Clima, ecoansia e bias cognitivi: intervista a Luca Mercalli

Ciò che sta accadendo in Emilia Romagna è certamente tragico, ma è una conseguenza di una serie di azioni e inazioni umane che a livello collettivo dobbiamo deciderci ad affrontare se vogliamo davvero evitare che si ripetano, se vogliamo davvero dare dignità e valore al dolore e alla disperazione che stanno attraversando le persone colpite da questo evento estremo causato dalla crisi climatica. Alle persone che hanno perso la vita o che hanno perso la casa, la macchina e degli affetti dobbiamo almeno questo: la presa di coscienza della verità e una concreta azione conseguente.

Proprio su questi temi abbiamo recentemente dialogato con Luca Mercalli, meteorologo e climatologo, presidente della Società Meteorologica Italiana, responsabile dell’Osservatorio Meteorologico del Real Collegio Carlo Alberto di Moncalieri e docente in varie università. È direttore della rivista “Nimbus” e collabora con testate giornalistiche come “Il fatto quotidiano”. La sua attività di divulgazione scientifica l’ha portato alla pubblicazione di molti libri, ad essere ospite assiduo del programma RAI di Fabio Fazio Che tempo che fa e conduttore di un suo programma, Scala Mercalli, andato in onda nel 2015-16 su RAI 3.

 

Giorgia Favero – Ondate di caldo in febbraio e poi ritorno repentino del freddo, improvvisi e continui temporali e poi ritorno a settimane di calma piatta e arida; “bombe” d’acqua e siccità, caldo e freddo accostati come sulle montagne russe. È facile a volte per i giornali titolare con l’espressione ormai classica “meteo pazzo”: ma non sarà che, più che il meteo, siamo noi i pazzi?

Luca Mercalli – Certamente è una definizione anche un po’ di tradizione storica: “il tempo è impazzito” lo si diceva anche prima del riscaldamento globale nei momenti in cui si verificavano fenomeni anomali. Questo andava bene finché si trattava di essere spettatori di una variabilità naturale: la nostra vita è breve – soprattutto in un tempo passato in cui non c’erano osservazioni satellitari e banche dati – quindi è chiaro che la memoria storica di una vita poteva essere al massimo di un secolo e di conseguenza riscontrare anomalie che ogni tanto si ripetono giustificava quest’espressione: il tempo è pazzo. Oggi sappiamo che oltre che alla normale variabilità del tempo per motivi naturali – che ci sta per motivi naturali –, si è sovrapposta una variazione nuova indotta dalle attività umane: il riscaldamento globale. Direi quindi che ci dovremmo interrogare sulle sue cause, e questo significa prendere coscienza del danno che le attività umane stanno compiendo su tutti i processi che governano il pianeta, non solo sul tempo atmosferico. Certamente le attività umane cambiano il clima, ma cambiano purtroppo anche tutti gli altri processi che governano la natura: la perdita di biodiversità, l’inquinamento, la plastica negli oceani, la cementificazione, la deforestazione… sono tutti fenomeni che poi si traducono in cambiamenti irreversibili che portano effettivamente a qualcosa di nuovo sotto il sole rispetto a queste definizioni di “meteo pazzo” che potevano andare bene come battuta fino a un secolo fa, oggi sono da analizzare con maggiore responsabilità individuale. Adesso infatti abbiamo una parte di responsabilità relativamente a questa pazzia, e si chiama Antropocene

 

GF – Nella sua duratura e preziosa attività di divulgazione relativa al cambiamento climatico, ha parlato più volte di bias cognitivi che ci ingabbiano puntualmente nella sottovalutazione dei rischi, dunque una vera e propria distorsione nella nostra capacità di ragionare di fronte a una situazione. Quali sono questi bias cui accenna?

Luca Mercalli – Ci sono due elementi quando parliamo di clima che ci allontanano dalla presa di coscienza: uno è legato al fatto che dei cambiamenti climatici cominciamo a vedere i sintomi ma i danni peggiori li vedranno probabilmente le generazioni più giovani, coloro che verranno dopo di noi. Come sempre, quando c’è un rischio a lungo termine, proprio la fenomenologia del comportamento umano è quello di rimuoverlo. Lo vedo spesso anche in situazioni più semplici, banali e individuali, come quella del fumatore. Chi fuma, anche se avvertito dall’impatto che il fumo ha sui polmoni, tende a ignorare questa prevenzione perché il momento nel quale sperimenterà il danno sanitario è molto lontano nel tempo. Con il clima è ancora peggio perché i tempi possono essere più lontani ancora rispetto alla possibile formazione di un tumore per un fumatore e il clima è anche più astratto rispetto al fumo. Se già il malanno da fumo non convince il fumatore a smettere di fumare, pur essendo un danno su se stesso, a maggior ragione il clima convince ancora meno a prendersi delle responsabilità perché è un danno fuori da se stessi.
Il secondo motivo è invece al contrario legato alla dimensione del problema. Il problema è così grande e così globale che spesso il bias cognitivo è un modo di rimuoverlo. È qualcosa di così fuori dalla mia portata che è meglio ignorare: lo ignoro così non ho un’ansia o una nuova responsabilità generata dal prenderne coscienza.
Questi sono i due grandi elementi che fanno sì che le persone o ignorano il problema, quindi ne sono indifferenti, o addirittura lo negano con grande veemenza. Pensiamo infatti al negazionismo climatico, è una forma di difesa interiore, o almeno per chi non lo fa per interessi economici: sappiamo benissimo che c’è anche un negazionismo mosso da una precisa difesa degli interessi di parte, ma ce n’è anche uno molto più banale che è legato al tentativo dell’individuo di rimuovere e allontanare da sé un’ansia.

 

GF – Sul versante opposto c’è anche chi la gravità della situazione l’ha compresa e non solo riesce a individuare la follia di uno stile di vita totalmente incurante del pericolo imminente – direi già presente – ma ha sviluppato quella che oggi chiamiamo “ecoansia”, un termine coniato attorno al 2009 ma accolto solo nel 2021 nel lessico dell’autorevole American Psychological Association. Ritiene che questo fenomeno, che oltretutto riguarda soprattutto la popolazione più giovane, sia destinato ad aumentare?

Luca Mercalli – Tenga presente che io studio il clima e non ho certamente le competenze e la conoscenza per giudicare con i mezzi di chi studia la psiche umana, anche se questi diventano via via dei temi che sto cercando anche io di comprendere. Posso solo osservare che l’ecoansia può essere di due tipi: c’è un’ecoansia paralizzante e una che invece promuove l’azione. Io penso che un po’ di ansia sia necessaria, perché se non ci rendiamo conto della dimensione enorme del problema che abbiamo davanti poi è anche facile non occuparsene. Se tutto è sotto controllo, se non appare grave come realmente è, io non prendo dei provvedimenti, perché è molto più facile pensare che ci sarà qualcun altro a risolvere questo problema, oppure pensare che non sia così grande e urgente da risolvere. Io credo che sia necessario un livello minimale di ansia e di preoccupazione che però non deve essere panico, non deve essere qualcosa che blocca o che produce depressione o disfattismo. Una via di mezzo. Quella che vivo su me stesso: anche io ho un’ecoansia ma diciamo che l’ho mutata in azione, nel compiere concretamente delle scelte che migliorino il mio bilancio ambientale. Se ho fatto l’isolamento termico della casa e ho messo i pannelli solari credo di aver fatto qualcosa di giusto e utile a me stesso e alla collettività, quindi ho anche diminuito la mia ecoansia, perché ho potuto trasformarla in un atto concreto. Ho comprato la macchina elettrica e la carico con i miei pannelli solari, ho installato una cisterna per la raccolta dell’acqua piovana (invece della piscina), non utilizzo più l’aereo, mangio meno carne. Queste sono le cose che sono alla portata di un individuo. Sull’ecoansia legata alle decisioni sbagliate dei leader mondiali non ci possiamo fare molto: non siamo eroi. La psicologia ci insegna anche che dobbiamo essere consapevoli pure dei nostri limiti, altrimenti ci facciamo sopraffare dall’impotenza. Io dico, la via di mezzo è: comincia a fare tu quello che puoi.

