I cinque passi

Passo 1: la negazione
È quasi un mese che sono seduta accanto al tuo letto, in questa sterile camera d’ospedale che abbiamo cercato di rendere insieme un po’ più calda, un po’ più familiare. Una nostra foto, le tue creme, il tuo pupazzo portafortuna vicino alle tante, troppe medicine.
È quasi un mese che sono seduta costantemente accanto al tuo letto, ma un’ora fa ho deciso di andare a casa a fare una doccia. Sarà passata forse mezz’ora e mi hanno chiamato dall’ospedale: mi hanno detto che sei morta.
Ho ringraziato e ho riagganciato. Mi sono vestita, mi sono truccata e sono venuta in ospedale. Le infermiere mi sono venute incontro, mi hanno detto che erano dispiaciute, perché ormai a te erano affezionate, e mille altre cose che non ricordo o che forse, semplicemente, non ho ascoltato. Ho sorriso, ho annuito. Non ho versato neanche una lacrima. E poi mi hanno portata da te. E adesso mi ritrovo, esattamente come tutti gli altri giorni, seduta accanto a te, seduta accanto a un letto di ospedale, solo in una camera che non ha niente di personale.

È tutto così irreale.

Ti guardo e non ti vedo, ti tocco ma non ti sento. Forse questa non sei neanche tu.

Passo 2: la rabbia
Ho dormito come non dormivo da settimane. È stata una notte buia, profonda. Non ho sognato. Questa mattina mi sono svegliata e senza pensarci mi sono vestita, ho preso la macchina e sono venuta in ospedale. Ho parcheggiato e sono salita in reparto. Sono arrivata davanti alla tua camera.
Non c’era più niente. Non c’eri più tu.

È in quel momento che ho realizzato che te ne sei andata, che mi hai abbandonato. Ho iniziato a sentire dentro di me un vuoto incolmabile. Un vuoto che fa male. Il dolore si è localizzato nel petto. Una fitta che mi ha tolto il fiato. È passato allo stomaco. Credo che le mie interiora si siano attorcigliate tutto d’un tratto. E poi… poi semplicemente si è diffuso a tutto il corpo. E sono rimasta immobile, davanti a quella porta, stretta in una morsa, fino a quando non mi sono abituata a quel dolore.

Ed è esplosa la rabbia. Violenta. Improvvisa. Inaspettata.

Mi si è avvicinata un’infermiera, che mi ha guardato con una tale pena negli occhi da farmi vergognare. E ho iniziato a urlare. Ho chiesto di essere lasciata in pace, in fondo ero solo passata a vedere se avevo dimenticato qualcosa la sera prima. Ma che mondo è questo? Siamo state un mese in quella stanza e adesso che sei morta non mi ci fanno neanche avvicinare? È una vergogna. E me ne vado. Salgo in macchina e inizio a correre, senza sapere dove andare, smarrita.
Sono arrabbiata. Arrabbiata con l’ospedale che ha già riempito la tua stanza. Arrabbiata con me stessa per essere venuta lì, convinta di trovarti. Arrabbiata con tutto il resto del mondo, che continua ad andare avanti come se nulla fosse successo. Mi guardo intorno e vedo la gente ridere, sbuffare, parlare al telefono. E tutto questo mi fa arrabbiare ancora di più. Sono talmente arrabbiata che stringo il volante fino a farmi male alle mani. Sono talmente arrabbiata che non so neanche quello che sto facendo o dove io sia.

Sono talmente arrabbiata che penso di odiarti.

Come hai potuto? Perché sei stata così egoista da lasciarmi? Mi hai abbandonata. Qui. Immobile. Sospesa. Non mi hai spiegato come fare ad andare avanti. Non mi hai spiegato come affrontare tutto questo. Non mi hai neanche aspettato per andartene. Lo hai fatto quando io non c’ero. E non me lo perdonerò mai. Perché mi hai fatto questo? Perché non sei andata prima dal medico? Perché hai voluto fare tutto da sola?

Sono arrabbiata. E sono arrabbiata proprio con te. Ma la verità è che la rabbia non mi impedisce di amarti e di sentirmi meno sola.

Passo 3: la negoziazione
È passato un mese. La rabbia è stata la mia compagna quotidiana. Ho mangiato rabbia. Respirato rabbia. Vomitato rabbia. La rabbia ha assorbito e bruciato tutte le energie che avevo. Ho provato a seminarla. Ho cercato di reagire alla sensazione di impotenza che provavo. Ho cercato delle risposte. Ho cercato giustificazioni. Mi sono detta che non eri più tu. Mi sono detta che è stato un bene. Per te, che non avresti più sofferto. Per me, che non ti avrei più vista soffrire, che avrei potuto riprendere il lavoro, che avrei potuto riprendere la mia vita da dove l’avevo lasciata quando avevo capito che non ci sarebbe stato più molto tempo per noi. Mi sono detta che qualcosa dopo la morte ci deve pur essere. Mi sono detta che mi saresti stata sempre vicino. Mi sono detta tante cose e mi sono arrabbiata tante volte. Ho fatto tutto questo per avere uno scudo dal dolore. E forse è vero, con lo scudo della rabbia e delle giustificazioni si soffre in modo diverso, ma si soffre lo stesso. E la cosa più difficile è dire a me stessa che tu non tornerai più. Che l’ultimo abbraccio è stato veramente l’ultimo. Che l’ultima risata è stata veramente l’ultima volta in cui ti ho visto sorridere, l’ultima volta che ne ho sentito il suono.

Ma tu non tornerai più.

Questa è la realtà.

