineralogista trova materia per rischiare avventate congetture circa le rivoluzioni di queste montagne. La ragione nel pensiero della durata di queste montagne, o nel tipo di sublimità che si ascrive loro, non trova nulla che le si imponga e strappi stupore e meraviglia. La vista di questi massi eternamente morti a me non ha offerto altro che la monotona rappresentazione, alla lunga noiosa, del: è così». Queste sono le considerazioni di Hegel dopo un viaggio tra le Alpi vicino a Berna. Per il filosofo tedesco insomma le istituzioni umane con le loro trasformazioni sono molto più affascinanti della monotona necessità naturale. Se siete d’accordo con queste righe, beh vi ho appena offerto una perfetta scusa intellettuale per risparmiarvi quest‘estate una passeggiata ad alta quota. Se invece leggendo queste righe vi siete indignati, vi invito a scrivere una vostra pagina di diario in cui contraddite Hegel; del resto anche i grandi filosofi ogni tanto sbagliano, no?

 

oroscopo-filosofico_la-chiave-di-sophia_estate-03GEMELLI (21 maggio – 20 giugno): «Io amo sperdermi per lunghi tratti come in mare e nei boschi gli animali, rannicchiarmi in beate fantasie, poi attirarmi a casa da lontano, e sedurre me stesso – a ritrovarmi». In queste righe Nietzsche elogia la buona solitudine, la libera, coraggiosa, lieve solitudine, uno dei suoi temi di riflessione più frequente. Per il filosofo tedesco la solitudine non era solo una fuga da un mondo che non lo apprezzava né capiva ma anche un modo per rafforzarsi e ritrovarsi, un luogo sicuro dove essere libero e pienamente sé stesso. Imparare a sedurvi, senza però cadere in un nichilismo narcisistico, è la non facile missione che vi assegno, gemelli.

 

oroscopo-filosofico_la-chiave-di-sophia_estate-04CANCRO (21 giugno – 22 luglio): Prima di paragonare non molto cavallerescamente il concetto di Assoluto di Schelling alla notte nera in cui tutte le vacche sono nere, Hegel non era stato solo amico di Schelling, ma suo coinquilino! I due avevano vissuto insieme nel collegio del seminario teologico di Tubinga. Sotto lo stesso tetto insieme a loro dormiva niente di meno che Hölderlin, che sarebbe diventato uno dei più grandi poeti della storia tedesca, nonché riferimento centrale per il concetto di pensiero poetante di Heidegger. Riesci ad immaginare te e i tuoi coinquilini universitari tra vent’anni diventare le menti più geniali della vostra generazione e plasmare la storia del pensiero occidentale? Forse voi cancri fate bene a non eccedere con manie di grandezza ma attenzione a farvi troppo scudo della vostra umiltà: senza pensare in grande è difficile raggiungere risultati importanti.

 

oroscopo-filosofico_la-chiave-di-sophia_estate-12LEONE (23 luglio – 23 agosto): Nel 1980 Foucault concesse a Le Monde un’intervista, pubblicata anonima, in cui discuteva del ruolo degli intellettuali nella società moderna. La provocatoria proposta avanzata dal filosofo francese era di far uscire per un anno tutti i libri senza il nome dell’autore, per costringere pubblico e critica a leggere davvero e senza pregiudizi le opere. Giudicare un libro dalla copertina (o dall’autore) – e in senso più ampio guardare la realtà attraverso i propri pregiudizi invece di considerarla davvero – sono difetti che abbiamo tutti, ma le convinzioni di voi leoni sono spesso più ferree del normale. Vi invito invece ad abbandonare alcune delle vostre categorie interpretative e di prendervi il tempo di leggere davvero e con pazienza il libro della realtà. Farete sicuramente delle scoperte spiazzanti ma sono certo che ne uscirete arricchiti.

 

oroscopo-filosofico_la-chiave-di-sophia_estate-11VERGINE (24 agosto – 22 settembre): Ernst Bloch rimproverava a Freud di aver descritto l’inconscio solo in termini di “non-più-conscio”, di ciò che è stato rimosso o dimenticato. Il filosofo tedesco suggerisce invece di concentrarsi sul “non-ancora-conscio”, ciò che giace nella nostra coscienza come possibilità non ancora esplorata, come talento non ancora portato alla luce e tradotto in realtà. Voi vergini siete dei maestri nell’esercizio di scandagliare il rimosso per spiegare i vostri atteggiamenti ma questo può condurvi a chiudervi in voi stessi, rimuginare in eterno e bloccare così qualsiasi sviluppo. Seguite il suggerimento di Bloch e ascoltate questa “voce del diverso, del migliore, del più bello” che parla dentro di voi di possibilità inattuate che vi aspettano.

 

oroscopo-filosofico_la-chiave-di-sophia_estate-10BILANCIA (23 settembre – 22 ottobre): Hannah Arendt, filosofa del segno della bilancia, ebbe una relazione d’amore tormentata con il suo insegnante Martin Heidegger, all’epoca già sposato. Un rapporto che si interruppe anche perché Arendt, in quanto ebrea, fu costretta a scappare dalla Germania, mentre Heidegger aderì al nazismo. Malgrado tutto la filosofa alla pubblicazione di Vita Activa, uno dei suoi libri più importanti, scrisse ad Heidegger: «Noterai che il libro non reca nessuna dedica. Se le cose tra noi fossero andate per il verso giusto – intendo dire tra e non per me o per te – ti avrei chiesto di potertelo dedicare, ha cominciato a prendere forma fin dai primi tempi di Friburgo, e ti è debitore sotto ogni aspetto, di quasi tutto». Care bilance, imparate da Arendt a riconoscere i vostri debiti intellettuali ed emotivi, anche nei confronti di una persona che ormai vi è lontana e ha smesso di essere un modello.

 

oroscopo-filosofico_la-chiave-di-sophia_estate-09SCORPIONE (23 ottobre – 22 novembre): «La chiacchiera è la possibilità di comprendere tutto senza alcuna appropriazione preliminare della cosa da comprendere. La chiacchiera garantisce già in partenza dal pericolo di fallire in questa appropriazione. La chiacchiera, che è alla portata di tutti, non solo esime dal compito di una comprensione genuina, ma diffonde una comprensione indifferente, per la quale non esiste più nulla di inaccessibile». Questa è la dura condanna che Martin Heidegger rivolse alla chiacchiera, forma dell’esistenza inautentica. Abbandonarsi a questo modo di discutere superficiale è una tentazione spesso irresistibile ma, miei cari scorpioni, ricercate una conversazione più attenta, precisa e fondata: potrete certamente imparare molto di più dal vostro interlocutore e da voi stessi. 

