Leggere, scrivere, agire: intervista ad Azar Nafisi

Azar Nafisi è scrittrice e anglista iraniana ma residente da molti anni negli Stati Uniti. Famosa in primis per il suo romanzo del 2003 Leggere Lolita a Teheran, vero e proprio caso letterario e pietra miliare della letteratura contemporanea, Nafisi ha dedicato parte della sua vita al racconto di quella nazione e di quella vita tra le due Rivoluzioni. L’abbiamo incontrata a Pieve di Soligo, a margine di un incontro davvero emozionante, e abbiamo potuto rivolgerle alcune domande.

 

Giorgia Favero – Lei ha affermato che i regimi totalitari – come accaduto proprio recentemente in Iran – iniziano il loro controllo repressivo su tre elementi: cultura, minoranze e donne. Perché proprio questi?

Azar Nafisi Lo schema di pensiero totalitario ha paura del cambiamento e della differenza, per cui questi tre elementi – donne, minoranze e cultura – offrono ciascuno diversi punti di vista sulla vita e su ciò che la società dovrebbe essere. Loro hanno paura a dividere il potere con loro e al contempo hanno paura del loro potere, ed è per questo che sono così crudeli con queste categorie.

 

Giorgia Favero – In Italia godiamo di una forma di governo democratica, eppure facciamo quotidiana esperienza di mancati diritti e ingiustizie che dovrebbero farci protestare e riempire le vie delle nostre città, come succede in Iran. Penso – tra gli altri – ai femminicidi, le morti sul lavoro, l’incapacità di gestione dei flussi migratori e il cambiamento climatico. Nel suo phamphlet “Indignatevi!” Stéphan Hessel invitava all’azione, eppure noi sembriamo indignati ma non così tanto. Perché secondo lei?

Azar Nafisi Nelle democrazie abbiamo raggiunto il punto in cui siamo troppo comodi e a nostro agio, tutto quello che vogliamo è la comodità. Qualsiasi cambiamento non è confortevole. Per questo abbiamo abbandonato la lotta quotidiana per la libertà, la democrazia va nutrita e alimentata, infatti una volta non esisteva. Le persone dovrebbero informarsi e vedere quante persone sono morte per consentirci di vivere come stiamo facendo: non dobbiamo dimenticarci che i nostri diritti prima non esistevano, e il fatto che adesso li abbiamo significa che possono ancora toglierceli.

 

Giorgia Favero – Lei sostiene spesso che i libri possono trasformare la vita, o che almeno è quello che è successo a lei quando era bambina. Per esempio le permettevano di viaggiare in tutto il mondo senza lasciare la sua cameretta a Tehran. Citando Primo Levi, lei sostiene che i libri danno dignità all’essere umano perché raccontano e registrano nella storia dei racconti che, per quanto terribili, non possono essere dimenticati. Anche oggi, dopo tanti anni, pensa che i libri sono spazi aperti per la libertà?

Azar Nafisi Assolutamente, l’atto di scrivere e l’atto di leggere sono entrambi atti di liberazione. C’è sempre il desiderio di conoscere nuove cose nel senso stesso della libertà. Hai citato Primo Levi, c’è un’altra sua citazione in cui dice che scrive per poter riconnettere la comunità umana, per cui penso che scrivere e leggere siano modi per essere messi in comunicazione con persone con cui non saremmo mai potuti esserlo, ed è molto importante questo perché i regimi totalitari rubano le storie, le storie di tutti, ci privano della nostra identità. E anche se la tua storia è piena di morte e dolore, e si rifiuta di parlare di una realtà diversa, vieni notato anche per questo e questo ti rende più forte.

 

Giorgia Favero – Abbiamo detto che i libri e la letteratura parlano di altre persone e dei loro mondi. Per permetterci di conoscere meglio l’Iran e il suo popolo, le vorrei chiedere di condividerci una storia o una poesia iraniana che possano darci un indizio della forza, bellezza e gentilezza dell’Iran, anche oggi e soprattutto oggi.

Azar Nafisi C’è molta sensualità nella poesia iraniana, in effetti posso dirti che ce n’è anche nel cibo: il colore, i sapori… ogni piatto iraniano è un capolavoro, e quella sensualità c’è anche nella poesia iraniana, per cui diventa una celebrazione della vita, diventa la comprensione che la vita è molto breve e fugace, e tutto quello che abbiamo sono i nostri ricordi di quella vita, e questi sono trasmessi attraverso la poesia e la letteratura. Mio padre mi diceva sempre che la nostra nazione è molto antica ed è stata invasa molte volte, ma ciò che ci dà un’identità come iraniani è proprio la poesia: per migliaia di anni questa poesia è stata il filo che unisce al presente. Per questo il regime, quando ha cominciato a distruggere il passato, come la statua dello scià, non è riuscita a distruggere le statue dei poeti: il popolo non lo ha permesso. Questo significa che i re possono cambiare ma i poeti no. E questo è ciò che rende la cultura iraniana così ricca, perché la poesia resta, persino adesso.

 

Giorgia Favero – Perché secondo lei non c’è la stessa valorizzazione della poesia e della letteratura nei paesi occidentali, nelle democrazie?

Azar Nafisi Sì, ed è un peccato, perché siamo diventati troppo indifferenti. Le democrazie sembrano celebrare l’ignoranza, abbiamo politicizzato tutto. Se non piace la poesia, se non dice quello che vogliamo ascoltare, la rifiutiamo mentre il punto sta proprio nell’ascoltare quello che non si vuole ascoltare. Per questo penso che questi siano tempi complicati e pericolosi per le democrazie.

 

 

Giorgia Favero

 

[Photo credits: Marina Montedoro (Facebook), Una collina di libri]

Cura della dignità di giovani e anziani. Intervista a Mariapia Veladiano

Leggere i libri di Mariapia Veladiano è come entrare a sbirciare in punta di piedi all’intero di storie ricche di vita; per quanto tu rimanga in disparte a osservare, le emozioni sono talmente forti e ben descritte attraverso momenti più o meno ordinari che non è possibile non esserne coinvolti. Ho avuto il piacere di incontrarla poche settimane fa a Farra di Soligo (TV), dove abbiamo presentato il suo penultimo libro Adesso che sei qui (Guanda 2021, vincitore del Premio Flaiano) in una serata molto partecipata e di grande condivisione. Ciò che stupisce, tra le tante cose, di questo libro è la sua capacità di unire tanta umanità secondo alcuni importanti comuni denominatori.

Vicentina, laureata in Filosofia e Teologia, Mariapia Veladiano ha felicemente insegnato lettere per più di vent’anni ed è stata preside a Rovereto e Vicenza. Attualmente collabora con “Repubblica” e con la rivista “Il Regno”. La vita accanto, pubblicato con Einaudi Stile Libero, è il suo primo romanzo, vincitore del Premio Calvino 2010 e secondo classificato al Premio Strega 2011. Il nuovo romanzo è Quel che ci tiene vivi (Guanda) ed è uscito a maggio 2023.

 

Giorgia Favero – Lei proviene da studi di filosofia e di teologia. In che modo (ammesso che ci sia) questa sua preparazione accademica ritenga possa aver influenzato la sua scrittura e le storie raccontate nei romanzi?

Mariapia Veladiano – La scrittura narrativa porta con sé tutte le nostre esperienze di vita e lo studio è un’esperienza fondamentale per cui sì, certamente i miei studi in qualche modo entrano nei romanzi. Le storie che si scrivono raccolgono la voce del mondo e la filtrano attraverso la nostra capacità di renderle in parole e di restituirle al lettore in modo che lui si possa riconoscere, possa riconoscere una parte della propria esperienza. Questo non vuol dire che la scrittura abbia un fine da perseguire. Non deve né illuminare né illustrare né educare. Ha, come dire, solo un grande compito di onestà nei confronti della storia che racconta. La deve raccontare con parole giuste, che rispettino i personaggi, con la musicalità (o il rumore) che le vicende narrate richiedono. Le belle storie ci permettono di intuire punti di vista che non immaginavamo, di sentire emozioni che possono renderci più comprensivi, meno giudicanti verso le persone. Ma un romanzo deve essere innanzi tutto un bel romanzo.