Passo 4: la depressione
Ed è arrivato il momento in cui ho ammesso che eri morta. Che non potevo farci niente. Che non potevo scappare da quella che era la realtà. E sono caduta. Nella disperazione. Nella depressione. Non mi sono alzata dal letto per una settimana. Non mi sono lavata. Non ho mai aperto le finestre per guardare se pioveva o se fuori c’era il sole. Ho pianto e dormito. E ho pianto ancora. Ho digiunato. E poi ho mangiato chili di biscotti, gelato, patatine. Anche in quest’ordine. E ho annusato i miei cattivi odori. Non ho mai acceso il telefono o risposto al citofono. E quando mi è sembrato di non soffrire abbastanza ho spruzzato il tuo profumo sul cuscino. E ho ricominciato a piangere. Fino a quando non ho iniziato ad alzarmi e a fare qualche passo, prima incerto, poi più deciso.

Passo 5: l’accettazione
E sono sopravvissuta. Pensavo che non ce l’avrei fatta. Pensavo che non sarei mai più uscita da quel letto. Pensavo che non sarei riuscita a sopportare tutto quel dolore. Ho avuto paura di vivere e ho sperato di morire, per non provare più niente. Ma non sono morta, sono viva. E sono in piedi. Un po’ azzoppata forse. Ma in piedi. Ho affrontato tutto il dolore che avevo, non sono scappata.
Ho negato la tua morte, mi sono arrabbiata, ho cercato delle spiegazioni, mi sono abbandonata al dolore e adesso sono qui, ad accettare tutto questo. Anche se non mi piace. Ho accettato di dirti addio. Ho accettato il vuoto che mi hai lasciato. E ho accettato di dover riprendere la mia vita.

Soffro meno?

No. Il dolore ancora mi accompagna silenzioso. E a volte, quando mi distraggo, mi colpisce. Una canzone, un profumo, un luogo: un ricordo. E mi devasta. Ma poi si ritira. Per poi ritornare. Ma lo so, le ondate saranno sempre meno frequenti, sempre meno violente, fino a quando la cicatrice nel mio cuore si rimarginerà del tutto e pensarti non mi farà più così male.

Quanto ci può mettere un cuore a guarire? Un tempo “giusto” non c’è, ci sono “solo” cinque passi [₁].. il tempo dipende da quanto ci impieghiamo a mettere un piede davanti all’altro. È come imparare di nuovo a camminare. È come imparare di nuovo a vivere.

[₁]ELISABETH KÜBLER ROSS. Sulla morte e sul morire, 1969.

Giordana De Anna

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Due ali controvento

Si ricordava la prima volta che l’aveva vista, paonazza ancora per lo sforzo di venire al mondo, un viso rotondo, due occhi azzurri e quella macchia di capelli biondi, quasi bianchi.

Se ne era innamorata subito.

Anzi, no. Se ne era innamorata ancora prima.

Aveva iniziato a innamorarsene quando la sua mamma le aveva detto che avrebbe avuto un altro bambino, oltre a lei, e che questo bambino le avrebbe fatto il regalo di non sentirsi mai sola nella vita.

Se ne era innamorata un po’ di più quando le dissero che sarebbe stata femmina. A quel punto si era proprio sciolta. Finalmente qualcuno come lei. Finalmente qualcuno che la potesse capire. Finalmente qualcuno con cui avrebbe potuto giocare giorno e notte, qualcuno con cui avrebbe potuto cospirare quando i genitori le negavano qualcosa, qualcuno con cui piangere e ridere e litigare.

Sarebbero state semplicemente loro due.

Contro il mondo, contro tutti, controvento.

E aveva iniziato a fare lunghi discorsi con quella pancia che cresceva a vista d’occhio ma sempre troppo lentamente per lei che non vedeva l’ora che nascesse. Parlava tanto con quell’esserino dentro a quel pancione; parlava tanto, lei, che una gran chiacchierona proprio non era. Ma si era definitivamente innamorata quando l’aveva vista. E ancor di più quando l’aveva potuta toccare.

L’amore vero è cresciuto con gli anni. Prendendola per mano e difendendola quando poteva. Giocando e litigando giorno dopo giorno. Piangendo e ridendo insieme. Consolandola e facendosi consolare. Ascoltandola per ore e ore e facendole ascoltare i suoi silenzi. Parlando a lungo, regolarmente, con la naturalezza che porta l’essere cresciuti insieme; e magari parlare di niente, perché tanto si sapeva già tutto, senza mai lasciarsi ingannare dalle piccole bugie dell’altra e riuscendo a riconoscerne, come per istinto, i veri sentimenti. Criticandosi, senza mai offendersi. Combattendo insieme nelle battaglie quotidiane. Intessendo i fili della loro esistenza.

E sono cresciute, mano nella mano, a volte più vicine, a volte più lontane, indissolubilmente legate. Sempre e comunque loro due, nonostante tutto, contro il mondo, contro tutti, controvento.

Si ricordava la prima volta che l’aveva vista. Guardandola ora stenterebbe a riconoscerla. Capelli rossi, viso tutt’altro che rotondo e occhi color nocciola che al sole assumono una sfumatura ambrata, quasi felini, in contrasto con la sua dolcezza. Da bambina chiacchierona a ragazzina timida a donna ironica e sagace. La credeva delicata ed era una roccia. Si ritrova a fianco una vera e propria Donna, di quelle con la D maiuscola. Quello che non è cambiato è che ancora oggi a guardarla se ne innamora. Sempre un po’ di più.

Quello che le aveva detto sua madre era vero: aveva trovato una compagna per la vita, per camminare insieme, semplicemente loro due, contro il mondo, contro tutti, controvento per affrontare le burrasche della vita, certe che ognuna sarebbe stata il punto fermo dell’altra.

Giordana De Anna

[immagine tratta da Google Immagini]

Infinite volte Donna

Infinite volte donna

Infinite volte donna è quello che sono diventata, perché la donna non è una sola, la donna è tante ma soprattutto ha tante anime.

