Il non-luogo del linguaggio: le parole come atto di identità

Esiste una realtà mutevole – e talvolta relativista – in cui la sovranità appartiene alle parole, uno spazio impensabile: il non-luogo del linguaggio. Il linguista-filosofo Noam Chomsky, riconosciuto come il fondatore della grammatica generativo-trasformazionale1, attribuì al linguaggio una caratteristica nucleare che rende l’essere-nel-mondo, finalmente, umano. Descriviamo il mondo usufruendo di connubi lessicali. Ognuno così percorre la propria vita – a mo’ di tartaruga  – trasportandosi la casa dell’idioletto, ovvero l’intero bagaglio di strutture linguistiche che una persona possiede e adopera; e dall’incontro con l’Altro finisce per definire se stesso e ciò che lo circonda.

Nel non-luogo del linguaggio, l’essere-nel-mondo – come il demiurgo platonico – plasma se stesso; l’uso delle parole diventa un atto di identità. Si fa urgenza la capacità di destreggiarsi nel vortice delle parole e di possederne quante più possibili. La mancanza di una parola di riferimento sfocia immancabilmente in un impasse: fisico, psicologico, sociale. E dal momento in cui si rileva la mancanza che diventa urgenza, la norma necessita di essere interrogata e, in un secondo tempo, aggiornata. Perché si sa, ciò che viene nominato e “cartellinato” si vede meglio.
Ed ecco che si fa strada la posizione di alcuni gruppi di persone – settori del movimento femminista, attivisti LGBTQ+, individui che non si sentono rappresentanti nel binarismo – le cui idee si originano dal concetto secondo cui l’affermazione di un’essenza si traduce in esistenza. Mi identifico, dunque esisto.

L’onomaturgo improvvisato, colui che crea neologismi, tenta di illuminare la ristrettezza della lingua e l’inconveniente provocato. Inizia così a sperimentare un’alternativa o più: asterisco, barra, punto, schwa2. Cerca pertanto di riempire un vuoto, dando forma a un’esistenza: la propria. La sua bandiera è l’inclusione linguistica, in tutte le sue sfaccettature. E se, da un lato, vi è la possibilità di apportare una modifica alla norma linguistica, dall’altro, la lingua la costituiscono i parlanti; i quali – però – talvolta restano arenati nell’abitudine. Ed è così un circolo vizioso, per esempio, le parole: medica, avvocata, sindaca, esse trattengono una nota stonata nel pensiero di molti.

L’onomaturgo improvvisato tuttavia non si arrende. Crede al “discontinuo” – il fatto che una cultura possa cessare di pensare come aveva fatto fino a un dato momento e si mette a pensare diversamente, in altro modo. Diviene così possibile pensare a una realtà in cui la normalizzazione grammaticale e parlata di talune parole renda chiara la rappresentazione del reale e ne affermi la sua totale esistenza. Dopotutto la realtà è immersa in un eterno divenire, e così anche la lingua che la descrive si rinnova continuamente.
L’onomaturgo improvvisato non demorde nella sua impresa poiché conosce il potere delle parole. Attraverso la dinamicità di queste ultime è possibile compiere vere e proprie azioni. Le parole, infatti, non si cristallizzano nel non-luogo del linguaggio, bensì lacerano la tela immaginaria e giungono nel mondo tangibile del reale. La “medica” dichiarando il decesso rompe il silenzio, e il potenziale gatto di Schröedinger abbandona il suo limbo per abbracciare una definita condizione.
L’onomaturgo improvvisato ha così compreso che siamo i soli parlamentari nel non-luogo del linguaggio, ove le parole che scegliamo o non scegliamo di adoperare regnano sovrane.

 

Jessica Genova

 

NOTE
1. Per grammatica generativo-trasformazionale si intende la grammatica che si sviluppa seguendo la tradizione chomskiana della descrizione linguistica. Chomsky afferma che la grammatica è una competenza mentale posseduta da colui che parla che gli permette di costituire un numero illimitato di frasi.

2. Lo schwa viene definito dalla Treccani come un suono vocalico neutro, non arrotondato, senza accento o tono di scarsa sonorità. Cfr. Treccani

[Photo credit Brett Jordan via Unsplash]

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Il respiro dell’immateriale: il cittadino-paziente e l’isolamento

Nel mondo globalizzato dal virus la biopolitica prende il sopravvento. Il cittadino-paziente è impossibilitato ad uscire di casa, se non per comprovate esigenze lavorative o di salute.
La politica sbadatamente si dimentica che il distanziamento sociale tra anima e corpo è oramai superato. Il diritto alla salute, di cui tanto si è parlato, non può prescindere dal precedente assunto. L’Uomo, connubio di anima e corpo, è un essere-nel-mondo e in quanto tale include tra i suoi determinanti di salute anche l’ambiente esterno in senso lato.

Rinchiuso nelle quattro mura domestiche il cittadino-paziente sente l’esigenza dell’immateriale: il contatto con la natura, le relazioni interpersonali, la cultura.
La biopolitica, preoccupata molto del corpo e dei possibili effetti su di esso, ha prestato ben poca attenzione agli effetti sulla psyché e alle possibili ripercussioni nella sfera delle relazioni con l’Altro.