 

GF – Nel suo libro Non c’è più tempo. Come reagire agli allarmi ambientali (Einaudi, 2020) scrive che in una ipotetica realtà parallela in cui lei fosse il Presidente del Consiglio promuoverebbe «un grande sforzo di sintesi tra scienze dure e scienze umane, con un nuovo ruolo della filosofia». Quale dovrebbe essere questo ruolo?

Luca Mercalli – Proprio quello che abbiamo detto finora. Tutta la nostra conversazione di adesso mette insieme questi mondi. Io in fondo rappresento più il mondo delle scienze naturali, però, chiedo e mi piacerebbe, l’aiuto delle scienze umane. Mi piacerebbe parlare di queste cose con l’antropologo, con lo psicologo sociale, con il sociologo e con il filosofo e trovare insieme delle soluzioni.

 

Grazie davvero a Luca Mercalli per questa chiacchierata!

 

Giorgia Favero

 

[Photo credits Wikimedia Commons]

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I diritti al centro della vita. Intervista a Giovanna Donini

Giovanna Donini è una scrittrice e autrice televisiva teatrale, da anni impegnata nel dare voce ai diritti delle donne e delle persone LGBTQIA+. Ha co-fondato l’associazione Il filo di Simo, in onore di suo nipote Simone, con lo scopo di offrire supporto a chi sta vivendo un momento di difficoltà emotiva e alla sua famiglia. Tra pochi giorni sarà a Treviso in occasione del Q.Pido – Treviso Equality Festival, di cui sarà protagonista mercoledì 17 maggio alle 21 alla Loggia dei Cavalieri. Ne abbiamo approfittato per qualche domanda sul suo lavoro e sui suoi valori, tra cui appunto la difesa dei diritti e delle fragilità di ciascuno di noi.

 

Giorgia Favero – Giovanna, tra pochi giorni sei attesa nella tua Treviso per il Q.Pido – Treviso Equality Festival, un’iniziativa del Coordinamento LGBTE per sensibilizzare la cittadinanza sulle istanze della comunità LGBTQIA+. Sei stata ospite anche in altre edizioni: che cosa significa per te partecipare a queste iniziative e sostenere queste istanze?

Giovanna Donini – Per me partecipare a queste iniziative è necessario e molto importante. Sono lesbica e ho sempre cercato, a modo mio, di non sottrarmi mai all’attivismo, anzi ho sempre cercato di dare, attraverso la scrittura, il mio contributo perché credo che sia, soprattutto adesso, ma lo è sempre stato, fondamentale lottare per ottenere e difendere i diritti.

 

GF – Al festival porti il tuo spettacolo Ti lascio per riprendermi, tratto dall’omonimo libro pubblicato per Solferino con Andrea Midena. In effetti la parte della separazione è quella meno indagata di una relazione, nonostante ci sia moltissimo da dire, molti consigli da poter dare, e molti motivi per provare a riderci su. In una società che ancora innalza la relazione e la coppia a status sociale preferibile, cosa fare per contrastare lo stigma dell’esser single?

GD – Noi nel libro diciamo chiaramente che nella nostra società la felicità è concepita solo per due, anche quando vai al ristorante da sola ti dicono: “Sola?” come se dicessero “Sfigata!?”. Io credo che non sia così. Però passa sempre questo messaggio che se non hai qualcuno sei infelice, sei incompleto. Io invece penso che prima di tutto e tutti devi amare te e poi sperare di avere fortuna e incontrare la persona che ti piace a cui piaci. Senza accontentarti mai. 

 

GF – In qualità di autrice per teatro e televisione, anche per artisti come Teresa Mannino che portano a gran voce sul palco una visione femminista, quale ritieni siano i punti nevralgici del dibattito sulla parità di genere oggi e quali a tuo parere dovrebbero emergere maggiormente?

GD – Conviviamo negli stereotipi, nei limiti culturali di cui siamo anche portatori sani, conviviamo nel patriarcato che è un virus pericoloso che però si può e si deve combattere dialogando in libertà. E a proposito di dialogo e quindi di linguaggio, per me, ad esempio, il dibattito sul linguaggio più inclusivo e ampio è fondamentale. È necessario dare un nome a ogni cosa perché abbiamo bisogno di nominare la realtà per poterla raccontare. 

 

GF – Cultura e intrattenimento: due cose che nel pensiero comune (e anche nelle riflessioni dei legislatori di turno) sembrano non convivere, anche perché la cultura sembra qualcosa di elitario mentre l’intrattenimento è pensato per un gruppo più ampio e indistinto di persone. Qual è secondo te il giusto punto d’incontro?

GD – Io amo definire tutto quello che faccio, penso e scrivo molto “pop”, il che non significa solo popolare ma indica qualcosa che ha a che fare con la cultura, una cultura che però raggiunga tutt* o almeno tantissime persone. Per me è – o meglio dovrebbe sempre essere – PoP il punto di incontro tra cultura e intrattenimento. 

 

GF – Pochi mesi fa la città di Treviso, la Commissione comunale Pari Opportunità e la Consulta Femminile ti ha insignita del riconoscimento “Riflettore Donna”, sottolineando l’importante percorso professionale ma anche “per essere un’attiva testimone del ruolo determinante delle donne nella crescita della nostra Comunità”. Pensi che sia importante per un artista lavorare sul proprio ruolo sociale, cioè all’interno di una collettività?

GD – È stato per me un onore ricevere questo premio così importante. Penso che chiunque faccia un mestiere come il mio non possa mai dimenticare che arrivando a molte persone può lanciare messaggi e “muovere” pensieri che possono fare bene alla collettività. 

 

Giorgia Favero

 

[Immagine di copertina fornita da Giovanna Donini]

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Chi ha festeggiato il primo maggio?

Eravamo tutti e tutte così presi dal 25 aprile, cercando di capire chi come e cosa l’avrebbero festeggiato, che ci siamo quasi persi un’altra data in calendario degnissima di essere dibattuta: il primo maggio.