Infinite volte donna è quello che sono diventata quando ho capito cosa significasse essere donna. Nelle sue complicate sfide, nelle sue numerose complicazioni, nelle sue variopinte sfaccettature emozionali.

Infinite volte donna è stato punto di arrivo e di partenza del viaggio.

Ho smesso di congelare le mie emozioni e ho lasciato che mi si leggessero in faccia tutte le delusioni e le amarezze per le quali sono passata; ho lasciato che le gioie mi accendessero il sorriso senza che la paura lo smorzasse prima ancora di nascere.

Ho smesso di odiare il mio corpo e ho imparato ad accettarlo. Con i suoi difetti e le sue imperfezioni, più o meno evidenti agli occhi degli altri ma sempre troppo presenti ai miei. Ho imparato a capire che tutte le donne non si vedono mai abbastanza belle, un po’ perché si confrontano con dei modelli ideali irraggiungibili, un po’ perché usano il corpo come specchio di se stesse e del bene che si vogliono.

Ho imparato che, se di bene non te ne vuoi neanche un po’, il tuo corpo diventa un incubo: il campo di battaglia nella guerra con te stessa. Ho imparato che è una guerra in cui non sarai mai il vincitore. Ho smesso di sentirmi in colpa. Ho smesso di sentirmi sbagliata. Ho smesso di volermi diversa da quello che sono.

Ho iniziato a decidere in virtù di quali caratteristiche mi sarei voluta piacere. Ho smesso di far finta di non avere aspirazioni e ho iniziato a lasciare che la paura di fallire servisse a spingermi a fare il possibile senza bloccare ogni mia passione. Mi sono data obiettivi, senza una particolare data di scadenza. Mi sono concessa di respirare. E di sbagliare. Di seguire una strada, ma di fare anche una deviazione. Ho imparato la temperanza.

Ho smesso di provare sfiducia negli altri, temendo al tempo stesso la solitudine, e ho imparato a vivere sola con me stessa. Ho imparato ad aspettare e a rimanere sospesa nell’incertezza dei sentimenti e della vita, in bilico, senza aver troppa paura di cadere.

Ho imparato ad accettare che non è tutto come vorrei. Ho imparato ad accettare che la vita non è controllabile e, proprio per questo, meravigliosa.

Ho smesso di provare rabbia e ho imparato ad amare, prima me stessa e poi quel qualcuno che mi si è affiancato in punta di piedi, sconvolgendomi il cuore.

Ho imparato a volermi bene, un passo alla volta.

Per diventare infinite volte donna, infinite volte me stessa.

Giordana De Anna

[immagini di proprietà di stART Dare forma alla creatività]

Storia di una vera amicizia

 

Ognuno ha un amico in ogni fase della sua vita, ma poche persone hanno lo stesso amico in tutte le fasi della loro vita.Anonimo

Succede rare volte che una persona entri nella tua vita e non ne esca più. Nonostante i tuoi problemi, le tue mancanze, i tuoi difetti. Nonostante il cambiamento a cui siamo destinati.

Nonostante la vita.

Succede rare volte nella vita che una persona ti prenda esattamente per quello che sei -per tutto quello che sei- e non se ne lamenti, non ti accusi, non te lo faccia pesare.

Succede rare volte e quando la incontri non lo capisci subito.

Non capisci subito che quella persona lì non se ne andrà mai. E che puoi essere così come sei perché in ogni caso quella persona saprà leggere oltre le mille maschere che porti. Non lo capisci subito, semplicemente impari a conoscerla, un giorno alla volta.

Era successo questo a Sara e Zoe. Si erano conosciute in prima superiore, all’inizio della loro adolescenza. Sara era espansiva e solare, un uragano di vita. Aveva una massa di capelli ricci e biondi, gli occhi azzurri e un corpo che somigliava già a quello di una donna. Zoe, invece, era introversa e riservata, guardava il mondo di sottecchi e lo dipingeva sul suo blocco notes. Era esile e longilinea, coi capelli lunghi e neri. Ognuna aveva qualcosa che all’altra mancava. Non avrebbero potuto essere più diverse ma, allo stesso tempo, non avrebbero potuto attrarsi di più.

L’adolescenza, si sa, è l’età della “migliore amica”. Sono gli anni in cui si costruiscono quelle relazioni così intense ed esclusive. Gli anni in cui si fa tutto insieme. Gli anni in cui ci si imita, per acquisire quella sicurezza che ci manca. Gli anni in cui amicizia è stare insieme, senza uno scopo preciso, a parlare. Parlare di come si è e di come si vorrebbe essere; parlare delle strategie per farsi notare da un ragazzo e del perché è proprio lui a piacerci e non un altro; parlare per lamentarsi dei propri genitori, troppo severi, troppo invadenti, troppo distanti; parlare del proprio corpo che cambia o che, al contrario, stenta a cambiare. Si passano ore a parlare e a condividere segreti, ci si confida e ci si rassicura, ci si sente finalmente capite. L’amicizia in adolescenza è quel tipo di relazione che ci permette di cercare e capire chi siamo e che ci accompagna nella costruzione della nostra identità.

E Sara e Zoe non facevano eccezione. Sempre insieme, invincibili. Affrontavano il mondo, forti l’una della presenza dell’altra. Si raccontavano tutto, certe di essere capite.

E l’adolescenza era passata. Sara e Zoe erano cresciute e la loro amicizia aveva perso quel carattere di esclusività e “simbiosi”. Per dirla con le parole di Plutarco

Non ho bisogno di un amico che cambia quando cambio e che annuisce quando annuisco; la mia ombra lo fa molto meglio.

