Filosofia-game. Cercasi beta tester

Senza destinatario, uno scritto rimarrebbe un insieme di lettere allineate prive di significato: un testo è scritto per essere letto, è co-prodotto da scrittore e lettore. Ovvio, no? Forse non in filosofia.

Pensa ai tipici testi d’esame o ricerca, come monografie e paper, in cui l’attenzione riservata al lettore è quasi zero: poiché la sua eventuale presenza non farebbe la differenza per la presunta verità di ciò che va discutendosi, si può scrivere senza prevederne l’esistenza, tanto all’esterno quanto all’interno del testo1. Nel publish or perish della competizione accademica, le idee «diventano professionalmente valide soltanto se scritte», ma in modo tale che «quando vengono pubblicate, sono stampate e rilegate non per essere lette, ma semplicemente per essere state scritte» (I. Bogost, Alien Phenomenology, or What It’s Like to Be a Thing, 2012). Confessa: quante volte con simili testi hai avuto davvero l’impressione che l’autore avesse pensato di rivolgersi a chi legge, cioè di scrivere per e a te?

Parlare ai famigerati “addetti ai lavori” usando il tipico linguaggio-in-codice (continentale o analitico che sia) diventa così uno stratagemma per mascherare l’effettiva mancanza di considerazione del lettore: l’esperto con cui il testo starebbe interagendo finisce per essere un lettore tanto generico e indeterminato da coincidere con lo scrittore stesso! Nella bolla filosofica di Twitter, mi sono imbattuto in diverse lamentele sugli esempi fatti quasi di passaggio dai filosofi per essere più esplicativi e concreti: essi non farebbero altro che esemplificare la condizione privilegiata dello scrivente filosofo accademico (bianco-abile-anglofono-cisgender-eterosessuale-benestante-…) di turno. Se – poniamo – un paper spiega il concetto di sublime richiamando la sensazione provata in cima al Burj Khalifa di Dubai, chi non si è mai trovato in simile situazione (come me) non può sentirsi davvero preso in considerazione dal testo e interagire mentalmente con esso: ne viene escluso. Indubbiamente ci sono esclusioni ben più peggiori ma se qualcuno si dedicasse un giorno a raccogliere e analizzare le tipologie di esempi presenti negli scritti filosofici, potrebbero davvero saltarne fuori delle belle – o brutte.

Ora, inclusività o meno, il punto-chiave rimane: in filosofia oggi è realmente troppo facile rimanere presi dal che cosa, senza curarsi davvero dell’a chi dello scrivere. Per certi versi, è inevitabile: persino lo scrittore più accorto, consapevole e creativo ha dei limiti, e – piaccia o meno – a un certo punto dovrà fare delle scelte e muoversi entro certi vincoli. Uno scritto filosofico non può presentare casi costruiti su misura per ogni lettore, capaci addirittura di variare di volta in volta: oltre a un “super-autore”, occorrerebbe un “ultra-testo”, che all’avvio della lettura consentisse di settare parametri come genere, età, provenienza, residenza, riferimenti musicali, oggetti preferiti e chissà cos’altro. Una filosofia on demand capace di incorporare opzioni, incroci, sovrapposizioni, diramazioni, ecc.: “ciao, vuoi che questo testo parli a un filosofo, una filosofa, unə filosofə, …? Scegli e cominciamo!”. Se pensi che ciò rappresenterebbe la morte della Vera Filosofia™, ti tranquillizzo: niente di simile sarà mai possibile!

Te lo avrei detto davvero, se non esistessero già i videogame! Infatti, ciò che non possiamo fare scrivendo un testo filosofico tradizionale potremmo magari cominciare a farlo “scrivendo” un “testo” filosofico digitale, dinamico e interattivo: una filosofia-game, una filosofia-Bandersnatch. Per i filosofi pronti a raccogliere la sfida, si aprono almeno tre scenari – ma che dico: tre livelli!

Livello1 (principiante). Sei tra gli irriducibili del medium alfabetico? Prova a contaminare la scrittura filosofica old-style con forme e modi da videogame, dando vita a testi scritti “come se” fossero dei videogame, almeno finché possibile, con l’intento di offrire immersività e interattività q.b. a chi legge.

Livello2 (esperto). Riconosci il bisogno di rialfabetizzazione ma non ti senti in grado di reimparare da zero? Candidati a entrare in un team di autori di videogiochi per esplorare letteralmente nuovi mondi, accogliendo l’idea che la filosofia futura possa essere non solo scritta a più mani, ma persino altro dalla scrittura.

Livello3 (campione). Senti di potercela fare a passare dal linguaggio-in-codice al linguaggio-codice? Inizia a programmare in prima persona e contribuisci a dar forma alla filosofia futura, prodotta e diffusa (anche) tramite videogame. Coraggio, puoi contare su chi si è già lanciato nell’impresa2: nella follia, non si è mai soli!

Io, per ora, sono alle prese col livello da principiante: vuoi fare da beta tester? Bastano 4 minuti…

 

Giacomo Pezzano

NOTE
1. Cfr. A.C. Danto, La destituzione filosofica dell’arte, Aesthetica, Milano 2020, pp. 153-156, 170-172.

2. Cfr. S. Gualeni, Virtual Worlds as Philosophical Tools: How to Philosophize with a Digital Hammer, Palgrave, London 2015.

 

[Photo credit Lorenzo Herrera via Unsplash]

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Juventus VS Fortnite: prendere l’arte dei videogiochi sul serio

“Uno spettro si aggira per il mondo – lo spettro degli e-sport”. Forse sei tra chi pensa che se già non bisogna prendere il gioco troppo sul serio, figuriamoci un e-gioco, ancor più lontano da qualsiasi vera realtà. Com’è allora che gli sport “veri” stanno cominciando a rincorrere quelli “falsi”, con l’intento apparente di voler riprodurre nella “realtà vera” la variabilità e la partecipabilità in real time tipiche della “realtà finta”? Prendi la Formula E, dove si assegnano bonus di potenza ai piloti sulla base dei voti ricevuti dagli “spettatori” durante la gara e ci sono corsie che danno il turbo passandoci sopra (stile TrackMania&C.). O prendi il progetto della controversa Superlega di calcio: «creare una competizione che simuli ciò che i più giovani fanno sulle piattaforme digitali», per «fronteggiare la competizione di Fortnite o Call of Duty».

