La musica del cervello a 432 Hz

<p>Music fanatic woman</p>

Suoni, rumori, fracassi. Durante quel breve periodo di militanza nel grembo materno, la prima cosa che abbiamo conosciuto del mondo esterno erano segnali sonori: voci, grida, risate e tutto ciò che è riuscito a destare la nostra flebile attenzione. Un’embrionale consapevolezza di quello che avremmo trovato fuori dalla caverna. Seppur flebile e attutita, la vibrazione sonora dei rumori esterni è stata la prima forma di conoscenza che abbiamo sperimentato.

Il nostro personale – e talvolta ostico – rapporto con la musica nasce da qui, da un piccolo essere vivente che viene bombardato di informazioni acustiche sotto forma di vibrazione. Il percorso delle onde sonore non fa sconti, passa e trapassa ogni parete fino alle membra di un corpo che incassa il colpo, percepisce il segnale e lo manda al cervello. Anche senza un sufficiente sviluppo della coclea (il nostro microfono naturale innestato dentro all’orecchio), schiere di neuroni sensoriali lampeggiano nel buio amniotico del grembo, portano gli input esterni al cervello, per poi ricavarne un output conoscitivo.

Una volta venuti al mondo, però, il rapporto con il mondo sonoro ha cambiato direzione, verso il traumatico mondo della musica per bambini: la lezione di pianoforte. Nessuna gradevole melodia, nessun figlio col violino in spalla a produrre informazioni sonore piacevoli per i vicini di casa. Sono serviti lo sforzo, la tensione, l’olio di gomito dei più tenaci sul pentagramma, per ottenere una comunicazione sbalorditiva, che stimolasse un linguaggio vero e proprio. Con un’improvvisazione musicale si riesce infatti ad attivare persino l’area di Broca, deputata alle funzioni del linguaggio e della comunicazione verbale.

Ogni allenamento a cui è sottoposto il nostro cervello rinforza collegamenti sinaptici, che altrimenti rimarrebbero inesplorati e non ci permetterebbero di evolvere. Per quanto l’avessimo fatto malvolentieri, aver svolto attività musicali in giovane età ha coinvolto e stimolato diversi meccanismi cognitivi: ad esempio produrre o intonare una serie di note stimola capacità attentive, l’apprendimento mnemonico, il confronto, la pianificazione e la conduzione motoria.

Lo sviluppo del senso musicale ci ha indirizzati verso gli elementi stessi dell’Universo: ritmo e armonia, incastrate secondo schemi armonici che la natura ha divinamente riprodotto ovunque nel creato. La sezione aurea con cui è costruito ogni tassello dell’universo (cioè il susseguirsi di precise proporzioni e rapporti armoniosi) ha permesso all’uomo di seguire a tempo ciò che la fisica scandiva a bacchetta, dato che il nostro cervello è particolarmente predisposto a cogliere l’armonia bilanciata dei rapporti aurei della costante di Fibonacci.

La musica sintonizzata sui 432 Hz, infatti, è uno specchio del mondo, rispetta la proporzione aurea e crea una rappresentazione di come l’universo intero produca onde vibranti a 8 Hz. Su questa intensità si attesta la “Risonanza di Schumann”, un delicato e impercettibile rumore dell’universo, che si sposta verso mete inesplorate, producendo vibrazioni vitali per il nostro organismo.

L’avvento del Nazismo invece ha cambiato anche l’accordatura degli strumenti, che da quel periodo in poi è stata mantenuta sui 440 Hz, con effetti sovra-stimolanti al lobo frontale, probabilmente per spremere al massimo la marcia delle truppe tedesche dell’epoca.

È proprio lo scarto di questi 8 Hz che ci allontana dalla fruizione più naturale della musica, quella che invece ci stimola a sincronizzare i due emisferi cerebrali, a produrre creatività e intuizioni del genio umano. Esposti a frequenze addolcite, tarate sui 432 Hz, la nostra ghiandola pineale viene stimolata alla produzione dell’ormone della vita, la somatotropina, un elisir di benessere che non avrebbe bisogno di essere prodotto da alcuna casa farmaceutica.

Se pensavamo di essere stressati per non aver studiato la lezione di pianoforte, forse non sapevamo che l’accordatura in  440 Hz non ci stava aiutando affatto.  Fortunatamente l’esercizio musicale fatto anche a scuola non serviva soltanto a fare un’ora di pausa tra la lezione di italiano e quella di matematica, ma ci ha aperto un varco su un mondo di stimoli percettivi ed emozionali.