 

Giorgia Favero – Lei è stata in cattedra per oltre trent’anni per cui ha avuto modo di osservare da vicino i ragazzi e le ragazze e di interpretare il loro modo di vedere il mondo, che certamente è in parte cambiato ulteriormente negli ultimi tempi. Quali sono secondo lei i più gravi pregiudizi degli insegnanti – ma in senso più lato degli adulti – nei confronti degli adolescenti?

Mariapia Veladiano – Credo che i ragazzi oggi vivano sotto il segno di molti tradimenti. Noi adulti abbiamo apparecchiato un mondo malato, per loro. Abbiamo dissipato i beni naturali, abbiamo spacciato l’idea che il denaro sia la nostra felicità, abbiamo mitizzato il successo e attribuito alla povertà e anche alla semplice normalità lo stigma della colpa. Se uno non ce la fa, è colpa sua. Tremendo. Come se non esistessero le disuguaglianze, sempre più feroci. Un altro tradimento è il credito di fiducia al quale ogni ragazzo ha diritto. I genitori non danno credito ai figli, spesso. Hanno paura. Che il futuro sia orribile, complicato e doloroso e per questo tendono strenuamente a proteggere i figli. Da un lato offrendo loro tutto quello che possono. Scuole migliori, corsi di ogni tipo, inseguono la perfezione che nessun nostro mondo può avere. Li proteggono dagli insuccessi, si infuriano per un cinque a scuola. Ma la protezione migliore è l’educazione. La protezione verso un futuro complicato è la capacità di affrontare e risolvere  in modo competente e autonomo le complicazioni. La fiducia di saperlo fare. È un grande tradimento di fiducia, quello con cui i ragazzi convivono. E poi, soprattutto, i ragazzi sono diversi uno dall’altro. C’è un mare di energia buona in molti di loro. Ciascuno è un mondo. Per questo ho servito la vita nella scuola. Perché lì abbiamo la possibilità di vedere ogni ragazzo individualmente.

 

Giorgia Favero – In Adesso che sei qui (Guanda 2021) tra i tanti temi interessanti toccati, e tutti con enorme delicatezza, c’è naturalmente quello della cura: zia Camilla, malata di Alzheimer, viene accudita a casa da un piccolo satellite di figure prevalentemente femminile che in perfetta cooperazione “salvano” la vita di zia Camilla – quella che rimane e che va tutelata nonostante il decorrere della malattia – ma si fanno involontariamente salvare a loro volta. Ritiene che questo tema della cura sia doverosamente o naturalmente un tema a prevalenza femminile?

Mariapia Veladiano – Proprio no. È che se avessi messo una piccola coorte di uomini attorno a zia Camilla, sarebbe stata un’operazione ideologica. Oggi sono le donne a curare. Non va bene che siano quasi solo loro, ma è così.

 

Giorgia Favero – Nel romanzo sopracitato torna a gran voce l’ambito dell’educazione – poiché la protagonista Andreina è un’insegnante – e vengono fatti interessanti parallelismi tra l’atteggiamento di cura nei confronti delle persone affette da demenze – come zia Camilla naturalmente – e il lavoro degli insegnanti tra i banchi di scuola. Uno dei punti che ho trovato più interessanti è stato quello sull’identità, in cui sottolinea una certa smania dei genitori nel trovare una diagnosi ai loro figli “fragili”, nel senso magari di disattenti, scostanti o lenti, arrivando a dire che la diagnosi è meglio della risposta “è lui signora, tutto qui”. Un po’ come si cerca di forzare i malati di Alzheimer in una normalità che non gli appartiene più invece di riconoscere la loro normalità come una normalità possibile. Sono due modi per dire che è vietato essere fragili?

Mariapia Veladiano – In mille modi ci inducono a pensare che non c’è posto per la fragilità. Le case sono scatolette progettate  per mangiare, dormire, rigenerare le energie per lavorare e poi ripartire. Non per vivere. E lo abbiamo visto con la pandemia. Impossibile vivere in casa. Si sono moltiplicate le tensioni, i ragazzi hanno sofferto tantissimo, niente spazi, niente privacy, così importante sempre ma di più quando si è giovani. Sono case pensate per adulti sani che rientrano per il sonno e il cibo e ripartono. Infatti, anche senza pensare alla pandemia, non c’è posto nei nostri appartamenti per un imprevisto, un genitore che si rompe un braccio e ha bisogno di assistenza per un mese, ad esempio. Una zia Camilla, nel romanzo la nipote Andreina lo dice, non avrebbe potuto avere la vita buona che ha avuto, pur malata, se avesse abitato in un appartamento di città. Ma non c’è posto per la fragilità neanche sulle nostre strade. Non passano le persone con disabilità, i marciapiedi non sono a norma, i servizi pubblici sono inaccessibili. Non passano le carrozzine dei bambini, le auto parcheggiano fin sulla soglia di casa. È una società malata. Ci lamentiamo perché non nascono bambini ma non costruiamo una città per loro, né servizi pensando a loro. Ci pensiamo solo quando si va a scoprire che il sistema pensionistico non regge senza un equilibrio demografico. È proprio un pensiero nuovo, quello di cui abbiamo bisogno.

 

Giorgia Favero – Ciò che emerge da più romanzi, oltre a delle interiorità mirabilmente sondate e con gentilezza, è una dimensione sociale a volte troppo assente, una rete che non si tesse abbastanza, un patto civile che viene a mancare; o di contro situazioni in cui questi aspetti ci sono e hanno evidenti riscontri positivi. Fuor di romanzo, come interpreta la situazione attuale italiana in relazione a questi temi?

Mariapia Veladiano – Sì. In generale i miei personaggi sono grandi tessitori di relazioni. Senza fare rivoluzioni, coinvolgono il mondo nei loro progetti di cura. E sempre senza abbracciare la logica del sacrificio. Culturalmente siamo portati ad accettare che la soluzione ad un problema che interessa una persona, ad esempio un infortunio o una malattia oppure una disabilità grave, sia “cosa di famiglia” e riteniamo normale che un familiare si sacrifichi per sostenere la situazione. L’ho visto tante volte a scuola. Un bambino con disabilità resta soprattutto in carico alla famiglia, spesso alla madre. Se si tratta di malattia dell’età anziana, allora il sacrificio (del lavoro, della vita personale) è della moglie o della figlia. Ci sono eccezioni naturalmente, ma spesso è così. E non va bene. La comunità intera ha il compito di aiutare a risolvere i problemi di tutti. Le persone malate di Alzheimer in Italia sono novecentomila, un calcolo per difetto. Insieme alle demenze varie senili si arriva a un milione e quattrocentomila. Non si può pensare che sia una questione di famiglia. È un compito della società trovare i molti diversi modi – residenze, case famiglia, assistenza domiciliare seria e continuativa – per permettere a tutti di vivere una vita degna.

 

Giorgia Favero – Visto il clima socio-culturale che possiamo tratteggiare per il nostro Paese, pensando per esempio alla marginalizzazione dei più fragili e degli anziani, a una rincorsa della performance anche in ambito educativo, a una serie ancora lunga di pregiudizi da superare riguardo alla parità di genere, ritiene che la filosofia possa avere un ruolo attivo per un opportuno e auspicabile cambio di rotta?

Mariapia Veladiano – La filosofia è esercizio del pensiero. Alle nostre azioni spaventate e solitarie serve un pensiero che ci permetta di comprendere i fatti che accadono dentro una cornice. La malattia è una possibilità della vita. La vecchiaia è la sua naturale evoluzione. La sfolgorante giovinezza non è il modello di tutto, non è la normalità. È anche questa una stagione, bellissima, che si evolve. Tutto ciò che è pensiero protegge la vita.