Cresce – in isolamento – il bisogno di alterità: di altro e di altri. La solitudine infatti se imposta si trasforma in isolamento. E l’isolamento pandemico rivela la spietatezza del capitalismo. Al cittadino-paziente è permesso di uscire per andare a lavorare, ma non gli è concesso oziare su un prato o su una spiaggia. Non gli è permesso trarre godimento dalle bellezze naturali e dall’incontro con l’Altro.

Cresce – in isolamento – il bisogno di complessità. L’esistenza dell’individuo si alimenta attraverso l’interconnessione di esperienze, situazioni, contesti, idee, parole, emozioni e sensazioni. Nell’apatia e nell’omogeneità dell’isolamento pandemico il cittadino-paziente esaurisce la sua alterità. Soffoca.

Ma il cittadino pazienta e attende il viaggio al di là dei propri confini domestici, con o senza passaporto immunitario. L’apprendere un nuovo valore di spazio-tempo conduce il cittadino post emergenza pandemica a viaggiare a rallentatore. Godersi ogni attimo e riappropriarsi dell’interazione con la natura, in cui – come dimostrato da studi scientifici – l’attività cerebrale è più efficiente e lo stato psicologico ne trae vantaggio. L’irregolarità del paesaggio naturale ridonano la complessità e l’alterità. Il solo osservare l’eterogeneità delle forme della natura origina uno stato di rilassamento e benessere generale.

Il cittadino pazienta e attende l’amico, la cui amicizia rappresenta il dialogo delle diversità. Non statica, bensì in movimento, l’amicizia unisce il molteplice e consente di scoprire ed esaltare la propria unicità.

Il cittadino pazienta e attende la cultura, di cui la psyché si nutre e attraverso cui la comunità prospera. Ora più consapevole dell’utilità dell’inutile abbandona il culto dell’utilità, che inaridisce lo spirito. L’arte non più confinata entro le mura dell’isolamento pandemico, torna ad essere espressione libera e condivisione.

Il virus soffoca il respiro, ma il cittadino pazienta e ritorna a respirare l’immateriale.

 

Jessica Genova

 

[Photo credit Marc-Olivier Jodoin via Unsplash]

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La chiave per una quarantena filosofica

In questo periodo di pandemia ho scritto un diario giornaliero per tirare le fila del tempo trascorso nella quarantena #iorestoacasa. Ecco gli estratti dei miei monologhi interiori analizzati in chiave filosofica.

«A.D. 2020, giorno di quarantena: 1.
Mi sento tutti i sintomi del COVID-19. Tento di prendermi il polso, ma non riesco a contare i battiti. Ho ritirato fuori il manuale del soccorritore, pensando di poter scoprire delle verità nascoste, manco fossi Carlo Urbani
[…]».

L’angoscia emerge prontamente in questa situazione di incertezza, lasciando la paura razionale chiusa in un angolo remoto del cervello. La paura che è un ottimo meccanismo di difesa non può venire in soccorso nel caso di questa pandemia. Infatti non possiamo circoscrivere il virus a un oggetto ben determinato, esiste invece un’angoscia: chiunque o qualsiasi superficie può essere veicolo del COVID-19 e quindi infettarci.

«A.D. 2020, giorno di quarantena: 2.
[…] Inizio le mie elucubrazioni su tempo e spazio. Che fine ha fatto Joker e il suo “Infinite cose da fare e così poco tempo?”».

Grazie alla clausola derogatoria è possibile in caso di un dichiarato stato di emergenza derogare ad alcuni diritti umani, nel nostro caso: la libertà di movimento.
Dobbiamo fare i conti con la sola dimensione del tempo, che presentandosi a rallentatore consente a tutti noi di riscoprire la capacità di annoiarsi. Anziché “riempire il tempo”, come se in fondo si potesse, lasciamolo scorrere e apprezziamolo come un bene in quanto tale. Bertrand Russell nel suo saggio La conquista della felicità (1930) scriveva: «Una generazione che non riesce a tollerare la noia è una generazione di uomini piccoli, nei quali ogni impulso vitale appassisce».

«A.D. 2020, giorno di quarantena: 3.
[…] L’Italia? Sembra un romanzo di Philip K. Dick, forse ci serve un guaritore galattico. La convivenza? Un cazzo di sacrificio, una casa in fiamme sarebbe un’idea brillante, Tarkovskij! […]».

La convivenza forzata mette a dura prova le relazioni di amore, amicizia, familiari; figuriamoci quelle non scelte – finisco infatti per simpatizzare per la pagina social Il coinquilino di merda. È necessario ricordarsi l’importanza della volontà di vivere la relazione, non basta trovarsi sotto lo stesso tetto e passare tanto tempo assieme per trovare benessere in un rapporto interpersonale.
In alcuni casi, la situazione è drammatica. Purtroppo la casa, che dovrebbe essere la base della dimensione dell’abitare, quindi rappresentare la protezione entro ciò che ci è parente e che ha cura di ogni cosa, si trasforma in un inferno. Le donne vittime di violenza sono costrette a una convivenza prolungata con il maltrattante.
E poi c’è chi la casa non la ha, rimane fuori e l’unica speranza resta la solidarietà delle persone.

«A.D. 2020, giorno di quarantena: 4.
[…] Penso che il mondo ci stia dando una lezione, ora abbiamo tempo per comprenderla».

