Claude Cahun: le mille identità di un’eroina non convenzionale

Il rifiuto per ogni categoria che limita e vincola l’individualità e il suo mutare nel corso del tempo è il filo conduttore dell’opera di Claude Cahun.

In un fotomontaggio creato da Cahun e incluso in Aveux non avenus questo si fa chiaro attraverso le immagini e i simboli che l’artista sceglie. Tre embrioni campeggiano nella parte superiore del lato destro del foglio come a voler simboleggiare lo sviluppo e la crescita dell’essere umano. Su di essi si staglia una piccola piramide in cui compare un’ipotetica famiglia unita fisicamente da un cordone ombelicale. Il padre solleva il figlio tenendolo per i capelli e una piccola bandiera con la dicitura “la sainte famille” ci aiuta a comprendere come un’avversione dichiarata nei confronti dell’istituzione tradizionale della famiglia e della sua gerarchia implicita sia al centro di quest’opera dell’artista francese.

Claude Cahun, Self Pride 1929-1930

Claude Cahun, Self Pride 1929-1930

Proprio sotto a questa costruzione piramidale, troviamo un triangolo nero e all’interno tre autoritratti di Claude in maschera, in netto contrasto con la triade della “santa famiglia”, formata da padre, madre e bambino. Tra la piramide e il triangolo con gli autoritratti troviamo una statua priva di testa, dal cui ombelico cresce un albero di rami: su ogni ramo si può trovare una parte del corpo dell’artista, un chiaro riferimento ai cinque sensi.

Nell’angolo a destra un embrione sembra diventato un feto e sotto una sovrapposizione di autoritratti in maschera dell’artista dà vita a una nascita, la nascita di Claude. Evidenziando gli occhi in un primo momento e poi la bocca, la scritta “Sous ce masque une autre masque. Je n‘en finirai pas de soulever tous ces visages”, ci aiuta a fare chiarezza sull’intento di questo fotomontaggio.

Un’identità in costruzione o in dissoluzione? Claude Cahun, un’artista dalle mille forme, che ama il dinamismo e il movimento: dei corpi, delle idee e della vita. È la sua avversione nei confronti della staticità che le permette nel corso degli anni di confrontarsi con più forme artistiche, così diverse una dall’altra, ma tutte necessarie per un’espressione artistica che non tralasci neanche un aspetto della propria personalità. La scrittura, la fotografia, il teatro: tutte modalità che le permettono di concedere solo una parte di sé, un fotogramma che però non basta per comprendere la complessità della personalità e della storia che si cela dietro quel volto. Un volto che compare in quasi ogni opera, il più delle volte mascherato, truccato, travestito. Il viso che viene coperto per scoprire, un’autenticità che è stata negata, qualcosa di travagliato che l’artista vuole portare alla luce attraverso l’uso sapiente di un obiettivo che diventa una superficie riflettente, uno specchio. Dietro una maschera se ne trova un’altra e così via: l’identità è forse una chimera, il sé viene concesso un po’ per volta e mai del tutto.

Un rifiuto netto nei confronti della famiglia borghese, dettato probabilmente dalle sue vicende autobiografiche, fa di Claude Cahun un’eroina contemporanea.

Uno spirito anticonformista, animato da una voglia di ribellione e dal desiderio di affermare la propria individualità attraverso il rifiuto di ogni istituzione, convenzione o categoria che possa in qualsiasi modo vincolare e limitare la sua creatività. È proprio questo anticonformismo insieme alla curiosità e all’amore per l’arte a spingere Claude lontano dalla sua famiglia e dalla sua città di origine, Nantes.

Già a partire dal nome è evidente il gioco con l’ambiguo, che accompagnerà sempre l’opera dell’artista francese. Niente viene mai lasciato al caso, ma ogni dettaglio contiene in sé rimandi ricchi di significato, racconti sempre volontariamente scelti. All’anagrafe Lucy Renée Mathilde Schwob, Claude firma le sue opere in un primo momento come Cloude Courlis, poi come Daniel Douglas, per poi approdare a quello che l’artista sentirà come il suo vero nome, un nome “neutro”, declinabile sia al maschile che al femminile e un cognome che richiama le sue origini ebraiche, la nonna paterna a cui venne affidata all’età di quattro anni, quando la madre viene internata in una clinica psichiatrica.

Sarà l’incontro con Marcel Moore, che diventerà sua compagna di vita, a regalare a Claude Cauhn la possibilità di dare voce con ancora più forza alla sua libertà creativa e a incrementare la sua figura di outsider.

Senza farne forzatamente un’anticipatrice del gender, la metamorfosi dell’individualità con la sua moltiplicazione incessante, per Claude porta inevitabilmente con sé la demolizione delle categorie di “maschile” e “femminile”, che vengono smascherate nella loro convenzionalità.

Ecco allora che l’artista si presenta negli autoritratti con un carattere asessuato, proprio perché la sessualità, come l’identità, non può essere definita, ma solo rappresentata nella sua instabilità e inconsistenza:

«Maschile? Femminile? Ma dipende dai casi. Neutro è il solo genere che mi si addice sempre».

Come riconobbe anche André Breton, poeta e teorico del surrealismo in una lettera del 1938 indirizzata a Claude, l’artista dai mille volti sembra essere dotata di un potere magico, in grado di comporre e rivelare per immagini ciò che soltanto secoli dopo troverà un corredo teorico e filosofico.

Greta Esposito

[Immagine tratta da Google Immagini]

Bologna Children’s Book Fair: una lente per le immagini dell’infanzia

Anche quest’anno Bologna è stata la protagonista della Bologna Children’s Book Fair, fiera del libro per ragazzi nata negli anni Sessanta con lo scopo di creare un luogo di incontro, dialogo e scambio non solo per gli editori, ma per tutti coloro che sono interessati al settore della lettura e che vedono nell’infanzia un momento importante per la crescita e lo sviluppo dei lettori di domani.

Oltre 20 mila metri quadrati e 1300 espositori provenienti da oltre 75 Paesi del mondo per condividere e riflettere sulle ultime tendenze editoriali e partecipare alle conferenze e ai workshop proposti dalla manifestazione.

Un’edizione che ha visto la partecipazione di nuovi paesi come Albania, Andorra, Ecuador, Islanda, Costa d’Avorio, Myanmar, Nepal, Pakistan e Perù.

Le diverse declinazioni e sfumature di questa 54esima edizione sono state raccontate da un’immagine: la chimera, creata da Daniele Catellano, illustratore emergente, e dallo studio di design Chialab. Artista selezionato per la mostra Illustratori 2016, Castellano ha dato vita a “The natural habitat for children’s content”, un racconto che descrive i luoghi protagonisti della manifestazione bolognese nella loro multiformità. Un animale che nasce dall’immaginazione e che abita un mondo fantastico, fatto di storie e racconti che tra i padiglioni della Bologna Children’s Book Fair prendono vita, una guida simbolica che ha permesso al visitatore di destreggiarsi attraverso la ricchezza delle narrazioni e dei paesaggi immaginari.

Una manifestazione che ha evidenziato ancora una volta l’importanza dell’editoria per l’infanzia, dal momento che mai come oggi si sente la necessità di sottolineare come al centro della crescita del bambino non ci siano solo universi di parole, ma soprattutto quelle immagini che, lontano da stereotipi, riescano a riprodurre in modi sempre nuovi un infinito di significati ed emozioni. Secondo i dati dell’Associazione Italiana Editori, nel 2016 il 63,3% dei bambini dai 2 ai 5 anni ha letto, colorato o sfogliato almeno un libro non scolastico, ma la percentulale scende al 44,2% nella fascia 6-10 e a 51,1% in quella 11-14.

Gli ospiti d’onore di questa edizione sono stati La Catalogna e le Baleari, Paesi che vantano una lunga storia nel settore della letteratura per bambini e ragazzi che risale al Quattrocento con le Publicaciones de l’Abadia de Montserrat, la casa editrice più antica d’Europa. Un programma di attività e di esposizioni che ha posto l’accento innanzitutto sul futuro. Come ha sottolineato Manuel Forcano, direttore dell’Instut ramon Llull: «La letteratura per ragazzi è il futuro della letteratura: senza nuovi lettori, la letteratura non ha futuro». Un futuro che necessita di condivisione, ecco perché la Bologna Children’s Book Fair anche quest’anno ha puntato all’internazionalità, coinvolgendo una moltitudine di realtà geograficamente lontane. Molti gli ospiti nazionali e internazionali che hanno animato questa edizione della Fiera del libro, da Rutraut Susanne Berner, illustratrice tedesca vincitrice dell’H.C. Andersen Award 2016, ad Ana Garralón, docente di letteratura per l’infanzia, critica e blogger spagnola.