 

oroscopo-filosofico_la-chiave-di-sophia_estate-05SAGITTARIO (23 novembre – 21 dicembre): Jacques Derrida era solito raccontare sempre la stessa barzelletta ad amici e colleghi: alcuni animali si recano in campagna per fare un picnic, ma una volta trovato un bel prato ombroso si rendono conto di aver dimenticato il pane. L’unica ad offrirsi di tornare indietro a prenderlo è la tartaruga, che chiede però il favore di aspettarla prima di iniziare a mangiare. Dopo circa mezz’ora di attesa gli animali sono affamati e così il gatto propone di iniziare ad assaggiare qualche stuzzichino. Tuttavia, appena tira fuori il barattolo delle olive, da un albero poco lontano dalla radura si sente alzarsi la voce della tartaruga: “Guardate che se iniziate a mangiare senza di me io torno indietro eh!”. Il contenuto filosofico della barzelletta? Derrida non ce l’ha lasciato scritto, toccherà a voi sagittari trovarlo. O decidere di non interpretarla e ridere senza sentire l’esigenza di intellettualizzare ogni cosa.

 

oroscopo-filosofico_la-chiave-di-sophia_estate-08CAPRICORNO (22 dicembre – 20 gennaio): Jacques Lacan avvertiva che nell’epoca del consumismo la struttura del Super Io è cambiata rispetto a quella descritta da Freud. Il Super Io non è cioè più un’istanza censoria severa che ci proibisce determinati piaceri; al contrario si configura come una forza che ci spinge al godimento continuo ed eccessivo, alla Juissance. Resistere a questa forza psicologica e sociale che ci obbliga a divertirci di continuo è più che legittimo; di conseguenza se quest’estate ogni tanto non avrete voglia di andare a ballare e ubriacarvi e preferirete al contrario trascorrere qualche momento solitario in tranquillità allontanate il senso di colpa socialmente imposto. Pensate invece che questo non solo è un vostro sacrosanto diritto ma un atto di resistenza.

 

oroscopo-filosofico_la-chiave-di-sophia_estate-06ACQUARIO (21 gennaio – 19 febbraio): Tertulliano è passato alla storia della filosofia per la citazione Credo quia absurdum (credo perché è assurdo). Probabilmente non pronunciò mai davvero questa frase, che però condensa efficacemente il suo pensiero, espresso anche nella citazione Et sepultus resurrexit; certum est, quia impossibile (una volta sepolto risorse; è certo, perché è impossibile). Miei cari acquari, non voglio avventurarmi a indagare il mistero della fede ma invitarvi a considerare il paradosso non soltanto di credere a qualcosa che va oltre alla logica, ma di crederci perché è assurdo. Si tratta in fondo dello stesso aspetto paradossale sottolineato da Kierkegaard quando parla di fede come “salto” e “scandalo”. Prescindendo dall’aspetto puramente religioso, invito voi acquari ad assecondare la vostra curiosità ed essere pronti nei prossimi tempi a saltare oltre la logica. 

 

oroscopo-filosofico_la-chiave-di-sophia_estate-07PESCI (20 febbraio – 20 marzo): Il filosofo tedesco Günther Stern era solito scrivere articoli per un giornale berlinese, finché il suo editore non lo convocò e un po’ imbarazzato gli chiese di scegliersi un cognome diverso, poiché Stern suonava “troppo ebreo”, fatto ormai inaccettabile nella Germania nazista. L’autore scelse quindi provocatoriamente lo pseudonimo Anders (“diverso” in tedesco), e con questo è passato alla storia. Miei cari pesci, seguite l’esempio del filosofo tedesco, esibite la vostra diversità, non nascondetela ma al contrario portatela in alto come una bandiera di cui andare fieri.

 

Lorenzo Gineprini

 

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Il sapere critico della filosofia per parlare di cinema: intervista a Enrico Magrelli

I cineasti, sosteneva Gilles Deleuze, «sono paragonabili a pensatori, più che ad artisti. Essi pensano, infatti, con immagini-movimento e con immagini-tempo, invece che con concetti». Il collegamento tra cinema e filosofia è antico e negli ultimi anni sempre più fertile; abbiamo deciso di approfondirlo tra le suggestive mura in mattoni di un cinema berlinese ricavato da un ex birrificio insieme a Enrico Magrelli, direttore artistico dell’Italian Film Festival di Berlino. Magrelli, uno dei volti e delle voci più note della critica cinematografica italiana, fattosi conoscere al grande pubblico attraverso i suoi articoli su riviste (Filmcritica, Cienma e Cinema, Cineforum) e sui quotidiani del gruppo L’Espresso e il programma radiofonico Hollywood Party, è infatti laureato in filosofia in indirizzo estetico alla Sapienza di Roma; una passione che ha lasciato segni profondi nel suo modo di parlare di cinema.

 

In che modo lo studio della filosofia l’ha aiutata nella sua carriera di critico cinematografico?

Credo sia stato utile soprattutto l’allenamento a ragionare, a smontare e ricomporre le idee e i giudizi, la capacità di mettersi in una posizione dialettica. Da studente ho fatto diversi esami con Emilio Garroni, che si è occupato molto di Kant. Ecco: avere un approccio critico nei confronti delle categorie concettuali con cui interpretiamo la realtà, in modo tale da saperle anche rinnovare, è fondamentale per parlare di cinema.

 

Da sempre la filosofia si è interessata al cinema, negli ultimi anni con particolare intensità. Sempre più filosofi ricorrono a film anche popolari per illustrare le proprie teorie (l’esempio più eclatante in questo senso è probabilmente Slavoj Žižek). Ritiene questo metodo interessante o crede che una lettura “filosofica” finisca per snaturare il cinema imponendogli categorie che non gli appartengono?

Ritengo che siano un processo e una tendenza molto interessanti. Del resto, come la filosofia è una disciplina che ragiona, tra l’altro, sul sapere, sulle forme simboliche sul pensiero stesso, sul come e sul perché stiamo al mondo, così il cinema è un dispositivo attraverso il quale le varie culture si autorappresentano e in tal modo si interrogano su loro stesse.  I film sono, talvolta, oggettivazioni del pensare o addirittura, nei casi migliori, modalità del pensare. Cinema e filosofia sono accomunati dal tentativo di ragionare su ciò che è invisibile, che non riusciamo a cogliere, per renderlo visibile, accessibile, comprensibile, decrittabile. Perciò credo che interpretazioni filosofiche siano del tutto legittime; di sicuro alcuni film evocano determinate teorie, pur senza spiegarle.