I due emisferi hanno iniziato a dialogare con più sintonia: mentre l’emisfero sinistro si attivava nella composizione e memorizzazione di note e scale musicali, quello destro giocava a intrecciare melodie.

Con enorme dispiacere dei nostri genitori non siamo diventati né Mozart né Beethoven, ma possiamo ugualmente fruire dei benefici del “theta mode”, quello stato cerebrale che ci porta ad essere creativi e a stimolare intuizioni di ogni tipo. La creatività si sviluppa dall’alternanza dei due emisferi, come durante una performance di improvvisazione artistica, dove l’area del controllo razionale si sgancia e si spegne, per lasciare spazio a quella autobiografica, all’espressione di sé, che si accende per produrre arte e invenzione.

Giacomo Dall’Ava

L’Eco di Umberto riecheggia nel cervello di legioni di imbecilli

Bandiere calate a mezz’asta. Non le italiane, ma quelle della cultura, dell’intelletto e del continuo esercizio mentale che ci rende così unici rispetto a chi, per natura, non gode di facoltà logiche complesse. I social media daranno pur voce a legioni di imbecilli, ma stanno anche permettendo la diffusione a macchia d’olio di questa notizia.

Umberto Eco è morto, senza alcuna perifrasi a spiegarlo (come ci ha insegnato nelle sue 40 regole per scrivere bene), per non mancare di rispetto alla limpida schiettezza con cui ha donato all’umanità colonne portanti del progresso intellettuale.

Se n’è andato, ma con lui non se ne andranno i frutti di una vita passata a servizio della cultura, del pensiero e dello studio zelante, continuo. Tuttavia c’è qualcosa di più nella vita di Eco, una lezione che dovremmo imparare al meglio, farla nostra e tramandarla di padre in figlio, di insegnante in alunno, fino a che nessuno rimanga senza risposta alle sconcertanti domande che ancora imperversano la mente di ogni studente: “a cosa serve studiare? perché andare a scuola?”

Qualunque percorso di studi si intraprenda, o qualunque sia l’attività della propria vita, c’è un modo efficace per esercitare il vanto di noi esseri umani: il Logos, quest’abilità intraducibile, se non mettendo assieme le due caratteristiche di pensiero e linguaggio, che ci hanno da sempre permesso una costante evoluzione in itinere.

Figure come Umberto Eco sono l’esempio da seguire, il paradigma di riferimento per esercitare e allenare il nostro cervello, un organo che merita di essere rafforzato e curato con estrema delicatezza. Chi infatti persegue un’educazione scolastica basata sullo studio assiduo, implementa la propria struttura neuronale, la migliora, la irrobustisce. E stavolta il consiglio non viene dato dall’insegnante di turno, o dalla madre preoccupata per il futuro del figlio. Ricerche scientifiche hanno dimostrato che l’ippocampo delle persone che sono maggiormente dedite allo studio, all’esercizio della cultura, risulta più compatto a livello strutturale. Il meccanismo innescato dalla dedizione all’istruzione migliora il dialogo tra i neuroni, le sinapsi, che sono le strade su cui viaggiano le informazioni mentali.

Non otteniamo diplomi e voti da esibire, lo studio ci fornisce una riserva neuronale con la quale possiamo far fronte al decadimento cognitivo che immancabilmente travolgerebbe l’uomo con l’andare degli anni. Occorre leggere, dunque, informarsi, sviluppare una curiosità morbosa per l’ignoto e per tutto ciò che ci circonda. Solo in questo modo potremo far lavorare al meglio quel 10% di cervello che si dice possiamo attualmente utilizzare, tentando di aumentarlo, estenderlo, senza limiti tangibili.

La cultura ci fornisce elementi su cui possiamo tenere lezioni a scuola, all’università, o su cui possiamo dibattere tra amici o tra eminenti esponenti del sapere. Ma ora sappiamo che attraverso di essa possiamo equipaggiarci di un patrimonio mentale più ingente con il rinforzo dell’ippocampo, sede della memoria e della navigazione spaziale. Ricordi e movimento, elementi fondamentali per il progresso di un’umanità che, anche quando perde elementi di totale riferimento, si rinnova e tende al miglioramento. Imbecilli o meno, forse Eco ha voluto dirci che prima di postare, twittare, condividere e dire la nostra, dovremmo invece studiare, affinare il nostro pensiero, strutturarlo e utilizzare come base un cervello elastico e allenato.