 

Giorgia Favero

 

[Photo credit Giorgia Favero]

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Il fantasma dell’Opera: cosa c’entra Jung? E a noi cosa importa?

Il sipario scende immerso in uno scroscio di meritati applausi. Per la prima volta sto assistendo dal vivo a una rappresentazione de Il fantasma dell’Opera di Andrew Lloyd Webber dopo averlo visto nella versione del 25esimo anniversario e dopo averne consumato la playlist su Spotify. Nella quiete dell’intervallo, mentre l’adrenalina scende, mi parte involontaria una riflessione: che cos’ha quest’opera, così chiaramente fuori dal nostro tempo, che accende così tanto la fantasia? 

Brevemente la storia. Siamo nel 1890, Christine Daae è una ballerina dell’Opera Populaire ed è convinta che, morendo, l’amato padre le abbia mandato “l’angelo della musica” per insegnarle a cantare. In realtà scopriamo subito che l’angelo della musica è il Fantasma dell’Opera, essere che pare sovrannaturale perché fa capitare terribili incidenti in teatro ma in realtà, dietro la maschera, è un semplice uomo terribilmente sfigurato ma enormemente intelligente che si è nascosto nei sotterranei per sfuggire a una vita di emarginazione e disprezzo. E infatti ha anche un nome: Erik. Erik ama Christine e vuole farla sua attraverso la potenza della musica; quando compare Raoul, visconte di Chigny, che altrettanto s’innamora di Christine (che lo ricambia) diventa una furia e cerca di strappargliela via. In tutto ciò però non si capisce che cosa (o meglio chi) voglia davvero la ragazza.

Christine sembra trovarsi in mezzo tra due archetipi: da un lato il Fantasma/Erik, che incarna la notte, il mistero, i sensi, l’istinto, la musica; dall’altro Raoul che è luce, ragione, sicurezza, chiarezza1. In termini Disney, la bestia e il principe azzurro. La scelta tra i due rappresenta il “viaggio” di maturazione della ragazza2. Ma anche il Fantasma/Erik ha il suo percorso ed è l’amore di Christine a trasformarlo. Per lo psichiatra svizzero Carl Gustav Jung l’amore è un dio, qualcosa di archetipico, cosmologico, una forza psichica che ci trascende. Ed ecco che Erik, proprio come Marte posa il capo in grembo ad Afrodite in quella toccante scena del De rerum natura di Lucrezio3, si lascia invadere dall’amore incondizionato di Christine, tanto da sciogliere quel controllo di potere che ha su di lei e da rinunciare alla sua inclinazione malvagia e iraconda che tende ad annientare il prossimo. Attraverso la maschera del Fantasma, Erik si è preso quel potere furioso di chi ha passato una vita nel disprezzo e nello scherno altrui; un potere che ora cede finalmente all’amore.

Chi del resto vorrebbe semplicemente essere temuto? Chi non vorrebbe essere riconosciuto, accettato e amato? Eppure proprio quando Erik sembra riuscire a ottenere ciò che vuole – cioè Christine –, si accorge di non provarne alcun senso di vittoria. Di quell’uomo perseguitato dall’ “Ombra”, direbbe Jung – ovvero, semplificando, dominato dallo stato più inconscio e negativo di sé, un lato solitamente non riconosciuto –, grazie alla divina natura del femminile rappresentata da Christine, si è ora aperto il vero Sé. Chissà se il Fantasma ha più o meno incoscientemente inseguito Christine per essere risollevato dalle profondità in cui si era cacciato, convinto intimamente della possibilità di redenzione, di arrivare a individuare sé stesso – ovvero, per Jung, il raggiungimento della piena affermazione del Sé, il “farsi sé”.

E che dire della nostra protagonista? In quei due baci al volto orrendo al quale ha strappato la maschera, non c’è forse l’enorme coraggio di una persona che vuole liberarsi di questa figura posticcia del padre, che fino a quel momento le è stato mentore, amico, amante, padrone?4 E che al contempo vuole farsi anche salvatrice di Raoul – in quel momento tenuto in scacco dal Fantasma –, smettere di dipendere da lui per la propria salvezza?
La compassione come strumento di libertà. L’amore come risveglio. Il riconoscimento (prima dall’esterno e poi dall’interno) come fine ultimo. Mettendo in una scatola il lampadario di cristalli, i pesanti costumi di scena, le ambientazioni gotiche dei sotterranei dell’Opera Populaire, è un po’ questo che rimane. 

Certo, uno/a potrebbe anche vederci la storia di una stereotipatissima innocente ragazzina abusata da un uomo potente e disturbato che le fa credere di amarla – mentre in realtà il suo è solo becero desiderio di possesso –, un uomo del quale s’innamora preda della più classica sindrome di Stoccolma, e dal quale si allontana solo dopo che la sua pura bellezza interiore non ha “sciolto” il cuore malvagio della bestia cattiva e assetata di sangue con la quale no, giammai possiamo simpatizzare visto che ha ucciso una serie di persone… 
Ma dove sarebbe allora la poesia?
Certo, rimarrebbe la musica. Quei testi sublimi, capaci di toccare corde nascoste; quegli accordi trionfali, quelle melodie malinconiche. Forse bastano davvero solo questi.

 

Giorgia Favero

 

NOTE:
1 – “Turn your face away from the garish light of day / Turn your thoughts away from cold, unfeeling light / And listen to the music of the night. Let the dream begin, let your darker side give in / To the power of the music that I write”, canta il Fantasma a Christine.
2 – Un momento chiave di passaggio è la canzone solista di Christine “Wishing you were somehow here again” in cui canta: “Too many years / Fighting back tears / Why can’t the past / Just die?
3 – Lucrezio, De rerum natura, I 31-37: “Infatti tu sola [Venere] puoi con la tranquilla pace aiutare / i mortali, poiché i feroci effetti della guerra Marte / signore delle armi gestisce, lui che spesso nel tuo grembo si / getta sconfitto dall’eterna ferita di amore, / e così guardando in alto con il tenero collo ripiegato / soddisfa gli sguardi avidi di amore stando a bocca aperta verso di te, dea, / e dal tuo volto non si stacca il respiro di lui che giace“.
4 – “Pitiful creature of darkness, what kind of life have you known? God give me courage to show you, you are not alone” dice Christine al Fantasma/Erik prima di baciarlo.

[Photo credit unsplash]

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Graphic novel come visioni del mondo: al via il Treviso Comic Book Festival 2023

Venerdì 29 settembre si alzerà il sipario sulla 20esima edizione del Treviso Comic Book Festival (TCBF), il Festival Internazionale di Fumetto e Illustrazione che per tre giorni accenderà di colore ed energia il capoluogo veneto. Ad attendere i visitatori ci saranno 13 mostre, X talk con gli autori e X workshop creativi per tutte le età. TCBF è una kermesse che racconta il mondo del fumetto nelle sue sfaccettature contemporanee, tanto a livello estetico quanto concettuale.