 

Se i filosofi si sono da subito dedicati al cinema, tale interesse non pare del tutto ricambiato. Certo ci sono stati film su alcuni grandi pensatori (Liliana Cavani su Nietzsche, Rossellini su Cartesio ecc…), ma paiono fenomeni isolati. Come mai i registi non sembrano attingere spesso a fonti filosofiche?

È normale, il regista fa il regista, che è un altro mestiere. Ci sono poi autori che si occupano direttamente di filosofia, come Terrence Malick, che ha anche tradotto Heidegger. Ma questo non sempre è un bene. Malick ad esempio, soprattutto negli ultimi film, rischia di sovraccariche troppo di senso le sue opere fino a svuotarle. A mio parere il buon cinema, quello che ha poi un contatto più forte con la filosofia, è capace di portare il pubblico a mettersi in discussione, a porre delle domande anziché offrirgli delle risposte.
Se poi i registi non si rivolgono spesso a testi filosofici è anche perché non mi pare che la filosofia sia in una fase particolarmente vitale.

 

Se, come ha suggerito, il cinema spesso non offre risposte, qual è il ruolo del critico?

Lo sforzo dovrebbe essere quello di sintonizzarsi ogni volta con il film che si sta vedendo, evitando di servirsi sempre della stessa gabbia concettuale. Bisogna saper mettere in crisi alcuni “pregiudizi” e rinnovare le proprie griglie interpretative; imparare, ad ogni film, a vedere di nuovo.
Altro elemento fondamentale è avere una profonda conoscenza del cinema. Spesso quando ho occasione di tenere seminari dedicata alla critica consiglio, soprattutto ai più giovani, di vedere tutti i film possibili. Perché solo così si può imparare a padroneggiare il linguaggio cinematografico, in modo da saper cogliere elementi innovativi, cogliere il rispetto o la trasgressione di uno standard narrativo e riconoscere, nelle citazioni, i prestiti, i debiti, gli omaggi nei confronti di altri film.  Solo una ampia memoria cinematografica aiuta a definire le evoluzioni, i collassi o le regressioni estetiche.

 

Nella critica, italiana in particolar modo, trovo però che ci sia sempre meno uno sforzo di interpretazione dei film. È d’accordo? E come mai succede?

Assolutamente d’accordo. Il discorso critico, di cui ci sarebbe un bisogno assoluto, si è indebolito, inflaccidito. Oggi spesso la critica sfocia nella cronaca, diventa solo racconto della trama, si cristallizza in giudizi da senso comune. O, peggio, il critico diventa una sorta di tifoso. Sarebbe auspicabile una critica della ragion critica nell’era contemporanea.
 

Come diceva, lo sviluppo tecnologico (ad esempio piattaforme come Netflix, lo streaming, i social) ha provocato profondi mutamenti nel cinema. Secondo lei si tratta più di un rischio o di un’opportunità?

Il cinema non è mai stato qualcosa di solido, con dei confini ben definiti, ma ha avuto decine e decine di metamorfosi e tutte le volte sembrava dovesse finire. Quando è arrivato il sonoro molti pensavano “Aiuto, è finita”. E così sé accaduto con l’arrivo del colore. Oggi siamo di fronte a una nuova trasformazione, una polverizzazione del cinema: il film si divide in più pezzi, frammenti, frattali che si trovano sul web, si può interrompere una visione e riprenderla giorni dopo, si può veder non in sala ma sullo schermo minuscolo dello smartphone (una vera e propria perversione dello sguardo). È una galassia in cui stanno cambiando i parametri e i confini ma questo non è per forza negativo. Come dicevo prima, bisognerebbe sforzarsi di ridefinire alcune categorie. Il cinema ha però anche grande vitalità, capacità di reinventarsi. Basti pensare al recente sviluppo delle serie televisive, che di fatto attualizza quel desiderio di narrazione tipico dei romanzi a puntate dell’Ottocento e di una parte del cinema muto.

 

Veniamo ora al contesto di questa intervista, ossia l’Italian Film Festival di Berlino, che presenta al pubblico tedesco una selezione dei migliori film italiani dell’anno precedente. Come sta il cinema italiano oggi?

Molto bene, c’è una grande vitalità e tanti giovani autori riscoprono il piacere di connettersi con il pubblico. Spesso c’è comunque un problema nel numero degli spettatori in sala, anche perché la figura stessa dello spettatore sta subendo una mutazione profonda. Fino a vent’anni fa il cinema era un modo privilegiato per passare il tempo libero ma soprattutto fare i conti con il mondo esterno. Ora lo stato delle cose è radicalmente diverso.

 

A questo proposito credo che la mia generazione, e ancor di più quella successiva, crescendo più con Netflix che con la televisione possa acquisire un gusto della visione diverso. Forse migliore?

Forse hai ragione, anche se una cosa che spesso manca su queste piattaforme, e che invece sulla tv resiste, con una certa fatica, sono i film del passato. Noto che spesso le nuove generazioni non sono abituate a certi ritmi, vedere un film in bianco e nero sembra quasi una pratica archeologica. Ma questo è in realtà un esercizio molto utile, soprattutto per il critico. Bisogna saper vedere anche film che si trovano noiosi. Anzi, in questi casi è più facile evitare di sprofondare nel film e si possono rintracciare meglio i temi affrontati, lo stile della messa in scena, l’architettura formale.

 

Chiudiamo con una domanda che facciamo a tutti i nostri ospiti: cos’è per lei filosofia?

Una capacità di interpretare la realtà non chiudendola in una gabbia dorata preesistente ma riuscendo a sollecitarla, pronti a modificare le proprie categorie a seconda di ciò che si ha di fronte. Una rigorosa flessibilità quotidiana. Un esercizio di interpretazione complesso, che è quello che dovrebbe fare anche la buona critica cinematografica. E che oggi ci servirebbe molto.

 

Lorenzo Gineprini

 

[Photo credits Lilia Andreotti]

Le stelle di Talete: l’oroscopo filosofico del vostro 2019!

È tristemente noto l’aneddoto riguardante Talete che, mentre camminava guardando le stelle, cadde in una fossa e fu deriso da una servetta. Noi de La chiave di Sophia abbiamo deciso di correre lo stesso il rischio di osservare il firmamento per scorgervi il futuro e poter così dare ai nostri lettori alcuni consigli utili, e rigorosamente filosofici. Nella speranza che questi possano aiutarvi a passare un anno saggio e felice.