La situazione attuale evidenzia come il nostro modus vivendi abbia influito sulla diffusione territoriale del virus, contribuendo ad aumentare il rischio di contagio. È necessario cambiare rotta, o addirittura rimanere fermi, in questo caso. L’umanità si arresta e cominciano a intravedersi alcuni cambiamenti a livello di emissioni di CO2 e di inquinamento. Già, perché il nostro modus vivendi agisce anche sul riscaldamento globale, ricordate?
A tal proposito, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ritiene che una delle più importanti conseguenze del riscaldamento globale sarà l’alterazione dei processi di trasmissione di malattie infettive1. Il tempo di oggi si trasforma in un’opportunità per conoscere socraticamente noi stessi e diventare consapevoli di essere “esseri nel mondo“.

«A.D. 2020, giorno di quarantena: 5.
Osservo il mondo dal cosiddetto bunker. Intorno a me vedo solo astronauti e mutanti con mascherine e bombole. Gli astronauti si guardano perplessi: togli i guanti, metti i guanti, prendi l’amuchina, disinfetta, guarda il mutante con la mascherina, e ricomincia daccapo. Mi attendono 10 ore, manco fossi nel film
Interstellar sul pianeta “chisiricordailnome” dove il tempo è dilatato e i minuti sono anni. Pensiero cardine del giorno: essere il gatto di Schrödinger fa schifo».

L’essere umano abita la casa dell’incertezza, una condizione che accompagna l’uomo in ogni suo aspetto, a partire dalla riflessione fino al concretizzarsi nell’azione. Come sosteneva Zygmunt Bauman «La vita si vive nell’incertezza, per quanto ci si sforzi del contrario». L’incertezza coinvolge due dimensioni: quella del futuro e del rischio. Si è incerti perché si sente più o meno incombente la presenza del rischio nel futuro prossimo; rendendo così non certe le cose a cui ci riferiamo nella dimensione del presente.

«A.D. 2020, giorno di quarantena: 6.
Isolamento giorno: 1.
[…] La mia quarantena è iniziata daccapo dopo aver soggiornato nel bunker insieme ai mutanti. Inizio a scrivere le cose da fare dopo – finita la quarantena – finita la prigione – finita la sofferenza, insomma DOPO: ballare in mutande in strada, abbracciare sconosciuti, fare campeggi in tutte le stagioni in tutti i luoghi, in tutti i laghi con Valerio Scanu, imparare una lingua nuova (speriamo il portoghese, ma va bene anche l’Esperanto) per parlare con più persone possibili, riprendere aikido, yoga e iniziare tutti gli sport di squadra: più si è meglio è. Riesumare vecchie sfide e fare il giro del mondo in 80 giorni toccando più posti o persone possibili».

In questo periodo di sofferenza, penso sia importante visualizzare non che tutto stia crollando ma che ci sia ancora molto che continua e continuerà ad esistere.

 

Jessica Genova

 

NOTE:
1. Per approfondire: qui.

[Fonte immagine: Pixabay]

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La filosofia del kamikaze: l’esteta dell’uccido ergo sum

Turchia, 16 ottobre 2016: un uomo decide di farsi saltare in aria in un campus universitario a Gaziantep, città vicino alla frontiera con la Siria. Durante il blitz della polizia turca contro la cellula dormiente, sono rimasti uccisi 3 agenti e ferite altre 8 persone. Quel giorno, a causa di un’esperienza di volontariato, mi trovavo solo a pochi km di distanza dall’esplosione. Immobilismo e incredulità sono state le prime reazioni. E sebbene siano state diverse le domande a cui non ho trovato una risposta che potesse colmare ormai l’origine di una lacuna esistenziale, è riuscita a dipanarsi una certezza: la definizione di kamikaze.

Il termine kamikaze si attribuisce agli autori di attentati suicidi. È una parola di origine giapponese formata dai kanji vento (kaze) e dio (kami). Il termine fece la sua prima comparsa nel racconto storico Annali del Giappone in cui si narra la storia di Kamikaze, lo spirito del vento. Inizialmente la pratica dell’azione-suicida era usata solo in strategie militari di guerra, ma negli ultimi anni con l’espressione kamikaze si evoca quella dimensione terroristica che mette in scena uno “spettacolo”.

È possibile delineare due livelli di comprensione dell’esperienza del kamikaze: esterno e interno. Da un punto di vista esterno il kamikaze, nell’essere così legato al mondo delle apparenze, è un essere estetico, come viene definito da Laurent de Sutter (Teoria del Kamikaze, 2017).
Nella sua azione il kamikaze rende invisibile tutto con un’unica eccezione: il flash di luce causato dall’esplosione. Un’apoteosi di luce che dura poco più di un istante e che si porta con sé il suo stesso fautore, lasciando unicamente distruzione e morte.
L’attenzione mediatica che ne deriva non fa altro che sottolineare lo scopo di questa dimensione: impressionare. Nel mondo contemporaneo il kamikaze diventa un essere delle immagini e dell’apparenza, il cui fine è danneggiare il nemico non tanto a livello fisico, bensì su un piano psicologico. Il risultato è un’immagine forte al punto di paralizzare l’avversario con un atto che è avvolto dall’atmosfera del sublime.