Come l’avete trascorso? Molte persone avranno fatto una gita fuori porta, visitato dei monumenti, fatto grigliate o pranzi in compagnia. Un intero sistema di festa che ha funzionato grazie al lavoro di milioni di persone che questo privilegio non l’hanno avuto. Tutti gli uffici e i luoghi di produzione erano chiusi, ma che dire delle strutture ricettive? Oggi i giornali cartacei non usciranno perché ieri non hanno lavorato, ma vale lo stesso per tutto il mondo del giornalismo online? Il trasporto pubblico locale in tanti contesti si è fermato, ma l’hanno fatto anche le tratte aeree e le ferrovie? La posta non è stata consegnata, la spazzatura non è stata ritirata, ma chi ha permesso le gite fuori porta, il pranzo fuori casa, l’intrattenimento? Per non parlare dei pronto soccorso e delle guardie mediche. E stendiamo un velo pietoso sul popolo delle partite IVA, per le quali né lo Stato né Dio possono fermare una produttività imposta da un sistema malato. Sorvoliamo anche sulle casalinghe (e i pochissimi casalinghi), il cui duro impegno giornaliero non è nemmeno degno di un riconoscimento economico basic, e tanti altri lavoratori e lavoratrici che non vi è spazio di citare.

Certo, non è che il mondo si possa fermare per un giorno. Giusto? Insomma, se uno cade dalle scale ha il sacrosanto diritto di avere un ospedale che lo accolga e che lo curi. Ma siamo proprio sicuri che tutti i servizi ieri aperti erano proprio necessari? I giorni rossi sul calendario oggi sono pause in una corsa frenetica verso un poco chiaro traguardo: un riposo necessario ma che meriterebbe anche un briciolo di riflessione. Quanto ci siamo accapigliati i giorni prima del 25 aprile sulla presenza o meno dell’antifascismo nella Costituzione, e quanto abbiamo poi festeggiato la Liberazione quando il fantomatico giorno è arrivato? E il primo maggio, quanto abbiamo approfittato in nome del nostro relax e della nostra festa delle persone che non hanno potuto godersi lo stesso diritto?

Questione annosa e spinosa quella del delicato equilibrio tra lavoro (dunque produttività, performance) e diritti all’interno di un sistema capitalista. Sicuramente sono stati fatti enormi passi avanti rispetto alla fine dell’Ottocento, periodo a cui risale l’istituzione di questa festività che unisce molti Paesi democratici del mondo. Ma quali voragini esistono tra quanto la stessa nostra Costituzione prevede, i sogni dei costituenti e delle costituenti scritti nero su bianco nel 1947! Le questioni su cui una rivoluzione culturale nel mondo del lavoro non è solo auspicabile ma anche necessaria sono infinite – benessere lavorativo, parità salariale, opportunità per i cittadini svantaggiati, lavoro in nero e caporalato, equilibrio tempo vita-lavoro, e potremmo andare avanti a lungo – ma soffermiamoci su una delle tante: quella femminile.

L’articolo 37 della Costituzione recita: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”. A che punto ci troviamo, a quasi 80 anni di distanza? I dati del 2022 ci mostrano un quadro italiano in cui il gender pay gap (la differenza di retribuzione lavorativa tra uomini e donne) è di circa il 20%1. In particolare il gap nella retribuzione oraria è del 5% ma sale fino al 18% in quella annua; sale anche quando si alza l’età della donna, il suo titolo di studio e il suo livello gerarchico, ed è anche più alto nei contratti a tempo indeterminato; senza contare che la percentuale di donne neet (cioè che non lavorano né studiano) è più elevata rispetto agli uomini (44,6% contro il 26,4%). A giustificazione di tutto questo, la letteratura scientifica offre innumerevoli studi sulle modalità con cui i bias cognitivi orientano il mondo del lavoro e delle assunzioni, confermati per esempio dalla piccola rivoluzione avvenuta nel mondo delle orchestre da quando negli anni Ottanta si sono cominciati a fare i provini “al buio”2.

Infine, la questione della genitorialità. In questo caso la società si sta sicuramente evolvendo verso un’equiparazione tra il ruolo di madre e di padre nella cura dei figli. Forse in questo caso ancora più della legge: dal 2022 il congedo parentale per gli uomini (retribuito al 100%) sale da 4 a 10 giorni, mentre per le donne resta di 5 mesi. Una novità che è una conquista, ma lo squilibrio salta ancora all’occhio e dimostra un diverso modo di pensare al lavoro in base al genere. Una prima riflessione per un’inversione di rotta è auspicabile, e magari si può partire proprio dal nostro ufficio o azienda o negozio, forse proprio dalla nostra famiglia. Magari proprio il primo maggio, ma anche il due, il tre e il quattro…

 
Giorgia Favero

 

NOTE:
1 – https://alleyoop.ilsole24ore.com/2022/09/19/cosa-sappiamo-e-cosa-non-sappiamo-sul-gender-pay-gap/#_ftn1 
2 – https://www.theguardian.com/women-in-leadership/2013/oct/14/blind-auditions-orchestras-gender-bias 

[Photo credit: unsplash.com]

I monocromi: una riflessione sull’ “assenza di”

Davanti a una tela coperta da strati più o meno omogenei monocromatici può anche sorgere spontaneo dire “e che ci vuole”. È chiaro che il saper fare manuale è molto importante in questo ambito, ma questo scritto si vuole soffermare ancora sull’altra componente, non unica e nemmeno necessariamente dominante, forse quella più interessante: l’idea. Il concetto. Lo scopo. Non a caso, l’arte contemporanea è ricca di monocromi e questo tipo di opera punteggia alcuni momenti importanti del corso del Novecento, coinvolgendo artisti che attraverso di esso hanno espresso una tendenza, una volontà di ricerca di annullamento del quadro stesso.

Uno dei primi ad essercisi avvicinato è Kazimir Malevič, esponente del Suprematismo, il cui scopo era manifestare «la supremazia della sensibilità pura nell’arte»: in altre parole, il quadro di per sé non ha significato. Era il 1915 e i tempi non erano ancora maturi per un vero e proprio monocromo ma è certo che Malevič ne ha segnato il punto di partenza, congiuntamente a puntualizzare un momento di forte cambiamento nel mondo dell’arte. In principio era un quadrato nero su sfondo bianco – anzi, un quadrangolo, perché aveva i lati leggermente sgangherati, e non era nemmeno veramente nero perché risultato da una somma di altri colori. Un quadro che per Malevič stesso era «un primo passo verso la creazione pura in arte», ovvero arrivare allo zero e riuscire a superarlo, resettare l’arte dalla sua oggettività e farla rinascere: un’arte che, da quel punto zero, sboccia in forme geometriche che vivono ed esistono, nient’altro.

                      malevic-quadrato-nero_la-chiave-di-sophia          piero-manzoni-achrome_la-chiave-di-sophia

Dal nero quasi nero si è arrivati al bianco: il quadrato bianco su sfondo bianco di Malevič (del 1918) trova alcuni fratelli non proprio gemelli nel corso del Novecento, come per esempio gli Achromes di Piero Manzoni, e siamo ormai nel 1958. Monocromi senza colore, a-chromes appunto, bianchi. Una superficie di caolino o gesso stesa sulla tela lasciata asciugare e nell’asciugarsi assumere un suo disegno – grinze, pieghe, rigonfiamenti, scanalature: oltre al colore, allora, manca anche il gesto dell’artista, perché l’opera è autosufficiente, autodeterminata, puro significante, nessun senso esterno e nascosto, imposto. Solo la materia lasciata a sé stessa.