Punta di diamante della Fiera è stata la Mostra degli Illustratori, nata nel 1967 e che nel 2016 ha compiuto 50 anni. Molti i talenti che, provenienti da 26 diversi Paesi, sono riusciti a rappresentare attraverso tratti e colori, le culture, gli stili e le sensibilità che contraddistinguono l’umanità nella sua diversità.

L’editoria per l’infanzia rappresenta oggi una delle possibilità che l’uomo ha per incrementare la curiosità del bambino, la voglia di fare esperienze e la necessità di creare nuove realtà e possibilità a partire dall’immaginazione. Non sappiamo cosa ci riserverà il futuro a tal proposito, ma una cosa è chiara: é necessario andare oltre gli stereotipi e per farlo le parole forse non bastano più. Solo attraverso le immagini e sempre più attraverso l’uso di tutti i cinque sensi si può far breccia sul bambino. Non limitiamoci allora a leggere storie, ma creiamole insieme a loro attraverso la scoperta, accompagnandoli verso una realtà che può e deve essere migliore perché come diceva Bruno Munari «un bambino creativo è un bambino felice».

Greta Esposito

[Immagine tratta da Google Immagini]

Un 8 marzo verso nuove mete possibili

Oggi è l’8 marzo, una data che come ogni anno arriva puntuale e che segna una di quelle ricorrenze che portano con sé un significato che con il passare del tempo è necessario non dimenticare, affinché ne sia preservata l’autenticità.

Quest’anno la giornata internazionale delle donne ha qualcosa di diverso, un sapore nuovo che non si può ignorare, dal momento che ci obbliga a confrontarci con il nostro passato per vedere un futuro possibile, fatto di cambiamenti, uomini e donne finalmente insieme. Il vero protagonista di questo 8 marzo sarà la necessità di riflettere su cosa significhi essere donna oggi nei luoghi e negli spazi del quotidiano: sul lavoro, dentro le mura di casa e all’interno della rappresentanza politica.

Il ‘femminismo’, parola che spaventa ancora e che suscita spesso accese polemiche, sembra portare con sé un’inevitabile tonalità negativa, tant’è che è facile sentirlo utilizzare da amici o conoscenti con tono dispregiativo. Spesso mi sono domandata perché e ho tentato di comprendere la posizione di chi vede in questa parola qualcosa di anacronistico, spesso trovando nei miei interlocutori solo un nuovo pretesto per riproporre una realtà puramente stereotipata.

Bisogna essere consapevoli che come ogni ‘ismo’, anche questo livella, riduce e appiattisce, definendo una categoria sotto la quale rientrano correnti di pensiero, atteggiamenti e visioni del mondo che non potrebbero essere più distanti uno dall’altra. Ecco perché è più utile parlare di ‘femminismi’, per poter evidenziare la non univocità di correnti che con il loro attivismo, lo si voglia o meno, hanno determinato il destino di noi tutti.

Una moltitudine di idee e pensieri, al cui interno, tuttavia, è possibile rintracciare un aspetto comune e ancora oggi attuale, ovvero la necessità di definire e ripensare la posizione della donna all’interno della società, della politica e della sfera privata.

Un presente, quello che viviamo, che viene spesso dato per scontato, ma che invece è frutto di anni di lotte e conquiste civili, dal suffragio universale ottenuto nel nostro paese nel 1945, alla legge sull’interruzione volontaria di gravidanza conquistata solo nel 1978. Conquiste a cui si è giunti faticosamente, un percorso che non può essere messo semplicemente tra parentesi come ‘passato’, dal momento che tutto può essere rimesso costantemente in discussione ed è solo dal passato che si può comprendere quanta strada si può e si deve ancora percorrere insieme.

Se si pensa che l’uguaglianza giuridica di tutti i cittadini fu sancita dalla costituzione nel 1948, ma che bisogna attendere il 1975 per la riforma radicale del codice civile che prevedeva il principio della supremazia del capo famiglia e che ha permesso l’affermazione del principio costituzionale dell’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, si comprende l’impegno che nel tempo ha portato le donne a rendere effettiva sul piano sociale una conquista ottenuta a livello giuridico.

L’8 marzo 2017 ci sarà una mobilitazione generale e uno sciopero globale produttivo e riproduttivo delle donne. Dall’Argentina, alla Polonia e agli Stati Uniti, la mobilitazione delle donne è trasversale e coinvolge più di 40 Paesi. Una necessità nata dal confronto e dal dialogo scaturito da diverse assemblee cittadine e che nel nostro paese da Bologna a Roma coinvolge numerose realtà. La rete di Nonunadimeno, che riprende l’azione di protesta argentina Niunamenos contro la violenza di genere, è il frutto di un percorso iniziato il 26 novembre scorso con una grande manifestazione a Roma e una prima assemblea all’università La Sapienza. Otto i tavoli tematici su cui si è discusso il 4 e 5 febbraio scorso a Bologna, che pongono l’accento su numerosi punti, tra cui l’importanza di riaffermare il ruolo dei centri antiviolenza come spazi di donne per le donne, che nella loro specificità non possono essere parificati a qualunque altro servizio di assistenza e la necessità di  potenziare politiche sociali, per la cui mancanza spesso  le donne sono costrette al loro lavoro di cura.

Un’esigenza nata dal confronto e dal dialogo di gruppi di donne,  attraverso lo scambio reciproco di esperienze di vita e di idee, un insieme di punti generati dall’interrogativo fondamentale che muove questo 8 marzo, ovvero in che modo si esprime e si manifesta la violenza di genere e sopratutto quali le azioni concrete da promuovere per arginarla, affinché non rimanga l’ennesimo monito dissolto nel vuoto. Una violenza che si declina e prende vita in forme sempre mutevoli. Riaffermando la necessità della piena applicazione (ancora troppo lontana dalla realtà) della Convenzione di Istanbul, si getta luce sulle molteplici forme che assume oggi la violenza, dalla violenza psicologica a quella sul lavoro, per arrivare alle nuove forme di violenza veicolate attraverso il web e i social media.

Alla luce della recente condanna dell’Italia da parte della Corte di Strasburgo per la poca tempestività con cui ha protetto una donna e suo figlio dagli atti di violenza domestica perpetrati dal marito e di fronte alla dichiarazioni sconvolgenti di qualche giorno fa dell’eurodeputato polacco Janusz Kowin-Mikke sulla presunta debolezza e inferiorità femminile, il nostro tempo sembra scivolare nel passato e tutto sembra essere costantemente rimesso in discussione.

Davanti alla volontà di controllo del corpo delle donne, che si presenta ogni giorno in una veste sempre nuova, le donne di Nonunadimeno scendono in piazza, perché “Se le nostre vite non valgono, noi ci fermiamo”.

Come sottolinea la filosofa Michela Marzano, non dimentichiamoci cosa significa veramente lottare di fianco alle donne, per le donne:

«Essere dalla parte delle donne non significa sognare un mondo in cui i rapporti di dominio possano finalmente capovolgersi per far subire all’uomo ciò che la donna ha subito per secoli. Essere dalla parte delle donne vuol dire lottare per costruire una società egualitaria, in cui essere uomo o donna sia «indifferente», non abbia alcuna rilevanza. Non perché essere uomo o donna sia la stessa cosa, ma perché sia gli uomini sia le donne sono esseri umani che condividono il meglio e il peggio della condizione umana. L’obiettivo della donna non è quello di dominare l’uomo, dopo essere stata dominata per secoli, ma di lottare perché si esca progressivamente da questa logica di dominio, senza dimenticare che, nonostante tutto, l’essere umano è (e resterà sempre) profondamente ambivalente»1.

L’unica posizione possibile è allora stare dalla parte delle donne, senza dimenticare la necessità di tracciare insieme un percorso condiviso, che non generi un discorso autoreferenziale, ma che permetta di oltrepassare qualsiasi logica di dominio, andando oltre ogni sterile opposizione tra uomo e donna.