Roba seria solo per i classici nerd e chi vuole catturarne soldi e attenzione? Segno di una dilagante gamification di ogni aspetto della vita che ci allontana inesorabilmente dalla realtà? Indice di quanto ah-signora-mia-ma-dove-stiamo-andando-a-finire? Vallo a dire per esempio agli artisti svizzeri del collettivo “Etoy” (nato nel 1994): trascinati in tribunale dall’azienda eToys.com (nata nel 1997), che lamentava un’eccessiva somiglianza nei nomi, risposero producendo e diffondendo il gioco multiplayer online Toywar a fine 1999, con l’esito di rendere volatile la quotazione in borsa della multinazionale. Conclusione? eToys fa marcia indietro l’anno successivo, scusandosi e pagando le spese legali. Alla faccia del gioco e della finzione!

È ora di essere seri: gli atti videoludici nei videogiochi non mettono semplicemente tra parentesi la realtà, anzi offrono l’opportunità di agire realmente e persino di trasformare il nostro senso dell’agire (nel bene e nel male, come sempre). Il gaming porta persino agli estremi la serietà tipica del gioco: i videogiochi possono cambiare il nostro atteggiamento e le nostre convinzioni rispetto al mondo, aprendoci con la simulazione scenari “fittizi” che interrogano il modo in cui le cose vanno o dovrebbero andare in una maniera radicalmente nuova e più incisiva rispetto a quanto finora sperimentato. In questo, i videogiochi sono un’arte a tutti gli effetti: offrono uno spazio dove esercitare liberamente la nostra naturale attitudine alla sperimentazione fine a se stessa e a prendere seriamente l’illusione in quanto tale.

Chi tuttora crede che i videogiochi non siano arte, non li conosce abbastanza e/o non ha mai ben compreso come funzioni l’arte: nessuna colpa, semplici fatti. Né, ovviamente, siamo tutti tenuti allo stesso modo a conoscere e apprezzare ogni forma d’arte; ma va guardata in faccia la realtà: se ogni epoca ha una o più arti caratteristiche, i videogiochi sono la forma d’arte tipica dell’era digitale, sia per la materia (sono puri artefatti computazionali) sia per la forma (sono strutturalmente interattivi). Partiamo dalla materia: il David materializza i processi di simulazione intra-mentali di Michelangelo, mentre Dark Souls dà corso a vere e proprie simulazioni extra-mentali dotate di significato intrinseco e vita propria. Passiamo alla forma: La Gioconda senza spettatore un senso lo ha, ma Uncharted senza giocatore no; lo storytelling di Harry Potter è altra cosa dallo storydoing di The Last of Us. ll videogame è insomma pura animazione.

Tutta roba irreale dunque? Per nulla! Non solo i videogiochi possono potenziare e sviluppare le facoltà mentali: estendono e raffinano il senso di possibilità; sollecitano la capacità di porre e risolvere problemi; esercitano a scoprire significati e usi nascosti; insegnano a muoversi entro un set di vincoli; riorganizzano la percezione; ristrutturano l’emotività; rinvigoriscono lo spirito critico; stimolano la riflessione; ecc. Il punto è che con i videogame tutto ciò dipende dal fatto che essi generano una sorta di “archivio delle azioni” in costante aggiornamento. Come un dipinto conserva sguardi, una canzone ascolti, una novella storie, e via discorrendo, facendoci rivivere immagini visive, sonore, narrative, ecc. provenienti originariamente da altre menti, così un videogame registra possibili attività, facendoci scoprire, condividere, valutare, e così via modi di decidere, comportarci, porsi, ecc. disegnati e/o agiti da altri, diversi da quelli testabili nella vita quotidiana, ma potenzialmente “ritrasferibili” in essa. Come nel caso di Naska, passato dalle gare motoristiche su simulatore a quelle su strada, o di Verstappen che dichiara di preparare i sorpassi di F1 ai videogiochi.

Che dici, ne abbiamo abbastanza per prendere l’arte videoludica sul serio?

 

Giacomo Pezzano

 

NOTE

1. Tre testi per approfondire: I. Bogost, Persuasive Games: The Expressive Power of Videogames, MIT Press, Cambridge 2007; A.R. Galloway, Gaming. Saggi sulla cultura algoritmica, Sossella, Roma 2022; C. Thi Nguyen, Games: Agency as Art, Oxford University Press, Oxford 2020.

 

[immagine tratta da Unsplash]

 

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Neurath: una start-up filosofica?

Il terzo profeta filosofico dopo Socrate e Nozick è qualcuno che, oltre a vederci lungo, aveva cominciato direttamente a mettersi in proprio, dando vita a quella che oggi sarebbe verosimilmente pubblicizzata come una startup filosofica: Otto Neurath.

In tempi in cui la serietà dell’intelletto e il rigore della parola andavano per la maggiore, egli ebbe un’intuizione tanto nitida quanto divisiva: in una società di massa, piaccia o meno attraversata da pubblicità, propaganda e affini – la comunicazione della conoscenza sarebbe stata destinata a diventare intrattenimento o, quantomeno, a intrecciarsi con esso. È quanto oggi abbiamo cominciato a chiamare edutainment, sfidando l’idea millenaria secondo cui imparare e divertirsi sono persino opposti, perché – i tragici ammonivano – «apprendimento attraverso sofferenza». Neurath invece (correva l’anno 1945) afferma:

«La formazione deve competere con l’intrattenimento – questo è ciò che riteniamo necessario per la nostra epoca. Sarebbe pericoloso se l’educazione dovesse trasformarsi in un’incombenza puramente lavorativa e in qualcosa di noioso» (O. Neurath, From Hieroglyphics to Isotype, 2010).

Con buona pace di chi inversamente ritiene pericoloso contaminare l’istruzione con un ingrediente di spettacolarità: viene facile pensare che Neurath sarebbe stato tra i primi partecipanti in eventi stile TEDx, se non direttamente tra i loro fondatori.
Infatti, egli era talmente convinto del bisogno di alleggerire e al contempo estendere il nostro accesso alla conoscenza da rimboccarsi le maniche in prima persona per dar vita a un’impresa tutta sua. Così, già dalla metà degli anni ‘20, insieme a un team di collaboratori viennesi di prim’ordine, cominciò a elaborare un sistema di comunicazione visiva che fosse in grado di rappresentare visualmente quantità, misure, statistiche, traiettorie spazio-temporali, tendenze sociali, e via discorrendo: il cosiddetto Isotype. L’idea-base di questa start-up filosofica – animata da un forte spirito democratico – era quella di trasporre concetti astratti, afferrabili soltanto dai canonici addetti ai lavori, in rappresentazioni grafiche e visive che fossero comprensibili alla massa: inizialmente il sistema venne sperimentato nei musei, ma via via cominciò a trovare applicazione anche nei libri più vari.