Non molti anni dopo Manzoni, dei nuovi monocromi si sono affacciati nel mondo dell’arte italiana: quelli di Mario Schifano. Di nuovo il monocromo diventa punto di partenza: tabula rasa della pittura informale a cui era dedito fino al fatidico 1961, il rosso era il colore privilegiato ma mai steso in modo uniforme, anzi, a tratti con un pennello più secco, oppure al contrario con goccioloni di colore. 

                monocromo-rosso-schifano_la-chiave-di-sophia       lucio-fontana_la-chiave-di-sophia

Vale la pena citare anche un altro illustre amico di Manzoni, Lucio Fontana, anche se la sua ricerca artistica l’ha portato fin da subito oltre il monocromo: monocromi con i tagli. Andare “al di là” del quadro, stavolta in senso letterale (non a caso lui chiama queste opere concetti spaziali). Così come del resto è ancora diverso il caso di Mark Rothko, poiché i suoi non sono veri e propri monocromi e inoltre, tanto per fare un esempio, la valenza del colore nel suo caso acquisisce un’importanza nella relazione tra le tonalità e non nel colore stesso, unico, solitario, autosufficiente. Ma tanti, tanti altri sono gli artisti che potremmo citare.

Finisco però con lui. Così noto per i suoi monocromi da essere diventato famoso come “Yves le Monochrome”. Erano gli stessi anni di Mario Schifano ma Yves Klein non voleva fare tabula rasa, né lasciare tutto lo spazio alla materia. Voleva aprire il mondo dell’assoluto. Dopo il rosso di Schifano e il bianco di Manzoni, il suo colore era il blu, anche se non un blu qualsiasi: se l’è brevettato lui, lo IKB, “l’espressione più perfetta del blu”. Lo scopo era la totale immersione nel colore, di quell’intensità quasi accecante e pervasiva che non era solo materia, come lo erano gli Achromes per Manzoni: i monocromi di Klein sono aspirazione all’infinito, all’immateriale. Il blu è “l’invisibile che diventa visibile” e il quadro una sorta di ponte per una nuova dimensione.

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In queste opere, tutti questi artisti hanno messo in scena, a modo loro, il gioco di pieno e vuoto, concetti sbadatamente considerati opposti dalla tradizione occidentale ma in realtà entità unica nella concezione orientale che per esempio Yves Klein, dall’alto della sua cintura nera e quarto Dan, conosceva bene. I monocromi sono quadri apparentemente semplici, solo apparentemente finiti all’interno del loro quadrato e del loro codice cromatico, ma spesso, come ben ci ricorda Antoine de Saint Exupéry, l’essenziale è invisibile agli occhi. Con gli occhi con cui dunque si guarda la tela, con intensità, con una mente attenta, bisogna anche andare oltre la mera e nuda superficie (letteralmente) e indagare cosa ci sfugge, perché a volte – e questo succede spesso nella vita – la noncuranza, la velocità e la superficialità ci fanno smettere di chiedere quei perché che ci portano in profondità nelle cose, nelle relazioni, nelle emozioni. Niente infatti è mai così semplice, nemmeno una tela quadrata blu. E quindi quando ci troviamo davanti a un vuoto, a una mancanza – di suono, di colore, di attività, di persone –, proviamo a chiederci se è veramente un male, se davvero è qualcosa che va riempito o forse va goduto per sé stesso, per quello che è, così com’è.

 

Giorgia Favero

 

[Immagine di copertina: dettaglio di uno dei monochrome di Yves Klein, 1959]

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Un’arte per Cutro

A giorni di distanza da quel 26 febbraio non si è ancora spenta la polemica attorno al naufragio di Cutro. Mentre scrivo viene recuperato il corpo della 76esima vittima (un’altra bambina) e ci si accapiglia sul karaoke (comprensibile o inopportuno) della premier con il ministro delle infrastrutture. Passerà ancora del tempo e la contingenza della nostra vita moderna sempre in affrettata metamorfosi metterà questa tragedia nel già ricco cassetto della memoria delle tragedie.

Ma se la cronaca scompare sotto tonnellate di notizie giornaliere, forse tocca di nuovo all’arte il compito di rendere immortale un fatto e il suo pesante bagaglio emotivo. Un’arte che fugga quella che Arendt definiva la «vuota ragione della bellezza» e che secondo le parole di un altro filosofo, Adorno, pronunciate già negli anni Sessanta, «si addentra nell’ignoto, assumendo quel che è orrido e negativo del presente, per trasfigurarlo. Fino a farsi sfida al disincanto, perenne tensione, rinuncia alla serenità, dissonanza proclamata con serietà e inquietudine»1.

Questo il compito dell’arte politica, ovvero dell’arte come «riflesso e tribunale del presente»2, e degli artivisti, che «si fanno interpreti soprattutto del volto più perturbante della cronaca»3, intendendo il perturbante nel senso freudiano di ciò che genera spavento, angoscia e terrore. Come quelle immagini regalateci dalla cronaca di quelle decine di corpi strappati con fatica e sudore dalle onde infrante sulla sabbia di Cutro. Il tema delle migrazioni è appunto uno dei soggetti più indagati dall’arte politica, uscendo però da una chiave d’interpretazione soggettiva per privilegiare una restituzione oggettivo-antropologica in cui lo scopo è quello di responsabilizzare lo sguardo, ovvero dire allo spettatore: se stai guardando, sentiti chiamato in causa in prima persona.

Si tratta di un’arte a 360 gradi che coinvolge istallazioni, cinema, poesia, pittura, suoni, ecc. e proviene anche da artisti molto noti del panorama artistico internazionale. Ci sono opere minute, piccole ferite inferte nelle tenebre come l’intervento di Banksy su una parete di Rio Ca’ Foscari a Venezia: un bambino naufrago avvolto da un giubbotto salvagente con in mano un fumogeno fluorescente (2019). Oppure monumentali come i (discussi) 22 gommoni di salvataggio incastonati nelle bifore di Palazzo Strozzi a Firenze da Ai Weiwei, che provocatoriamente, sempre nel 2016, ricrea con il proprio corpo la famosa foto del piccolo Aylan Kurdi sulla spiaggia di Lesbo. Oppure sono opere da vivere, come la performance VB65 messa in scena da Vanessa Beecroft nel 2009 al PAC di Milano dove a una lunga tavola trasparente non apparecchiata sedevano dodici migranti africani in smoking mentre consumavano con le mani pollo e pane strappati a mani nude.