Nella visione kantiana il sublime è ciò che è eccessivo: qualcosa che superi l’ordinaria bellezza e identifica una dimensione estetica dove la paura dello straordinario – inteso come non ordinario – sia contenuta nel proprio piacere. Un qualcosa dunque che può riferirsi solo alla sfera del “divino”: montagne, vulcani, tempeste – come sostenuto dal Romanticismo.
In questo caso, nella sfera degli attacchi suicidi, invece, il sublime è l’esperienza della catastrofe dell’essere nella sua totalità. Da qui il “romanticismo” dei turisti attratti dagli scenari di desolazione causati dalle esplosioni.

Dal suo punto di vista invece, quello interno, l’uomo-kamikaze comprende che il sublime si riferisce solo allo straordinario, accetta la possibilità di essere attraversato da quest’ultimo arrivando così a identificarsi in un entusiasmo “divino”. Il fanatico kamikaze che porta all’esplosione di sé stesso esiste solo in quel preciso istante. Una vita a prepararsi per quel gesto che è unico e irripetibile, in cui prende forma il senso di tutte le cose. Rivisitando così la locuzione di Cartesio Cogito ergo sum è possibile attribuirgli un’espressione analoga: Uccido ergo sum.
La figura delineata assume i tratti di un essere complesso sia nella sua dimensione esteriore che interiore. È pertanto chiaro come la guerra contro il fanatismo e la sua espressione nei kamikaze non si possa svolgere su un piano meramente fisico, ma deve coinvolgere dimensioni più complesse, andando a scavare nelle coscienze e nell’etica.
Importante è offrire dunque un’alternativa a quello che pare essere l’unica possibilità di esistere: il kamikaze.

 

Jessica Genova

 

[Immagine di copertina scaricata da pixabay.com]

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I limiti della morale biopotenziata

Il progresso cognitivo dell’uomo ha determinato uno sviluppo tecnologico estremamente potente. Le nuove tecnologie hanno un potenziale enorme: nel bene e nel male. Se prendiamo in considerazione l’assunto secondo cui nuocere è più facile che giovare, è possibile, a causa dello sviluppo esponenziale tecnologico, porre fine per sempre alla nostra esistenza. Basti pensare alle armi di distruzione di massa.

Sebbene vi sia stata questa inevitabile evoluzione, il nostro progresso morale è modesto in confronto ai due progressi sopracitati. Il rischio segnalato poc’anzi è indiscutibilmente alto e accessibile a più persone. Per arginare tale problema abbiamo bisogno di diventare più saggi e morali. Dalla ricerca condotta da due filosofi, Ingmar Persson e Julian Savelscu, si evince che il nostro comportamento morale ha delle significative influenze biologiche. Abbiamo delle euristiche1 e dei bias2 morali, dei limiti, che in parte derivano dalla nostra conformazione biologica e sono costituiti da più fattori: tempo, spazio, quantità.

Non manifestiamo un bias spaziale verso di noi né verso i nostri conoscenti più stretti, tuttavia la preoccupazione che mostriamo per un estraneo in difficoltà varia a seconda della distanza. Siamo inclini a manifestare maggior preoccupazione per un estraneo in difficoltà che sappiamo essere vicino, rispetto a uno sconosciuto lontano da noi. Il secondo bias che prendiamo in considerazione è quello temporale.

«Il nostro bias temporale per il futuro prossimo fa sì che rinviamo irrazionalmente la nostra sofferenza anche a costo di renderla peggiore»3.

Il bias relativo all’ampiezza determina un ulteriore ostacolo: il gran numero di soggetti ai quali dobbiamo rispondere può costituire un ostacolo alla nostra adozione di una risposta morale appropriata; fenomeno chiamato “insensibilità all’ampiezza”. Questi limiti morali potrebbero così fornire una spiegazione ad alcuni nostri comportamenti, quali la xenofobia, una mancanza di interesse verso il fenomeno del cambiamento climatico ecc. Tali comportamenti potrebbero essere indeboliti dai sistemi tradizionali, come l’educazione, tuttavia non è possibile aspettarsi un risultato celere quindi l’esigenza di rivolgersi a una soluzione alternativa: il biopotenziamento morale. Il comportamento morale, definito come ogni altro comportamento umano, può essere potenziato.

Paradossalmente l’uomo, dopo aver trasformato radicalmente l’ambiente circostante attraverso la tecnologia, dovrà applicare la stessa alla sua natura per poter continuare a vivere nell’ambiente creato. La biologia potrà consegnarci delle tecniche per il biopotenziamento morale come farmaci o delle modificazioni genetiche.
Sicuramente un’analisi interessante quella fornita dai due filosofi in quanto si pone una questione essenziale: l’adeguatezza delle nostre capacità morali rispetto ai problemi che ci troviamo ad affrontare oggi, eppure potrebbero delinearsi degli scenari allarmanti; innanzitutto le tecniche per il biopotenziamento saranno sviluppate da esseri umani nello stato attuale di “inetti morali”. Inoltre, chi definisce la morale secondo cui dovrà essere
sviluppato il biopotenziamento?