Le loro aspettative reciproche erano più realistiche e meno idealizzate. Il loro rapporto aveva lasciato spazio alle loro individualità e avevano imparato a conoscersi di nuovo, non per quello che una rispecchiava dell’altra ma per l’identità che ognuna aveva acquisito anche grazie all’altra. Avevano imparato ad apprezzare ogni loro sfumatura, per quanto scomoda. E a stimarsi. E ad avere fiducia l’una dell’altra, che per Zoe soprattutto non era cosa facile perché non era certo una che si buttava a capofitto nel voler bene a qualcuno o che si lasciava conoscere davvero. La loro amicizia non era più uno strumento per avere uno specchio di se stessa che confermasse le scelte l’una dell’altra, ma era diventato uno scambio, un confronto. Ognuna con le proprie vite. Avevano imparato che anche quando erano in due parti del mondo diverse c’erano lo stesso l’una per l’altra. Avevano imparato che la vera amicizia non consiste nell’essere inseparabili quanto piuttosto nel riuscire a separarsi senza che questo cambi qualcosa. Avevano scoperto che pur avendo fatto scelte diverse il loro rapporto non si era allentato, era solo cambiato. Avevano scoperto che essere amiche voleva dire non essere amiche “se…”, ma essere amiche “nonostante”.

Questo sono Sara e Zoe: una storia di vera amicizia. Un’amicizia che si sviluppa negli anni, intrecciando due destini, a dispetto della vita.

Non esistono moltissimi studi psicologici sull’amicizia e non è stato ancora affrontato il problema di come distinguerla dalle altre forme di amore. Quello che però confermano quelli esistenti è l’importanza dell’amicizia per il nostro benessere psicologico in tutto l’arco della nostra vita in termini di sostegno sociale e benessere emozionale e identitario. Nonostante durante il nostro ciclo di vita gli amici cambino e cambi anche il valore che attribuiamo all’amicizia stessa, ogni tanto succede che qualcuno ti prenda per mano e non ti lasci più, anche quando molli la presa: per me questa è la vera amicizia, quella che quando voli troppo in alto o quando stai sprofondando tiene la presa e ti fa rimanere te stesso, ti aiuta ad avere radici senza impedirti di volare.

Giordana De Anna

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La paura della paura

 

La paura è una cosa indefinibile, un’emozione ingannevole e insidiosa che può causare distruzione e devastazione, se le si permette di crescere. Rosemary Altea

Avete mai pensato a cosa vuol dire avere paura della paura? A cosa significhi vivere nell’attesa che arrivi quell’attimo che ti farà perdere completamente il controllo? Io non ci avevo mai pensato, fino a quando non mi è capitato.

Ed è stato terribile.

È iniziato tutto in una serata tra amici, a cena. Ancora non me lo so spiegare. Stavo mangiando quando all’improvviso non riuscii più a deglutire. Mi sentivo soffocare. Mi mancava l’aria. Il cuore prese a battermi così forte che pensavo mi uscisse dal petto. Iniziai a sudare. Non avrei mai immaginato che nella vita si potesse stare così male, che esistessero delle sensazioni così terribili. In quel momento pensai che sarei morto e che nessuno mi avrebbe potuto salvare.

I miei amici, spaventati, mi portarono in ospedale. Fu una nottata di esami, elettrocardiogrammi e visite con numerosi dottori, fino a quando mi fu detto che quello che avevo avuto era stato un “comune” attacco di panico. E in un certo senso fu sconcertante scoprire che non avevo nulla, che era stato tutto frutto della mia mente. Sarebbe stato meglio scoprire di aver avuto qualcosa. Perché da quella sera la mia vita si è fermata.

Sarebbe successo di nuovo? E se sì, quando? Dove? Sarebbe stato sempre uguale? Ero tormentato. Avevo paura. Paura di me, della mia mente, di quello che poteva succedere. Mi vergognavo da morire e non sapevo cosa fare. Mi sentivo un malato immaginario. Era impossibile da capire per gli altri, pensavo. Era impossibile credermi.

È così che ho iniziato a convivere con uno scomodo me stesso, che ho iniziato a cercare di controllare qualcosa che per me era assolutamente incontrollabile. È così che mi sono messo agli arresti domiciliari. Ho iniziato a evitare qualunque cosa: uscire da solo per strada, guidare, frequentare luoghi affollati. Ho il terrore che l’attacco si manifesti di nuovo. E così evito di uscire. Tengo sempre il cellulare vicino.

La mia vita è completamente cambiata. La mia vita non è più vita.

Mi sono sempre considerato una persona libera. Mi piaceva stare insieme agli altri, uscire, divertirmi. Ero uno sportivo. Adesso… adesso non sono più niente se non uno spettro di me stesso. Vivo nella paura della paura.

Ed è terribile.

Un attacco di panico, secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali (DSM), corrisponde a un periodo preciso durante il quale vi è l’insorgenza improvvisa di intensa apprensione, paura o terrore, spesso associati a una sensazione di catastrofe imminente. Durante questi attacchi sono presenti sintomi come dispnea, palpitazioni, dolore o fastidio al petto, sensazione di asfissia o soffocamento, e paura di “impazzire” o di perdere il controllo. In presenza di ricorrenti attacchi di panico inaspettati, rispetto a cui si ha una preoccupazione persistente, si parla di Disturbo di Panico. Può esordire in qualunque momento della propria vita, all’improvviso e in circostanze inaspettate, mentre si sta compiendo una qualsiasi attività. L’attacco di panico non è pericoloso per la salute ma le sensazioni che si sperimentano sono così intense e coinvolgenti da far sviluppare in chi le prova l’intensa paura che si possano ripetere. Il primo episodio porta al timore di rivivere le stesse drammatiche sensazioni e di sperimentare nuovamente quel malessere. Nasce così la paura della paura. Quella stessa paura che porta chi ne soffre a chiudersi sempre più in se stesso e a non riuscire ad avere una vita sociale, a rinchiudersi in una gabbia da cui non riesce più ad uscire. I disturbi d’ansia sono estremamente comuni e tendono a essere sempre più frequenti nella popolazione. Sebbene le cause non siano ancora note, quello che è importante sapere è che da questa gabbia se ne può uscire e tornare a vivere, senza più mostri sulle spalle a tarparci le ali.