Quella Cutro è l’ennesima tragedia umana da riporre nel cassetto dei ricordi dolorosi, già particolarmente pieno alla voce “Mediterraneo”, territorio di speranze infrante e promesse non mantenute, sepolcro di quelle che a tutti gli effetti sono «vite di scarto generate dalla globalizzazione»4. Come scriveva Mazzucco, «il mare non dimentica, restituisce e trasforma ciò che non gli appartiene. Quei corpi […] diventeranno ciabatte, monconi e stracci che le onde rumineranno mesi e anni, per poi deporle su qualche spiaggia, come immonde uova di un’umanità infeconda. La nostra»5. Questi “corpi trasformati dal mare” sono per esempio conservati al Museo Porto M di Lampedusa, dove dal 2008 Giacomo Sferlazzo e il collettivo Askavusa raccolgono la memoria collettiva della migrazione sull’isola, fatta di oggetti banali recuperati dai barconi e che racchiudono innumerevoli storie. Ci sono invece gli abiti al centro dell’istallazione di Kader Attia La mer mort del 2015: jeans, magliette, maglioni e vestiti sparsi a terra alla rinfusa con sfondo un’immagine delle onde del mare. Nel 2019 l’artista svizzero Christoph Büchel espone alla Biennale di Venezia Barca nostra, il relitto di un naufragio avvenuto al largo della Libia nel 2015 costato la vita a quasi mille persone: una gigantesca spina nel cuore di una delle principali manifestazioni artistiche mondiali. Gigantesca è anche Porta di Lampedusa – Porta d’Europa di Mimmo Paladino, una scultura che è anche monumento, in ceramica refrattaria e ferro zincato; si staglia per circa 5 metri in altezza e 3 in lunghezza, posizionato nel 2008 sull’ultimo promontorio dell’isola per ricordare chi si è salvato e chi invece è morto.

L’arte da sola non risolverà certo la crisi migratoria, né tantomeno darà un perché a quanto accaduto a Cutro, ma ha il dovere di pungolarci costantemente, anche dove non ce lo aspettiamo, per imporci di non cedere all’oblio: se è vero il motto “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”, è il caso di tenere certi fallimenti del genere umano sempre bene in vista.

 

Giorgia Favero

 

1. T.W. Adorno, È serena l’arte?, Einaudi, Torino 1979, pp. 273-280
2, 3, 4. V. Trione, Artivismo. Arte, politica, impegno, Einaudi, Torino 2022, p. 13, p. 28, p. 50
5. M. Mazzucco, Il mare della pietà perduta, in “La Repubblica”, 15 giugno 2018

[Photo credit Zeno Striga, l’opera di Banksy a Venezia]

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Salvare il pianeta scrivendo storie migliori

Troppo spesso il tema cambiamento climatico è abbandonato agli scienziati, che ci dicono cosa sta succedendo, a che velocità e con quali probabili (catastrofici) risultati futuri. Manca ancora un solido coro di voci che racconti tutto questo in modo diverso, un modo che possa far breccia nella mente e nello spirito delle persone. Come scrisse Magnason ne Il tempo e l’acqua (Iperborea 2019) riportando un dialogo con uno scienziato di nome Lucht, «pubblichiamo grafici ed esiti di simulazioni computerizzate che parlano la lingua delle nostre discipline: la gente li guarda, annuisce e forse in un certo senso li assimila, ma non li capisce nel vero senso della parola […] La gente i numeri non li capisce, ma le storie sì. Tu che sai raccontare storie, devi raccontare questa»1.

Dello stesso avviso sembra essere la scrittrice americana Rebecca Solnit, che in un recente discorso all’università di Princeton e poi riportato sul “Guardian” propone una prospettiva nuova: «dobbiamo trovare storie di un futuro vivibile, storie di forza popolare, storie che motivino le persone a fare quel che serve per creare il mondo di cui abbiamo bisogno»2. L’idea è che di storie ce ne siano parecchie ma che non vengano raccontate, o almeno non con la frequenza e l’intensità di cui avremmo bisogno. La rivoluzione energetica è in crescita, il quadro generale dal lato scientifico-tecnologico (per esempio legato alle rinnovabili) è «incoraggiante e persino sorprendente» in termini di fattibilità, produzione e costo, eppure «le persone trovano fin troppo credibili le narrazioni deprimenti, che siano fondate su fatti o no», rischiando così di giungere alla profezia (catastrofica) che si autoavvera. Nel 2022 infatti “Nature” ha condotto un sondaggio dal quale emerge che la maggior parte degli statunitensi crede che solo una stretta parte di cittadini (37-43%) sia favorevole all’azione contro la crisi climatica, mentre in realtà lo è una sezione ben più ampia di popolazione (66-80%).

Questo avviene anche perché ci manca l’immaginazione. Anche se si tratta di un processo lungo, lento e faticoso, «è conquistando l’immaginazione popolare che si cambiano le regole del gioco e i suoi esiti possibili». Non siamo capaci di immaginare delle soluzioni diverse rispetto al modo in cui viviamo adesso, non siamo in grado di dipingerci un finale che non sia catastrofico – grazie anche allo zampino della cultura di massa, dal cinema alla narrativa – e quindi non ci aspettiamo altro che l’estinzione. Paradossalmente, invece, come sottolinea bene Solnit, può venirci incontro proprio la storia. La storia ci insegna quali enormi cambiamenti abbiamo fatto anche soltanto negli ultimi decenni: in termini di stile di vita ma anche di diritti civili, e anche in termini ecologici. L’autrice per esempio ricorda che fino agli anni Sessanta la produzione energetica del Regno Unito si basava quasi esclusivamente sul carbone, mentre ad oggi ne ottiene più della metà da fonti a bassa emissione di CO2.

Dobbiamo anche rivedere la storia della responsabilità individuale. Un tema stupendo che dovremmo comunque rispolverare, magari leggendo Il principio responsabilità di Hans Jonas del 1979. Però va presa con opportuni distinguo. Per esempio, diversificando la responsabilità individuale di un italiano (o di un americano) rispetto a un bengalese. Ma anche ricordando che come individui non siamo solo consumatori – quindi non basta cambiare alimentazione, lasciare a casa la macchina e abbassare di un grado il riscaldamento – ma siamo anche molto di più: cittadini, ovvero esseri che si aggregano e che insieme possono fare anche di più. L’impronta individuale è un’ansia ecologica che per convenienza hanno creato le grandi aziende, per esempio nel settore dei combustibili fossili, i maestri assoluti di greenwashing. «I soccorritori di cui abbiamo bisogno agiscono soprattutto in modo collettivo: movimenti, alleanze, campagne, società civile […] Ci mancano storie in cui sono le azioni collettive o la paziente determinazione degli attivisti a cambiare il mondo».

Un coro è più facile da sentire di una singola voce e può produrre un’eco importante. Il tema climatico viene raccontato per grandi eventi e non per piccoli passi, eppure iniziative di singole città, piccoli stati, singole aziende, nuovi cantieri, progettazioni su scale interregionali possono segnare un precedente e spingere all’emulazione a cascata. Esempi significativi e storie di speranza che meritano di essere raccontate a gran voce. Storie che non nascondono l’imbiancamento dei coralli, lo scioglimento dei ghiacciai, la perdita di biodiversità, l’estinzione di sempre più animali e così via, però ci contestualizzano all’interno di una battaglia che – se siamo disposti a combattere con rinnovata energia – forse possiamo ancora vincere.

 

Giorgia Favero

 

NOTE:
1-A. S. Magnason, Il tempo e l’acqua, Iperborea, Milano 2019, pp. 69-70.
2-R. Solnit, If you win the popular imagination, you change the game: why we need new stories on climate, in “The Guardian”, https://www.theguardian.com/news/2023/jan/12/rebecca-solnit-climate-crisis-popular-imagination-why-we-need-new-stories. Il testo è stato riportato su “Internazionale”, n. 1500, 17-23 febbraio 2023, pp. 88-94.