 

oroscopo-filosofico-2019-la-chiave-di-sophia-01-01ARIETE (21 marzo – 20 aprile): Per criticare il metodo induttivo Bertrand Russell racconta la storiella di un tacchino che cerca di capire quando gli viene portato da mangiare. Prima di trarre conclusioni affrettate, il tacchino osserva l‘arrivo del mangime per diversi giorni consecutivi e nota che, indipendentemente dalle condizioni atmosferiche, l’allevatore arriva sempre puntuale alle 9 del mattino. Da qui trae la ferma conclusione che le 9 del mattino siano l’orario in cui mangiare. Certezza che dura fino alla vigilia di Natale, giorno in cui alle 9 l’allevatore viene con ben altri propositi… Se non volete fare la stessa fine del tacchino, sarà meglio che anche voi, miei cari ma testardi arieti, iniziate a mettere in dubbio alcune delle vostre più incrollabili certezze.

 

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TORO (21 aprile – 20 maggio): L‘esteta secondo Kierkegaard è caratterizzato da una continua insoddisfazione, un passare sopra ai piaceri senza mai soffermarsi ad assaporarne nessuno. Al punto che se gli fosse data una bacchetta magica capace di poter esaudire ogni suo desiderio la userebbe solo per pulirsi la pipa. E se invece a voi, miei cari Tori, capitasse tra le mani questa potente bacchetta? Pensate a come farne un uso più produttivo dell’esteta kierkegaardiano, chissà che questo 2019 non vi regali un pizzico di magia.

 

oroscopo-filosofico-2019-la-chiave-di-sophia-03GEMELLI (21 maggio – 20 giugno): Si sa che voi gemelli avete una grande capacità di adattamento e nelle occasioni pubbliche ve la cavate in scioltezza. Non trascurate però la vostra interiorità, un altro lato importante della vostra personalità, e riprendete la pratica dell’anachoresis eis heauton, il ritorno in voi stessi consigliato anche da Marco Aurelio. Concedetevi più spesso una serata in solitudine in cui ripensare alla giornata trascorsa e isolarvi dalle preoccupazioni quotidiane. Del resto come diceva l‘imperatore stoico «In nessun luogo più tranquillo e calmo della propria anima ci si può ritirare. Concediti quindi questo ritiro e in esso rinnovati». Non è facile in una quotidianità piena di impegni, ma se se lo permetteva un imperatore potrete trovare anche voi il tempo, no?

 

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CANCRO (21 giugno – 22 luglio): «Felicità che potrebbe risvegliare in noi l’invidia c’è solo nell’aria che abbiamo respirato, con le persone a cui avremmo potuto parlare, con le donne che avrebbero potuto darsi a noi».  Su noi malinconici cancerini questa frase di Walter Benjamin esercita un grande fascino. È ora però di smetterla di crogiolarci nel passato incompiuto e di comprendere questa frase in senso attivo e propositivo: ossia andare alla ricerca di quella felicità perduta nel passato per portarla oggi a compimento.

 

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LEONE (23 luglio – 23 agosto): «Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: “Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo”?» Provate anche voi leoni a rispondere a questa difficile domanda posta da Nietzsche. Suppongo che qualche brivido vi attraverserebbe la schiena, perché è impossibile essere così fieri e convinti di ogni nostra azione passata da volerle ripetere tutte all‘infinito. Concentratevi dunque su ciò che vorreste cambiare per capire quali sono gli errori da non ripetere e gli atteggiamenti da abbandonare in questo nuovo anno.
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VERGINE (24 agosto – 22 settembre): Voi vergini siete famose per essere delle rimuginatrici tendenti al pessimismo, passate cioè fin troppo tempo a immaginare il peggio invece di godervi la vita. Difficile che nel 2019 possiate abbandonare questo vostro tratto caratteristico e trasformarvi in sfrenate edoniste, meglio cercare di volgere a vostro favore questo aspetto della vostra personalità. Gli stoici parlavano di praemeditatio malorum, ossia immaginare possibili mali futuri per neutralizzare la paura dell’ignoto che ci attende e al contempo renderci conto che anche ciò che temiamo di più può essere superato. Vi renderete così conto di essere forti e attrezzate anche agli scenari più bui e verrete sorprese quando le cose andranno meglio di quanto previsto.

 

oroscopo-filosofico-2019-la-chiave-di-sophia-10BILANCIA (23 settembre – 22 ottobre): Parlo a voi, Bilance alla ricerca dell’amore, convinte che solo trovando la vostra dolce metà potrete sentirvi appagate e in equilibrio: smettetela subito! Il mito degli androgini raccontato da Platone nel Simposio è uno dei passaggi più famosi, ma purtroppo più incompresi, della storia della filosofia. Questo ha avuto svariate conseguenze nefaste, come convincere voi Bilance che solo trovando l’anima gemella potrete raggiungere la felicità. Quel che il mito platonico significa è invece che ciascun uomo originario era composto da una parte maschile e una femminile (o talvolta due parti dello stesso genere). Ciò di cui dovete andare alla ricerca è quindi la metà nascosta dentro di voi: la serenità, care Bilance, sgorga dalla vostra capacità di sentirvi complete anche quando siete sole. Solo a questo punto potrete andare alla ricerca del vostro partner.

 

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SCORPIONE (23 ottobre – 22 novembre): Per scrivere Il Capitale Karl Marx passò anni a fare ricerche nella sala lettura della British Library di Londra e si racconta che dopo qualche tempo iniziò ad avvertire un forte dolore al sedere. Invece di fermarlo, questo gli diede nuova carica. Marx era infatti determinato a portare a termine un’opera capace di mettere in crisi il capitalismo e farla così pagare al sistema per ogni malefatta, compreso il suo dolore al fondoschiena! A voi scorpioni fumantini consiglio nel 2019 di prendere ispirazione da Marx, così da convogliare l’energia dei vostri momenti di irritazione in un’opera capace di cambiare il mondo (o anche qualcosa di meno grandioso, dai…).

 

oroscopo-filosofico-2019-la-chiave-di-sophia-05SAGITTARIO (23 novembre – 21 dicembre): Dal 1920 al 1926 Ludwig Wittgenstein si ritirò a fare il maestro elementare a Trattenbach, Puchberg e Otterthal, tre paesini sperduti tra le montagne austriache. Si dice che l‘esperienza, pur riservando momenti difficili e incomprensioni con i genitori dei bambini, aiutò Wittgenstein a formulare la teoria dei giochi linguistici. L‘esigenza di insegnare ai bambini un linguaggio reale lo portò infatti ad abbandonare l‘idea di una struttura logica uniforme del linguaggio per sostenere invece che il linguaggio sia costituito da un insieme di pratiche diverse comprensibili solo nel loro utilizzo pratico.  Voi Sagittari, amanti delle avventure, dovreste impegnarvi in un progetto estremo che aiuti a chiarirvi le idee e abbia un influsso positivo nel modo di guardare il mondo.