Siamo sull’orlo di una faglia, la cicatrice di una frattura lasciata dal terremoto di questa scomparsa, ma abbiamo la possibilità di implementare il nostro pensiero, la nostra memoria, le nostre facoltà cognitive anche attraverso lo studio e la commemorazione di quanto Umberto Eco ci ha lasciato.

 

Giacomo Dall’Ava

 

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Pillola rossa o pillola blu? Questione di stress

Immaginate di essere stati lì, catapultati in una situazione imprevista, di fronte a un brutto ceffo che fino a qualche istante prima non avreste mai osato guardare in faccia, se non per l’ingresso in un locale notturno.

Immaginate che vi metta queste due pillole davanti con una spiegazione tanto ermetica quanto didascalica.
Cosa fare? Quale dannata pillola ingoiare, prima che sia lui stesso a ficcarcene una in gola (di sicuro quella sbagliata)?

Bisognerebbe fermare il tempo, chiedere un time out all’universo e infilarci in una dimensione spazio-temporale che ci permetta di esercitare quella razionalità olimpica che Herbert Simon attribuiva inizialmente all’essere umano. La scelta perfetta, insomma, quella che potremmo prendere se avessimo tutto il tempo necessario, analizzando pro e contro e potendo sostituire il nostro cervello con un computer impeccabile. Possibile? Per ora no, non del tutto almeno: ci dobbiamo accontentare di una razionalità limitata.

Prima di cedere alle pressioni di un qualsivoglia bodyguard incattivito, che ci accompagna con autorità all’unica e incontrovertibile possibilità di scelta, dovremmo quindi fare i conti con le nostre peculiarità: scarsità di risorse, quantità di tempo ridotta, capacità computazionali limitate.

Ecco messo a nudo l’essere umano, un essere che vive di un sistema emotivo di cui fatichiamo spesso a riconoscere confini e manifestazioni quotidiane, ma che si frappone sempre tra quello che pensiamo (o speriamo) dovrebbe accadere e quello che invece accade.

Tra premesse e conseguenze ci troviamo immersi in una nuvola di preoccupazione e stress, che mettono ancor più in crisi le nostre già ridotte capacità di problem solving; respiriamo continuamente nubi tossiche che entrano a far parte di noi, delusioni e aspettative tradite che incrementano la nostra immobile indecisione.

La teoria dell’utilità attesa, molto cara ad ogni studio sul decision making, ci spiega come prendiamo decisioni in condizioni di incertezza. Ma qui non si tratta di una “semplice” indecisione tra due possibilità; non possiamo massimizzare nessun risultato, scegliendo la pillola migliore, che di fatto non esiste. È il contesto a fare la differenza: l’ansia da prestazione provoca uno stato di stress a cui il cervello risponde con due uniche possibilità: lotta o fuga.

Pillola rossa o pillola blu? Non lo so, e non lo posso sapere finché l’amigdala (sede cerebrale delle emozioni) rimane in uno stato di iperattività e tensione. Il sistema limbico continua a procedere secondo un sistema binario 0-1. Non ci sono altre possibilità e sotto stress veniamo stravolti, non riuscendo più a gestire emozioni, scelte, umore, comportamenti e impressioni, se non con l’unica risposta vitale che in quel momento il cervello riesce a produrre: NO!

“No” inteso come “non scegliere”, “non farlo adesso”, “non ne hai le capacità in questo momento”: qualunque scelta tu faccia ora, sarà comunque sbagliata, perché contraria all’inappellabile suggerimento del tuo apparato emozionale.

Come fare? Accettare il diktat cerebrale, innanzitutto, e assecondare quell’immobilità. Il cervello e il resto del corpo non sbagliano mai; i nostri pensieri, invece, spesso e malvolentieri.

Ma se le conseguenze del nostro silenzio dovessero essere ancor più tragiche di quanto non lo sia una scelta dettata dalla tensione, allora dovremmo premunirci di una consapevolezza generale ben più radicata su tutto ciò che ci riguarda. A partire da passioni, desideri, aspettative, capacità, competenze, abilità, conoscenze, contesto sociale: tutto andrà ben ponderato giorno dopo giorno, alla ricerca di un obiettivo finale che si va definendo in fieri.