Buon otto marzo a tutte.

 

Greta Esposito

 

NOTE:
1. Michela Marzano, Sii bella e stai zitta, p. 138.

[Immagine tratta da Google Immagini]

cop_06

E se il filosofo diventa un blogger? Intervista a Massimo Pigliucci

Nell’immaginario comune il filosofo è stato spesso rappresentato come un uomo intento a speculare e a indagare su realtà lontane, talmente assorto nell’esercizio del pensiero e nella ricerca della verità da perdere qualsiasi ancoraggio alla realtà mondana.
Vi ricordate la rappresentazione di Socrate nelle Nuvole di Aristofane? Sospeso su una cesta a mezz’aria, il filosofo greco se ne sta completamente assorto nel suo pensatoio a scrutare i corpi celesti.
Il distacco fisico dalla terra sembra essere da sempre una caratteristica con cui viene identificata la figura del pensatore. A forza di stare con il naso all’insù, sembriamo tutti, chi più e chi meno, destinati come Talete a cadere nel pozzo, procurando lo scherno di chi ci sta attorno.
Beh, dimenticatevi questa immagine, perché il filosofo 2.0 non solo sembra fare i conti con la realtà forse più di chiunque altro (qualcuno potrebbe dire finalmente), ma pare sia diventato anche un abile comunicatore.
In occasione dell’ultima edizione del festival della letteratura di Mantova abbiamo avuto il piacere di fare qualche domanda a Massimo Pigliucci, docente di filosofia al CUNY – City College di New York, blogger e divulgatore scientifico, per parlare degli attuali sviluppi della filosofia e del suo rapporto con la comunicazione e la divulgazione scientifica nell’era del blogging.

 

La chiave di Sophia si pone fin da principio come obiettivo la relazione tra filosofia intesa come interrogazione e ricerca costante e la quotidianità. Anche al centro dei suoi interessi c’è la divulgazione scientifico-filosofica. Fondatore dei blog Rationally Speaking e Footnotes to Plato, ha poi fondato Scientia Salon, che si occupa di scienza e filosofia e del loro dialogo. Secondo lei, quali sono le difficoltà che si possono incontrare nel tentare di rendere più accessibile ambiti considerati da sempre specialistici e accademici come la filosofia e la scienza?

La divulgazione è sempre stata difficile e sempre lo sarà, indipendentemente dalla particolare disciplina accademica. Non è facile scrivere per un pubblico generale di argomenti di fisica, biologia, filosofia, storia, ecc. Questo perché si devono navigare delle acque turbolente cercando di evitare sia la Scilla del semplificare troppo, perché allora si presenta un’immagine falsa della disciplina di cui si scrive, sia la Cariddi del mantenersi così tecnico che la gente semplicemente perde interesse. Non ci sono formule magiche, ma direi che il semplice fatto di essere un accademico, anche se di grande statura dal punto di vista specialistico, non prepara per nulla allo scrivere per un pubblico generale. A questo aggiungiamoci che ancora oggi troppi dei miei colleghi considerano lo scrivere per il pubblico un’attività secondaria, probabilmente a cui si dedica gente che non è sufficientemente brava a fare lavoro tecnico; e anche il fatto che il pubblico stesso è spesso refrattario all’idea di investire tempo ed energia per capire argomenti difficili, e otteniamo l’attuale situazione, un tantino deprimente. Ma bisogna continuare, la scienza e la filosofia (e la storia, e l’economia, ecc) sono troppo importanti per lasciarle solo agli specialisti.

Con la rivoluzione che ha interessato la comunicazione, si può dire che in parte il blogging abbia soppiantato o quantomeno affiancato la forma tradizionale del giornalismo. Quali sono secondo lei le sostanziali differenze?

Sicuramente il blogging si è affiancato al giornalismo tradizionale, ma non può (o perlomeno, non dovrebbe) soppiantarlo. Il blogging ha reso possibile ai giornalisti stessi di scrivere in maniera più libera e flessibile, ed ha anche portato più accademici a scrivere direttamente per il pubblico. Ma il blogging è sostanzialmente una forma di commento editoriale, non una fonte di notizie. I bloggisti semplicemente non hanno le risorse (e spesso le competenze) per fare, per esempio, giornalismo investigativo, o anche semplicemente per produrre buoni pezzi di cronaca, informati da fatti, non dicerie. Quindi mi auguro che il giornalismo superi presto la sua crisi attuale e trovi un modo di trasformarsi e di crescere, ma senza essere rimpiazzato dai social media. Se lo fosse penso sarebbe una catastrofe per la democrazia.

Lei è anche il fondatore del blog How to be a Stoic, un’interessante guida pratica su come affrontare la vita quotidiana attraverso il sapiente approccio della filosofia stoica. Nel blog si evidenzia l’importanza per la filosofia di conciliare la vita pratica alla ricerca teoretica, aspetto che la lezione degli stoici sembra privilegiare. Come descriverebbe uno stoico “moderno”?

Sì, ho anche scritto un libro con lo stesso titolo, che sarà pubblicato in primavera da Garzanti. Gli Stoici erano filosofi pratici, per loro la teoria è importante solo se guida la pratica in maniera effettiva, altrimenti si tratta solo di disquisizioni “accademiche”, nel senso peggiorativo della parola. Uno Stoico moderno cerca di assorbire e di mettere in pratica le lezioni impartite due millenni orsono, tra gli altri, da Seneca, Epitteto e Marco Aurelio. Due sono i principi fondamentali: primo, ci si deve continuamente chiedere se una cosa è sotto il nostro controllo oppure no. Se lo è, allora vi si dedica tutta la nostra attenzione per farla al nostro meglio; se non lo è, allora smettiamo di preoccuparcene. Per Epitteto, le uniche cose veramente sotto il nostro controllo sono i nostri valori, i nostri giudizi, e le nostre azioni. Di quelli e solo di quelli siamo veramente responsabili. Secondo, lo Stoico moderno – come del resto quello antico – cerca di applicare in ogni circostanza le quattro virtù cardinali: prudenza (nel senso di imparare a navigare situazioni difficili), coraggio (non solo fisico, ma soprattutto morale), temperanza (quindi auto-controllo, specialmente nell’evitare eccessi), e giustizia (nel senso di trattare tutti in modo equo). Sembra facile, ma non lo è. Le faccio un esempio che illustra il tutto: mantenere una relazione positiva e di crescita con il proprio partner richiede prudenza (è complicato…), coraggio (alle volte bisogna esprimere delle opinioni che non saranno bene accette), temperanza (per esempio per non perdere la pazienza in situazioni difficili), e giustizia (il mio partner è un essere umano con gli stessi diritti e dignità che vorrei fossero accordati a me). Ma il mantenere la relazione, alla fin fine, non è (interamente) sotto il mio controllo, perché dipende anche dal mio partner e da circostanze esterne. Ciò che è sotto il mio controllo, però, è la volontà di comportarmi al meglio possibile nell’ambito della nostra relazione. Solo quest’ultimo, quindi, dovrebbe essere il mio obiettivo come Stoico.

Nel corso della sua carriera accademica un tema centrale delle sue ricerche è stato il rapporto tra l’approccio scientifico e la fede. La sua posizione a riguardo si distingue nettamente dal movimento del New Atheism, che lei ha più volte criticato, definendolo un approccio “scientista”. Ci può spiegare brevemente come intende il rapporto tra fede e ragione scientifica?

Sono un ateo, e lo sono stato da quando facevo le scuole superiori. Ciononostante, vi sono molti scienziati che non trovano la loro fede incompatibile con la loro pratica scientifica, e quello che trovo bizzarro nei New Atheists è la loro insistenza quasi dogmatica che l’ateismo in qualche maniera “dimostra” il fatto che Dio non esiste. Il problema è che “Dio” è un concetto vago, che non si può mettere sotto il microscopio, e non ci sono dati scientifici che contraddicano concetti vaghi a mal definiti. Se si insiste, però, che la gente debba scegliere la scienza o la religione, perché le due sono incompatibili, non si rende un gran favore alla scienza. Ciò detto, non vedo ragioni (o evidenza) positive per credere, e non solo, secondo me ci sono ottimi argomenti filosofici per non credere; quindi considero la mia posizione di ateo perfettamente ragionevole. Se la situazione dovesse cambiare, in termini di ragioni o evidenza, allora cambierò idea.