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Ode al gatto filosofo

Il gatto filosofo siede sul davanzale della finestra, oppure sul termosifone che vi sta appena sotto. Da quella posizione privilegiata sul mondo, il gatto filosofo siede e pensa, come Leopardi osservava l’ermo colle e la siepe che precludono lo sguardo dall’immensità dell’infinito. Così s’annega il pensier suo, e all’umano che tenta di richiamarlo nega attenzione. Al suono del suo nome, il gatto filosofo gira l’orecchio, a volte anche l’altro: così comunica all’umano che lo sta volutamente ignorando.

Quali interminati pensieri in quella profondissima quiete? Il gatto filosofo fa proprio l’antico imperativo “conosci te stesso”: si conosce dai baffi alla punta della coda e giunge a concludere che, per dirla alla Neruda, ogni gatto vuol solo essere sé stesso perché è perfetto, completamente rifinito. Parte da sé dunque per esplorare la realtà che lo circonda con acuto fiuto sensibile e razionale; si chiede da dove viene, dove andrà, cos’è bene e cosa è male, e se esista un dio per tutti, animali e umani. Quel che non si chiede mai il gatto filosofo è perché esiste: tanto è cosa assai evidente e risaputa che non se ne possa fare a meno.

Filosofa allora il gatto filosofo mentre l’umano lo chiama, e lo ignora perché l’umano non filosofa. Sa che in parte non ne ha il tempo: se ne sta fuori tutto il giorno – riflette il gatto filosofo – e torna alla sera con l’aria stanca, stravolta. L’umano pulisce la lettiera e raccoglie i peli, prepara i pasti, ma il resto del suo tempo lo passa sul divano davanti alla scatola parlante. L’umano perde ore davanti a quelle immagini che sembrano proprio le ombre della caverna: l’umano le guarda e si perde la verità che sta fuori, proprio perché non filosofa. Imperdonabile, conclude rassegnato il gatto filosofo, che pur quando decide di far compagnia all’umano davanti alla scatola parlante, preferisce giustamente dormire.

Poiché non approva la sua condotta, il gatto filosofo stabilisce con il suo umano la classica dialettica hegeliana servo-padrone in cui lui è ovviamente in posizione di vantaggio. Concorda inoltre con l’insegnamento del Protagora dei gatti per cui “il gatto è misura di tutte le cose”, e tra queste cose, anche del tempo. Un po’ come faceva (involontariamente) Kant per i cittadini di Königsberg, il gatto filosofo scandisce la giornata del suo umano in due momenti fondamentali, di cui il primo si identifica naturalmente con la cena. Il secondo invece corrisponde a quell’istante della notte (alle 3.45 o alle 5.27) in cui il gatto filosofo, stanco di dormire, decide di verificare che l’umano sia ancora vivo, visto che rimane disteso immobile così a lungo, e parlando senza sosta lo costringe ad alzarsi. Uno potrebbe stoltamente pensare che il gatto filosofo, poiché dorme più di metà della sua giornata, non sappia distinguere lo scorrere dei giorni. Invece lo sa eccome: dalla sua postazione sulla finestra, prima di svegliare il suo umano, il gatto filosofo si perde a osservare con ammirazione il cielo stellato sulla sua testa ascoltando la legge morale nel suo profondo.

La sua legge morale è molto semplice e tra i primi punti in elenco vede l’alternare la riflessione filosofica a momenti di svago e di pennichella. Il gatto filosofo gioca con nastrini, palline, elastici e tutto ciò che si muove (e che non si muove) come esercizio per la sua magnifica res extensa; anche il sonno è fondamentale perché il flusso di pensieri della sua raffinata res cogitans deve essere periodicamente rallentato per evitare il sovraccarico. La legge morale del gatto filosofo stabilisce anche che il rapporto con il proprio umano debba essere un catulliano odi et amo, non un democratico do ut des. Nonostante ciò il gatto filosofo pensa a Socrate e sa che la filosofia viene meglio quando è dialogica. Per questo tenta una comunicazione con il proprio umano, anche se sa che puntualmente l’umano lo fraintenderà: riempirà ciotole, farà scorrere l’acqua, tirerà fuori giochi e spazzole, aprirà porte per la terrazza o il giardino. Perché l’umano non filosofa e non capisce l’importanza di quella tentata conversazione.

Così il gatto filosofa nella sua dimensione irraggiungibile all’umano. Nella sua lunga e statuaria posa sulla cima di un trespolo o di una mensola, o accovacciato su un gradino, dimostra d’essere in un tempo e spazio misteriosi e ignoti all’uomo, a cui non rimane altro che ammirare la magnificenza di quella stasi e rispettare (pur senza conoscere e comprendere fino in fondo) la grandezza di quella mente.

 

Giorgia Favero

 

[Photo credits unsplash.com]

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“Grazie ragazzi”: nell’attesa di Beckett uno slancio di vita

Un lavoro, un/a compagno/a di vita, una vacanza, la laurea o il diploma, un’uscita con gli amici, un aumento in busta paga, un figlio, la concessione del mutuo, l’inizio di una nuova attività, un abbraccio o un bacio, il Natale, un successo sportivo, una risposta, la fine di qualcosa, la guarigione, la morte, la vita. Passiamo la nostra esistenza ad aspettare – o meglio, forse, sono tante le cose che attendiamo giorno per giorno, a volte in modo ossessivo, a volte vano. Nessuno meglio dei prìncipi dell’attesa della cultura occidentale può raccontarcelo: Estragone e Vladimiro, protagonisti (presenti) del capolavoro di Samuel Beckett Aspettando Godot (1952), le cui riflessioni apparentemente (o veramente) senza senso continuano ancora oggi a pungolarci.

Siamo nel teatro dell’assurdo, una scenografia scarna con pochi personaggi sul palco che non fanno altro che aspettare questo signor Godot, sulla cui identità – fuori dalla sceneggiatura – da decenni ormai le teorie si sprecano – Dio? Impersonificazione della fortuna? Della morte? –, liquidate tutte fin da subito da Beckett stesso che diceva che non sapeva neanche lui chi fosse Godot. Ed è forse proprio questo il punto che rende l’opera così universale.

Di recente se n’è appropriato anche il cinema italiano con Grazie ragazzi di Riccardo Milani (2023), uscito nelle sale da poche settimane e trasposizione dell’originale francese che racconta la storia vera di un attore svedese. La storia di un gruppo di detenuti al quale viene proposto un laboratorio di teatro per mettere in scena proprio l’opera di Beckett. Chi del resto meglio dei carcerati – vuole convincerci l’attore-insegnante di teatro Antonio Albanese – può interpretare al meglio l’attesa continua? L’attesa “del pasto, dei colloqui, dell’ora d’aria, del giorno dopo”, ma soprattutto del giorno della libertà, la madre di tutte le attese.

E così quattro uomini tra loro assai diversi vestono i panni dei quattro principali personaggi di Beckett, mettendo in scena quei dialoghi magistralmente assurdi proferiti per ingannare l’attesa – o meglio proprio perché ne sono intrappolati. Su quel palco l’esistenza perde e riassume valoreCi suicidiamo oggi o domani?», e poi «Troviamo sempre qualcosa, vero, Didi, per darci l’impressione di esistere?»), si alternano momenti di calma e di tensione, d’ilarità e di rabbia, ritorna puntualmente il tema della memoria: «Sono infelice», «Ma no! Da quando?», «Me n’ero dimenticato», «Sono scherzi che ci fa la memoria». I personaggi dimenticano cos’hanno fatto ieri, non sanno se ricorderanno domani cos’hanno fatto oggi («non ricordo di aver incontrato nessuno, ieri. Ma domani non ricorderò di aver incontrato nessuno oggi»), addirittura si dimenticano quello che stanno facendo, cioè aspettare Godot («Che facciamo adesso?», «Aspettiamo Godot.», «Già, è vero»). Presi talvolta da un’apatia di vita, ogni giorno è sempre uguale nell’attesa.