In chiave più concettuale possono essere viste alcune delle esposizioni previste in questi giorni. In particolare quella che inaugurerà il 30 settembre a Casa Robegan: Swedish contemporary comics. Questa mostra raccoglie le tavole di tre artisti svedesi Moa Romanova, Bim Eriksson ed Erik Svetoft, fumettisti ma attentissimi osservatori della realtà circostante e crudi illustratori della società in cui vivono. Tre nomi con stili differenti ma accumunati dalla volontà di raccontare con la propria penna gli aspetti più intimi, complessi e, spesso, difficili da accettare dell’essere umano. In scena tre opere recentemente pubblicate in Italia che mettono in luce alcuni risvolti fortemente caratterizzanti della società svedese. Moa Romanova con l’edizione italiana del suo esordio “Goblin Girl” (Add editore), primo fumetto svedese vincitore del prestigioso Eisner Award, parte da sé stessa e dai propri conflitti interiori per affrontare la sua storia personale di ansia e depressione, di dipendenza, di una comunità femminile capace di stringersi e sostenere in un processo di accettazione e di racconto aperto. Bim Eriksson, con la sua prima graphic novel tradotta in italiano, “Baby Blue” (Add editore), si sposta su un mondo distopico, in un futuro immaginario in cui le forze al governo impediscono la tristezza e in cui, anche in questo caso, è salvifica la figura di una comunità coesa e accogliente nella quale rifugiarsi. Una narrazione che ha delle sfaccettature politiche ma che mantiene il focus su una dimensione intima di affermazione e conoscenza di sé. Tra le tre proposte, quella di Erik Svetoft con la sua opera “SPA” (saldaPress), in anteprima proprio al festival e sua prima opera a essere tradotta a livello internazionale, è di certo quella più irriverente. Il suo è un racconto caratterizzato da un umorismo grottesco nel genere horror in cui un luogo pensato per il benessere e la cura personale diventa l’asilo di mostri e creature putrescenti, in una metafora della nostra società e delle nostre aspirazioni e possibilità.

Ma non serve necessariamente andare all’estero per trovare un’analisi sociale profonda e graffiante in formato graphic novel. Sempre domenica 1° ottobre e sempre nella cornice di Casa Robegan inaugurerà la mostra Succede a tutti mamma, che raccoglie alcune opere selezionate di tre artisti della campagna veneta: Eliana Albertini, Iris Biasio e Miguel Vila. Con immagini in grado di mettere in connessione la dimensione esteriore e quella interiore, il visibile e l’invisibile, la produzione di questi artisti pare mirata a renderci consapevoli dell’instabilità dei sentimenti e la complessità dei rapporti (tra) umani. Nell’arco di pochi anni, questi ragazzi dalla personalità ben definita e sensibile ai mutamenti dei luoghi in cui abitano, hanno maturato una cifra stilistica riconoscibile e apprezzata da pubblico e critica, mettendo in scena una folla molto varia di umanità, colta nelle sue manie e nelle sue fragilità. Centro delle loro indagini sono le piccole normalità quotidiane, a volte patetiche, a volte pericolose, altre pittoresche e ambigue.

Questo è forse uno dei più nobili scopi dell’arte, di tutte le arti – quindi fumetto compreso (la nona arte): usare i propri strumenti e la propria grammatica per veicolare un messaggio. A volte si tratta semplicemente di tratteggiare dei contorni crudi e realistici del reale per indurre una riflessione personale. Non sempre, infatti, è necessario dare delle risposte o delle soluzioni: le opere più grandi non ne danno, lasciano che sia il fruitore ad attivare le proprie sinapsi e a riflettere. Questo anche il compito che sembrano essersi dati Moa Romanova, Bim Eriksson, Erik Svetoft, Eliana Albertini, Iris Biasio e Miguel Vila. Le premesse sono quindi ottime, non ci resta che vedere le mostre!

 

Giorgia Favero

 

[Photo credit Treviso Comic Book Festival]

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Clima, ecoansia e bias cognitivi: intervista a Luca Mercalli

Ciò che sta accadendo in Emilia Romagna è certamente tragico, ma è una conseguenza di una serie di azioni e inazioni umane che a livello collettivo dobbiamo deciderci ad affrontare se vogliamo davvero evitare che si ripetano, se vogliamo davvero dare dignità e valore al dolore e alla disperazione che stanno attraversando le persone colpite da questo evento estremo causato dalla crisi climatica. Alle persone che hanno perso la vita o che hanno perso la casa, la macchina e degli affetti dobbiamo almeno questo: la presa di coscienza della verità e una concreta azione conseguente.

Proprio su questi temi abbiamo recentemente dialogato con Luca Mercalli, meteorologo e climatologo, presidente della Società Meteorologica Italiana, responsabile dell’Osservatorio Meteorologico del Real Collegio Carlo Alberto di Moncalieri e docente in varie università. È direttore della rivista “Nimbus” e collabora con testate giornalistiche come “Il fatto quotidiano”. La sua attività di divulgazione scientifica l’ha portato alla pubblicazione di molti libri, ad essere ospite assiduo del programma RAI di Fabio Fazio Che tempo che fa e conduttore di un suo programma, Scala Mercalli, andato in onda nel 2015-16 su RAI 3.

 

Giorgia Favero – Ondate di caldo in febbraio e poi ritorno repentino del freddo, improvvisi e continui temporali e poi ritorno a settimane di calma piatta e arida; “bombe” d’acqua e siccità, caldo e freddo accostati come sulle montagne russe. È facile a volte per i giornali titolare con l’espressione ormai classica “meteo pazzo”: ma non sarà che, più che il meteo, siamo noi i pazzi?

Luca Mercalli – Certamente è una definizione anche un po’ di tradizione storica: “il tempo è impazzito” lo si diceva anche prima del riscaldamento globale nei momenti in cui si verificavano fenomeni anomali. Questo andava bene finché si trattava di essere spettatori di una variabilità naturale: la nostra vita è breve – soprattutto in un tempo passato in cui non c’erano osservazioni satellitari e banche dati – quindi è chiaro che la memoria storica di una vita poteva essere al massimo di un secolo e di conseguenza riscontrare anomalie che ogni tanto si ripetono giustificava quest’espressione: il tempo è pazzo. Oggi sappiamo che oltre che alla normale variabilità del tempo per motivi naturali – che ci sta per motivi naturali –, si è sovrapposta una variazione nuova indotta dalle attività umane: il riscaldamento globale. Direi quindi che ci dovremmo interrogare sulle sue cause, e questo significa prendere coscienza del danno che le attività umane stanno compiendo su tutti i processi che governano il pianeta, non solo sul tempo atmosferico. Certamente le attività umane cambiano il clima, ma cambiano purtroppo anche tutti gli altri processi che governano la natura: la perdita di biodiversità, l’inquinamento, la plastica negli oceani, la cementificazione, la deforestazione… sono tutti fenomeni che poi si traducono in cambiamenti irreversibili che portano effettivamente a qualcosa di nuovo sotto il sole rispetto a queste definizioni di “meteo pazzo” che potevano andare bene come battuta fino a un secolo fa, oggi sono da analizzare con maggiore responsabilità individuale. Adesso infatti abbiamo una parte di responsabilità relativamente a questa pazzia, e si chiama Antropocene

 

GF – Nella sua duratura e preziosa attività di divulgazione relativa al cambiamento climatico, ha parlato più volte di bias cognitivi che ci ingabbiano puntualmente nella sottovalutazione dei rischi, dunque una vera e propria distorsione nella nostra capacità di ragionare di fronte a una situazione. Quali sono questi bias cui accenna?

Luca Mercalli – Ci sono due elementi quando parliamo di clima che ci allontanano dalla presa di coscienza: uno è legato al fatto che dei cambiamenti climatici cominciamo a vedere i sintomi ma i danni peggiori li vedranno probabilmente le generazioni più giovani, coloro che verranno dopo di noi. Come sempre, quando c’è un rischio a lungo termine, proprio la fenomenologia del comportamento umano è quello di rimuoverlo. Lo vedo spesso anche in situazioni più semplici, banali e individuali, come quella del fumatore. Chi fuma, anche se avvertito dall’impatto che il fumo ha sui polmoni, tende a ignorare questa prevenzione perché il momento nel quale sperimenterà il danno sanitario è molto lontano nel tempo. Con il clima è ancora peggio perché i tempi possono essere più lontani ancora rispetto alla possibile formazione di un tumore per un fumatore e il clima è anche più astratto rispetto al fumo. Se già il malanno da fumo non convince il fumatore a smettere di fumare, pur essendo un danno su se stesso, a maggior ragione il clima convince ancora meno a prendersi delle responsabilità perché è un danno fuori da se stessi.
Il secondo motivo è invece al contrario legato alla dimensione del problema. Il problema è così grande e così globale che spesso il bias cognitivo è un modo di rimuoverlo. È qualcosa di così fuori dalla mia portata che è meglio ignorare: lo ignoro così non ho un’ansia o una nuova responsabilità generata dal prenderne coscienza.
Questi sono i due grandi elementi che fanno sì che le persone o ignorano il problema, quindi ne sono indifferenti, o addirittura lo negano con grande veemenza. Pensiamo infatti al negazionismo climatico, è una forma di difesa interiore, o almeno per chi non lo fa per interessi economici: sappiamo benissimo che c’è anche un negazionismo mosso da una precisa difesa degli interessi di parte, ma ce n’è anche uno molto più banale che è legato al tentativo dell’individuo di rimuovere e allontanare da sé un’ansia.