Purtroppo nel pensiero comune la filosofia e la scienza sono ancora considerati rami diametralmente opposti, destinati a non incontrarsi. Anche scienziati e filosofi spesso rimangono trincerati dietro a posizioni dogmatiche che negano ogni tipo di collaborazione tra le due sfere. Nel corso della sua carriera si è occupato anche di filosofia della scienza, genetica e biologia. Qual è secondo lei una prospettiva utile per poter incrementare ed agevolare la ricerca e il dialogo tra scienza e filosofia?  

La mia carriera è iniziata come scienziato, in biologia evoluzionistica, e sono passato alla filosofia solo negli ultimi anni. Ha ragione, trovo molto strana questa antipatia reciproca tra scienziati e filosofi, che non ha né un senso da un punto di vista accademico, né riflette l’evoluzione storica delle due discipline (dopotutto la scienza era un ramo della filosofia fino al diciannovesimo secolo…). Il problema, comunque, non è universale. Ci sono diversi scienziati e filosofi che collaborano attivamente e pubblicano lavori comuni. E ci sono luminari della scienza per i quali la filosofia è importante per la formazione della mente scientifica. In una famosa lettera ad un suo amico, Einstein spiegò che uno scienziato senza cognizione della filosofia è semplicemente un tecnico, uno che si focalizza sugli alberi di fronte a lui ma non riesce a vedere l’intera foresta. Per essere giusti, però, di tanto in tanto sono i filosofi che se la cercano, visto che alcuni hanno scritto delle corbellerie sulla scienza senza evidentemente capirla, ma dandone dei giudizi sommari ben poco utili, anzi dannosi. È ora di superare questa situazione e di lavorare assieme per una visione più organica della conoscenza umana, quella che una volta si chiama “scientia”, cioè sapere nel senso più ampio della parola.

Carlin Romano, giornalista e docente di filosofia, nel saggio America The Philosophical descrive la cultura americana come estremamente ricettiva dal punto di vista filosofico. In base alla sua esperienza, lei è d’accordo con questa teoria? Come viene vissuta la filosofia negli Stati Uniti?

Romano si sbaglia di grosso. Il pubblico americano è uno dei più anti-intellettualistici del mondo occidentale. Io insegno filosofia alla City University di New York, e non le dico quante volte devo spiegare agli studenti perché vale la pena studiare la mia materia. Basti pensare alla seguente statistica: ci sono almeno quattro ottime riviste di divulgazione filosofica in lingua inglese. Tre vengono pubblicate in Gran Bretagna, una in Australia. Eppure la popolazione generale, ed il numero di filosofi professionisti, sono di gran lunga più grandi negli Stati Uniti. No, l’America ha molte cose di cui vantarsi, ma la ricettività filosofica del suo pubblico non è tra queste.

In questi ultimi anni si sta affermando sempre di più il legame tra formazione filosofica e il web 2.0. Basti pensare a personalità come Reid Hoffman, inventore di LinkedIn, o Peter Thiel, tra i fondatori di Facebook, hanno tutti in comune la stessa formazione accademica. Si può parlare secondo lei di un nuovo modo di “fare filosofia” che la rivoluzione digitale avrebbe introdotto?

Una delle ragioni per studiare filosofia all’università è che fornisce una preparazione rigorosa, soprattutto dal punto di vista del pensiero critico e del sapere scrivere in maniera logica e coerente – e queste sono abilità che aprono ampi spazi nel settore lavorativo (non lo dico solo per dire, ho controllato le statistiche: i laureati in filosofia negli Stati Uniti trovano lavoro facilmente e guadagnano bene). Il che spiega perché, per esempio, compagnie come Google o il network televisivo ABC impiegano filosofi ad alti livelli nei loro organici. Ma è anche vero, come dice lei, che “fare filosofia” è divenuto più facile grazie alle nuove piattaforme mediatiche. Per esempio, prima si parlava di Stoicismo: la pagina Facebook del gruppo internazionale di Stoicismo annovera più di 18.000 utenti (ce n’è una anche esclusivamente in lingua italiana, mantenuta da me). Non solo, ma piattaforme come meetup.com rendono facile alle persone con interessi filosofici simili di trovarsi nella stessa città, di incontrarsi, discutere, fare amicizia. La rivoluzione digitale sta cambiando ogni aspetto della nostra vita, inclusa la nostra capacità di fare filosofia.

Come vede la filosofia accademica nel nostro Paese? Secondo lei si potrebbe o si dovrebbe cambiare qualcosa all’interno delle facoltà italiane di filosofia?

Onestamente, non ne so molto. Ho smesso di seguire da vicino l’ambiente accademico italiano dopo che, più di 25 anni fa, ho dovuto lasciarlo perché il nepotismo, la rigidità interna e la mancanza di fondi rendevano pressoché impossibile una carriera universitaria. Purtroppo ancora oggi il consiglio migliore che posso dare a un giovane italiano interessato alla scienza o alla filosofia è di andarsene da qualche altra parte.

Forse la filosofia è rimasta troppo a lungo confinata nelle facoltà accademiche, perdendo il rapporto, a mio avviso essenziale, con chi di filosofia non ha mai sentito parlare. Credo che la sfida sia tutta qui: se dovesse consigliare un libro a chi vuole avvicinarsi allo studio del pensiero, che libro sceglierebbe?

Uno solo? Difficile! Il libro che mi aprì il mondo della filosofia quando ero al liceo fu Storia della Filosofia Occidentale di Bertrand Russell, un capolavoro classico, scritto con verve e senso dell’umorismo. Vedo su Amazon che è ancora disponibile…

 

Lontano dagli stereotipi che la legano a uno statico passato, la filosofia ha davanti a sé infinite possibilità di contaminazione e dialogo con altre discipline. Dalla scienza alla comunicazione e alle nuove tecnologie, spetta a noi raccoglierne la sfida, riconoscendone l’importanza per la nostra cultura, con la fiducia che essa venga compresa anche da chi oggi sembra più refrattario ad ammettere l’imprescindibilità del pensiero umanistico.

Greta Esposito

L’inquietudine, la stanchezza che ci culla

La pioggia batte sul vetro della stanza e il sole pallido di una giornata fredda riesce a stento a incorniciare il grigiore del cielo di gennaio. Se riuscissi a isolare completamente dagli altri rumori della casa il suono delle gocce che si infrangono sulla superficie cristallina del vetro, potrei forse comporre il ritmo di una canzone. Un suono che rappresenta il ripetersi costante di una quotidianità fatta di giornate che sembrano tutte identiche, nessuna rivelazione, nessuna illuminazione. Ogni mattina le domande rimangono lì, le risposte sono lontane e c’è solo la coscienza di non poterle mai raggiungere. Qual è il vostro rapporto con la realtà che vi circonda da quando vi svegliate a quando andate a dormire? Ho pensato che forse sono proprio quelle domande a muovere ogni mio sentire e che rappresentano in parte ciò che sono. Ho fatto spesso fatica ad accettarle e a volte convivere con loro ha creato un peso e una fatica che quasi non facevano respirare, procurandomi una vertigine interiore difficile da decifrare. In qualsiasi momento del giorno o della notte loro sono lì, si modificano negli anni, restando però pur sempre una certezza, una traccia indelebile del tuo essere. Si finge, si dissimula, ci si copre di un’immagine “altra”, perché in fondo basta un sorriso per far contento chi mi circonda, mi sono sempre detta. Oggi senza presunzione riesco a intravedere le sfumature che si celano dietro al sorriso di un volto, perché ad ogni ruga che compone l’espressione appartiene un’ intensità diversa del vivere.