Giordana De Anna

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La mia vita apparentemente perfetta

Sono Ginevra. E la mia vita è apparentemente perfetta. Ve la racconto.

Ho ventisei anni. Sono già laureata e vivo da sola in un delizioso bilocale a Milano.  Mi sono laureata con il massimo dei voti alla London School of Economics e ora lavoro nel campo finanziario. Non male per una della mia età. Sono intelligente e ambiziosa. Mi definiscono “una di successo”. Appaio molto sicura di me stessa, ma socievole e aperta, mai supponente. Sono attraente, non una bellezza classica forse, ma agli uomini piaccio. Sono figlia unica, il fiore all’occhiello dei miei genitori. Mi hanno sempre spinto a credere in me stessa e a spingermi oltre quelli che pensavo fossero i miei limiti. Sembrerebbe che abbiano avuto ragione a guardare la mia vita ora. Sembrerebbe che tutto nella mia vita funzioni. Neanche l’ombra di un minimo sospetto.

Sono Ginevra. E la mia vita è apparentemente perfetta. Apparentemente, appunto. Ecco cosa non vi ho detto.

Sono bulimica. Penso al cibo tutto il maledettissimo giorno. Mi concentro sugli studi, sul lavoro per non pensare a quella che è la mia più grande ossessione: il cibo. La mia vita in realtà ruota attorno al cibo. In realtà Ginevra non è la giovane donna attraente e di successo che tutti vedono, ma è una donna insaziabile e senza controllo, in costante guerra con se stessa. Ho una smisurata paura di prendere anche una minima quantità di peso, parlo nell’ordine degli etti, ma allo stesso tempo non riesco a smettere di mangiare. Sono tormentata da attacchi di fame vorace che mi spingono ad andare al supermercato e comprare grandi quantità di cibo. Cerco di cambiare supermercato più spesso che posso e di non andare mai in quello vicino a casa dove abitualmente faccio la spesa. Compro patatine, biscotti, gelato, cioccolata. Per mangiarli tutti insieme, tutti in una volta. Silenzio il telefono per non essere disturbata, scarto i pacchetti e mi riempio la bocca. Senza gustare, senza sapere neanche quello che ho appena ingurgitato. In quel momento non capisco più niente, sono come in trans. Sono come impazzita. Non riesco a fermarmi. Mi detesto, mi disgusto. Provo vergogna per me stessa. Solo dopo, quando mi imbottisco di lassativi, o vomito, o digiuno per giorni, riprendo il controllo e mi sento meglio. E giuro a me stessa che non lo farò mai più, ma poi quell’impulso ritorna e io non riesco a vincerlo. Non so dire come sia iniziato tutto questo. La forte pressione all’università, lontana da casa, dalla mia famiglia. Il voler essere all’altezza, il non voler deludere nessuno.  Il voler essere sempre perfetta, impeccabile. La quantità di cibo che divoro è direttamente proporzionale alla paura di fallire. E allora mi concedo alla leggerezza, all’eccitazione, allo sfogo, alla rabbia, al bisogno di controllo, al disgusto.

Sono Ginevra. E queste sono le mie due vite. A volte credo nella donna sicura di sé e di successo che ho dentro, ma poi conosco anche la mia natura oscura, quella che nascondo agli altri, ad ogni costo, perché mi piace apparire perfetta.

La bulimia nervosa è uno dei più comuni disturbi alimentari, caratterizzato da alternanza di abbuffate fuori controllo e restrizione alimentare. È un circolo vizioso che si auto perpetua di preoccupazione per il peso e le forme corporee, dieta ferrea, abbuffate e meccanismi di compenso (esercizio fisico, vomito autoindotto, digiuno, uso di lassativi e/o diuretici).

Come funziona? Le crisi bulimiche avvengono in solitudine e in segreto. Si ingerisce una grande quantità di cibo, spesso in poco tempo, fino a che non ci si sente così pieni da star male. Si ha la sensazione di perdere il controllo e non riuscire a fermarsi. A seguito dell’abbuffata si ricorre a inappropriati comportamenti compensatori per prevenire l’incremento ponderale e volendo quindi neutralizzare gli effetti della crisi. Il rapporto col cibo perde la comune accezione di forma di nutrimento e diviene carico di rabbia, di sensi di colpa, di aggressività e di frustrazione.

Perché parlarne? La diagnosi di bulimia è in genere più difficoltosa rispetto a quella di anoressia nervosa, perché i sintomi sono più facilmente mimetizzabili e il soggetto spesso rimane in normopeso o con qualche chilo in più o in meno.

La bulimia nervosa è un male che ben si nasconde dentro le persone. Donne, e molto più spesso anche ragazzi, che conducono una doppia vita: quella perfetta dove l’apparenza di normalità nasconde la parte più oscura.

Giordana De Anna

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Mamma? No grazie.

Sono stata dal ginecologo oggi. Era una semplice visita di controllo annuale, una sorta di tagliando. Non mi sarei mai aspettata di affrontare con lui una decisione, o meglio una scelta, così importante della mia vita. È vero, potevo aspettarmi una simile domanda da parte sua. Ho trentacinque anni, il mio orologio biologico muove le sue lancette con moto inesorabile. Se volessi dei figli nel mio futuro prossimo forse questo sarebbe il momento di pensarci in modo più concreto. Nonostante questo, la nostra conversazione oggi mi ha spiazzata.