In poche parole, Neurath è stato l’inventore di quanto oggi sta diventando pane quotidiano per le nostre menti: l’infografica, che si dedica alla trasformazione di dati di ogni tipo in un linguaggio visivo accessibile potenzialmente a tutti e capace di integrare le dimensioni informativa, formativa ed estetica. Per lui, il principio secondo cui anche l’occhio vuole la sua parte andava preso alla lettera, perché le immagini sono a tutti gli effetti iconiche: pongono i fatti di fronte alla mente in modo semplice e facile, tale da imprimersi direttamente nella memoria. Se tu avessi una chat con Neurath su WhatsApp o Telegram, puoi scommettere che sarebbe costellata di messaggi composti esclusivamente o quasi da emoji.

Non a caso, il motto del team era «le parole separano, le immagini uniscono»: se il linguaggio verbale richiede elaborazione, mediazione, riflessione e padronanza di un codice culturale specifico, il linguaggio visivo sarebbe piuttosto universale, immediato e limpido, capace così di garantire una comprensione diretta e libera dai filtri della cultura di origine o del grado di educazione e persino di alfabetizzazione. Visualmente, tutti concepiscono nello stesso modo: le infografiche sarebbero dunque il veicolo ideale per pensare e comunicare in maniera forse meno sofisticata e articolata (meno cerebrale e faticosa), ma sicuramente più limpida e chiara (più istruttiva ed efficace). Indubbiamente, oggi possiamo dire che questa ferma fiducia nel carattere non ambiguo e transculturale delle immagini trapela una certa ingenuità: stiamo cominciando a prendere familiarità con il fatto che, poiché il visuale è un codice espressivo umano, allora anch’esso si presenta quei tratti di varietà, mutevolezza e contestualità tipici di ogni cosa umana. Tuttavia, dobbiamo ugualmente riconoscere la lucidità nell’avvertire che la società stava andando in una direzione tale per cui occorreva riconoscere che le immagini non sono di per sé meno serie e formative delle parole e anzi possiedono un surplus di potenza espressivo-comunicativa rispetto a esse – virtù e vizio allo stesso tempo. Senza dimenticare la rilevanza di simili convinzioni per l’insieme di quella che viene oggi chiamata “didattica inclusiva” – peraltro anch’essa preconizzata da Neurath.

Chissà che cosa sarebbe saltato fuori se avesse potuto interagire con i graphic designer di oggi e se più in generale avesse potuto avere a che fare con la facilità odierna nella produzione di videoimmagini! Forse esagero, ma me lo vedo figurare tra i principali finanziatori di una start-up intenta a esplorare se e come in filosofia si possa pensare visualmente.

Ma, questa, è un’altra storia.

 

Giacomo Pezzano

 

[Photo credit Jr Korpa via Unsplash]

la chiave di sophia 2022

Nozick: una meta-proposta irrinunciabile?

La serie sulla preveggenza filosofica inaugurata con Socrate prosegue con Robert Nozick, diventato famoso in filosofia soprattutto per il suo concetto di «Stato minimo», che – forse – ha già di suo del profetico.

Ma Nozick ha saputo immaginare persino di più: nel 1974, elaborò un esperimento mentale che prevedeva l’esistenza di una macchina in grado di far avere qualsiasi tipo di esperienza desiderata, attraverso stimolazioni cerebrali particolarmente raffinate e mirate. Ecco il suo funzionamento: con il corpo immerso comodo in una vasca, puoi pensare e sentire realmente di star scrivendo un romanzo capolavoro, di star facendo amicizia, di star leggendo un testo filosofico, e così via all’infinito. E come te chiunque altro: più persone possono infatti collegarsi alla macchina contemporaneamente. Per restare aggiornati sulle ultime novità e rinnovare l’assortimento dei desideri, Nozick ipotizzava la possibilità di usufruire ogni due anni di una pausa dall’immersione, anche soltanto per dieci minuti: in quel frangente, si consulta un catalogo di esperienze, che brand e imprese di vario tipo hanno stilato su misura dopo aver analizzato e aggregato le scelte di altri individui, e così si pre-programmano al meglio le esperienze dei successivi due anni – e via di seguito, potenzialmente all’infinito.

Infatti, la domanda che Nozick si e ci poneva a questo punto era: ti collegheresti a una simile macchina? E nel caso, lo faresti per tutta la vita? La sua risposta, anzi la risposta che egli attribuiva ipoteticamente alla maggior parte dei suoi lettori, era “no grazie”: a suo giudizio pochi sarebbero davvero disposti a rinunciare a una vita genuinamente reale, autentica e profonda. Addirittura, egli reputava che «collegarsi alla macchina è una specie di suicidio». E rilanciava: siccome a noi importa essere e agire bene più che “vivere esperienze”, se esistesse una «macchina di trasformazione» in grado di trasformarti nella persona che desideri essere, essa renderebbe inutile qualsiasi macchina dell’esperienza (cfr. R. Nozick, Anarchia, stato, utopia, 2008).

Insomma, vita reale batte vita virtuale – soprattutto se la seconda viene chiamata a sostituire integralmente la prima. Alcuni esperimenti hanno provato a smentire questa convinzione di Nozick, perché il fatto sarebbe non tanto che siamo attaccati ai valori autentici della vita, quanto piuttosto che non amiamo cambiare rispetto a una situazione ormai consolidata: infatti, di fronte a uno scenario inverso, nel quale si scopre di aver da sempre vissuto attaccati alla macchina e la proposta è disconnettersi da essa per tornare alla “vita vera”, la risposta prevalente resta anche in quel caso “no grazie”. Ma se, invece, il fatto fosse che le persone desiderano addirittura mettere da parte la vita reale, autentica e profonda, per entrare in un meraviglioso universo più o meno parallelo di esperienze, e non solo, a portata di mano? Come nel caso di Socrate, abbiamo a che fare con qualcuno che ci ha visto giusto, ma è rimasto come intimorito dalla propria stessa visione.