Così in carcere. In una commedia che strappa più di una risata, Grazie ragazzi ci ricorda il potere salvifico dell’arte, la sua capacità di fare breccia nelle mura dell’isolamento, di un’arroganza e menefreghismo costruiti, riportandoci lì dove vogliamo stare, nelle relazioni autentiche e nella bellezza della vita; l’arte che prova a darci una seconda chance o che semplicemente allevia le nostre sofferenze, ci apre una prospettiva nuova. Però ci fa rivalutare anche il sapore del sole sul viso e di un orizzonte ampio, la possibilità di aprire qualsiasi porta e di andare dove vogliamo: in altre parole, della libertà. Una libertà a volte davvero molto fragile e che quando negata ci rinchiude in questo vortice d’attesa. Il film non indugia nel raccontarci perché Damiano, Mignolo, Diego e Radu (con l’unica eccezione di Aziz) sono in carcere, affinché il nostro giudizio possa andare oltre l’evidente fatto, seppur non trascurabile, che hanno compiuto un gesto illegale, inducendoci a non trascurare nemmeno l’umanità che resta al di là delle azioni. Un’umanità nella quale possiamo ancora a sentirci fratelli. Scevro da pietismo e buonismo, il monologo finale di Albanese vuole parlarci dritti al cuore proprio per non lasciarci inermi di fronte allo scorrere del tempo e della vita, e per non voltare lo sguardo lontano dalle tragedie dell’esistenza e della società, arroccati nel pregiudizio. Soprattutto in vista della conclusione del film, un po’ amara ma reale, svincolata dagli happy ending da commedia per restare aderente alla storia originale e anche a un senso di giustizia terrena.

Qualcosa di particolarmente importante però ci distingue da Estragone e Vladimiro e dagli inaspettati attori del film di Milani, ed è questo: loro restano e noi ci muoviamo. Il duo di Beckett rimane accanto all’albero, immobile, mentre noi sfogliamo l’ultima pagina e chiudiamo il libro; Diego, Damiano, Aziz, Radu e Mignolo (attenzione, spoiler!) tornano in carcere mentre noi ci alziamo dalla nostra poltrona comoda e usciamo dalla sala. Abbiamo la nostra occasione di raccogliere tutte le riflessioni del caso e andarcene, farne qualcosa, non vanificare attese e speranze. Inseguendo con rinnovata grinta Godot, oppure lasciandolo finalmente andare.

 

Giorgia Favero

 

[photo credit Felix Mooneeram via Unsplash]

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Eroi umani, troppo umani: tra forza e fragilità

Avevo 17 anni quando ho letto Un uomo di Oriana Fallaci. La giornalista era riuscita magistralmente a trasmettere anche a me la fascinazione e il trasporto che lei, in quanto compagna di Alèxandros Panagulis, provava per lui. A quell’età, non ancora del tutto disincantata sul mondo e sulla vita, avevo trovato in lui un eroe.

Sventurata è la terra che ha bisogno di eroi”, scriveva Brecht in una delle sue opere teatrali. E perché mai? Cosa c’è di male in un eroe?, potremmo chiederci. Il senso è che l’attesa dell’eroe, del deus ex machina che piomba nel caos e vi mette ordine, spoglia l’individuo della sua azione e della sua creatività. Se l’umanità ha bisogno di eroi, significa che è un’umanità che aspetta senza agire. Ecco perché Alèxandros Panagulis era un eroe così credibile: perché era del tutto eroico e del tutto imperfetto.

Frequentavo il liceo classico e di eroi ne sapevo qualcosa. La letteratura antica infatti ha regalato moltissime figure impegnate in eroiche missioni causate da dèi avversi – penso ad Aiace, Ettore, Eracle; eroi che muoiono ma in qualche modo restano invincibili. E poi c’è l’eroe degli eroi, Odisseo: il distruttore di Troia, l’impeccabile mente. Lui qualche debolezza la mostra: piange al ricordo dei compagni perduti, si strugge di nostalgia per Itaca; questo perché è umano e l’incipit dell’Odissea lo spiega subito chiaramente iniziando proprio con quella parola, “uomo”1. I tempi cambiano in Grecia soprattutto con l’Ellenismo, quando decadono i valori classici e tutto è in balia di una nuova divinità, la tùche, la sorte. In questo periodo si affaccia una nuova lettura dell’eroe Giasone, quella di Apollonio Rodio nelle Argonautiche. Il nuovo Giasone è amèchanos, “privo di risorse”, nella stessa misura in cui Odisseo per Omero è polùtropos, “dall’ingegno multiforme”: non si tira fuori dal pericolo da solo, sono gli dèi e una donna, Medea, a salvarlo in varie situazioni mentre lui, letteralmente, “non sa cosa fare”. Questo Giasone del 245 a.C. sembra proprio “un eroe che ha bisogno di eroi”, un eroe che dubita delle sue capacità; antieroe classico ma proprio per questo eroe ellenistico. Un uomo in preda alla sorte.

C’è poi un’altra rilettura dell’eroe classico meritevole d’esser considerata: l’Ulisse di James Joyce. Il libro omonimo esce nel 1922, dopo una guerra che ha ridisegnato i profili del mondo e gli orizzonti valoriali, nonché nel pieno sviluppo delle teorie psicanalitiche. Lo scopo è proprio quello di creare un parallelo tra l’eroe e un qualsiasi uomo della modernità. Lui, così come la moglie Molly (parallelo di Penelope) e Stephen Dedalus (parallelo di Telemaco), racchiudono alcune fragilità tipiche umane quali la diffidenza, l’infedeltà, la passività; la loro eroicità sta nel resistere alle soffocanti sovrastrutture sociali, alle convenzioni e alle aspettative, pur nelle loro debolezze.

Anche Alèxandros Panagulis, rivoluzionario che fa della liberazione della Grecia dalla dittatura (1967-1974) la sua ragione di vita, sfoggia numerose ombre. Inizialmente il suo personaggio sembra molto chiaro: stoicamente eroico sopporta anni di carcere, torture e umiliazioni. È proprio con la scarcerazione e il ritorno nella società che la facciata comincia a spaccarsi e il sogno a infrangersi: scopre che la sua Grecia non ha più bisogno di eroi e si accontenta della nuova, falsa democrazia in comando e comincia a perdere fiducia nel popolo, cade nell’alcool, nell’infedeltà sistematica, cede alla rabbia. I Greci non lo vedono più come un eroe e lui non si sente un eroe. Finché, “misteriosamente”, la sua auto si schianta contro un muro a pochi giorni da un suo discorso in parlamento in cui avrebbe svelato alcuni documenti segreti. La Grecia si sveglia nuovamente e il suo funerale, il 5 maggio del 1976, è seguito da mezzo milione di persone che invadono Atene al grido “Alekos zi zi zi” (“Alekos vive vive vive”). Scrive Oriana Fallaci: «Ecco perché sorridevi tanto misteriosamente ora che calavi dentro la fossa dove il Gran Sacerdote […] ruzzolava grottesco […] calpestando la statua di marmo, credendo che soltanto quella restasse di un sogno, di un uomo».