La morale denominata “del senso comune”, che definisce un insieme di atteggiamenti morali che fungono da denominatore comune di morali diverse non è detto che siano universali, ovvero riconosciuti in tutti i contesti del mondo. E anche fosse comune potrebbe non essere immune da critiche. Il biopotenziamento morale, inoltre, potrebbe minare la libertà umana, la quale è un prerequisito a un’azione veramente morale. È vero che i valori di libertà e autonomia non sono valori assoluti, ma trovano una loro ragione d’essere e un proprio equilibrio insieme a tutti gli altri. Ma perdere la libertà ci farebbe perdere anche la nostra identità? Se è vero che non siamo necessariamente ciò che facciamo è anche vero che ciò che facciamo è una manifestazione del nostro essere.
Che cosa comporterebbe pertanto tutto questo? Una perdita di noi stessi?

 

Jessica Genova

 

NOTE:

1. Le euristiche sono procedimenti mentali intuitivi che permettono di effettuare un’idea generica su un argomento, giungendo così a una conclusione in modo rapido.
2. Bias significa errore di interpretazione, giudizio arbitrario o distorto.
3. I. Persson, J. Savulescu, Inadatti al futuro. L’esigenza di un potenziamento morale, Rosenberg & Sellier, 2019.

[Immagine tratta da google immagini]

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La carrellologia nelle crisi umanitarie: uno sguardo alle intuizioni morali

David Edmonds nel suo libro del 2014 Uccideresti l’uomo grasso? Il dilemma etico del male minore propone al lettore un quesito che è diventato un classico della filosofia morale: «Immaginate di trovarvi accanto a un binario quando vedete un treno in corsa che sfreccia verso di voi: chiaramente i suoi freni non hanno funzionato. Più avanti ci sono cinque persone legate sui binari. Se non fate niente, i cinque saranno travolti e uccisi. Per fortuna siete accanto a uno scambio: azionando quello scambio manderete il treno fuori controllo su una linea secondaria, un ramo deviato, che si trova appena davanti a voi. Purtroppo, c’è un intoppo: sulla linea secondaria notate che c’è una persona legata sui binari; cambiare la direzione del treno si tradurrà inevitabilmente nell’uccisione di questa persona. Che cosa fate?»1.

La maggioranza delle persone sceglie di deviare il carrello. Se anche voi rientrate nella maggioranza avete appena salvato cinque persone, ma un uomo è morto; come vi sentite? Ma non fermiamoci qui, andiamo avanti. Un’altra filosofa, Judith Jarvin Thomson, ha proposto di immaginare una scena analoga:

«Siete su un cavalcavia che si affaccia sul binario. Vedete il carrello ferroviario che sfreccia fuori controllo e, poco più avanti, cinque persone legate sui binari. È possibile salvare questi cinque? Ancora una volta, il filosofo morale ha abilmente organizzato le cose in modo che sia possibile. C’è un uomo molto grasso che sta guardando il treno appoggiato alla ringhiera. Se lo spingeste oltre la balaustra, piomberebbe di sotto e si schianterebbe sui binari. È così obeso che la sua massa farebbe fermare bruscamente il carrello. Purtroppo, in questo modo verrebbe ucciso l’uomo grasso. Ma si potrebbero salvare gli altri cinque. Si dovrebbe dare una spinta all’uomo grasso?»2.

La maggioranza delle persone cui è stato posto il quesito ha risposto che non avrebbe spinto l’uomo. Eppure, da un punto di vista meramente utilitaristico si tratta sempre di scegliere il male minore: una persona muore per salvarne cinque. Qual è la differenza tra il primo e il secondo interrogativo? Perché nel primo caso azionare una leva è percepita come moralmente giusto, mentre nel secondo caso spingere l’uomo grasso viene percepita come un’azione immorale? Se il risultato non cambia, sicuramente dobbiamo analizzare il procedimento o la percezione che abbiamo del procedimento stesso. Ci sono due elementi su cui è opportuno ragionare: la volontà e la necessità.

Nel primo caso non abbiamo alcuna volontà di uccidere l’uomo sul binario; la sua morte non è necessaria al nostro obiettivo: salvare le cinque vite. Infatti azionando lo scambio, possiamo ancora sperare in un miracolo, per esempio che l’uomo si sleghi dalle funi e si salvi. In questo caso saremmo riusciti addirittura a raggiungere il nostro obiettivo senza vittime.

Nel secondo interrogativo l’intenzione di salvare le cinque persone passa necessariamente dalla morte di un altro e dalla volontà di ucciderlo. In altre parole, per poter salvare le cinque persone dobbiamo voler uccidere l’uomo grasso, ed è proprio l’intenzione che spinge la maggior parte delle persone a percepire l’azione moralmente sbagliata. L’uomo, che viene intenzionalmente spinto, è considerato un mezzo per un fine, privato quindi della sua autodeterminazione. Tale intenzione non si percepisce nel primo quesito, in cui “l’effetto nocivo o collaterale” è previsto, ma non inteso. È possibile sostenere, inoltre, che spingendolo dal ponte l’uomo grasso continui a rotolare e ad uscire dai binari. In questa ipotesi non abbiamo salvato alcuna vita, ma sicuramente abbiamo ucciso un uomo. Ecco descritta la ragione per cui la maggioranza delle persone agirebbe in maniera diversa nei due casi.