Sicuramente, c’è almeno una persona convinta che la “vita vera” non sia in realtà la nostra massima aspirazione, tanto da aver puntato tutte le fiches sul fatto che molti accetterebbero eccome un simile plug-in: è Mark Zuckerberg, che sembra aver preso talmente sul serio Nozick da dar vita (reale? virtuale?) a un ardito incrocio tra macchina dell’esperienza e macchina della trasformazione, battezzato Metaverso. Stando alle parole del suo uomo-immagine, o se preferite Dio Creatore, il Metaverso promette di realizzare in maniera definitiva «un senso realistico della presenza» e di mettere completamente al centro dell’informatica «il modo in cui le persone vogliono vivere il mondo». Con il corpo in una poltrona, mediante sensori, visori e dispositivi vari di realtà virtuali e aumentate, si apre una miriade di esperienze che già oggi vanno dal mercato immobiliare alle Fashion Week, dai concerti alle sfide a ping-pong, dalla pratica chirurgica alle chiacchierate e così via, lungo le quali è possibile costruirsi su misura i panni dell’avatar desiderato. Inoltre, per gestire il timore della FOMO, la paura di essere tagliati fuori dalle novità, non servirà nemmeno disconnettersi: basterà accedere ai cataloghi che il Metaverso stesso genererà e immetterà nel sistema in tempo reale, raccogliendo ed elaborando i dati delle esperienze e degli avatar di tutti gli utenti.

Che ne dici: accetterai il plug-in, nella buona e nella cattiva sorte, finché morte non vi separi, o la vedi come Nozick e non c’è proprio (Meta)verso? Ah, se fosse la morte a spaventarti ancora, abbi fede: i tecnici lavorano incessantemente per implementare il Metaverso affinché possa ospitare anche l’esperienza dell’immortalità.

 

Giacomo Pezzano

[Photo credit Lux Interaction via Unsplash]

la chiave di sophia 2022

Socrate è stato il primo boomer?

Con questo pezzo si inaugura una piccola rassegna di profezie filosofiche. Sì, perché i filosofi sanno essere profetici, a modo loro: talora di sventure, talora di avventure, ma più spesso dell’ambigua tensione tra entrambe che caratterizza le grandi svolte storiche.

Questo è per esempio il caso di Socrate, che – diciamocelo! – oggi figurerebbe come il prototipo del boomer. Infatti, circa 2500 anni or sono, questo borghese figlio di un’ostetrica e di uno scultore puntava il dito contro le nuove ICT1 di massa che sconvolgevano la vita dell’amata Atene, della Grecia stessa e persino dell’intera umanità. Aveva dunque captato la potenziale disruption a cui l’umanità stava andando incontro a causa dell’interazione con una tecnologia digitale innovativa come non mai. Le perplessità di Socrate erano grossomodo di questa natura2:
1) appoggiarsi a server esterni di informazioni avrebbe rappresentato una ricetta per la smemoratezza: se la macchina ricorda al posto tuo, tu smetterai farlo;
2) permettere di riprodurre e avere accesso alle informazioni in maniera universale e immediata avrebbe favorito la fruizione superficiale dei contenuti, piuttosto che una loro genuina interiorizzazione: se la macchina sa al posto tuo, tu smetterai di apprendere, concentrarti e andare in profondità;
3) la circolazione indiscriminata e libera di masse di informazioni decontestualizzate e impersonali avrebbe sancito la fine del genuino dialogo faccia a faccia e dei processi di verifica in prima persona: se la macchina risponde al posto tuo, tu smetterai di interrogar(ti), dunque non ti renderai più conto di quello che non sai – non saprai più di non sapere e finirai in una bolla.

Ora, il fatto rilevante è che Socrate si riferiva non a GoogleMaps, Wikipedia, Alexa, ecc., ma a quella che potremmo definire come la prima forma di AI nella storia umana, grazie al cui codice il flusso analogico dell’esperienza veniva spezzettato e compresso in unità variamente combinabili e interscambiabili, ossia veniva trasformato in un algoritmo potenzialmente universale: si tratta della scrittura alfabetica. Proprio così! Infatti, secondo Socrate, con l’alfabeto la «parola viva» diventava «morto discorso» che «si diffonde ovunque», composto da elementi che «sembra che siano intelligenti»: «fidandosi della scrittura», finirà che essa «impianterà la dimenticanza» nelle menti e le persone diventeranno come «rotoli da papiro» incapaci di «rispondere e a loro volta porre domande», ossia di apprendere e pensare.

Oggi viene da sorridere, ma non semplicemente perché l’alfabeto è diventato ovvio, normale, banale, e così via; c’è qualcosa di più radicale: oggi l’atto stesso del pensare logicamente, criticamente, riflessivamente e autonomamente consiste anche nel saper leggere, analizzare, comprendere e interpretare testi e sottotesti. Ma non solo: l’esistenza della democrazia, della consapevolezza di sé e degli altri e persino della consapevolezza della consapevolezza stessa sono frutto dell’interazione con la scrittura alfabetica, della sua letterale incorporazione. In poche parole, la scrittura alfabetica non solo non ha ucciso la nostra “anima”, ma le ha anzi dato forma – la ha informata: grazie a essa, sappiamo di non sapere.

Ciò è vero al punto che, nella nostra epoca, il problema diventa che le nuove ICT starebbero minacciando l’insieme dei processi cognitivi tipici dell’attitudine da «lettura profonda», fatta di tempi dilatati, di abilità ricorsive, di capacità di coniugare divisione e connessione e di prontezza nel fare inferenze e trarre conclusioni: analisi, sintesi, riflessione, immaginazione, astrazione, empatia, contemplazione, concentrazione, giudizio, organizzazione, codificazione, documentazione, classificazione, interiorizzazione, e così via. Ci ritroveremmo quindi a sviluppare una vera e propria «mente da cavalletta», che saltella e svolazza senza una vera direzione – senza un senso vero e proprio. C’è davvero dell’ironia in tutto ciò: Socrate si lamentava che l’alfabeto avrebbe rovinato la nostra mente (orale), mentre oggi ci si lamenta che la rete starebbe rovinando la nostra mente (scrivente).

Siamo quindi passati dal timore o convinzione che la scrittura ci renderà stupidi (perché ormai incapaci di ascoltare/parlare) al timore o convinzione che il web ci renderà stupidi (perché ormai incapaci di leggere/scrivere). Ieri i “professori” si lamentavano che i giovani non dialogavano più perché distratti dalla carta; oggi invece si lamentano che i giovani non riflettono più perché distratti dallo schermo. Che cosa capiterà con le AI odierne è difficile saperlo e ancor di più ipotizzarlo in poche parole; ma una cosa potrebbe sembrare certa: nel bene e nel male, ogni epoca ha i suoi boomer. E tu, quanto ti senti socratico?