 

GF – Sul versante opposto c’è anche chi la gravità della situazione l’ha compresa e non solo riesce a individuare la follia di uno stile di vita totalmente incurante del pericolo imminente – direi già presente – ma ha sviluppato quella che oggi chiamiamo “ecoansia”, un termine coniato attorno al 2009 ma accolto solo nel 2021 nel lessico dell’autorevole American Psychological Association. Ritiene che questo fenomeno, che oltretutto riguarda soprattutto la popolazione più giovane, sia destinato ad aumentare?

Luca Mercalli – Tenga presente che io studio il clima e non ho certamente le competenze e la conoscenza per giudicare con i mezzi di chi studia la psiche umana, anche se questi diventano via via dei temi che sto cercando anche io di comprendere. Posso solo osservare che l’ecoansia può essere di due tipi: c’è un’ecoansia paralizzante e una che invece promuove l’azione. Io penso che un po’ di ansia sia necessaria, perché se non ci rendiamo conto della dimensione enorme del problema che abbiamo davanti poi è anche facile non occuparsene. Se tutto è sotto controllo, se non appare grave come realmente è, io non prendo dei provvedimenti, perché è molto più facile pensare che ci sarà qualcun altro a risolvere questo problema, oppure pensare che non sia così grande e urgente da risolvere. Io credo che sia necessario un livello minimale di ansia e di preoccupazione che però non deve essere panico, non deve essere qualcosa che blocca o che produce depressione o disfattismo. Una via di mezzo. Quella che vivo su me stesso: anche io ho un’ecoansia ma diciamo che l’ho mutata in azione, nel compiere concretamente delle scelte che migliorino il mio bilancio ambientale. Se ho fatto l’isolamento termico della casa e ho messo i pannelli solari credo di aver fatto qualcosa di giusto e utile a me stesso e alla collettività, quindi ho anche diminuito la mia ecoansia, perché ho potuto trasformarla in un atto concreto. Ho comprato la macchina elettrica e la carico con i miei pannelli solari, ho installato una cisterna per la raccolta dell’acqua piovana (invece della piscina), non utilizzo più l’aereo, mangio meno carne. Queste sono le cose che sono alla portata di un individuo. Sull’ecoansia legata alle decisioni sbagliate dei leader mondiali non ci possiamo fare molto: non siamo eroi. La psicologia ci insegna anche che dobbiamo essere consapevoli pure dei nostri limiti, altrimenti ci facciamo sopraffare dall’impotenza. Io dico, la via di mezzo è: comincia a fare tu quello che puoi.

 

GF – Nel suo libro Non c’è più tempo. Come reagire agli allarmi ambientali (Einaudi, 2020) scrive che in una ipotetica realtà parallela in cui lei fosse il Presidente del Consiglio promuoverebbe «un grande sforzo di sintesi tra scienze dure e scienze umane, con un nuovo ruolo della filosofia». Quale dovrebbe essere questo ruolo?

Luca Mercalli – Proprio quello che abbiamo detto finora. Tutta la nostra conversazione di adesso mette insieme questi mondi. Io in fondo rappresento più il mondo delle scienze naturali, però, chiedo e mi piacerebbe, l’aiuto delle scienze umane. Mi piacerebbe parlare di queste cose con l’antropologo, con lo psicologo sociale, con il sociologo e con il filosofo e trovare insieme delle soluzioni.

 

Grazie davvero a Luca Mercalli per questa chiacchierata!

 

Giorgia Favero

 

[Photo credits Wikimedia Commons]

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I diritti al centro della vita. Intervista a Giovanna Donini

Giovanna Donini è una scrittrice e autrice televisiva teatrale, da anni impegnata nel dare voce ai diritti delle donne e delle persone LGBTQIA+. Ha co-fondato l’associazione Il filo di Simo, in onore di suo nipote Simone, con lo scopo di offrire supporto a chi sta vivendo un momento di difficoltà emotiva e alla sua famiglia. Tra pochi giorni sarà a Treviso in occasione del Q.Pido – Treviso Equality Festival, di cui sarà protagonista mercoledì 17 maggio alle 21 alla Loggia dei Cavalieri. Ne abbiamo approfittato per qualche domanda sul suo lavoro e sui suoi valori, tra cui appunto la difesa dei diritti e delle fragilità di ciascuno di noi.

 

Giorgia Favero – Giovanna, tra pochi giorni sei attesa nella tua Treviso per il Q.Pido – Treviso Equality Festival, un’iniziativa del Coordinamento LGBTE per sensibilizzare la cittadinanza sulle istanze della comunità LGBTQIA+. Sei stata ospite anche in altre edizioni: che cosa significa per te partecipare a queste iniziative e sostenere queste istanze?

Giovanna Donini – Per me partecipare a queste iniziative è necessario e molto importante. Sono lesbica e ho sempre cercato, a modo mio, di non sottrarmi mai all’attivismo, anzi ho sempre cercato di dare, attraverso la scrittura, il mio contributo perché credo che sia, soprattutto adesso, ma lo è sempre stato, fondamentale lottare per ottenere e difendere i diritti.

 

GF – Al festival porti il tuo spettacolo Ti lascio per riprendermi, tratto dall’omonimo libro pubblicato per Solferino con Andrea Midena. In effetti la parte della separazione è quella meno indagata di una relazione, nonostante ci sia moltissimo da dire, molti consigli da poter dare, e molti motivi per provare a riderci su. In una società che ancora innalza la relazione e la coppia a status sociale preferibile, cosa fare per contrastare lo stigma dell’esser single?

GD – Noi nel libro diciamo chiaramente che nella nostra società la felicità è concepita solo per due, anche quando vai al ristorante da sola ti dicono: “Sola?” come se dicessero “Sfigata!?”. Io credo che non sia così. Però passa sempre questo messaggio che se non hai qualcuno sei infelice, sei incompleto. Io invece penso che prima di tutto e tutti devi amare te e poi sperare di avere fortuna e incontrare la persona che ti piace a cui piaci. Senza accontentarti mai. 

 

GF – In qualità di autrice per teatro e televisione, anche per artisti come Teresa Mannino che portano a gran voce sul palco una visione femminista, quale ritieni siano i punti nevralgici del dibattito sulla parità di genere oggi e quali a tuo parere dovrebbero emergere maggiormente?

GD – Conviviamo negli stereotipi, nei limiti culturali di cui siamo anche portatori sani, conviviamo nel patriarcato che è un virus pericoloso che però si può e si deve combattere dialogando in libertà. E a proposito di dialogo e quindi di linguaggio, per me, ad esempio, il dibattito sul linguaggio più inclusivo e ampio è fondamentale. È necessario dare un nome a ogni cosa perché abbiamo bisogno di nominare la realtà per poterla raccontare. 

 

GF – Cultura e intrattenimento: due cose che nel pensiero comune (e anche nelle riflessioni dei legislatori di turno) sembrano non convivere, anche perché la cultura sembra qualcosa di elitario mentre l’intrattenimento è pensato per un gruppo più ampio e indistinto di persone. Qual è secondo te il giusto punto d’incontro?