Il filosofo John Mikhail aggiunge un ulteriore tassello affermando che le intuizioni morali più profonde, come quelle che impediscono di uccidere un innocente, sono universali ed innate. Ma se non parlassimo di una persona “innocente”? Che cosa accadrebbe se la carrellologia non fosse più solo un esempio teorico e lontano, ma fosse possibile inglobarla nella nostra quotidianità?

In ambito umanitario esistono dei principi fondamentali che ogni operatore deve rispettare: imparzialità, indipendenza, umanità, neutralità. Un errore molto comune è confondere i principi di imparzialità e neutralità. Per una maggior chiarezza possiamo definire il principio di imparzialità come principio di non discriminazione nell’aiuto umanitario: l’operatore umanitario deve necessariamente aiutare tutti indistintamente, senza discriminazioni. Il principio di neutralità sottintende che l’intervento umanitario non deve favorire nessuna fazione di un conflitto armato. Dai primi anni novanta, l’intervento umanitario ha dovuto far fronte a un problema estremamente complesso: nelle nuove crisi umanitarie i civili infatti si sono trasformati nei principali “oggetti” di
attacchi e abusi. In questo teatro dell’orrore, esistono gruppi particolarmente vulnerabili come donne e bambini, i quali necessitano di particolari forme di protezione. Compito degli operatori è per esempio evitare che si ripetano stupri e violenze sulle categorie vulnerabili sopra citate.

Immaginiamo ora di essere l’operatore umanitario partito in missione. Siamo in un piccolo villaggio sperduto nel paese X e siamo a capo dell’unità di protezione che deve tutelare le donne e le bambine da violenze e abusi. Conosciamo perfettamente i principi fondamentali dell’aiuto umanitario e li applichiamo alla lettera. Questo significa anche non schierarsi con nessuna delle fazioni in campo, nonostante siamo consapevoli che gli abusi e le violenze provengono da una delle due parti. Per far cessare le violenze decidiamo di andare “a cena con il nemico” e mettere in atto tutto quello che abbiamo imparato sull’arte della negoziazione. Il capo “Y” nota le nostre scarpe e ci domanda se sono un “made in Italy”, rispondiamo di sì. Lui ci confida che ha sempre desiderato un paio di scarpe proprio come quelle. Lo abbiamo in pugno, abbiamo la nostra merce di scambio: scarpe in cambio della cessazione di stupri e violenze. Il capo “Y” accetta e noi rientriamo in tenda con delle utilissime scarpe di plastica.
Passa qualche giorno e avviene un altro caso di stupro. Chiamando il capo “Y” però rischieremmo di istigarlo ad uccidere lo stupratore per dar prova del proprio potere. In questo caso però non ci sarebbero più violenze.
Che cosa fate?

Questi appena descritti potrebbero sembrare dei semplici passatempi, eppure riguardano ciò che è giusto e sbagliato, e come dovremmo di conseguenza comportarci. Gli esperimenti mentali sono progettati per testare le nostre intuizioni morali e per esser in qualche modo d’aiuto nel mondo reale. Bene e male, infatti, sono talvolta così intrecciati da rendere quasi impossibile decidere quale scelta sia moralmente la più etica. E che cosa c’è forse di più importante di capire tutto questo?

 

Jessica Genova

 

NOTE:
1, 2 D. Edmonds, Uccideresti l’uomo grasso? Il dilemma etico del male minore, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014

 

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L’eterno ritorno dell’immortalità digitale

«Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudine e ti dicesse: «Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello di polvere!»1, scriveva Nietzsche ne “La gaia scienza”. Il filosofo dell’eterno ritorno ci costringeva a riflettere sulla nostra intera vita e a cedere a una disperazione esistenziale qualora il demone, portatore del suddetto suggello, si fosse realmente palesato.

Se il demone nietzschiano si presentasse oggi, nel nostro mondo contaminato inevitabilmente dalla singolarità tecnologica del digitale, il suo pensiero si intreccerebbe probabilmente con il linguaggio dei social network e il risultato sarebbe più o meno questo: “A cosa penseresti per l’eternità”?
Cadremmo di nuovo nello sconforto a causa del nostro essere-temporale, e non essere-del-momento, oppure supereremmo a pieni voti il test esistenziale del demone 3.0?

Questa è la domanda che ci viene posta da Eter9, una sorta di Facebook che anziché chiederci “A cosa stai pensando?” domanda “A cosa penseresti per l’eternità?”. Il sito è un progetto creato dal programmatore portoghese Henrique Jorge.
Eter9 presenta una bacheca in cui vengono visualizzati i post degli utenti, proprio come in Facebook, ma differisce dal primo, in quanto utilizza le risorse del data mining per l’elaborazione dei contenuti condivisi al proprio interno2. Questo sistema porta alla creazione di un automatismo in grado di pubblicare post anche quando gli utenti risultano offline. La finalità ultima è quella di sviluppare un alter ego virtuale che possa comunicare con il resto del mondo, digitale e non, anche quando saremo passati a miglior vita.