‘Idealista’, ‘sognatore’ o il più delle volte ‘illuso’, ti hanno cercato di definire in mille modi diversi, ma tu hai sempre provato una necessità impellente di dire la tua, cercando di farlo in punta di piedi, senza fare troppo rumore, non accontantendoti mai delle certezze che ti venivano offerte e riconsiderando i tuoi stessi desideri a distanza di anni. Spesso questo movimento che parte dal pensiero e attraversa tutto il corpo, questo cercare incessante sembra quasi una ‘rincorsa’ infinita. Tante volte avresti voluto che quella sensazione di incertezza ti abbandonasse per un po’, perché sentivi solo peso e stanchezza. Sono ciò che comunemente definiamo ‘punti fermi’ a garantire una certa stabilità psicologica, ma proprio quando sentivi di averne bisogno realizzavi che non ti bastavano quasi mai, ti stavano troppo stretti, rendendoti vuoto, spento e inautentico. Oggi si guarda l’inquietudine come qualcosa da cui fuggire, una condizione interiore di cui aver paura. È proprio quel bisogno di ridefinire costantemente ciò che si è, invece, che conduce a un’apertura oltre i limiti dei sentieri noti. Forse anche tu ti sei spesso scontrato con chi crede invece che questa ricerca sia futile, perché le risposte ci sono già tutte, o chi invece non ha mai neanche sperimentato il tamburellare incessante di quelle domande. La poetessa Szymborska in C’è chi tratteggia una personalità che tutti abbiamo conosciuto almeno una volta nella vita: 

C’è chi meglio degli altri realizza la sua vita.
È tutto in ordine dentro e attorno a lui.
Per ogni cosa ha metodi e risposte.
È lesto a indovinare il chi il come il dove e a quale scopo.
Appone il timbro a verità assolute,
getta i fatti superflui nel tritadocumenti,
e le persone ignote dentro appositi schedari.
Pensa quel tanto che serve,
non un attimo in più, perché dietro quell’attimo sta in agguato il dubbio.
E quando è licenziato dalla vita,
lascia la postazione dalla porta prescritta.
A volte un po’ lo invidio
per fortuna mi passa
1.

Perfettamente integrato nel sistema e nella vita che conduce, il più delle volte è talmente sicuro di se stesso che appare estremamente invincibile, così intoccabile che niente può scalfirlo. È proprio questa corazza, la presunzione del non dover essere fragile, dell’apparire sempre ‘tutto d’un pezzo’, è ciò che spesso mi ha allontanato da persone così. Senza che razionalmente me ne rendessi conto, inevitabilmente finivo per perderle. Chi crede di aver in mano la ‘verità’, chi ancora prima di aprirsi all’interiorità dell’altro, confronta, disprezza e giudica. Un’armonia interiore soltanto apparente e ostentata, con la presunzione di riuscire a controllare ogni accadimento fuori e dentro di sé. Questo elogio è soprattutto per loro, perché la dimensione umana è ciò che più si allontana dall’ordine e ciò che si cela dietro a un apparente equilibrio è il più delle volte un baratro interiore, un vuoto nascosto che non si vuole riempire. L’inquietudine esistenziale forse non si può comprendere, ma non si può reprimere, perché è quel movimento che rivela il limite della dimensione umana e la costante spinta dell’uomo verso il suo superamento, l’apertura alla Trascendenza.

Greta Esposito

NOTE:
W. Szymborska, C’è chi, tratto dalla raccolta postuma “Basta così”, 2012

[Immagine tratta da Google Immagini]

Il desiderio eclissato

Analizzare un tema come quello della pornografia e del suo rapporto con la sessualità non è cosa semplice. È necessario valutare attentamente le sfumature intrinseche a questo fenomeno, cercando di non cadere in facili semplificazioni e moralizzazioni che possono banalizzare un tema che si rivela di estrema complessità.

In che modo la pornografia si rapporta alla sessualità e che cosa la distingue dall’erotismo? La soggettività, l’individualità e il corpo come si presentano nella rappresentazione pornografica?

Spesso si crede che la pornografia sia una sorta di ‘erotismo’ più crudo ed esplicito, mentre tra le due forme di rappresentazione non solo c’è una netta differenza, ma una nega ciò che l’altra afferma. È la sessualità che entra in gioco in modo diverso nelle due forme di rappresentazione.

Michela Marzano ha sottolineato molto bene questo aspetto:

«L’oggetto dell’erotismo è il corpo erogeno: il corpo nel suo insieme in cui si concretizza il desiderio; il corpo reale non riducibile a oggetto parziale di una soddisfazione pulsionale. Quello della pornografia è il corpo-oggetto parziale, un corpo parcellizzato e privo di unità»1.

Da una parte abbiamo un corpo che ha perso la propria integrità, un corpo che diventa quasi un automa, ‘svuotato’ di ogni significato, un ‘pezzo di carne’ che viene semplicemente riconosciuto per il suo utilizzo. Di questo corpo diventato oggetto ci si concentra su singole parti e funzioni organiche, quelle che entrano in scena nella pornografia. In quest’ultima, la sessualità non appare più come un incontro, essa non riconosce la soggettività dell’altro.

Quel che è importante riconoscere e che rappresenta l’aspetto che spesso viene frainteso, è che non si tratta di considerare l’erotismo come una forma ‘dolce’ di sessualità e la pornografia, semplicemente perché più esplicita, come una forma brutale di rappresentazione dell’atto sessuale. Nessuno nega, infatti, quanto la sessualità possa avere di oscuro e violento. Pulsione istintuale e piacere si possono e si devono poter esprimere liberamente, attraverso forme molteplici e diverse. Tuttavia, nell’incontro sessuale la soggettività rimane integra, come qualcosa che non si può annientare, ma al contrario è ciò che più rende autentico l’incontro erotico.

La sessualità si fonda proprio sul pieno riconoscimento di due soggettività che si fronteggiano, che si scoprono nella loro nudità e nella loro fragilità, rivelando e nascondendo al tempo stesso. La pornografia, invece, lungi dall’essere semplicemente una descrizione esplicita dell’atto sessuale, non ha più nulla a che fare con l’incontro e con ciò che è alla base di questo, ovvero il desiderio.

Georges Bataille descrive così l’incontro sessuale:

«L’erotismo dell’ uomo differisce dalla sessualità animale, in quanto mette in questione la vita interiore. L’erotismo è nella coscienza dell’uomo, ciò che mette il suo essere in questione»2.

Nell’incontro sessuale, infatti, vi è sempre uno scarto che permane e che non può essere mai eliminato del tutto: incontro e sperimento attraverso i sensi l’alterità, ma quest’ultima non potrà mai essermi data una volta per tutte e in modo definitivo. È proprio questo che rende la sessualità una scoperta e una ricerca continua dell’altro e che fonda il ‘desiderio’, ciò che mi permette di non distruggere la soggettività che mi sta di fronte rendendola da soggetto semplicemente mera oggettualità a mio uso e consumo.

«La condanna a morte del desiderio messa in atto nella pornografia è perfettamente simboleggiata dall’occultamento del viso»3. Il viso è ciò che più rappresenta la soggettività e l’identità di un essere umano. Anche se nella pornografia la rappresentazione del viso non è completamente assente, è il significato della sua raffigurazione che si modifica. Il viso diventa una parte come un’altra di quel corpo ‘parcellizzato’, reso macchina, una ‘maschera’ che non possiede più caratteristiche umane.

Anche lo spazio e il tempo vengono completamente stravolti nella pornografia. Atti per lo più meccanici e figure stereotipate danno vita a una rappresentazione asettica, fatta di gesti a cui non appartiene più alcun significato e che sono lontani da tutto ciò che di vivo appartiene all’incontro sessuale.

Siamo così sicuri che la pornografia sia una forma ‘liberatoria’ di rappresentazione della sessualità? Non rappresenta piuttosto l’ennesimo riflesso di una società basata sul modello commerciale della transazione e dell’utilizzo che ha fagocitato anche quell’intimità e quel mistero che caratterizzano la sessualità come uno degli aspetti più affascinanti dell’interazione umana?

 

Greta Esposito

 

NOTE
1. M. Marzano, La fine del desiderio, p. 12
2. Georges Bataille, L’erotismo, p. 29
3. M. Marzano, La fine del desiderio, p. 37.