Durante il lockdown causato dal Covid-19 ho assistito improvvisamente a un mondo che riversava ogni dove quella parola, eroe, a proposito degli operatori sanitari. In che cosa sono diversi da noi questi eroi? In che cosa vi assomigliamo? Tra le tante domande e risposte provvisorie, continuo a ricordare in quanti in quei giorni hanno detto “Non sono un eroe, faccio semplicemente il mio lavoro”; eppure li ignoriamo, continuiamo a considerarli eroe. Provo una certa desolazione nel constatare quanto ci venga spontaneo credere che l’abnegazione nei confronti degli altri, l’altruismo e il rispetto, possano appartenere soltanto a degli umani speciali, e non a tutti noi, chiunque di noi, noi umani.

 

Giorgia Favero

 

NOTE:
1.“Andra moi ennepe, Mouse, polutropon” racconta Omero, in italiano: “Cantami, o Musa, dell’uomo multiforme”. Andra significa appunto “uomo” ed è la primissima parola di tutta l’Odissea.

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L’amica geniale tra soggettività e femminismo

A otto anni dalla pubblicazione dell’ultimo romanzo della tetralogia de L’amica geniale, la sua autrice Elena Ferrante resta un totale mistero. Nella lettura dei suoi romanzi ci consoliamo nell’immaginarla coincidere con la sua protagonista e voce narrante, Elena Greco, e scivoliamo nelle vicende e soprattutto nelle soggettività straordinariamente dipinte dei due lead character: Lenù (Elena Greco appunto), e Lila (al secolo Raffaella Cerullo), personaggio narrato e spesso lontano ma sempre vivo nelle pagine dei quattro volumi. Due storie personali che si aprono a mai banali riflessioni universali.

A partire proprio dal rapporto complesso tra le due amiche geniali, nato in un rione degradato e violento di Napoli negli anni Cinquanta. Il racconto nella tetralogia è estremamente introspettivo e non si riduce mai a forme edulcorate o stereotipate nel descrivere atti e pensieri che disegnano il percorso di vita femminile: né nei confronti del sesso, né in temi come matrimonio e maternità, e nemmeno nella complessa relazione tra amiche, una sorellanza e un affetto smisurati ma costellati anche da invidie, gelosie e competizione. Fin da bambina Lenù vive da subalterna di Lila e decide di collocarsi sulla sua scia, riconoscendole a pelle quella geniale libertà e indipendenza rispetto al violento ordine costituito che le circonda e che è loro imposto. Un caos nel quale però Lenù, diversamente da Lila, non sa nuotare, e dal quale infatti si sottrae grazie ai meriti scolastici che la portano lontano dal rione e della violenza, lontano dall’ignoranza e dalla parlata dialettale, lontano da quel rapporto inevitabilmente subalterno della donna all’uomo, ma anche da quella soggettività nuova e complessa incarnata da Lila. Salvo ritrovarsi adulta a Firenze, sposata con un docente universitario di ottima famiglia, due figlie al seguito, un libro pubblicato da un editore milanese, ma anche una vita domestica dedicata esclusivamente alla casa e alle bambine e una vita intellettuale tarpata dalle incombenze e segnata fin dalle origini dal desiderio di compiacimento maschile.

Sono i movimenti femministi del ’68 – ben descritti nel terzo volume de L’amica geniale – a risvegliare in Lenù questa consapevolezza, facendo germogliare in lei l’idea dei «maschi che fabbricano le femmine». Il dito è puntato su un’educazione millenaria tutta maschile che plasma e ingabbia nel suo rigore la soggettività femminile: temi che fanno eco (dichiarato e velato) ad autrici come Irigaray, Cavarero, Lanza, Muraro. Un’accusa violenta e a 360°: «Sputare su Hegel. Sputare sulla cultura degli uomini, sputare su Marx, Lenin e Engels. E sul materialismo storico. E su Freud. E sulla psicoanalisi e l’invidia del pene. E sul matrimonio, sulla famiglia […] e sulla trappola dell’uguaglianza. E su tutte le manifestazioni della cultura patriarcale. E su tutte le sue forme organizzative. Opporsi alla dispersione delle intelligenze femminili. Deculturalizzarsi. Disacculturarsi a partire dalla maternità, non dare figli a nessuno. Sbarazzarsi della dialettica servo-padrone. Strapparsi dal cervello l’inferiorità, restituirsi a sé stesse. Non avere antitesi. Muoversi su un altro piano in nome della propria differenza»1. Lenù sente finalmente di doversi liberare da quei «patti segreti» ai quali era scesa fin da ragazzina per plasmarsi all’ordine maschile del mondo, e di doversi riformare: dover «disimparare» per «capire meglio cos’ero, indagare sulla mia natura di femmina»2. Filosoficamente Ferrante rimanda dunque al pensiero della differenza sviluppato proprio a partire da quegli anni.

Questa rinuncia all’ordine maschile fa tornare Lenù a Lila, che pur non essendosi mai allontanata di un passo dal rione – manifestazione privilegiata di quella cultura da cui fuggire – sembra totalmente svincolata da ogni visione di mondo globale, paternalistica e progressista. Lila è il personaggio imprevedibile per eccellenza proprio perché capace di sfuggire a ogni ordine precostruito e anche noi lettori, come Lenù, l’amiamo e la odiamo per questo. Anche nel 2022, quando ogni rivendicazione di individualità femminile, ogni resistenza a plasmare la quotidianità in chiave patriarcale dovrebbe essere vecchia storia… ma ancora non lo è. Lo chiarisce la stessa Ferrante in un articolo pubblicato sul Guardian: «Ancora oggi, dopo un secolo di femminismo, non possiamo ancora pienamente essere noi stesse. I nostri difetti, crimini, virtù, piaceri, il nostro stesso linguaggio sono ubbidientemente iscritti nelle gerarchie maschili, puniti o apprezzati secondo un codice che non ci appartiene davvero e che quindi ci logora»3.

Questo lo sfondo della tetralogia de L’amica geniale, nella quale accompagniamo la crescita individuale di Lenù e anche noi come lei, attraverso Lila, ci mettiamo in discussione: chi siamo? Chi vogliamo essere? Come vogliamo comportarci? Quale visione di mondo ci è davvero nostra? Ma non solo: abbracciamo anche di noi i nostri lati più oscuri e facciamo pace con noi stesse, con le nostre inclinazioni e i nostri desideri, i nostri pensieri più bui. Pretendiamo una vita nostra.

 

Giorgia Favero

 

NOTE:
1 E. Ferrante, Storia di chi fugge e di chi resta, E/O Edizioni, Roma 2013, p. 254
2 Ivi p. 256
3 Leggi l’articolo: https://www.theguardian.com/lifeandstyle/2018/mar/17/elena-ferrante-even-after-century-of-feminism-cant-be-ourselves

[Immagine di copertina: le protagoniste della serie tv L’amica geniale. Fonte: RaiPlay]

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