“Allora, Sara? Che tipo di programmi abbiamo per il futuro? Vogliamo avere dei figli?”

Una semplice domanda, in un certo senso “dovuta” visto il suo ruolo professionale. Una semplice risposta quella che avrei dovuto dare: no.

La risposta sarebbe dovuta essere molto semplice, visto che è una scelta su cui ho già riflettuto e preso la mia decisione. Invece mi sono trovata a biascicare qualcosa d’incomprensibile mentre navigavo nell’imbarazzo più totale. Ecco, questo mi ha spiazzata. Perché io avrei voluto rispondere che no, dottore, figli io non ne voglio. Penso di non averne mai voluti e non li voglio nemmeno adesso. Penso che ci siano tante cose nella vita da fare e per me diventare madre non è fondamentale per essere felice o soddisfatta. E non si tratta di realizzarmi professionalmente, perché penso che le due cose non siano in alternativa, ma semplicemente concepisco la maternità come una scelta e non come il destino di tutte le donne.

Mi ha dato molto fastidio non essere riuscita a rispondere in modo così risoluto al mio medico. La verità è che ogni volta che esprimo questi concetti mi sento incompresa. Mi sembra di suscitare sospetto e diffidenza nelle persone che ho davanti, quasi fossi contro natura. Mi sono sentita anormale, sbagliata, un mostro molte volte parlando di questo. Eppure io penso che essere donna non voglia dire solo essere madre. Io penso che donna voglia dire un’infinità di cose, tra cui anche l’essere madre, se lo si vuole. Sono donna anche se non partorisco.

Penso solo che sia giusto poter essere libera di scegliere affidandomi al diritto di contraccezione, compresa quella di emergenza, e all’aborto piuttosto che diventare madre perché mi ci sento costretta e trovarmi con questo disagio enorme da gestire – oltretutto da sola, perché in questa società non è permesso, a una donna che è appena diventata madre, di non esserne felice ed entusiasta. Io penso che ci siano donne che per le più disparate ragioni -culturali, economiche e sociali- non vogliono essere madri e che hanno tutto il diritto di essere ciò che vogliono essere o non-essere senza per questo sentirsi sbagliate.

Ricordando le parole di Oriana Fallaci:

Essere mamma non è un mestiere. Non è nemmeno un dovere. È solo un diritto fra tanti diritti.

Sono sempre più numerose le donne che decidono di non avere figli. Guardando ai dati statistici sono ben dieci volte più numerose rispetto a cinquant’anni fa e l’Italia detiene il primato europeo. Nonostante questo è una scelta che appare ancora oggi strana e incomprensibile, quasi fosse un tabù essere donna scegliendo di non essere madre. Un pregiudizio frutto di una cultura che definisce il ruolo che le donne devono interpretare, di una retorica di maternità e procreazione, di stereotipi sessisti. Non sono a giudicare le motivazioni intime di una scelta così privata, sono a rivendicare nel 2015 il diritto di una donna a non essere madre senza essere giudicata, a rivendicare il diritto alla libertà di poter essere come si vuole.

Le ali spiegate rendono felici.

Giordana De Anna

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Tutte le maschere della mia vita

 

Nascondi chi sono, e aiutami a trovare la maschera più adatta alle mie intenzioni.           William Shakespeare

Nuda davanti allo specchio mi guardo e mi risuonano ancora nella mente le sue parole. “Mi sembra di non conoscerti, Rachele. Io non so chi sei, non lo capisco. Non capisco cosa ti faccia felice e cosa ti faccia incazzare! Sembra che tutto ti vada bene, ma lo sai cosa ti piace? Chi sei veramente Rachele? Io non posso andare avanti così.”

Chi sei veramente, Rachele?

Allora inizio a spogliarmi. Tolgo i jeans e il maglione attillati che mi fanno risaltare le forme. Tolgo i tacchi che mi fanno sembrare le gambe più lunghe. Tolgo il reggiseno che mi regala un seno alto e pieno. Tolgo le calze che mi appiattiscono la pancia. Tolgo le extension che mi rendono i capelli più voluminosi. Tolgo il rossetto che fa sembrare le mie labbra più grosse. Tolgo il rimmel che mi dona uno sguardo da cerbiatta. Tolgo tutto quello che non sono io e guardo negli occhi l’involucro di me stessa. Guardo il mio corpo in tutte le sue imperfezioni che quotidianamente mi costringo a correggere e a voce alta mi domando:

Chi sei veramente, Rachele?

Chi sono non lo so più. O forse non l’ho mai saputo.

Mi ricordo la prima volta che salii sul palco da bambina. Per tutta la durata della recita mi sentii bene, come mai prima. E da allora forse iniziai a recitare in tutto il resto della mia vita nella convinzione che, se mi fossi comportata come gli atri volevano, sarei stata accettata, sarei stata amata.  E da allora a casa sono stata una bambina ubbidiente e rispettosa. Un’adolescente studiosa e sorridente. Una giovane donna forte e proiettata alla carriera. Con gli amici sono stata estroversa e spavalda, sempre pronta a provare cose nuove, senza mostrare mai paura; un’amica premurosa ma mai turbata dagli sgarbi. Con gli uomini mi sono sempre mostrata forte ma al tempo stesso accomodante, mai un segno di risentimento, di dolore. Nel lavoro mi sono mostrata passionaria e competente.