 

[Immagine tratta da Google Immagini]

banner-pubblicitario-La chiave di Sophia N6

I ricordi, combustibile per la vita

Un giorno di maggio un amico mi disse che avevo gli occhi di una persona che non riesce a fare i conti con il proprio passato. Scrutandomi davanti a una tazza di chai bollente, riuscì a intravedere nei miei silenzi tutta la difficoltà che provavo nell’accettare una scelta presa qualche tempo prima. In effetti ho sempre avuto un pessimo rapporto con il passato. In genere sono i ricordi felici a procurarmi più guai. In qualsiasi momento, qualcosa attorno può risvegliare l’immaginazione e riportarti indietro nel tempo, non importa se è un angolo della tua città che avevi dimenticato o una canzone che passa nel tuo bar di fiducia. Anche un odore può risvegliare l’immagine di una persona che hai perso, facendoti rivivere la sua gestualità e l’espressione tipica di quel volto.  A chi non capita di richiamare alla mente i luoghi dell’ infanzia? È così che ti ritrovi a sognare ad occhi aperti, trasportato lì dove si è formato un frammento impercettibile della tua “esperienza”.

Come convivere con i ricordi senza rimanerne schiacciato? Il passato non si controlla più, i “cosa sarebbe successo se” non hanno alcun senso per la nostra esistenza. Vivere nella nostalgia, rincorrendo continuamente gli spettri del passato è semplicemente inutile, perché l’unica cosa che è veramente in tuo potere è il presente. È proprio la dimensione del presente l’unica su cui si può agire ed è proprio su questa che è necessario concentrarsi.

Ogni anno l’autunno rappresenta per me una sfida, perché ha la capacità di portare con sé il carico del passato, ma anche le possibilità infinite del cambiamento. Forse è proprio quando ti senti schiacciato dalla nostalgia che riesci a scavare così a fondo da ritrovare ben presto l’energia per risalire e proseguire il percorso interrotto. Non è sforzandosi di cancellare un’esperienza dalla propria memoria che si ritrova la serenità, ma è solo trasformando l’effetto che quella determinata esperienza ha sulla propria emotività. Il ricordo, infatti, ha un’importanza fondamentale per la nostra crescita, dal momento che permette di ritornare con la mente alle esperienze del passato, ma non per cercare di modificare ciò che ormai è accaduto, ma per poter intervenire in modo positivo su ciò che ancora deve accadere. In After dark Korogi riflette proprio sul ricordo: «Per la gente, i ricordi sono solo un combustibile per alimentare la vita. Che un ricordo sia importante o meno, in pratica fa lo stesso, è soltanto combustibile. La vita va avanti comunque. Un foglio di giornale, un libro di filosofia, una stampa erotica, una mazzetta di biglietti da diecimila… è uguale, quando finiscono nel vuoto, diventano semplici fogli di carta. Non è che il foglio mentre brucia pensa “toh, questo è Kant” o “ecco l’edizione serale dello Yomiuri Shinbun”, oppure “ma guarda che belle tette!”. Per il fuoco sono soltanto fogli di carta, niente di più. Bè, con i ricordi è la stessa cosa. Quelli importanti, quelli così così, quelli completamente inutili, sono solo combustibile, tutti quanti senza distinzione. […] E se per caso io quel combustibile non ce l’avessi, se il cassetto dei ricordi dentro di me non esistesse, penso che già da un bel po’ sarei stata spezzata in due di netto. Sarei morta sul ciglio della strada, raggomitolata in qualche miserabile buco. Che si tratti di cose importanti o di cavolate, è perché riesco a pescare nel cassetto tanti ricordi, uno dopo l’altro, che posso continuare a modo mio a tirare avanti, anche se questa esistenza mi sembra un brutto sogno. Quando penso di non farcela più, quando sto per gettare la spugna, in qualche modo riesco sempre a venirne fuori».

É impossibile farne a meno, perché sono proprio i frammenti di vita passata ciò che costruisce la nostra personalità e ci rende unici e insostituibili. Ogni esperienza, anche quella più dolorosa, quella che vorremmo cancellare in tutti i modi dal nostro vissuto, ha contribuito a renderci ciò che siamo. Quel che importante è non rimanerne aggrappati. Riuscire a destreggiarsi con libertà fra le immagini della memoria, giocando con i pensieri per poi lasciarli andare. Il presente non può diventare una copia sbiadita di ciò che è stato. «Suddenly I’m not half the man I used to be. There’s a shadow hanging over me. Oh, yesterday came suddenly», cantavano i Beatles. Anche quando non accetti ciò che ti circonda, quando senti che gli eventi ti hanno reso diverso da com’eri, così mutato da riconoscerti a stento, devi avere la forza e la lucidità di pensare che non è tutto perso. Il passato non è qualcosa da dover rimpiangere inevitabilmente, ma ciò che puoi lasciarti alle spalle con serenità. Il futuro non devi rincorrerlo a tutti i costi perché così “si fa” e non è nemmeno ciò da cui ti devi nascondere. Il “si fa”, il “si dice” lascialo agli altri, tu non ti riparare nell’ombra, così non farai che alimentare ulteriormente le sofferenze dentro di te. Pensa semplicemente a vivere il presente, ciò che sempre meno “si fa”. Non è rassicurante come rifugiarsi in ciò che già conosci, ma è l’unica autentica realtà ed è soltanto vivendo pienamente l’oggi con le sue infinite possibilità che si può riscoprire la bellezza del ricordare, con una leggerezza che non immaginavi possibile.

Greta Esposito

[Immagine tratta da Google Immagini]

La cultura che unisce: il Festival della letteratura di Mantova

 

Dal sette all’undici settembre si è svolto il Festivaletteratura nella splendida cornice di Mantova, meravigliosa città rinascimentale riconosciuta dall’Unesco patrimonio mondiale dell’umanità ed eletta capitale italiana della cultura per il 2016. Il festival è giunto proprio quest’anno alla sua ventesima edizione, un traguardo prezioso per una delle manifestazioni culturali più importanti a livello nazionale.

La chiave di Sophia ha avuto l’occasione di partecipare e vivere da vicino gli incontri con gli autori e gli eventi presentati nelle suggestive piazze, palazzi e teatri del centro storico.

festival-letteratura-mantova-2Difficile scegliere tra i numerosi incontri proposti dal festival. La letteratura contemporanea (con ospiti italiani e stranieri), l’arte, la comunicazione, la scienza e la musica sono stati i protagonisti di cinque giorni magici, dove la cultura, la passione e il divertimento non sono mancati.

L’attenzione del Festival si è rivolta anche alla narrativa per ragazzi. Per avvicinare i più piccoli alla lettura, sono stati organizzati diversi eventi sparsi per la città: laboratori per i piccoli e incontri aperti ad adulti e bambini, dove le parole e le immagini si sono mescolate alla poesia e alla performance teatrale.

Ampio spazio dato anche ai diversi eventi a ingresso libero presenti nelle numerose piazze della città. Gli “accenti”, incontri gratuiti della durata di mezz’ora, hanno permesso al visitatore di continuare ad assaporare l’energia del festival tra uno spostamento e l’altro in attesa dell’evento successivo. Interessanti anche le “lavagne”, brevi lezioni che affrontando un argomento specifico hanno stimolato la curiosità e la voglia di approfondire tematiche spesso considerate “specialistiche”.

29547740191_2bb766751e_h

Ciò che ha reso speciale questa edizione del Festivaletteratura sono stati i grandi nomi della letteratura italiana e internazionale: dalla presentazione dell’ultimo libro di Erri De Luca all’evento dedicato ai quarant’anni dell’opera Bar Sport di Stefano Benni, passando attraverso le Lectures di Alessandro Baricco, grandi rappresentanti della cultura italiana si sono raccontati sul palco del festival, emozionando e dialogando con il pubblico. Presenti anche tanti ospiti stranieri, come Jonathan Coe e Jami Attenberg.

Anche l’arte ha avuto il suo spazio a Mantova: Oliviero Toscani e Stefano Boeri, solo per citare due nomi, il cinema e il teatro (Lella Costa e Nanni Moretti). Si sono incontrate sul palco del festival anche importanti personalità del giornalismo come Concita De Gregorio e della politica come Alec Ross e Stefano Rodotà.

Nelle cinque giornate del festival si sono susseguiti anche diversi incontri legati al tema dell’ambiente e della sostenibilità che hanno visto la partecipazione di specialisti come Chiara Deligia, portavoce dellla Divisione Nutrizione e Sistemi Alimentari della FAO e Carlo Petrini, fondatore di Slow Food.

foto festival

Allora cosa rimane di questo festival? Rimane la sorpresa nel vedere le piazze gremite di lettori e le file interminabili per assistere alle presentazione degli autori. La speranza nell’incontrare tantissimi giovani interessati a partecipare come volontari a manifestazioni culturali come queste. La gioia della condivisione, la libertà di poter chiacchierare dell’ultimo libro letto con una persona che non conosci, ma che è lì seduta accanto a te e che condivide con te la stessa passione. Rimane la gioia nel vedere la commozione negli occhi di chi stringe la mano al proprio autore preferito.