GD – Io amo definire tutto quello che faccio, penso e scrivo molto “pop”, il che non significa solo popolare ma indica qualcosa che ha a che fare con la cultura, una cultura che però raggiunga tutt* o almeno tantissime persone. Per me è – o meglio dovrebbe sempre essere – PoP il punto di incontro tra cultura e intrattenimento. 

 

GF – Pochi mesi fa la città di Treviso, la Commissione comunale Pari Opportunità e la Consulta Femminile ti ha insignita del riconoscimento “Riflettore Donna”, sottolineando l’importante percorso professionale ma anche “per essere un’attiva testimone del ruolo determinante delle donne nella crescita della nostra Comunità”. Pensi che sia importante per un artista lavorare sul proprio ruolo sociale, cioè all’interno di una collettività?

GD – È stato per me un onore ricevere questo premio così importante. Penso che chiunque faccia un mestiere come il mio non possa mai dimenticare che arrivando a molte persone può lanciare messaggi e “muovere” pensieri che possono fare bene alla collettività. 

 

Giorgia Favero

 

[Immagine di copertina fornita da Giovanna Donini]

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Chi ha festeggiato il primo maggio?

Eravamo tutti e tutte così presi dal 25 aprile, cercando di capire chi come e cosa l’avrebbero festeggiato, che ci siamo quasi persi un’altra data in calendario degnissima di essere dibattuta: il primo maggio.

Come l’avete trascorso? Molte persone avranno fatto una gita fuori porta, visitato dei monumenti, fatto grigliate o pranzi in compagnia. Un intero sistema di festa che ha funzionato grazie al lavoro di milioni di persone che questo privilegio non l’hanno avuto. Tutti gli uffici e i luoghi di produzione erano chiusi, ma che dire delle strutture ricettive? Oggi i giornali cartacei non usciranno perché ieri non hanno lavorato, ma vale lo stesso per tutto il mondo del giornalismo online? Il trasporto pubblico locale in tanti contesti si è fermato, ma l’hanno fatto anche le tratte aeree e le ferrovie? La posta non è stata consegnata, la spazzatura non è stata ritirata, ma chi ha permesso le gite fuori porta, il pranzo fuori casa, l’intrattenimento? Per non parlare dei pronto soccorso e delle guardie mediche. E stendiamo un velo pietoso sul popolo delle partite IVA, per le quali né lo Stato né Dio possono fermare una produttività imposta da un sistema malato. Sorvoliamo anche sulle casalinghe (e i pochissimi casalinghi), il cui duro impegno giornaliero non è nemmeno degno di un riconoscimento economico basic, e tanti altri lavoratori e lavoratrici che non vi è spazio di citare.

Certo, non è che il mondo si possa fermare per un giorno. Giusto? Insomma, se uno cade dalle scale ha il sacrosanto diritto di avere un ospedale che lo accolga e che lo curi. Ma siamo proprio sicuri che tutti i servizi ieri aperti erano proprio necessari? I giorni rossi sul calendario oggi sono pause in una corsa frenetica verso un poco chiaro traguardo: un riposo necessario ma che meriterebbe anche un briciolo di riflessione. Quanto ci siamo accapigliati i giorni prima del 25 aprile sulla presenza o meno dell’antifascismo nella Costituzione, e quanto abbiamo poi festeggiato la Liberazione quando il fantomatico giorno è arrivato? E il primo maggio, quanto abbiamo approfittato in nome del nostro relax e della nostra festa delle persone che non hanno potuto godersi lo stesso diritto?

Questione annosa e spinosa quella del delicato equilibrio tra lavoro (dunque produttività, performance) e diritti all’interno di un sistema capitalista. Sicuramente sono stati fatti enormi passi avanti rispetto alla fine dell’Ottocento, periodo a cui risale l’istituzione di questa festività che unisce molti Paesi democratici del mondo. Ma quali voragini esistono tra quanto la stessa nostra Costituzione prevede, i sogni dei costituenti e delle costituenti scritti nero su bianco nel 1947! Le questioni su cui una rivoluzione culturale nel mondo del lavoro non è solo auspicabile ma anche necessaria sono infinite – benessere lavorativo, parità salariale, opportunità per i cittadini svantaggiati, lavoro in nero e caporalato, equilibrio tempo vita-lavoro, e potremmo andare avanti a lungo – ma soffermiamoci su una delle tante: quella femminile.

L’articolo 37 della Costituzione recita: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”. A che punto ci troviamo, a quasi 80 anni di distanza? I dati del 2022 ci mostrano un quadro italiano in cui il gender pay gap (la differenza di retribuzione lavorativa tra uomini e donne) è di circa il 20%1. In particolare il gap nella retribuzione oraria è del 5% ma sale fino al 18% in quella annua; sale anche quando si alza l’età della donna, il suo titolo di studio e il suo livello gerarchico, ed è anche più alto nei contratti a tempo indeterminato; senza contare che la percentuale di donne neet (cioè che non lavorano né studiano) è più elevata rispetto agli uomini (44,6% contro il 26,4%). A giustificazione di tutto questo, la letteratura scientifica offre innumerevoli studi sulle modalità con cui i bias cognitivi orientano il mondo del lavoro e delle assunzioni, confermati per esempio dalla piccola rivoluzione avvenuta nel mondo delle orchestre da quando negli anni Ottanta si sono cominciati a fare i provini “al buio”2.

Infine, la questione della genitorialità. In questo caso la società si sta sicuramente evolvendo verso un’equiparazione tra il ruolo di madre e di padre nella cura dei figli. Forse in questo caso ancora più della legge: dal 2022 il congedo parentale per gli uomini (retribuito al 100%) sale da 4 a 10 giorni, mentre per le donne resta di 5 mesi. Una novità che è una conquista, ma lo squilibrio salta ancora all’occhio e dimostra un diverso modo di pensare al lavoro in base al genere. Una prima riflessione per un’inversione di rotta è auspicabile, e magari si può partire proprio dal nostro ufficio o azienda o negozio, forse proprio dalla nostra famiglia. Magari proprio il primo maggio, ma anche il due, il tre e il quattro…

 
Giorgia Favero

 

NOTE:
1 – https://alleyoop.ilsole24ore.com/2022/09/19/cosa-sappiamo-e-cosa-non-sappiamo-sul-gender-pay-gap/#_ftn1 
2 – https://www.theguardian.com/women-in-leadership/2013/oct/14/blind-auditions-orchestras-gender-bias 

[Photo credit: unsplash.com]

I monocromi: una riflessione sull’ “assenza di”

Davanti a una tela coperta da strati più o meno omogenei monocromatici può anche sorgere spontaneo dire “e che ci vuole”. È chiaro che il saper fare manuale è molto importante in questo ambito, ma questo scritto si vuole soffermare ancora sull’altra componente, non unica e nemmeno necessariamente dominante, forse quella più interessante: l’idea. Il concetto. Lo scopo. Non a caso, l’arte contemporanea è ricca di monocromi e questo tipo di opera punteggia alcuni momenti importanti del corso del Novecento, coinvolgendo artisti che attraverso di esso hanno espresso una tendenza, una volontà di ricerca di annullamento del quadro stesso.