 

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CAPRICORNO (22 dicembre – 20 gennaio): «Di quale libertà godiamo se non quella di fantasticare?» si chiedeva Gaston Bachelard. La  rêverie, il sogno ad occhi aperti, è secondo il filosofo francese l’unico momento di completa libertà, in cui il soggetto, emancipatisi dai vincoli logici, può ridisegnare il mondo così da renderlo conforme ai suoi desideri. In questo 2019 Capricorni abbandonate più spesso la logica e cullatevi in fantasticherie dove sospendere quel principio di realtà così saldo in voi. Potreste rendervi conto che questi sogni ad occhi aperti non sono affatto infantili, ma da essi si impara quali sono le vostre aspirazioni più autentiche. 

 

oroscopo-filosofico-2019-la-chiave-di-sophia-06ACQUARIO (21 gennaio – 19 febbraio): Anche voi Acquari siete alla ricerca dell’amore in questo 2019? Ottimo proposito, ma prima dovete imparare a concentrarvi un po’ meno su voi stessi. Vi potrebbe essere utile la lettura di L’elogio dell’amore di Alain Badiou, dove il filosofo francese insegna che l‘amore è la «scena del Due». Non quindi fusione romantica di anime e neppure prevalere delle proprie esigenze, bensì faticoso percorso di costruzione di una visione, finanche di un‘esperienza, condivisa: «il vero soggetto dell’amore è il divenire della coppia e non la soddisfazione degli individui che la costituiscono». Un insegnamento prezioso per capire che costruire un amore comporta anche fatica e rinunce.

 

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PESCI (20 febbraio – 20 marzo): «Wie man wird, was man ist», ossia «come si diventa ciò che si è». Così recita il sottotitolo di Ecce Homo di Nietzsche. Ma come si può diventare ciò che già siamo? Portando a compimento i talenti ancora a uno stato latente dentro di noi. Perciò il filosofo tedesco usa spesso la metafora della pianta, che cresce rigogliosa fino a fiorire, e quella di un vulcano ribollente e pronto ad eruttare. Progetto ambizioso? Di sicuro, ma è ora di abbandonare la timidezza e sbocciare, per far vedere a tutti quella „stella danzante“ nascosta dentro di voi.

 

Lorenzo Gineprini

 

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Guida allo studio della filosofia tra l’Italia e la Germania

Per molti studenti italiani di filosofia la Germania è un pensiero, magari anche solo per un Erasmus, visto che molti dei grandi filosofi dal ‘700 ad oggi hanno scritto in tedesco. Per quanto leggere Kant e Heidegger in lingua originale e camminare nelle aule in cui Adorno e Hegel facevano lezione eserciti un indubbio fascino, va precisato che tra Italia e Germania il modo di studiare la materia, e probabilmente di intenderla, è piuttosto diverso. Da studente italiano emigrato a Berlino per la magistrale cercherò di offrire una breve guida, che possa far capire se lo studio in terra tedesca faccia per voi o meno.

Prima di tutto in Germania le Vorlesungen, le classiche lezioni frontali italiane, sono poche e concentrate soprattutto nei primi anni di triennale. In seguito prevale la forma del Seminar, in cui gli studenti devono leggere di settimana in settimana dei testi per poi discuterli in classe. I professori possono organizzare i seminari in modo differente: alcuni si limitano a moderare il dibattito, altri lo integrano con spiegazioni e approfondimenti. In ogni caso allo studente è richiesto non solo di seguire la lezione, ma di parteciparvi attivamente con domande, interventi, relazioni e proposte di nuovi testi da affrontare.

Anche la modalità di esame è diversa: se in Italia prevalgono le prove orali o al massimo scritti dove rispondere a delle domande aperte, in Germania la quasi unica forma d’esame è l’Hausarbeit, ovvero un saggio (di solito dalle 15 alle 25 pagine) in cui approfondire un argomento del corso.

Lo studente tedesco termina di conseguenza gli studi con la capacità sia di dibattere (grazie ai seminari) sia di scrivere (grazie agli Hausarbeiten) ed è inoltre abituato a muoversi all’interno di un tema dato per ricercare fonti e sviluppare l’argomento autonomamente. Dal momento però che le lezioni di storia della filosofia sono poche e in Germania filosofia non è studiata al liceo, capita che gli studenti tedeschi arrivino con dei buchi enormi in certi ambiti (mi è capitato ad esempio che in una lezione nessun allievo sapesse spiegare la differenza tra res cogitans e res extensa in Cartesio). In generale, le lezioni prevedono uno scarso inquadramento storico e teorico, preferendo partire direttamente dai testi. Può quindi capitare che gli studenti tedeschi affrontino Platone iniziando direttamente a leggere La Repubblica, facendo seguire una discussione su cosa sia la giustizia e come oggi venga intesa nel governo piuttosto che confrontare le posizioni platoniche con quelle dei sofisti.

Lo studente italiano arriva dunque alla fine del suo percorso universitario con una conoscenza di base più ampia e solida, che talvolta però rischia di diventare sterilmente enciclopedica poiché egli non è stato abituato a rielaborarla criticamente. Il modo in cui il sistema è strutturato conduce poi spesso alla paradossale situazione per cui la tesi di laurea risulta essere il primo, e forse unico, momento in cui lo studente italiano di filosofia si trova a dover scrivere un saggio sugli argomenti studiati.

Credo che questa differenza si basi su un modo piuttosto diverso di concepire la filosofia, o quantomeno la sua funzione attuale nel mondo. La mia impressione è che in Italia sia percepita come un sapere specialistico, sistematizzato a scuola e approfondito all’università; una materia autonoma con regole proprie, a cui approcciarsi è difficile per un non specialista proprio perché non conosce la terminologia adeguata e lo sfondo teorico in cui inserire un certo concetto.

In Germania invece la filosofia viene maggiormente intesa come uno strumento per imparare a pensare e di conseguenza per capire il mondo; come un modo di ragionare utile a comprendere le grandi domande del presente. Una delle prime prove in tal senso l’ho avuta proprio durante la mia prima lezione a Berlino. Introducendo il corso su Kierkegaard la professoressa aveva subito specificato di non essere interessata a capire cosa esattamente abbia pensato l’autore, a discutere ore sullo slittamento di significato di un certo termine da Hegel a Kierkegaard. Anche perché l’unico a poter fornire una risposta certa su elucubrazioni di questo tipo sarebbe lo stesso filosofo danese, che è però ahimè morto. La preoccupazione principale per lei era capire cosa i testi di Kierkegaard hanno da dirci oggi e come interrogano ciascuno di noi.