 

Giacomo Pezzano

NOTE
1. Information and Communication Technologies.
2. Espresse principalmente in Platone, Fedro, 274d-275d e Protagora, 329a, una cui eccellente rilettura contemporanea è in M. Wolf, Proust e il calamaro. Storia e scienza del cervello che legge, Vita e Pensiero, Milano 2009, soprattutto pp. 59-87. Le citazioni successive sono tratte da queste opere.

[Photo credit Milan Fakurian]

la chiave di sophia 2022

Parole, parole, parole… la filosofia ha ancora qualcosa da dire?

«La filosofia è fatta pressoché interamente in parole. Un diagramma occasionale può aiutare, e alcuni dicono (in parole!) che la musica, la danza, la pittura o la scultura senza parole possono esprimere idee filosofiche; ma per discutere propriamente il valore di quelle idee dobbiamo usare parole. Il linguaggio è il medium essenziale della filosofia»1.

Quest’affermazione suona banale: se conosci un filosofo o sei in prima persona della cricca, sai bene che il tuo lavoro consiste – fermandosi alla superficie – nel leggere e scrivere testi. Da qui sorgono le varie immagini della postura fondamentale del filosofo come uno stare “a tavolino”, “alla scrivania” o “sulla poltrona”. Andando invece più in profondità, le cose non cambiano: sin dai tempi di Platone, pensare filosoficamente significa intrattenere un dialogo mentale, ossia parlare con sé stessi, mettendo in ordine lineare e sequenziale concetti e riflessioni, come se ci si scrivesse un libro interiore. D’altronde, sin dall’infanzia insegnano: per capire che cosa ti frulla in testa, devi saper articolare sulla carta fuori dalla testa. Struttura mentale e struttura scritta fanno tutt’uno: vale per il dilettante come per il professionista del pensiero. Sembra persino scontato sottolinearlo.

Non a caso, simili idee sono condivise da filosofi di tradizioni, approcci e orientamenti assai diversi, quando non contrastanti e incompatibili: tutti si trovano comunque concordi nell’intrecciare indissolubilmente l’attività filosofica con la parola in generale e quella scritta in particolare. Anche i filosofi devono avere i propri punti fermi, no?! Eppure, se vogliamo fare i filosofi sul serio e fino in fondo, l’acqua calda non può essere una scoperta: deve diventare un problema. Dove c’è ovvietà, lì c’è dubbio: è uno dei mantra filosofici. Non può non valere anche per il rapporto monogamo tra filosofia e linguaggio verbale: perché bisogna prenderlo per buono? Forse perché si pensa soltanto a parole? O, perlomeno, perché si pensa filosoficamente solo a parole? Se è davvero così, significa allora che le persone sorde, quelle nello spettro autistico che ragionano visivamente e quelle con forme di afasia non pensano o non sono in grado di filosofare? In questo caso, servirebbe almeno il coraggio di dirselo esplicitamente: la filosofia è sotto questo riguardo radicalmente non inclusiva.

Ma non credo che debba essere questa l’ultima parola (scritta). Soprattutto se teniamo conto di un’invenzione epocale come il web. Epocale perché, tra le altre cose, ha cominciato a ristrutturare anche le nostre modalità espressive: oggi, chiunque ha tra le mani un aggeggio che permette certo di scrivere, ma anche di scattare foto, fare video, creare grafiche, ecc. Dalla penna allo smartphone: siamo nel cuore della cosiddetta cultura visuale, intrisa di multimedialità anzi transmedialità, di ibridazione tra tocchi, suoni, (video)immagini e testi – mancano soltanto gusto e olfatto, per ora. In breve, sta succedendo che atti come ideare, scriptare, girare e montare un video equivalgono a pensare, a dar forma alla propria mente. Non ti sembra un po’ strano che la filosofia resti tagliata fuori da tutto ciò? Non stride che laurearsi in filosofia voglia dire ancora soltanto (leggere testi per) scrivere una tesi? Ma dove sta scritto che si possa pensare filosoficamente soltanto per iscritto?

Fortunatamente, diversi studiosi stanno cominciando a denunciare la peculiare forma di xenofobia che attraversa il lavoro filosofico: una resistenza sistematica per tutto ciò che sconfina dai territori del concetto, ossia della parola scritta. Ma lo denunciano ancora a parole. Nel mentre, però, anche grazie al lavoro di vari content creator filosofici, dai video ai podcast, dai fumetti alle performance, qualcosa sta effettivamente cominciando a cambiare, non solo a parole – forse. Bisogna allora sperare che la scossa arrivi definitivamente anche ai piani alti delle “torri d’avorio”, perché è tempo di riconoscere che limitarsi a fare filosofia su immagini, disegni, grafiche, video, nuovi media, dispositivi di realtà aumentate e virtuali, ecc., non basta più: occorre iniziare a fare filosofia con tutto ciò – tanto “mediante” quanto “insieme”. Non è semplice, ma non è impossibile: esattamente come, all’epoca, accadde con la scoperta delle potenzialità espressive e antropologiche della scrittura. Perché oggi dovremmo fermarci di fronte ai videogame? L’alternativa alla parola (scritta) non è il silenzio; non avere più nulla da dire non significa non aver più niente da esprimere: ci sono più cose nel cielo e nella terra espressivi di quante ne abbiano finora sognate i filosofi.

(Ma questo è un testo scritto! Sì, ma funziona come un purgante: va espulso con le sostanze tossiche. Parole per (cominciare a) salutare le parole)

 

Giacomo Pezzano

 

NOTE:
1. T. Williamson, Philosophical Method: A Very Short Introduction, Oxford University Press, Oxford 2021, p. 103.

[immagine tratta da Pixabay]

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Tre platonici e una gamba. Vero Amore™ e poliamore

In una celebre scena di Tre uomini e una gamba, veniva raccontata abbastanza fedelmente una parte della concezione dell’amore che compare nel Simposio platonico: ciascuno di noi è come la metà di una mela alla ricerca della sua altra metà, per potersi poi completare e conquistare la più perfetta felicità. Ancora oggi, la nostra società vive le conseguenze di questo settaggio: sicuramente, conosci almeno una persona convinta che il Vero Amore è quello monogamo, esclusivo e unico (magari esclusivamente tra un uomo e una donna). Amare significherebbe trovare finalmente “la persona giusta”: o stai in coppia o non stai davvero con qualcuno – anzi, nemmeno esisti fino in fondo, dato che resti incompiuto. Si definisce così non soltanto un Amore Ideale, ma anche un Ideale d’Amore.