Ho passato una vita a essere quello che pensavo gli altri volessero. Mai un cedimento. Mai niente che rivelasse che quella non ero io. Sono apparsa ma non sono mai stata. Mi sono vista vivere senza vivere mai. Ferma in uno stato di gelo senza che niente mi potesse toccare. Con la testa svuotata, sorridente per sembrare spensierata. Un manichino tra tanti. I giorni sono passati, senza colori né sapori. Ho vissuto nel carnevale del mondo, indossando una, cento, mille maschere. Me ne sono stata in bilico fino a quando la vita mi ha travolto. E la risata mi si è smorzata.

Mi sono sentita infelice e stanca, senza mostrarlo mai, neanche a me stessa. Piuttosto che piangere mi sono impegnata, ho dedicato me stessa a costruire il mio personaggio. Mi sono sentita vuota e infelice e allora ho lavorato di più, ottenendo traguardi sempre più importanti. Mi sono dedicata alla scalata del successo per non sentire niente, lottando e servendomi della logica del potere e della competizione per prevalere, per arrivare prima. E ogni volta che ho raggiunto un nuovo obiettivo, il vortice di euforia e soddisfazione è sempre durato lo spazio di un momento, un uragano che poi mi lasciava vuota, come prima.

Ho passato la mia vita lasciando spazio solo alla razionalità, senza mai permettermi di provare niente. Sono stata sottovuoto. Ma la domanda “chi sei veramente Rachele?” ha creato il cedimento che non c’era mai stato. E sono caduta tutta d’un pezzo. Le mie maschere sono state scoperte e si sono lasciate cadere, frantumandosi, senza darmi il tempo di capire chi io fossi, senza darmi alcun preavviso. E mi ha sorpresa che nella strada di ritorno a casa mi sia sentita nuda. E mi ha sorpresa scoprire che la cosa mi fa paura, che provo timore e vergogna al pensiero di scoprire chi sono, di scoprirmi e mostrarmi nelle mie luci e nelle mie ombre.

E ho passato un’intera nottata nuda davanti allo specchio, sgomenta, a piangere tutte le lacrime che non avevo versato, lasciando andare tutte le maschere della mia vita, per morire e intraprendere il viaggio della mia rinascita, il viaggio per conoscere me stessa. Ci saranno momenti, forse anni, bui in cui dovrò affrontare senza cercare di fuggire tutto il dolore che emergerà. Volevo solo essere amata, questa è la ferita che ho cercato di coprire con un cerotto: le mie maschere.

È in questi giorni finito il Carnevale, la festa delle mille follie, del mondo al contrario e del divertimento mascherato. Ci siamo divertiti a travestirci e interpretare un ruolo a noi obsoleto. Semel in anno licet insanire, dicevano i latini; ma, se il Carnevale è finito, quella che ci è rimasta addosso è la maschera che ancora portiamo, quello strato sottile che mettiamo tra noi e gli altri, come scudo, in modo che nessuno possa vedere le nostre debolezze, le nostre insicurezze, quel velo invisibile che portiamo per cercare l’approvazione degli altri facendo finta di non averne bisogno. Se indossare delle maschere, talvolta, può essere utile a proteggere la nostra intimità, il rischio è di dimenticarcene, di scordarci di averla ancora addosso e di non riuscire più a toglierla senza che venga via anche la pelle. Le maschere prendono a prestito i nostri corpi e a volte ce ne privano, proponendo un personaggio, con modi di pensare, di parlare, di proporre il corpo, di camminare, di respirare, facendoci perdere noi stessi. Gli indiani proverbialmente dicono: “Se tieni troppo a lungo la maschera finisci per farla diventare la tua faccia”.

Giordana De Anna

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Il profumo di un ricordo

 

Quando più niente sussiste d’un passato antico, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, più fragili, ma più vivaci, più immateriali, più persistenti, più fedeli, solo l’odore e il sapore restano ancora a lungo come anime che ricordano, aspettano, sperano, sulla rovina di tutto il resto, che portano senza piegarsi, sulla loro gocciolina quasi impalpabile,l’edificio immenso del ricordo. Marcel Proust, À la recherche du temps perdu

Sveva camminava spedita verso l’università. Frettolosa, avvolta nei suoi indumenti di lana da cui spuntavano unicamente gli occhi e il naso. In ritardo, come al solito, pensava unicamente al fatto che avrebbe dovuto sedersi per terra, anche questa volta, perché tutti i posti sarebbero già stati occupati e le aule delle università italiane sono sempre troppo piccole per il numero di studenti che ospitano.

Sveva camminava senza guardarsi attorno, meccanicamente, un piede dopo l’altro, il più velocemente possibile. Camminava senza accorgersi della neve che timida e silenziosa iniziava a scendere. Senza accorgersi dei negozi che alzavano le saracinesche. Senza accorgersi di chi la salutava. Camminava energica e risoluta, come in una giornata qualunque. Camminava immersa nei rumori. Di motore, di clacson, di una sirena. Dello sferragliare del tram. Di una frenata improvvisa. Dell’abbaiare dei cani portati a spasso dai loro padroni. Di bambini che vanno a scuola e di anziani che urlano loro di stare attenti. Camminava immersa nei rumori di una città che si è svegliata già da un pezzo.

Camminava senza sentire niente, senza vedere niente. Camminava senza aspettarsi niente, Sveva.

Ma all’improvviso un odore. Un profumo. Una scia appena percettibile, nascosta tra l’odore di smog. E non è più tra i rumori, la folla e le cose da fare. Quell’odore, quel profumo l’ha colpita dritta al cuore e l’ha portata lontana verso un qualcosa che cercava di sopire. È successo questo a Sveva: ha sentito un odore, ha visto un ricordo. Le sue mani, il suo sorriso, la sua risata, la sua voce, il suo abbraccio. Il suo profumo, così caldo, così pulito, così suo. Ed è riemerso tutto per quella scia appena percettibile che le fa salire in gola quella tenera nostalgia per qualcosa che è stato e che non può più essere. Una scintilla che ha lasciato riaffiorare con tutta la dovizia di particolari possibile e con una forza prorompente quello che si era costretta a ricacciare nel fondo della sua memoria.