Trovare una mediazione tra due metodi tanto diversi non è semplice ma sarebbe auspicabile, in modo che le aule di filosofia si trasformino in palestre democratiche dove poter discutere attivamente i testi e non solo sentirli spiegati in una lezione frontale. Una discussione però che necessita di base teoriche forti per poter imparare dai pensatori del passato e costruirsi un’opinione fondata.

 

Lorenzo Gineprini

 

[Credit Sharon McCutcheon]

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Imparare a sperare. La sinistra italiana a lezione da Ernst Bloch

Alla stagnante sinistra italiana, e non solo a quella del nostro paese in realtà, farebbe davvero bene legge il Principio Speranza di Ernst Bloch. Riconosco che le più di 1500 pagine dell’opera possano spaventare anche i più audaci, perciò cercherò di offrire un breve riassunto della tesi principale, così da evidenziare la sua importanza in questo delicato momento storico.
Il filosofo tedesco descrive la condizione ontologica umana come oscurità dell’attimo vissuto: l’uomo è ciò caratterizzato da uno stato di indefinitezza e incompiutezza, avverte che “qualcosa manca”, ma non riesce a dare un nome a questo vuoto. Perciò si spinge sempre in avanti, anticipa il futuro, colma il vuoto con l’immaginazione. I due principali sentimenti di anticipazione sono la paura e la speranza e Bloch decide di costruire la sua filosofia sul secondo, anche perché la capacità di reagire a una condizione di oppressione sperando in un orizzonte più luminoso è propria solo dell’uomo.

Bloch accumula quindi utopie provenienti da letteratura, arte e religione, sottolineando come ogni visione politica (lui si rivolge soprattutto al marxismo, visto che proviene da quella corrente di pensiero) necessiti della visione di un mondo migliore per avere lo slancio per superare la realtà oggettiva.
A differenza di Bloch la sinistra italiana ha evidentemente preferito un discorso basato sulla paura. Poiché incapace di sviluppare una propria immagine di futuro, nell’ultima campagna elettorale si è impegnata a evidenziare come quella dei cosiddetti partiti populisti manchi di coperture economiche. Da quando poi il “governo del cambiamento” è salito al potere, la sinistra sembra essere capace solo di ripetere che tale cambiamento porterà alla rovina economica e a un regresso culturale e morale, senza però indicare una via alternativa.
Anche condividendo l’idea che il cambiamento proposto dai populisti conduca a un imbarbarimento, bisogna ammettere che essi hanno saputo aprire nuove vie in una realtà sclerotizzata, percepita come insopportabile nella sua soffocante immutabilità. Contro al tatcheriano “there is no alternative”, i populisti di tutta Europa hanno riscoperto fin dal loro nome le categorie di Possibilità (Podemos in Spagna) e Alternativa (Alternative für Deutschland in Germania).

La sinistra, italiana e non, non può pensare di rispondere a queste proposte soltanto evocando la paura di un cambiamento in peggio, anche perché persone insoddisfatte, spesso disperate, sfidano anche la paura pur di trascendere lo stato presente. Spesso si sente ripetere che la soluzione sia tornare a “far sognare” l’elettorato, ma Bloch rifiuterebbe questo gioco da illusionisti fatto di mirabolanti e vuote promesse elettorati. Il punto è che le persone già sognano un futuro migliore, una realtà diversa in cui i loro bisogni siano realizzati. Invece di svilire questa speranza come ingenuità, la sinistra dovrebbe cercare di trasformarla in docta spes, in utopia concreta, che si radica nella realtà, ne coglie le tendenze di trasformazione e le convoglia in una spinta in avanti.

«La speranza fondata, cioè mediata con ciò che è realmente possibile, è così lontana dal fuoco fatuo, da rappresentare appunto la porta almeno semiaperta, che sembra aprirsi su oggetti propizi, in un mondo che non è divenuto e che non è una prigione».

 

Lorenzo Gineprini

 

[Photo credits: Kristopher Roller via Unsplash.com]

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Etica aziendale: un ossimoro o una possibilità concreta?

Etica aziendale sembra a molti un ossimoro, l’accostamento di due concetti incompatibili. Il mondo del business viene infatti percepito per lo più come una realtà in cui non c’è spazio per principi etici ma bisogna inchinarsi al dio denaro e massimizzare i profitti a tutti i costi. «L’unico modo per mantenere la propria integrità in una guerra ingiusta è disobbedire agli ordini o disertare»: così il filosofo Joseph Heath riassume la diffusa sfiducia nei confronti della moralità del business: solo restando fuori dal mondo aziendale si può conservare la propria integrità, poiché una volta all’interno se ne accettano le regole e l’intrinseca amoralità.

Lo scetticismo nei confronti di un’etica aziendale affonda le sue radici nella teoria liberista, che ha lungamente predicato l’indipendenza della sfera economica da interessi sociali, politici e morali. “The business of business is business” è la lapidaria sentenza con la quale il premio Nobel per l’economia Milton Friedman sintetizzava il proprio pensiero in un famoso e discusso articolo del 1970, il cui titolo è già emblematico: The social responsability of business is to increase his profit. Dal momento che l’economia è una sfera autonoma, l’uomo d’azienda è giustificato a interessarsi solo della massimizzazione dei profitti, rispettando la legge ma senza porsi ulteriori scrupoli morali e soprattutto senza dover valutare se le proprie azioni agiranno a favore o contro l’interesse e il benessere della società.

Oggi una posizione così radicale viene per lo più rifiutata dalle aziende, che sembrano aver compreso che dal loro crescente potere derivano implicazioni etiche e responsabilità sociali. La responsabilità sociale di impresa (spesso citata in inglese come Corporate Social Responsability) è infatti un concetto oggi largamente diffuso, tanto che anche l’Unione Europea nelle proprie linee guida ha evidenziato che un’impresa non si deve limitare a rispettare la legge, bensì deve porsi l’obiettivo di “integrare preoccupazioni sociali, ambientali, etiche e riguardanti i diritti umani nelle proprie strategie e operazioni aziendali”.