Eter9 non è altro che una delle numerose invenzioni tecnologiche che cercano di concretizzare l’immortalità digitale. La loro finalità è far sopravvivere la propria identità alla morte oggettiva della nostra vita offline. Eppure è opportuno chiedersi se esista ancora una netta divisione tra offline e online. Seguendo il pensiero di Luciano Floridi si dovrebbe oggigiorno parlare di «esperienza onlife»; il confine tra le due abitazioni – offline e online – è infatti sempre più labile3.
Le due realtà si mescolano reciprocamente a tal punto da non distinguersi più l’una dall’altra, ed inevitabilmente siamo costretti a ripensare totalmente anche l’idea di morte e al suo legame con il pubblico e il privato. Si giunge, pertanto, a quello statuto paradossale del morto, ove la dialettica tra presenza e assenza, se tecnologicamente rimaneggiata, può costituire il punto di partenza per ricomporlo attivamente al di fuori di una mera fotografia, inficiando la vita umana in modo irreversibile.
Probabilmente è proprio questo il motivo dell’urgenza tecnologica, colmare o lenire il dolore e la sofferenza causata dalla perdita di chi si ama. Quindi, non tanto l’immortalità di se stessi, ma la vita eterna delle persone amate. Jacques Deridda descrisse l’esperienza del lutto come «la fine del mondo nella sua totalità, e ogni volta come la fine del mondo come totalità unica e quindi insostituibile e quindi infinita»4.
Ma un alter ego virtuale può davvero essere utile all’elaborazione del lutto emotivo?
La tecnologia inoltre non considera la variabile del cambiamento, dell’evoluzione dell’essere. L’avatar in formato digitale non sarà altro che l’eterna presentazione di ciò che siamo stati o meglio di ciò che vorremmo essere stati – se consideriamo il gioco dell’apparenza sui Social Network.

Nell’immortalità digitale, il nostro essere non potrà proseguire, evolversi, cambiare, ma rimarrà intrappolato nei pensieri che sono stati, nei luoghi in cui abbiamo vissuto, nelle azioni che abbiamo intrapreso. Il tempo della nostra immortalità digitale sarà intrappolato in quel cerchio senza evoluzione, ritornando eternamente, come nella descrizione del demone di Nietzsche.
Dunque, caro lettore, “A cosa penseresti per l’eternità?

 

Jessica Genova

 

NOTE
1. F. Nietzsche, La gaia scienza, Libro IV, n.341.
2. Tratto da D. Sisto, La morte si fa social. Immortalità, memoria e lutto nell’epoca della cultura digitale, Bollati Boringhieri, Torino 2018.
3. L. Floridi, La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Cortina, Milano 2017
4. J. Deridda, Ogni volta unica, la fine del mondo, Milano.

La neutralità del conflitto

In questi giorni il mondo ha di nuovo volto il suo sguardo verso il Medio Oriente, verso un conflitto che ancora non ha trovato pace: quello israelo-palestinese.

Sicuramente la cosiddetta crisi della Spianata ha origini ben pregresse, ovvero non è iniziata quel fatidico giorno del 14 luglio scorso, bensì ben prima.

Il mondo, in tutto questo tempo, ha deciso di allontanarsi da quella crisi, quando forse si sentiva troppo stanco per poter trovare una via di fuga e una soluzione.

La crisi potrebbe essere identificata in quel processo di normalizzazione che porta all’abituarsi di una situazione che normale non è. La normalizzazione, infatti, può essere intesa come un processo in cui relazioni – politiche, economiche, sociali, culturali – assumono un carattere “normale” appunto.

La riflessione che voglio portare avanti coinvolge proprio il concetto di conflitto.

Quando si pensa ad esso le immagini che vengono a delinearsi nella nostra mente sono il più delle volte immagini negative: scontro, rottura, trauma, guerra, violenza. Consideriamo, pertanto, il conflitto come qualcosa da evitare. Eppure, il conflitto in sé è un qualcosa di neutrale e ciò che lo porta ad essere negativo o positivo sono i meccanismi e le forme che vengono usate per affrontarlo.

È inoltre importante tenere a mente che esso è parte inevitabile della vita sociale da un lato e della sfera individuale dall’altro. Quante volte siamo stati in conflitto con noi stessi? Non è stato forse un motivo di crescita?

Così, “prevenire i conflitti”, nel senso di non affrontarli ed evitarli, possiede connotazioni decisamente negative. Invece, se intendiamo il concetto di “prevenzione dei conflitti” come uno sviluppo di abilità, atteggiamenti e comportamenti indirizzati alla risoluzione di conflitti in modo costruttivo, la connotazione che assume è positiva. Questo significa che lo sviluppo delle capacità e strategie che consentono di affrontare il conflitto stesso e impedirgli di giungere alla sua fase critica siano estremamente utili e necessarie.

È possibile quasi individuarne una struttura, la quale si compone di tre elementi: le cause, i protagonisti e il processo.

Potremmo, infatti, attribuire alle cause di un conflitto: le ideologie e le credenze, le relazioni di potere, gli aspetti personali e i rapporti interpersonali. Gli attori in gioco il più delle volte sono minimo due. E poi arriviamo al processo che si riferisce al modo in cui si sviluppa e si porta a risoluzione.

Detto ciò, sarebbe bello avere la “ricetta” per risolvere ogni tipo di conflittualità, dal personale a quello tra Stati e organizzazioni, ma non può essere così.

Quel che conta è non eluderlo, affrontarlo è dunque il primo passo per poter arrivare ad una soluzione.