La memoria olfattiva, niente di più trascurato nella letteratura psicologica. Eppure l’olfatto è il più grande alleato della nostra memoria. Nessun altro input sensoriale è altrettanto memorabile quanto un odore. Nient’altro è così resistente all’oblio della memoria. Niente è altrettanto capace di rievocare il passato risvegliando al tempo stesso tutti gli altri sensi. I ricordi olfattivi sono tenaci, profondi e potenti, accompagnati sempre da una forte carica emotiva. I ricordi olfattivi sono invadenti, vanno al di là di ogni nostra volontà. I ricordi olfattivi sono imprevedibili e inevitabili. Bizzarri. Non è un caso che Kant definisse l’olfatto il senso “contrario alla libertà”. È per tutti questi motivi che l’olfatto è il senso che preferisco. È per questo che io volutamente respiro a fondo e creo ricordi. Perché un odore è quel “particolare immenso” – per dirlo con le parole di Bachelard – che riattiva i nostri ricordi autobiografici che danno i fondamenti alla nostra identità. Un odore è quel “particolare immenso” che ci permette di rivivere tutto quello a cui è associato suscitando in noi malinconia, nostalgia, gioia, a seconda del ricordo che riattiva. Un odore è quel “particolare immenso” capace di farci sentire vicino qualcosa o qualcuno che vicino non può più essere e di farcelo percepire reale, ancora per una volta.

E allora io vi consiglio di chiudere gli occhi, tapparvi le orecchie e respirare a fondo. Lasciatevi portare ovunque quell’odore vi voglia portare.

Lasciatevi andare all’edificio immenso del ricordo.

Giordana De Anna

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Papà, che cos’è la Shoah?

“Papà, che cos’è la Shoah?”

Interrompe così Giulia la cena tranquilla con suo padre. Proprio stasera non doveva essere a casa sua moglie? pensa, mentre intanto maledice di aver tenuto la televisione accesa durante la cena. Lo dice sempre Giovanna che bisogna mangiare con la televisione spenta.

“Papàààà, mi hai sentito?”

La voce della bambina lo richiama alla realtà, respira a fondo e inizia a rispondere, prendendola un po’ larga.. perché non ha idea di come spiegare a una bambina di sette anni una delle pagine più buie della nostra storia. E si sente quasi in colpa a dover spalancare gli occhi ancora così innocenti di sua figlia sulla più grande tragedia dei nostri tempi. Una tragedia che ha portato il mondo a dire MAI PIU”. Ma gli tornano in mente le parole di Primo Levi

se comprendere è impossibile, conoscere è necessario perché ciò che è accaduto può ritornare

e capisce quanto sia importante spiegare a sua figlia quel che è successo, anche se terribile, per crearle il ricordo di qualcosa che non le è accaduto. Così, respira a fondo e comincia:

“Beh, Giulia, Shoah intanto è una parola ebraica che vuol dire “catastrofe”. Ed è una parola utilizzata per riferirsi all’Olocausto.”

“Cos’è l’olocausto papà?”

“L’olocausto è una parola utilizzata per descrivere la persecuzione e lo sterminio del popolo ebraico.”

“ E perché il popolo ebraico è stato sterminato?”

“Questa è una bella domanda Giulia.. se la pongono ancora in molti senza riuscire a darsi una vera risposta.. accade che a volte si abbia paura della diversità di un uomo rispetto a te stesso. Accade che a volte l’uomo abbia paura di se stesso e delle sue stesse diversità. E succede che allora inizi una guerra. E in ogni guerra Giulia ci sono sempre uomini contro uomini. E ci sono bambini separati dai loro genitori, uomini e donne che non hanno più forza, hanno solo occhi vuoti, senza vita né espressione, occhi pieni di paura e privi di speranza..”

“Papà basta.. mi viene da piangere.. mi è anche passata la fame.. non voglio più sapere.. e se succede che divento anche io così?”

“No bambina mia.. non diventerai così. Basterà che tu abbia il rispetto per le idee degli altri, anche quando non ti piaceranno. Basterà che non cercherai di cambiarle con la forza. Basterà che tu veda sempre che dietro a quell’idea c’è un altro uomo che è proprio come te. E il fatto che stasera ne parliamo, io e te, è già un passo avanti sai.. è molto importante Giulia la domanda che mi hai fatto, perché, in una civiltà come la nostra che tende a vivere solo l’immediatezza del presente, ricordare serve proprio a evitare che queste mostruosità si possano ripetere. Ricordare vuol dire essere attivi, vuol dire porsi delle domande. Ricordare sollecita il cuore e la mente. Ogni 27 gennaio si celebra il Giorno della Memoria perché si ricordi sempre quello che è successo. Ogni 27 gennaio si ricordano le sofferenze che hanno subito uomini, donne e bambini come noi. E ogni 27 gennaio ci si sentirà sempre un po’ colpevoli, Giulia, per non aver potuto impedire, per aver ignorato, per essere uomini. Ma tutto questo dolore lo dobbiamo proprio ricordare per imparare a scegliere oggi di evitare nuovamente quell’errore in qualsiasi parte del mondo. Ora finisci la cena amore, un primo piccolo passo per oggi l’abbiamo fatto.”

Oggi, 27 gennaio, giorno dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, lo Stato italiano celebra il “Giorno della Memoria“. Si spezza il silenzio che tesse una ragnatela così sottile e insidiosa che rischia di cancellare la memoria dell’orrore. Un silenzio pericoloso che è importante infrangere, anche solo con un pensiero.

Giordana De Anna

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