Uno dei primi ad essercisi avvicinato è Kazimir Malevič, esponente del Suprematismo, il cui scopo era manifestare «la supremazia della sensibilità pura nell’arte»: in altre parole, il quadro di per sé non ha significato. Era il 1915 e i tempi non erano ancora maturi per un vero e proprio monocromo ma è certo che Malevič ne ha segnato il punto di partenza, congiuntamente a puntualizzare un momento di forte cambiamento nel mondo dell’arte. In principio era un quadrato nero su sfondo bianco – anzi, un quadrangolo, perché aveva i lati leggermente sgangherati, e non era nemmeno veramente nero perché risultato da una somma di altri colori. Un quadro che per Malevič stesso era «un primo passo verso la creazione pura in arte», ovvero arrivare allo zero e riuscire a superarlo, resettare l’arte dalla sua oggettività e farla rinascere: un’arte che, da quel punto zero, sboccia in forme geometriche che vivono ed esistono, nient’altro.

                      malevic-quadrato-nero_la-chiave-di-sophia          piero-manzoni-achrome_la-chiave-di-sophia

Dal nero quasi nero si è arrivati al bianco: il quadrato bianco su sfondo bianco di Malevič (del 1918) trova alcuni fratelli non proprio gemelli nel corso del Novecento, come per esempio gli Achromes di Piero Manzoni, e siamo ormai nel 1958. Monocromi senza colore, a-chromes appunto, bianchi. Una superficie di caolino o gesso stesa sulla tela lasciata asciugare e nell’asciugarsi assumere un suo disegno – grinze, pieghe, rigonfiamenti, scanalature: oltre al colore, allora, manca anche il gesto dell’artista, perché l’opera è autosufficiente, autodeterminata, puro significante, nessun senso esterno e nascosto, imposto. Solo la materia lasciata a sé stessa.

Non molti anni dopo Manzoni, dei nuovi monocromi si sono affacciati nel mondo dell’arte italiana: quelli di Mario Schifano. Di nuovo il monocromo diventa punto di partenza: tabula rasa della pittura informale a cui era dedito fino al fatidico 1961, il rosso era il colore privilegiato ma mai steso in modo uniforme, anzi, a tratti con un pennello più secco, oppure al contrario con goccioloni di colore. 

                monocromo-rosso-schifano_la-chiave-di-sophia       lucio-fontana_la-chiave-di-sophia

Vale la pena citare anche un altro illustre amico di Manzoni, Lucio Fontana, anche se la sua ricerca artistica l’ha portato fin da subito oltre il monocromo: monocromi con i tagli. Andare “al di là” del quadro, stavolta in senso letterale (non a caso lui chiama queste opere concetti spaziali). Così come del resto è ancora diverso il caso di Mark Rothko, poiché i suoi non sono veri e propri monocromi e inoltre, tanto per fare un esempio, la valenza del colore nel suo caso acquisisce un’importanza nella relazione tra le tonalità e non nel colore stesso, unico, solitario, autosufficiente. Ma tanti, tanti altri sono gli artisti che potremmo citare.

Finisco però con lui. Così noto per i suoi monocromi da essere diventato famoso come “Yves le Monochrome”. Erano gli stessi anni di Mario Schifano ma Yves Klein non voleva fare tabula rasa, né lasciare tutto lo spazio alla materia. Voleva aprire il mondo dell’assoluto. Dopo il rosso di Schifano e il bianco di Manzoni, il suo colore era il blu, anche se non un blu qualsiasi: se l’è brevettato lui, lo IKB, “l’espressione più perfetta del blu”. Lo scopo era la totale immersione nel colore, di quell’intensità quasi accecante e pervasiva che non era solo materia, come lo erano gli Achromes per Manzoni: i monocromi di Klein sono aspirazione all’infinito, all’immateriale. Il blu è “l’invisibile che diventa visibile” e il quadro una sorta di ponte per una nuova dimensione.

             mark-rothko_la-chiave-di-sophia       yves-klein-monochrome-bleu_la-chiave-di-sophia

In queste opere, tutti questi artisti hanno messo in scena, a modo loro, il gioco di pieno e vuoto, concetti sbadatamente considerati opposti dalla tradizione occidentale ma in realtà entità unica nella concezione orientale che per esempio Yves Klein, dall’alto della sua cintura nera e quarto Dan, conosceva bene. I monocromi sono quadri apparentemente semplici, solo apparentemente finiti all’interno del loro quadrato e del loro codice cromatico, ma spesso, come ben ci ricorda Antoine de Saint Exupéry, l’essenziale è invisibile agli occhi. Con gli occhi con cui dunque si guarda la tela, con intensità, con una mente attenta, bisogna anche andare oltre la mera e nuda superficie (letteralmente) e indagare cosa ci sfugge, perché a volte – e questo succede spesso nella vita – la noncuranza, la velocità e la superficialità ci fanno smettere di chiedere quei perché che ci portano in profondità nelle cose, nelle relazioni, nelle emozioni. Niente infatti è mai così semplice, nemmeno una tela quadrata blu. E quindi quando ci troviamo davanti a un vuoto, a una mancanza – di suono, di colore, di attività, di persone –, proviamo a chiederci se è veramente un male, se davvero è qualcosa che va riempito o forse va goduto per sé stesso, per quello che è, così com’è.

 

Giorgia Favero

 

[Immagine di copertina: dettaglio di uno dei monochrome di Yves Klein, 1959]

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Un’arte per Cutro

A giorni di distanza da quel 26 febbraio non si è ancora spenta la polemica attorno al naufragio di Cutro. Mentre scrivo viene recuperato il corpo della 76esima vittima (un’altra bambina) e ci si accapiglia sul karaoke (comprensibile o inopportuno) della premier con il ministro delle infrastrutture. Passerà ancora del tempo e la contingenza della nostra vita moderna sempre in affrettata metamorfosi metterà questa tragedia nel già ricco cassetto della memoria delle tragedie.

Ma se la cronaca scompare sotto tonnellate di notizie giornaliere, forse tocca di nuovo all’arte il compito di rendere immortale un fatto e il suo pesante bagaglio emotivo. Un’arte che fugga quella che Arendt definiva la «vuota ragione della bellezza» e che secondo le parole di un altro filosofo, Adorno, pronunciate già negli anni Sessanta, «si addentra nell’ignoto, assumendo quel che è orrido e negativo del presente, per trasfigurarlo. Fino a farsi sfida al disincanto, perenne tensione, rinuncia alla serenità, dissonanza proclamata con serietà e inquietudine»1.

Questo il compito dell’arte politica, ovvero dell’arte come «riflesso e tribunale del presente»2, e degli artivisti, che «si fanno interpreti soprattutto del volto più perturbante della cronaca»3, intendendo il perturbante nel senso freudiano di ciò che genera spavento, angoscia e terrore. Come quelle immagini regalateci dalla cronaca di quelle decine di corpi strappati con fatica e sudore dalle onde infrante sulla sabbia di Cutro. Il tema delle migrazioni è appunto uno dei soggetti più indagati dall’arte politica, uscendo però da una chiave d’interpretazione soggettiva per privilegiare una restituzione oggettivo-antropologica in cui lo scopo è quello di responsabilizzare lo sguardo, ovvero dire allo spettatore: se stai guardando, sentiti chiamato in causa in prima persona.

Si tratta di un’arte a 360 gradi che coinvolge istallazioni, cinema, poesia, pittura, suoni, ecc. e proviene anche da artisti molto noti del panorama artistico internazionale. Ci sono opere minute, piccole ferite inferte nelle tenebre come l’intervento di Banksy su una parete di Rio Ca’ Foscari a Venezia: un bambino naufrago avvolto da un giubbotto salvagente con in mano un fumogeno fluorescente (2019). Oppure monumentali come i (discussi) 22 gommoni di salvataggio incastonati nelle bifore di Palazzo Strozzi a Firenze da Ai Weiwei, che provocatoriamente, sempre nel 2016, ricrea con il proprio corpo la famosa foto del piccolo Aylan Kurdi sulla spiaggia di Lesbo. Oppure sono opere da vivere, come la performance VB65 messa in scena da Vanessa Beecroft nel 2009 al PAC di Milano dove a una lunga tavola trasparente non apparecchiata sedevano dodici migranti africani in smoking mentre consumavano con le mani pollo e pane strappati a mani nude.