Forse oggi Platone verrebbe per questo facilmente collocato – a torto o a ragione, non posso qui esprimermi – tra i sostenitori della mononormatività, un’estrema versione dell’amatonormatività: la convinzione – esplicita o implicita – che non solo esiste un unico modo di amare davvero, ma anche che – stringi stringi – le relazioni d’amore rappresentano il culmine dei rapporti umani, come se le altre non fossero Vere Relazioni. Questo perché le relazioni d’amore sono concepite secondo una rigida “scala mobile”, finalizzata al macro-obiettivo di accasarsi e riprodursi e strutturata secondo step ben precisi:

approccio → corteggiamento → coppia ufficiale → progetti comuni → fidanzamento → convivenza → matrimonio → figli → acquisto di beni famigliari (→ Felicità).

 I “mononormativi”  difendono la clausola per cui tutto ciò deve essere fatto esclusivamente con un’unica persona: la propria “dolce metà”1.

A questo punto, Aristotele potrebbe forse candidarsi a diventare l’idolo filosofico dell’insieme di creator, attivisti e influencer che sta cercando di far aprire gli occhi sul fatto che amare si dice e – soprattutto – si fa in molti modi: non esiste un solo modo di stare insieme. Niente Vero Amore. È questa l’idea fondamentale di chi per esempio difende le ragioni e – prima ancora – l’esistenza del poliamore: uno stile relazionale per cui è possibile – con il desiderio e il consenso di tutte le persone coinvolte – avere più relazioni sentimentali e sessuali (o romantiche, asessuali, ecc.) in contemporanea e alla luce del sole. Si può insomma amare più di una persona, non solo nelle proprie fantasie, ma nella propria vita quotidiana: per esempio, si può convivere anche con più di un partner.

Quali che siano le tue preferenze e tradizioni amorose di riferimento, il poliamore va preso sul serio, anche in chiave strettamente filosofica: non solo perché esso sollecita la decostruzione prima e la ricostruzione poi di valori e principii dati per scontati (già non è poco!), ma anche perché esprime tanto 1) una diversa visione della realtà delle relazioni quanto 2) un rinnovato inventario dei beni relazionali.

1) Nel “poliuniverso”, le relazioni hanno una consistenza propria, irriducibile alla stoffa delle “cose”, sostanze prestabilite e fisse: conta quel particolare campo di interazioni, non un modello di rapporto dato (stile “moglie + marito”), ossia una Super-Cosa rispetto a cui ogni volta doversi commisurare – facendo inevitabilmente brutta figura e mortificandosi. Scompare così l’idea che se non trovi l’altra metà della mela, o nemmeno desideri niente di simile, allora sei difettoso e colpevole: la realtà delle relazioni amorose dipende dalle dinamiche interne di quei rapporti stessi, in cui le persone stesse vengono (tras)formate, non da un termine di confronto esteriore, magari idealizzato, tale che gli individui sono chiamati a occupare un ruolo predefinito.

2) Il menu del “polimondo” è molto più ricco del mondo cosiddetto normale e riconosce l’esistenza di entità come (un piccolo assaggio):
• la compersione: la sensazione di gioia per la felicità che i propri partner provano anche con altri partner;
• la polecola: una “molecola” relazionale tra persone che possono intrattenere rapporti reciproci di diversi tipi;
• il metapartner: il partner del proprio partner.

Sia chiaro: nemmeno nel poliamore è tutto rose e fiori. Intanto perché sono i rapporti umani a non esserlo; poi perché una società mono-impostata non agevola certo le poli-cose; infine perché ogni specifico orientamento o stile di vita ha comunque i suoi “lati oscuri”. Inoltre, non è che il poliamore diventa la nuova normalità e sanità al posto della monogamia: il punto è piuttosto decidere liberamente e consapevolmente, senza considerare scelte diverse come immature, promiscue, aberranti e minacciose, se non patologiche.

Insomma, non c’è l’obbligo di vivere l’amore pluralisticamente, ma forse è ora quantomeno di chiedersi: pensare l’amore universalisticamente è l’unica via percorribile, o la migliore? Io credo di no: e tu? Chissà che cosa racconterebbe una web-serie intitolata Tre aristotelici e una gamba

 

Giacomo Pezzano

 

NOTE
1. Il punto di partenza migliore in lingua italiana per cominciare a esplorare è la guida ebook di D. Piras, Oltre la coppia monogama: poliamore e fluidità relazionale, 2021, inserita nel progetto https://www.miosessuologo.it/.

[Photo credit Tim Marshall via Unsplash]

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Credenze che crollano: la guerra e i lussi che vogliamo permetterci

La guerra è uno shock perché dissolve ogni certezza: ci sbatte sul muso il fatto che la nostra quotidianità sta in piedi perché è sostenuta da una miriade di cose che diamo per scontate, come un prodotto in offerta speciale che riceve poche attenzioni, al punto da poter essere dato via con poco o nulla.

Abbiamo tantissime convinzioni prese per buone senza farci troppe domande. Alcune sono esplicite, avvertite: sappiamo di averle. Altre sono implicite, inavvertite: non sappiamo di averle. Eppure le abbiamo: se credi sotto al tuo letto non ci sia un mostro, credi anche che non ce ne siano due, tre, ecc. Oppure, tutti crediamo che almeno sette persone in Francia abbiano visto un albero almeno una volta e che più di nove abitanti di Roma abbiano notato il Colosseo, ma non ci abbiamo mai fatto caso sinora: lo davamo per scontato. I filosofi provano un gusto tutto particolare nell’aprire le nostre credenze mentali per vedere se e dove avevamo riposto qualche credenza implicita: è il loro settore professionale. Infatti, essi sono specialisti nel fare emergere non semplicemente il network dentro cui ci muoviamo, come i motivi per cui scegliamo di leggere libro-A piuttosto che libro-B, bensì il background a partire da cui ci muoviamo: il fatto che i libri presentino caratteri leggibili1.

Chi mai si soffermerebbe a notare qualcosa del genere?! Un filosofo, giustappunto. Ma gli antropologi insegnano: gli umani hanno bisogno di presupposti che sono tali, ovvero «funzionano come puntelli», solo se «sono resi impliciti, non consapevolizzati»2. Se tocca farci particolare attenzione, qualcosa non va. Non chiameresti un idraulico se le tubature funzionano, o – quantomeno – lo faresti per un controllo di manutenzione ordinaria, non per romperle e ricostruirle: costerebbe troppo. I filosofi si muovono invece come idraulici in un parco giochi fatto di tubature di cui vanno cercate senza sosta le crepe: divertente, almeno per alcuni, ma come lo è appunto un passatempo ludico, che richiede uno spaziotempo circoscritto, separato dal serio.