Un altro concetto sempre più diffuso, che rende evidente la volontà delle imprese di assumersi responsabilità nuove rispetto al passato, è quello di Corporate Citizenship. Il termine, traducibile come cittadinanza aziendale, paragona le aziende a dei normali cittadini, per mostrare come esse siano parte integrante della società. Come ogni cittadino, anche l’azienda non può prescindere dal contesto in cui agisce ed è perciò giustificata ad inseguire il profitto solo quando ciò non danneggia la comunità e l’ambiente nella quale opera.
Tuttavia non tutti sono convinti che questi recenti sviluppi siano davvero volti al benessere sociale. Molti temono che l’assunzione di nuove responsabilità non sia che una tecnica di window dressing, un modo cioè attraverso cui le aziende “decorano la vetrina”, migliorano la propria immagine pubblica al solo scopo di vendere di più, senza alcuna intenzione di cambiare in profondità le proprie politiche.

Un’altra paura è che il crescente interesse delle imprese a temi non strettamente economici non sia affatto volto ad incrementare il benessere sociale, bensì sia mirato a estendere i propri tentacoli anche in campo politico, così da controllare sempre più strettamente la società. Riprendendo una critica dello stesso Friedman ci si può infatti chiedere con quale legittimazione gli uomini d’azienda si occupano di temi sociali, dal momento che essi non sono stati eletti attraverso processi democratici. Dietro l’atteggiamento benevolo di chi vuole prendersi cura della società, non si nasconde forse il volto violento di che intende controllarla? Il filosofo americano Noam Chomsky ad esempio non si fida della trasformazione della aziende in cittadini collettivi e suggerisce di andare nella direzione opposta, ossia aumentare il controllo dello Stato sulle pratiche aziendale e distruggere le grandi multinazionali, la cui accumulazione di potere mina ormai l’autorità degli Stati nazionali.
I dubbi sulla possibilità e l’autenticità di un’etica aziendale sembrano insomma ricondursi ad una domanda più radicale: il capitalismo può essere un sistema etico?

 

Lorenzo Gineprini

 

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Il coraggio di pensare: Francesco Pastorelli su come insegnare la filosofia

In molti incontriamo la filosofia per la prima volta a scuola, normalmente al terzo anno di superiori. È quella strana età in cui smettiamo di essere adolescenti brufolosi e supponenti e iniziamo lentamente a diventare adulti e a porci qualche domanda in più su noi stessi e sulla vita. C’è chi in quel periodo avverte le questioni filosofiche come quanto di più astratto e lontano dalla proprie preoccupazioni, ma altri sentono invece che le proprie domande, il proprio sguardo meravigliato sul mondo, sono in fondo gli stessi della filosofia. E allora si innamora di quella disciplina.

Affinché questo accada è necessario un insegnante capace di appassionare e di chiarire anche gli autori più difficili, ma anche un manuale che svolga la stessa funzione, sapendo essere al tempo stesso chiaro e stimolante. Ma come si fa a mantenere un equilibrio tra questi due elementi? E cosa si nasconde dietro ad un manuale di filosofia? Lo abbiamo chiesto a Francesco Pastorelli, caporedattore del settore filosofia e scienze umane della casa editrice Loescher, che dopo una laurea su Spinoza e un dottorato su Shaftesbury alla Normale di Pisa ha iniziato a lavorare nel mondo dell’editoria.

 

Buongiorno Francesco, la prima domanda riguarda appunto la conciliazione tra elementi diversi che devono essere presenti in un manuale: lo scopo principale di un buon libro di filosofia dovrebbe essere rendere appassionante la materia o spiegarla in maniera semplice e lineare? Si può raggiungere un equilibrio tra i due elementi?

In realtà un buon manuale scolastico (qualunque, non solo di disciplina filosofica) dovrebbe sempre poter offrire un testo chiaro e appassionante, anzi: ci si appassiona alla lettura e allo studio quanto più si comprendono le cose in modo immediato, anche quando complesse. La filosofia tratta tematiche che attraggono naturalmente ogni studente: riuscire ad allontanarli offrendo un testo impenetrabile sarebbe davvero un peccato mortale! Credo che si possa dire di aver raggiunto l’equilibrio che citi nella domanda quando uno studente, dopo aver letto il manuale, ha (anche solo un pochino) voglia di leggere altro oltre il manuale. Il manuale dovrebbe essere una chiave per entrare in altri posti dove non si è mai stati, e che forse non avresti mai visitato senza il manuale.

 

Non c’è mai il timore che semplificando un autore per spiegarlo si tradisca la complessità del suo pensiero? Come si fa ad esempio a rendere comprensibile per un manuale scolastico pensatori ostici come Heidegger o Husserl?

L’autore sa scrivere un buon manuale quando dimentica di essere egli stesso un autore, ma si mette al servizio sia del filosofo che intende spiegare, sia del lettore finale. Tutto questo non intacca ovviamente l’originalità dell’impostazione (taglio concettuale, scelta antologica ecc). Ma un manuale “difficile” spesso cela un autore che non vuole scomparire e ha difficoltà a mettersi al servizio di un progetto didattico. Tutto sommato, direi, è anche una questione etica. L’autore di un manuale dovrebbe essere sempre un mediatore tra questi due mondi: l’oggetto che deve spiegare e il soggetto cui deve spiegare. 

 

In Italia si fa quasi sempre e solo storia della filosofia, non hai mai pensato di realizzare per la scuola invece un libro di filosofia? Ad esempio un manuale che, invece di partire da Talete per arrivare a Derrida, affronti delle macro-sezioni (la politica, l’amore) in cui contrappone i pensieri dei diversi autori? Sarebbe possibile farlo in Italia?

Non proprio, non ora. Le indicazioni ministeriali non hanno ancora scardinato un impianto che per consuetudine e indicazioni stesse rimane sostanzialmente storico-cronologico. Ma un po’ tutti i manuali, in realtà, offrono interessanti spunti tematici, anche interdisciplinari, pur senza arrivare al modello francese.

Nell’aria filosofica Loescher sta pubblicando proprio ora un’interessante novità, che sarà tra i banchi di scuola il prossimo anno scolastico. Si tratta di un manuale firmato da Umberto Curi, uno dei filosofi italiani contemporanei di maggior peso.

 

Volevamo chiederti qualcosa su questo nuovo manuale. Partiamo dal titolo, Il coraggio di pensare, che ricorda la massima kantiana del sapere aude. In che senso oggi bisogna avere coraggio per pensare filosoficamente e perché è importante insegnare questa audacia ai ragazzi?

Quando si progettava il manuale, ci sembrava importante che i ragazzi capissero che il mondo non si cambia da soli, ma con gli altri (oltre che per gli altri). Ma per fare le cose con gli altri, occorre condividere le idee (e quelle argomentate sono le più condivisibili, per loro natura), e quindi le parole che si usano per esprimerle. Idee (quindi parole) condivise, argomentate, discusse: queste cambiano il mondo. Se si capisce, si restituisce dignità e peso alle parole, e alle conseguenti azioni che esse possono generare. Se pensare vuol dire generare azioni, allora pensare è altamente responsabilizzante: come potrebbe non incutere timore e quindi non pretendere, il pensiero, una certa dose di coraggio?