Quella Cutro è l’ennesima tragedia umana da riporre nel cassetto dei ricordi dolorosi, già particolarmente pieno alla voce “Mediterraneo”, territorio di speranze infrante e promesse non mantenute, sepolcro di quelle che a tutti gli effetti sono «vite di scarto generate dalla globalizzazione»4. Come scriveva Mazzucco, «il mare non dimentica, restituisce e trasforma ciò che non gli appartiene. Quei corpi […] diventeranno ciabatte, monconi e stracci che le onde rumineranno mesi e anni, per poi deporle su qualche spiaggia, come immonde uova di un’umanità infeconda. La nostra»5. Questi “corpi trasformati dal mare” sono per esempio conservati al Museo Porto M di Lampedusa, dove dal 2008 Giacomo Sferlazzo e il collettivo Askavusa raccolgono la memoria collettiva della migrazione sull’isola, fatta di oggetti banali recuperati dai barconi e che racchiudono innumerevoli storie. Ci sono invece gli abiti al centro dell’istallazione di Kader Attia La mer mort del 2015: jeans, magliette, maglioni e vestiti sparsi a terra alla rinfusa con sfondo un’immagine delle onde del mare. Nel 2019 l’artista svizzero Christoph Büchel espone alla Biennale di Venezia Barca nostra, il relitto di un naufragio avvenuto al largo della Libia nel 2015 costato la vita a quasi mille persone: una gigantesca spina nel cuore di una delle principali manifestazioni artistiche mondiali. Gigantesca è anche Porta di Lampedusa – Porta d’Europa di Mimmo Paladino, una scultura che è anche monumento, in ceramica refrattaria e ferro zincato; si staglia per circa 5 metri in altezza e 3 in lunghezza, posizionato nel 2008 sull’ultimo promontorio dell’isola per ricordare chi si è salvato e chi invece è morto.

L’arte da sola non risolverà certo la crisi migratoria, né tantomeno darà un perché a quanto accaduto a Cutro, ma ha il dovere di pungolarci costantemente, anche dove non ce lo aspettiamo, per imporci di non cedere all’oblio: se è vero il motto “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”, è il caso di tenere certi fallimenti del genere umano sempre bene in vista.

 

Giorgia Favero

 

1. T.W. Adorno, È serena l’arte?, Einaudi, Torino 1979, pp. 273-280
2, 3, 4. V. Trione, Artivismo. Arte, politica, impegno, Einaudi, Torino 2022, p. 13, p. 28, p. 50
5. M. Mazzucco, Il mare della pietà perduta, in “La Repubblica”, 15 giugno 2018

[Photo credit Zeno Striga, l’opera di Banksy a Venezia]

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Salvare il pianeta scrivendo storie migliori

Troppo spesso il tema cambiamento climatico è abbandonato agli scienziati, che ci dicono cosa sta succedendo, a che velocità e con quali probabili (catastrofici) risultati futuri. Manca ancora un solido coro di voci che racconti tutto questo in modo diverso, un modo che possa far breccia nella mente e nello spirito delle persone. Come scrisse Magnason ne Il tempo e l’acqua (Iperborea 2019) riportando un dialogo con uno scienziato di nome Lucht, «pubblichiamo grafici ed esiti di simulazioni computerizzate che parlano la lingua delle nostre discipline: la gente li guarda, annuisce e forse in un certo senso li assimila, ma non li capisce nel vero senso della parola […] La gente i numeri non li capisce, ma le storie sì. Tu che sai raccontare storie, devi raccontare questa»1.

Dello stesso avviso sembra essere la scrittrice americana Rebecca Solnit, che in un recente discorso all’università di Princeton e poi riportato sul “Guardian” propone una prospettiva nuova: «dobbiamo trovare storie di un futuro vivibile, storie di forza popolare, storie che motivino le persone a fare quel che serve per creare il mondo di cui abbiamo bisogno»2. L’idea è che di storie ce ne siano parecchie ma che non vengano raccontate, o almeno non con la frequenza e l’intensità di cui avremmo bisogno. La rivoluzione energetica è in crescita, il quadro generale dal lato scientifico-tecnologico (per esempio legato alle rinnovabili) è «incoraggiante e persino sorprendente» in termini di fattibilità, produzione e costo, eppure «le persone trovano fin troppo credibili le narrazioni deprimenti, che siano fondate su fatti o no», rischiando così di giungere alla profezia (catastrofica) che si autoavvera. Nel 2022 infatti “Nature” ha condotto un sondaggio dal quale emerge che la maggior parte degli statunitensi crede che solo una stretta parte di cittadini (37-43%) sia favorevole all’azione contro la crisi climatica, mentre in realtà lo è una sezione ben più ampia di popolazione (66-80%).

Questo avviene anche perché ci manca l’immaginazione. Anche se si tratta di un processo lungo, lento e faticoso, «è conquistando l’immaginazione popolare che si cambiano le regole del gioco e i suoi esiti possibili». Non siamo capaci di immaginare delle soluzioni diverse rispetto al modo in cui viviamo adesso, non siamo in grado di dipingerci un finale che non sia catastrofico – grazie anche allo zampino della cultura di massa, dal cinema alla narrativa – e quindi non ci aspettiamo altro che l’estinzione. Paradossalmente, invece, come sottolinea bene Solnit, può venirci incontro proprio la storia. La storia ci insegna quali enormi cambiamenti abbiamo fatto anche soltanto negli ultimi decenni: in termini di stile di vita ma anche di diritti civili, e anche in termini ecologici. L’autrice per esempio ricorda che fino agli anni Sessanta la produzione energetica del Regno Unito si basava quasi esclusivamente sul carbone, mentre ad oggi ne ottiene più della metà da fonti a bassa emissione di CO2.

Dobbiamo anche rivedere la storia della responsabilità individuale. Un tema stupendo che dovremmo comunque rispolverare, magari leggendo Il principio responsabilità di Hans Jonas del 1979. Però va presa con opportuni distinguo. Per esempio, diversificando la responsabilità individuale di un italiano (o di un americano) rispetto a un bengalese. Ma anche ricordando che come individui non siamo solo consumatori – quindi non basta cambiare alimentazione, lasciare a casa la macchina e abbassare di un grado il riscaldamento – ma siamo anche molto di più: cittadini, ovvero esseri che si aggregano e che insieme possono fare anche di più. L’impronta individuale è un’ansia ecologica che per convenienza hanno creato le grandi aziende, per esempio nel settore dei combustibili fossili, i maestri assoluti di greenwashing. «I soccorritori di cui abbiamo bisogno agiscono soprattutto in modo collettivo: movimenti, alleanze, campagne, società civile […] Ci mancano storie in cui sono le azioni collettive o la paziente determinazione degli attivisti a cambiare il mondo».

Un coro è più facile da sentire di una singola voce e può produrre un’eco importante. Il tema climatico viene raccontato per grandi eventi e non per piccoli passi, eppure iniziative di singole città, piccoli stati, singole aziende, nuovi cantieri, progettazioni su scale interregionali possono segnare un precedente e spingere all’emulazione a cascata. Esempi significativi e storie di speranza che meritano di essere raccontate a gran voce. Storie che non nascondono l’imbiancamento dei coralli, lo scioglimento dei ghiacciai, la perdita di biodiversità, l’estinzione di sempre più animali e così via, però ci contestualizzano all’interno di una battaglia che – se siamo disposti a combattere con rinnovata energia – forse possiamo ancora vincere.

 

Giorgia Favero

 

NOTE:
1-A. S. Magnason, Il tempo e l’acqua, Iperborea, Milano 2019, pp. 69-70.
2-R. Solnit, If you win the popular imagination, you change the game: why we need new stories on climate, in “The Guardian”, https://www.theguardian.com/news/2023/jan/12/rebecca-solnit-climate-crisis-popular-imagination-why-we-need-new-stories. Il testo è stato riportato su “Internazionale”, n. 1500, 17-23 febbraio 2023, pp. 88-94.

[Photo credit unsplash.com]