Al di fuori del gioco, infatti, è appunto con la guerra che tutto ciò che davamo per scontato smette di funzionare e diventa così percepibile. Essa toglie la terra da sotto i piedi, letteralmente: ponti collassati, strade distrutte, aeroporti bombardati, elettricità interrotta, … La guerra fa venire in superficie tutto ciò che fa parte della nostra infrastruttura, ossia l’insieme di cose che dobbiamo dare per ovvie per vivere, in senso tanto simbolico quanto materiale: lo scoppio di una guerra costringe a dare esplicita attenzione a quanto veniva sino a quel momento presupposto come orizzonte implicito della propria quotidianità – dai rapporti interpersonali alla mera nutrizione. Gli effetti sono devastanti: paranoia, angoscia, sfiducia, terrore. Vivere diventa impossibile. Immagina se ogni notte, durante il sonno, dovessi avere la costante certezza che il materasso su cui poggi non scompaia: la vigilanza ossessiva su tutto ciò che sei abituato a prendere per buono ha come risultato l’invivibilità. È ciò che con la guerra accade realmente. Non per gioco, non per immaginazione.

La guerra è dunque crudele anche perché porta dolorosamente in superficie la differenza che c’è tra il lusso intellettuale di esplicitare l’implicito, immaginando per esempio un esperimento mentale in cui un demone maligno digitale spegne nottetempo i cavi che alimentano il cervello nella vasca che in realtà sei, e la costrizione materiale di non poter essere nemmeno più sicuro di veder sorgere il sole l’indomani, perché un demone maligno umano ha ordinato un bombardamento a tappeto dell’edificio in cui ti proteggi. Questo deve allora portarci a provare una sorta di disprezzo per certi lussi, abbandonando ogni gioco per concentrarci sulle cose serie e gravose? Indubbiamente, ci sono frangenti in cui le necessità più basilari spazzano via o quasi ogni forma di “ricreazione”, al punto da farci percepire ogni di-vertimento, cioè ogni forma di deviazione dalla loro pressione e urgenza, come qualcosa di inappropriato e infantile, o addirittura cinico e insensibile.

Tuttavia, certi momenti rendono evidente anche che l’umanità è fatta pure di simili “lussi”: la guerra, costringendo a difendere la vita, rischia di assuefarci al fatto che sopravvivere è già quanto basta. Ma non è così: la vera vittoria sarà quando chi oggi è esposto ai colpi di artiglieria e missili che sgretolano certezze ed edifici potrà tornare a gustarsi il lusso di far vacillare ed eventualmente crollare credenze soltanto a parole.

 

Giacomo Pezzano

 

NOTE:
1. Cfr. J. R. Searle, Mente, linguaggio, società. La filosofia nel mondo reale (1998), Cortina, Milano 2000, pp. 114-115.
2. F. Remotti, Etnografia nande. II. Ecologia, cultura, simbolismo, Il Segnalibro, Torino 1994, p. 21.

[Immagine tratta da Unsplash.com]

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Test rapido (filosofico): quattro pregiudizi sul merito

Meritocrazia: è tra le parole che oggi più polarizzano menti e cuori. Per alcuni, il termine è sinonimo di giustizia: il merito dà “a ciascuno il suo”, limitando i vantaggi ereditati alla nascita e offrendo l’opportunità di veder riconosciuto il proprio valore1. Per altri, il termine è sinonimo di tirannia: il merito dilania la società, contrapponendo i superbi vincenti ai rancorosi perdenti e generando nuovi privilegi2. Effettivamente, in una cultura sempre più votata al “controllare e valutare”, il tradizionale Giudizio Finale di Dio sembra quasi poca cosa rispetto alle continue valutazioni di umani e/o mercato e/o algoritmi. Eppure, rinunceresti all’idea che veder misurati i tuoi meriti è addirittura un tuo diritto fondamentale in quanto essere umano?

Secondo te, il merito è democratico o dittatoriale? La domanda è ostica, perché sul merito tutti nutriamo almeno un pregiudizio inconsapevole (un cosiddetto bias). I filosofi amano introdurre distinzioni “di ragione”, separando o “scollando” concetti che normalmente sono inavvertitamente sovrapposti – per poi magari “reincollarli” ad altri: questo lavoro analitico consente di smascherare un sacco di pregiudizi! Proviamo dunque a farlo anche con il merito: ti propongo un test rapido, per scoprire i tuoi bias sul merito. Ogni pregiudizio che scopri di avere vale 1 punto!

Bias n. 1 (1 punto). “Merito” non coincide con “merito morale”. Meritare non significa necessariamente essere nel giusto, essere giusti. La differenza è rilevante: il merito è valutabile, ancorché non per forza facilmente; ma esiste qualcuno che davvero può stabilire chi è virtuoso-DOC? Il merito consiste nell’essere buoni-a, ossia persone capaci, non nell’essere buoni-ebbasta, ossia persone giuste: meritare vuol dire che tra azioni e cosa, tra abilità della persona ed esigenze di un compito, c’è una qualche relazione di “appropriatezza”. Insomma: bisogna demoralizzare il merito.

Bias n. 2 (1 punto). “Merito” non coincide con “meriti”. Meritare si dice in molti modi: la nozione di merito è relativa e non assoluta. Ci sono tanti tipi di meriti quanti tipi di attività umane si possono immaginare – forse persino quante persone possono esistere. Non esiste “Il Merito”; esistono invece meriti settoriali, circoscritti e specifici, determinabili ogni volta sulla base di criteri diversi: diversamente, bisognerebbe concedere che – poniamo – una scienziata è più meritoria in termini assoluti di un facchino, o una camionista di un giardiniere, e così via. Sospetti che in realtà sia così? Prova ad assegnare alla scienziata i compiti della camionista – e viceversa.

Bias n. 3 (vale doppio!). “Merito” non coincide con “ricchezza”. In primo luogo (1 punto), meritare un premio non equivale a meritare soldi: desiderare che un merito venga riconosciuto e apprezzato non significa aspirare soltanto ad arricchirsi. Altrimenti, perché esisterebbero premi come onorificenze civili, medaglie al valore, lauree ad honorem, ecc? In secondo luogo (1 punto), soltanto se esistesse “Il Merito” sarebbe possibile commisurare tutti i vari meriti in un’unica grande competizione utilizzando il denaro come unico parametro generale: a quel punto, Il Vincitore sarebbe persino autorizzato a sentirsi non soltanto buono-a, e nemmeno soltanto il migliore in X, ma addirittura Il Migliore in tutto e per tutto. Magari questo articolo merita una lettura, ma non perciò richiede un pagamento (né lo merita, penso) o è la cosa migliore sulla faccia della Terra (dubito lo pensassi).