L’atteggiamento che il mondo ha assunto in questi ultimi anni nei confronti della crisi israelo-palestinese non è stata sicuramente quella di sviluppare strategie risolutive. Il togliere dall’agenda tale tematica, sostenendo l’idea che Gerusalemme non fosse un problema globale – probabilmente c’è chi lo pensa tuttora – ha fatto sì che la crisi si alimentasse. È importante ricordarsi che l’essere stanchi dei tentativi andati in fumo per la pace tra Israele e Palestina non è una giustificazione per non affrontare il conflitto, così come non rappresenterà mai una giustificazione per non prendere in esame le nostre conflittualità.

Jessica Genova

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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Libano, Wonder Woman censurata: la nuova campagna BDS

L’atteso film in solitaria di Wonder Woman arriva nelle sale cinematografiche, in tutte, ma non in quelle libanesi. A far discutere è la nazionalità israeliana dell’attrice Gal Gadot.

Il Ministro dell’Economia e del Commercio del Libano, Raed Khoury, ritorna alla carica con i suoi tentativi di censurare i film in cui recita l’attrice, questa volta riuscendo a raggiungere il risultato sperato. Dopo un primo rinvio dell’uscita della pellicola, il film è stato ufficialmente censurato.

Non è la prima volta che il Ministro si schiera a favore della battaglia di boicottaggio economico nei confronti dei prodotti isreaeliani. I gruppi che appoggiano la campagna riportano alla luce il passato di Gal Gadot, che la vede indossare un’altra uniforme: quella dell’esercito di Israele. Ma quel che più genera un conflitto morale sono stati gli elogi senza remore all’Isreal Defence Forces e alle sue operazioni contro Hamas e i civili di Gaza nel 2014. Così si torna inevitabilmente a discutere della campagna globale di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) contro Israele.

Ma in che cosa consiste la campagna BDS?

Il movimento BDS nasce nel 2005 da un’iniziativa di una coalizione di gruppi palestinesi. Essi si appellarono «alla gente di coscienza in tutto il mondo per imporre ampi boicottaggi e attuare iniziative di pressioni economiche contro Israele simili a quelle applicate al Sudafrica all’epoca dell’apartheid»1. Il movimento rappresenta una forma di protesta riguardo all’occupazione dei territori confiscati durante la guerra araba-israeliana del 1967.

La situazione israelo-palestinese è decisamente complessa. E inevitabilmente complesso risulta il dibattito sulla questione della politica israeliana, condizionato inoltre da un fattore: la memoria della Shoah. Il nazismo come rappresentazione del male assoluto fa sì che la memoria della Shoah pesi come un macigno sulla nostra coscienza. L’esperienza del trauma viene compresa come un processo sociologico che delinea vittime, responsabilità e conseguenze. Da qui l’identità collettiva viene plasmata in maniera significativa. Questo comporta una presa di posizione critica nei confronti di tutte quelle azioni che si scontrano con il sionismo.

L’Olacausto ha sicuramente insegnato qualcosa. Da allora identifichiamo il male assoluto, come sostiene Jeffrey Alexander nel suo libro Trauma: A social Theory, nelle azioni sistematiche e strutturali di violenza contro i membri di un particolare gruppo.

Quel che sconvolge sono le gravissime violazioni dei diritti umani che Israele compie ogni giorno. Come è possibile che un popolo che ha subito persecuzioni agisca a sua volta nella direzione di un regime di apartheid?

Il parallelismo tra la situazione della Palestina e quella del Sudafrica apre forse un barlume di speranza. Proprio in Sudafrica è stato possibile constatare i benefici del boicottaggio economico. Costituì infatti un fattore decisivo nel passaggio dal regime di apartheid ad una democrazia interetnica.

Sicuramente quella del boicottaggio delle merci è un’iniziativa semplice ed è facilmente comprensibile dall’opinione pubblica. E, in un contesto come quello di Israele, così dipendente dal commercio, potrebbe funzionare.

Probabilmente la campagna per il boicottaggio, essendo identificabile in un movimento di resistenza nonviolenta, si è ispirata a La disobbedienza civile di Henry David Thoreau.

«La realtà è che di disobbedienti civili la società avrà sempre urgente bisogno: in primo perché il potere tende a corrompere e il potere assoluto corrompe assolutamente; e seguendo Hume, per la ragione che la libertà non si perde tutta in una volta, e quel che vale per la libertà vale anche per la dignità e la giustizia. E siccome il prezzo della libertà è l’eterna vigilanza, uomini pronti a pagare di persona per le denunce dell’immondizia della politica fatta da gente a caccia di prebende e privilegi, rappresentano il sale della terra. E, a differenza degli utopisti, ma anche di tutti quei riformisti che, pensando a tempi migliori, chiudono gli occhi sugli orrori del presente, il disobbediente civile non violento agisce subito, qui e ora», scrive il filosofo Dario Antiseri.

Così il Libano, con la decisione di censurare il film Wonder Woman, ha confermato la sua scelta di sostenere il boicottaggio economico contro Israele. Il Paese ha scelto di dare una risposta immediata, qui ed ora, all’eterno dilemma di cosa fare quando ci si trova, in questo caso letteralmente, fianco a fianco con la sofferenza e l’ingiustizia.

Jessica Genova

NOTE:
1. Tratto da OsservatorioIraq. Medioriente e Nordafrica, articolo.

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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