 

In breve, qual è l’aspetto di questo manuale che ritieni meglio riuscito, e quale è l’elemento di maggiore novità rispetto alla concorrenza?

Abbiamo puntato moltissimo su due aspetti: un testo estremamente rigoroso (si ragiona sempre, non esistono idee offerte al lettore come fossero verità scolpite nella pietra) e al contempo formativo: abbiamo cercato infatti di mostrare il carattere ancora vitale di certe idee filosofiche, che hanno dato forma alla nostra vita e alle nostre convinzioni anche senza che noi stessi ne fossimo consapevoli, e come i grandi pensatori hanno cercato di mostrare le loro vie per diventare maggiorenni, ovviamente in senso intellettuale. Un bello stimolo, per ragazzi che stanno per diventarlo in senso anagrafico.

 

Come è stato collaborare con un autore importante e affermato come Umberto Curi? Il professor Curi ha sempre insegnato all’università, come avete fatto ad adattare la sua metodologia ad un manuale per la scuola superiore?

L’editoria scolastica è un’editoria di progetto: lo si condivide con l’autore e lo si porta avanti, e ognuno ovviamente (tanto l’editore quanto l’autore) ha fatto le proprie rinunce, ma sempre, e questo è il bello, in vista di un fine più alto: un progetto funzionale e valido, adatto per i docenti e gli studenti. Lavorare con Curi è stato molto divertente (anche se non sono certo mancati i momenti di tensione) perché si partiva da un assunto iniziale interessante: Curi, all’università, ha sempre dissuaso gli allievi dall’acquisto di qualsivoglia manuale, perché nessuno avrebbe potuto restituire il carattere vivo, formativo e dialogico che ha la filosofia “praticata”. I manuali a suo dire insegnavano pensieri, non a pensare. Se ha accettato di essere l’autore di un manuale scolastico è perché abbiamo condiviso e realizzato un progetto che finalmente, per la prima volta, ambiva a insegnare a pensare e non a snocciolare opinioni filosofiche.  

 

Chiudiamo infine con una domanda che siamo soliti fare a tutti i nostri ospiti: che cos’è per te la filosofia?

Prima di entrare nel mondo dell’editoria, ho insegnato per un anno in un liceo torinese e durante quel periodo mi fu chiesto di scrivere un articolo sulla filosofia per la rivista della scuola. La cosa mi spiazzò: dopo aver studiato e scritto per anni intere pagine su poche parole di alcuni filosofi, avevo perso di vista il senso generale dell’esercizio filosofico, ma la genericità della richiesta in realtà mi fece bene. E torna utile ora per rispondere. A farla breve: a nessun uomo basta respirare, bere e mangiare per essere felice o almeno sereno. Riflettere su se stessi e gli altri, sulle relazioni, “curare” l’interiorità con metodo ed esercizio (l’insegnamento di Pierre Hadot rimane insuperato) è qualcosa a cui gli uomini non possono rinunciare. C’è una gran differenza tra sopravvivere e vivere: la filosofia è quella differenza, e riesce ad esserlo senza costruire barriere, ma anzi abbattendole.

 

Lorenzo Gineprini

 

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“Call me by your name”: sulla bellezza malinconica dell’amore rimasto possibile

Prima di diventare un successo mondiale come film attraverso la raffinata regia di Luca Guadagnino, Call me by your name è un romanzo, scritto dallo statunitense André Aciman. Uno di quei romanzi che più che raccontare una storia dipinge un sentimento, che abbiamo provato tutti anche se forse ce lo siamo dimenticati. L’amore adolescenziale, con la sua violenza totalizzante e quel misto tra pulsante desiderio fisico e idealizzazione della persona amata. Quasi una divinizzazione che ci fa proiettare sull’altro la risposta a tutti i nostri dubbi e l’esaudirsi di ogni nostro desiderio.

È questo che prova il diciassettenne Elio per Oliver, giovane e affascinante dottorando americano, ospite per l’estate della famiglia di Elio. Quando infatti Oliver chiede al ragazzo “Ti piaccio così tanto?” Elio risponde candidamente “Se mi piaci, Oliver? Io ti adoro”.

E in questa adorazione anche avere ed essere si mescolano, il desiderio di possedere la persona amata si trasforma in quello di essere come lui. In quest’età confusa, in cui la nostra identità è più fragile e iniziamo a chiederci chi siamo e chi vorremo diventare, la persona amata diventa anche un modello:

«Volevo essere come lui? Volevo essere lui? O forse volevo solo averlo? Oppure essere e avere sono verbi del tutto inadeguati nell’intricata matassa del desiderio, per cui avere il corpo di qualcuno da toccare ed essere quel qualcuno che desideriamo toccare è la stessa cosa?».

Per questo Elio e Oliver si scambiano il proprio nome, come il titolo suggerisce. È un gioco erotico ma anche qualcosa di molto più profondo: uno scambio di identità, un annullamento della propria personalità per fondersi con l’altro, per superare i confini ontologici che ci dividono e diventare come lui, diventare lui, essere insieme una cosa sola.

Spesso con amore adolescenziale si intende un sentimento immaturo, una cotta estiva destinata a essere dimenticata. Aciman mostra invece tutto il potere di questo primo amore, inesperto ma forse per questo ancora più autentico, fondante perché è il primo della nostra vita. Crescendo Elio e Oliver prenderanno inevitabilmente strade diverse, ma non potranno mai dimenticarsi di quel momento in cui hanno annullato la propria identità per fondersi l’uno con l’altro. Quell’estate insieme rimarrà un momento di felicità totale, incastonato nel tempo e non diluito dalla quotidianità. Il simbolo di una felicità perfetta e struggentemente malinconica, perché rimasta nel regno del possibile che non si può tradurre in realtà:

«Questa cosa che quasi non fu mai ancora ci tenta, avrei voluto dirgli. Quei due non possono disfarla, né riscriverla, né far finta di non averla vissuta, nemmeno riviverla; è lì, bloccata, come un’apparizione di lucciole in un campo d’estate verso sera, e continua a ripetere a ognuno di loro: Avresti potuto avere questo, invece. Ma tornare indietro è falso. Andare avanti è falso. Far finta di niente è falso. Cercare di rimediare a tutte queste falsità è a sua volta falso».

 

Lorenzo Gineprini

 

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