Bias n. 4 (1 punto). “Merito” non coincide con “competizione”. In una gara, la mia posizione è determinata dalla posizione degli altri concorrenti e viceversa: non si arriva primi se non c’è chi arriva secondo. Ma quella del merito non è una gara, o – al limite – è una corsa contro se stessi: è la cosa in questione che determina se merito o no, indipendentemente dalla presenza di altri che meriterebbero “più” o “meno”. Purtroppo potrebbe esserti capitato: sei l’unico candidato per un posto di lavoro, ma – bisogna essere onesti – comunque non meriti quell’impiego, perché non rispondi del tutto ai requisiti necessari. O, meno drammaticamente: una tua battuta può meritare una risata senza dover essere più o meno divertente della battuta di qualcun altro.

Il test rapido si ferma qui. Calcola ora i risultati in base al punteggio totale:
• 0: hai barato?!
• 1: conquisti il MeritPass!
• 2-3: tutto sommato, non hai demeritato!
• 4-5: il problema non sei tu: meriti una società migliore!

 

Giacomo Pezzano

 

NOTE:
1- È la tesi difesa da M. Santambrogio, Il complotto contro il merito, Laterza, Roma-Bari 2021, il mio riferimento principale nella formulazione dei quattro bias.
2- 
Il caso più noto è M. Sandel, La tirannia del merito. Perché viviamo in una società di vincitori e di perdenti, Feltrinelli, Milano 2020.

[Photo credit Pixabay]

la chiave di sophia

C’è un medico in seggio? Elezioni in stato di emergenza

In diversi comuni italiani, è tempo di elezioni. Se è il caso anche del posto in cui vivi, puoi provare a partecipare al seguente piccolo esperimento: quando sei in giro, presta attenzione ai vari manifesti elettorali di chi si candida a sindaco o a consigliere. Bene, noti qualcosa in Comune?

A me ha colpito in particolare un aspetto: nelle immagini, più di un candidato indossa un camice da medico o farmacista, spesso brandendo uno stetoscopio, accompagnato da frasi come “la mia ricetta per città-X” o “con me sei al sicuro”. Evidentemente, non è un caso e la ragione di tutto ciò è facilmente comprensibile: effetto-pandemia, in almeno due sensi.

Il primo senso è più politico-politicante: i vari esponenti di partiti e movimenti hanno annusato l’aria e cercano di cavalcare il trend del momento. “La gente” comincia ad avere come riferimento personale sanitario di varia natura? Allora servono candidati provenienti da quelle file! “Il popolo” comincia a fidarsi di chi ha a che fare con la salute? Allora sotto con l’arruolamento di (pseudo)esperti del settore!

Il secondo senso è più politico-sociale, direi filosoficamente più interessante: che cosa significa il fatto che le persone iniziano a ritenere affidabili i “professionisti della salute”? Senza chiamare ora in causa la biopolitica (ne ho parlato qui), si può dire che stiamo assistendo alla politicizzazione di una parte della società che prima di oggi non aveva (una simile) rilevanza politica. Tra i primi sintomi abbiamo avuto la presenza e il séguito in crescita esponenziale di virologi, epidemiologi e annessi in talk-show e social: la loro diventava una voce in capitolo, se non La Voce per eccellenza – per la gioia dei neo-followers e la frustrazione dei neo-haters.

Così, quando si tratterebbe di fare politicamente sul serio (almeno in teoria), ecco che oltre alle voci servono anche “anima e corpo”: professionisti della salute di ogni tipo assumono un valore politico tutto nuovo e peculiare, come fossero in grado di agire in maniera politicamente buone ed efficace per il solo fatto di essere medici, infermieri, farmacisti, nutrizionisti e via dicendo (già, ma fin dove arriva l’elenco?). In passato, nei manifesti elettorali campeggiavano scritte come “Presidente operaio”: leggeremo presto in giro “Presidente medico”? Insomma, oggi chi si occupa di salute è investibile di un ruolo pubblico, di una funzione politica: manifesta un valore immediatamente comune.

Provo adesso a leggerti nel pensiero: “ok, ma questa cosa è un bene o un male?”. Sarò onesto: non lo so con precisione, perché mi sembra ci sia del bene e del male nella faccenda. Per capirlo, facciamoci aiutare da un’intuizione di Platone ancora significativa dopo oltre 2500 anni 1che influencer!

Una società si compone di diversi ambiti, “tecniche” per Platone e “professionalità” per noi: ciascun ambito è importante e contribuisce alla società, ma il bene sociale generale non coincide con il bene di nessun ambito preso singolarmente. Per un gommista è un bene avere gomme che si bucano ogni 5km; per un produttore di gomme, un guidatore e il traffico stesso no. Inoltre, nessuno specifico “professionista” è competente intorno al Bene complessivo della propria società, essendo preso – giustamente – dal proprio lavoro e dai propri affari. Beh, quasi nessuno, perché Platone aveva un coniglio nel cilindro, che gli è valso persino l’accusa di essere il fondatore di ogni forma di ingegneria sociale o totalitarismo tecnocratico: esiste un tecnico strano q.b., specializzato nella generalità, in grado di cogliere Il Bene DOP, dunque anche Il Bene Sociale. Perciò, tale professionista rappresenta il Candidato Ideale per agire come Politico in senso pieno: vota quindi… il filosofo, curerà l’anima tua e della società!

Possiamo ora tornare alla tua legittima domanda. È un bene che i riflettori sociali comincino a essere puntati su una categoria data per scontata, come ora i virologi (o pensa ai pompieri USA dopo l’11/09), o su una addirittura ostracizzata, come magari in futuro i sex-worker: anche loro fanno la propria parte! Eppure, è un male se si perde di vista quell’“anche”: ok, prendersela con i filosofi è più facile, perché si fatica a capire cosa davvero facciano; ma nemmeno un medico, per quanto si sappia meglio cosa faccia, incarna Il Bene Sociale o possiede una qualche Super-Competenza in merito. Insomma, vota pure il tuo medico di fiducia, ma non sperare che basterà a sconfiggere il nemico più temuto in comune: le buche stradali.

 

Giacomo Pezzano

 

NOTE:
1. Un ottimo testo che discute tutti i seguenti aspetti è G. Cambiano, Platone e le tecniche, Laterza, Roma-Bari 
1971.

[Immagine tratta da Unsplash]

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