Alla Chiave di Sophia resta la grande soddisfazione di aver partecipato e incontrato alcuni dei protagonisti di questo festival, ma non solo. Ritorniamo a casa con la consapevolezza che si deve e si può fare di più in questo paese. Al di là delle statistiche e dei numeri che ci ricordano che i lettori sono sempre meno e che gli analfabeti funzionali sono sempre di più, rimane la speranza che in un futuro tutto ciò possa cambiare. Investire nella cultura e nell’educazione è forse l’unico modo che abbiamo per crescere liberi e consapevoli, pronti di fronte a ciò che la vita e la realtà ci riserva. Leggere non è soltanto un modo per evadere dalla realtà attraverso il potere creativo dell’immaginazione, ma è l’unico modo autentico per imparare ad affrontarla. É un atto di coraggio, una presa di posizione forte e chiara:

«Ogni lettura diventa un atto di resistenza. Di resistenza a cosa? A tutte le contingenze» (D. Pennac, Come un romanzo, 1992).

Greta Esposito

La luce che non si spegne mai

É un pomeriggio di agosto e il centro città è deserto. Le uniche forme di vita rimaste sembrano essere i piccioni che cercano riparo all’ombra dei portici. Due signore alla fermata del tram si guardano attorno con aria stanca, limitandosi a scuotere la testa dopo aver consultato il tabellone degli orari estivi. C’è un silenzio particolare camminando per le strade di una cittadina abbandonata, si respira un senso di quiete e una strana malinconia, come se all’improvviso il tempo si fosse fermato. Forse anche la città sta cercando di ritrovare se stessa, lontano dal frastuono e dal caos che la logora durante l’anno.

There is a light that never goes out degli Smiths risuona nelle mie cuffie. Penso al testo della canzone, tragico e struggente, non riesco a smettere di canticchiarlo. Mi sembra di vedere la scena: una sera, una macchina, due giovani senza una meta precisa. Lei al volante, lui seduto accanto con lo sguardo rivolto verso il finestrino. Take me out tonight / because I want to see people / and I want to see life / driving in your car / oh, please don’t drop me home / because it’s not my home, it’s their home / and I’m welcome no more. Guardando la realtà che “fugge” davanti al finestrino di quell’auto, l’unica emozione che riesce a provare è un senso di smarrimento e inquietudine, una paura paralizzante. Vuole vedere luci, sentire voci e persone, perché solo questo può allontanarlo dal buio della disperazione e farlo sentire vivo, ora che è solo veramente.

Lei guida silenziosamente, forse chissà, di tanto in tanto lo osserva con la coda dell’occhio. Lui vorrebbe parlare, esprimere con parole i propri sentimenti, ma non esce neanche una sillaba dalla sua bocca. Sono le emozioni a prendere il sopravvento, il corpo non risponde più. È difficile tradurre i nostri vissuti interiori attraverso il linguaggio, soprattutto l’amore si rivela per sua natura carico di mistero e per questo difficilmente comunicabile. And if a double-decker bus / Crashes into us/ To die by your side / Is such a heavenly way to die / And if a ten-ton truck / Kills the both of us/ To die by your side / Well, the pleasure, the privilege is mine. Questa strofa mi lascia perplessa ogni volta che la sento. Morrissey, non starai esagerando? Eccolo qui, il binomio che percorre tutta la storia del pensiero e della letteratura occidentale, paura e morte, romanticamente uniti come sempre. La forza sovversiva e distruttiva dell’amore fa da sfondo a questo struggente ritornello.

Mi tornano alla mente le parole di Kierkegaard: «Quando si ama non si frequentano le strade maestre […] Quando si ama e si vuole cacciare il capo dal proprio guscio, non ci si avvia dalle parti del lago; sebbene sia soltanto una strada di passaggio, è tuttavia battuta e l’amore preferisce aprirsi da sé le sue strade»1. La passione erotica può essere considerata come una delle poche esperienze in grado di rimettere in discussione le proprie credenze e i propri punti di riferimento, poiché colloca l’innamorato in una dimensione esistenziale e psicologica “nuova”, fino ad allora sconosciuta. Aldo Carotenuto la descrive come un’ “alterazione”, una specie di squilibrio che ci assale quando Eros viene a farci visita e che da molte culture è stato associato al senso di morte. Ci lacera, ci impone una perdita improvvisa di tutto ciò che costituiva il nostro guscio esistenziale, ma è proprio grazie a questa profonda ferita che l’innamorato recupera aspetti vitali della propria individualità, rimasti sommersi fino a quel momento.

È questo stato di squilibrio e incertezza a fare più paura ed è ciò dal quale tentiamo in tutti i modi di difenderci. Nel momento in cui il desiderio entra nella nostra vita, la realtà stessa muta attorno a noi. Diventiamo vulnerabili e sentiamo un vero e proprio bisogno della persona amata, perché l’amato diventa l’unica presenza veramente significativa per noi. Nell’incontro con la persona amata, ciò che ci attrae e ci rapisce non è semplicemente l’individualità che ci sta davanti con i suoi gesti, le sue forme e la sua voce, ma è l’idea, già presente nella nostra interiorità che solo lei ha saputo evocare e portare alla luce. «L’emergere prepotente del nostro immaginario, grazie all’altro, a un unico altro, spiega il motivo per cui nella relazione amorosa nessuno sia intercambiabile. Infatti solo quella specifica persona riesce ad attivare nell’amante questo meccanismo, a portare di colpo alla luce la sua dimensione sepolta»2.

Vi è un legame indissolubile tra l’amore e la sofferenza. La paura è un aspetto essenziale di questa affinità. Paura di cosa, precisamente?

È la paura di saltare il precipizio, di inoltrarsi in una strada che non si conosce, dove nulla è definibile e stabile e proprio per questo lì è difficoltoso orientarsi. Non solo la realtà che circonda l’innamorato è mutata, ma questo cambiamento ha provocato sul piano emotivo una paura irrefrenabile nei confronti di una situazione ignota.

Take me out tonight / take me anywhere / I don’t care, I don’t care, I don’t care / And in the darkened underpass / I thought, Oh, God, my chance has come at last / But then a strange fear gripped me / And I just couldn’t ask. Lui per un attimo ha pensato fosse arrivato il momento giusto. Forse in quel sottopassaggio, nel bel mezzo dell’oscurità, poteva riuscire ad aprirsi a lei, esternando le proprie emozioni. É proprio in quell’istante invece che compare quella “strana paura” e gli spezza la voce ancora una volta. É forse la paura del rifiuto, di poter fallire, spingendosi lì dove non ci sono certezze rassicuranti e dove è sempre possibile perdersi. La natura del desiderio erotico è contraddittoria: rapiti dal bisogno di incontrare l’altro e lasciarsi scoprire dall’amato, avvertiamo sempre al tempo stesso un timore che non ci abbandona mai e che rappresenta l’altro volto di Eros. «Possiamo dire che l’amore e la paura vanno sempre insieme perché hanno la primitività di ciò che non si conosce, perché coinvolgono livelli molto elementari, non sono saliti al vaglio della razionalità: ci prendono, ne siamo dominati»3.

Ogni volta che abbiamo la sensazione che chi amiamo ci sfugga, percepiamo quel timore che tuttavia è proprio ciò che ci permette di continuare a ricercare, a scoprire le profondità dell’altro, interpretando costantemente i segni che l’amato porta con sé. Questo movimento infinito di “interpretazione” dell’altro, è ciò che ci rende consapevoli della nostra esistenza, dal momento che solo trasgredendo quella voce interiore che mi mette in guardia dai pericoli di un cammino non ancora percorso, ricevo quella spinta vitale che mi consente di crescere, diventando pienamente consapevole della mia interiorità.

Ogni autentica esperienza amorosa si lega inevitabilmente all’assenza, dal momento che il desiderio si fonda sulla mancanza e per questo è per definizione insoddisfatto. Quando si ama si sperimenta l’illusione di eternità che il sentimento d’amore porta con sé e l’inevitabile provvisorietà di ciò che si è conquistato.

È proprio la natura contraddittoria del desiderio a generare la dialettica assenza – presenza: «[…] la dimensione amorosa che attraversiamo è sempre un’esperienza di assenza, e l’assenza ha a che fare con la nostalgia»4.

Sembra esserci una forza infinita che ci spinge, ma tutto ciò a cui riusciamo ad aggrapparci e ad afferrare presenta inevitabilmente i caratteri della provvisorietà e del limite. Cercare di spiegare a parole le contraddizioni e la sofferenza che l’esperienza amorosa porta con sé si rivela un’impresa difficoltosa e forse fallimentare, dal momento che è più facile sperimentare sulla propria pelle ciò che ho tentato di descrivere.

Una cosa è certa, quando amiamo tutti desideriamo che gli attimi trascorsi con la persona amata non si esauriscano mai. Probabilmente è solo nell’amore che si sperimenta la dimensione dell’eternità, l’illusione che quella luce possa non spegnersi mai.

Greta Esposito

NOTE:
1. Kierkegaard S., Diario di un seduttore, Rizzoli, Milano, 1955, p. 113;
2. Carotenuto A., Eros e pathos, Bompiani, 2014, p. 26;
3. Ivi, p. 36;
4. Ivi, p. 41.

[Immagine tratta da Google Immagini]

L’opera d’arte tra dono e commercializzazione

Mi ha sempre affascinato indagare la natura del rapporto che lega l’artista alla sua opera d’arte. In che modo un dipinto, una poesia o in generale un’opera “creata” come espressione dell’immaginazione e della fantasia dell’artista può “entrare” all’interno del  mercato? Che tipo di trasformazione avviene se si decide di introdurre la passione che ogni attività artistica genera  all’interno di una società dominata dal valore di mercato?

Secondo lo scrittore Lewis Hyde l’opera d’arte condivide con il dono il carattere erotico.

La letteratura sul dono è vastissima: antropologi, filosofi e sociologi si sono interessati per lungo tempo alle dinamiche che si generano all’interno di società e comunità dove accanto  all’economia di mercato vige una forma di proprietà che non risponde a interessi “quantificabili”, quella del dono per l’appunto.

Per primo l’antropologo e studioso francese Marcel Mauss nel suo saggio Essai sur le don, utilizzando studi  condotti presso popoli delle isole del Pacifico, aveva sottolineato come il “dono” costituisse il collante necessario all’interno di queste culture, ciò che consentiva l’instaurarsi di relazioni, determinando in questo modo l’identità di ogni singola comunità.

Il dono all’interno di queste popolazioni acquisisce un carattere fondamentale, dal momento che è ciò su cui si regge la solidarietà e la reciprocità all’interno del gruppo. Mentre l’economia di mercato occidentale risulta completamente slegata da questioni etico-morali, in molte società “primitive” vi è quasi un’identificazione, per cui l’economia è strettamente connessa a legami di tipo affettivo e da relazioni personali.

Sembra delinearsi una dicotomia irrisolvibile: da una parte l’ homo oeconomicus, ossessionato dal guadagno, disposto a rispondere solo ai dettami di una ragione strumentale messa al servizio del proprio egoismo; dall’altra, “gli altri”, popoli lontani che attraverso il “dono” riescono a rispecchiare la propria individualità solo all’interno di una collettività, creando una reciprocità e un insieme di relazioni che anziché depotenziare ciascuna singolarità, la rendono ancora più preziosa.

Secondo Hyde, l’opera d’arte si distingue essenzialmente da una merce. Un dipinto, una poesia o qualsiasi prodotto d’arte partecipa contemporaneamente di “due economie”, l’economia di mercato e l’economia del dono. Tuttavia, ciò che l’autore sostiene è che mentre un’opera d’arte può essere tale senza “entrare” in un’economia di mercato, essa non può esistere se non partecipa all’economia del dono.

Che cos’è che distingue una merce, legata alla “commercializzazione”, dalla trasmissione di un dono? Il dono è qualcosa che ci viene “elargito” e che non possiamo ottenere attraverso lo sforzo o attraverso il denaro, ovvero «attraverso un atto di volontà»1. Un bene diventa una merce nel momento in cui possiede un valore di scambio e un valore di mercato, ovvero non ha un valore di per sé, ma ne assume uno solo nel momento in cui viene separato da chi lo “valuta” e confrontato con un’ altra merce, poiché solo in questo modo può essergli applicato un “prezzo”.

Il dono,  invece, introduce un altro tipo di valore legato alla capacità di creare e riprodurre relazioni sociali. In questo caso, non è tanto il bene in sé a risultare importante, quanto i legami che si creano con esso.

Proprio per questo Hyde parla di carattere “erotico” del dono, in contrapposizione alla razionalità che si esprime attraverso la circolazione delle merci all’interno dell’economia di mercato.

Ogni donazione è un gesto di apertura e di fiducia sociale nei confronti dell’altro. Come evidenzia già Mauss, ogni dono, infatti, necessita di un “controdono”, solo così è possibile non interrompere il cerchio di relazioni che questa forma di proprietà alimenta. Tuttavia, a differenza di uno scambio commerciale, la trasmissione del dono avviene senza alcuna forma coercitiva o contrattuale.

Avendo soltanto un valore d’uso (in contrapposizione alla merce che ha un valore di mercato), il dono per essere tale deve venir costantemente “consumato” attraverso il movimento, continuando a nutrire colui al quale viene donato. Nel momento in cui un dono si ferma e non viene ridonato a sua volta, viene tesaurizzato, perdendo la forma che lo caratterizza.

Quando un artista dà forma a un’opera d’arte, una parte di questa creazione è essa stessa un dono. Gli elementi che gravitano intorno all’attività artistica come il talento, l’intuizione e l’ispirazione possono essere  definiti “doni”, dal momento che è possibile svilupparli e coltivarli attraverso la volontà, ma compaiono inizialmente nell’animo dell’artista senza alcuno sforzo, attraverso un elemento di gratuità.

La natura di “dono” che l’opera d’arte esprime non si manifesta solo nell’animo di chi la crea. Quando la tela si allontana dal pittore e diventa oggetto di fruizione all’interno di un museo o di una galleria, essa, come espressione dei “doni” dell’artista, rivolgendosi al nostro animo può risvegliare anche i nostri stessi “doni”: «La creazione artistica che ci tocca, che commuove il cuore, vivifica l’anima, delizia i sensi o ci dà il coraggio di continuare a vivere, in qualunque modo vogliamo descrivere l’esperienza, viene ricevuta come si riceve un dono»2.

L’artista contemporaneo, quindi, si trova in tensione costante tra la sfera del dono, a cui la sua arte appartiene e la commercializzazione all’interno del mercato, necessaria per la sua sussistenza. Ciò che Hyde cerca di sottolineare è che c’è sempre il rischio che l’arte come dono possa venire distrutta dal mercato, ma l’artista può e deve cercare in tutti i modi di riconciliare le due economie.

Il mercato è espressione del logos, parte dello spirito umano tanto quanto eros, per cui non si può eliminare, al massimo si può soltanto limitarne l’influsso. In che modo? Cercando entro certi limiti di vendere sul mercato ciò che abbiamo ricevuto come dono (l’opera d’arte) e utilizzare ciò che abbiamo guadagnato dalla vendita per incrementare la sfera del dono (cioè investirlo nella nostra arte).

Un artista che mira al successo attraverso il commercio delle sue opere, ma senza perdere i suoi doni, ovvero senza venire meno all’autenticità della sua arte, non deve partire dal mercato (ovvero la sua creazione non deve semplicemente rispondere alle esigenze del mercato e della commercializzazione), ma può partire solo dalla sfera del dono in cui si compie l’opera, per poi tentare di trasferirsi all’interno dell’altra economia. Solo in questo modo l’arte può rimanere legata alla dimensione erotica del “dono”, l’unica sfera che per Hyde rende l’arte propriamente tale.

 

Greta Esposito

 

NOTE
1. L. Hyde, Il dono. Immaginazione e vita erotica della proprietà, p. 13.
2. Ivi, p. 14.

[Immagine tratta da www.artenatura.altervista.org]

banner-pubblicitario_abbonamento-2018