Non ci sarà dubbio che tenga, allora, saremo sempre in grado di gestire l’emozione di ogni scelta e ingoiare la pillola rossa con piena responsabilità di ciò che ne deriverà.

Benvenuti su Matrix.

Giacomo Dall’Ava

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Mangiamo per vivere o viviamo per mangiare?

Il latino sarà anche una lingua morta, ma per (s)fortuna di molti studenti, non lo sono gli insegnanti che lo perpetuano e che a colpi di falce mietono ogni anno più sofferenze che altro.
La mia esperienza non fu tanto diversa da quella di migliaia di ragazzi: debito a settembre e odio cieco.

Dopo lo scoglio grammaticale, però, arrivammo alla traduzione di massime e aforismi, quelle frasi celebri che si trovano (deo gratia) già tradotte interamente sul vocabolario e che portano gioia e agevoli versioni. Dalla semplice traduzione siamo passati alla riflessione; dalla lettura di un latinorum incomprensibile, all’illuminazione su concetti che non avremmo mai considerato, ma che in poche parole racchiudono pillole di verità.

Una di quelle incontrate per imparare le subordinate finali, recitava: “non ut edam vivo, sed ut vivam edo”, che (con la garanzia del vocabolario) significa “non vivo per mangiare, ma mangio per vivere”. Ma cosa significa questo gioco di parole di Quintiliano?
Ci comunica che dobbiamo guardarci dal peccato di gola: a detta del retore romano non siamo su questa terra per mangiare e cercare con il cibo un piacere fine a se stesso, ma dobbiamo ricordarci che il cibo è soltanto un carburante, né buono né cattivo, utile a mantenerci in vita e a darci sostegno.

Vallo a spiegare a tutti quei bambini che allontano dalla bocca ogni cosa di colore verde! E che dire inoltre di tutta quell’estetica del cibo che si è sviluppata negli anni? Artisti culinari ovunque: bar, ristoranti, pub, kebab, pizzerie, pasticcerie, supermercati e via dicendo. Le città sono invase di servizi per il cibo, che cercano di proporre il meglio che c’è sul mercato. Parrebbe insomma che molti vivano per mangiare, per gustare il non plus ultra dei cibi in circolazione.

La pillola di saggezza sembra venir meno, non tanto per la corruzione morale della società (che i detentori dell’etica propinano come minestra riscaldata in ogni epoca), quanto invece per un bisogno umano diverso dal semplice mantenimento della specie: il piacere, il godimento puro, che, guarda caso, è sempre unito ad ogni azione di procreazione e mantenimento.

Più tardi il greco mi ha insegnato che le pillole (anche quelle di verità) sono un farmaco (φαρμακον), che letteralmente può equivalere tanto a sostanza salvifica quanto a veleno mortale. Dove sta la verità di questa pillola? Ci porta salvezza o distruzione?
Ogni aforisma va dosato, come una medicina, va preso in giuste quantità, tali da non svilupparne una dipendenza dalle frasi altrui. Dovremmo invece inghiottirlo e deglutire, farlo nostro, rielaborarlo e integrarlo con il nostro organismo, con il nostro pensiero.

Il latino è così, o nero o bianco, tertium non datur, ma esistono davvero solo due possibilità? La filosofia ci viene ancora una volta in aiuto, e ci fa capire che sulla terra non c’è nulla di assoluto, di così spaccato e definito nella sua contrapposizione all’opposto: in medio stat virtus. Né l’una né l’altra allora, né viviamo per mangiare né mangiamo per vivere, ma mettiamo in atto una commistione di piacere e godimento assieme alla necessità di avere la pancia piena, di avere un organismo che funzioni perfettamente e in cui inserire il giusto carburante.

Apriamo la bocca e assaggiamo una pietanza: gli organi di senso sono totalmente recettivi, come durante un amplesso. Il corpo si prepara a ricevere qualcosa che lo sostiene, che lo salva, che conferisce quel principio di piacere al quale non ci si può sottrarre. L’attività quotidiana del mangiare non si limita all’immissione di un carburante meccanico, ma alimenta la mente e lo spirito, sensi e percezione, piacere e godimento.

Ma non basta un cibo buono, serve anche un cibo sano, quello che i bambini ancora non capiscono, quello che gli adolescenti non accettano, quello che gli adulti cercano di dimenticare.
Ecco che quindi l’aforisma iniziale assume un senso diverso, un’interpretazione che lo rende più accettabile e sensato. Se è vero che non viviamo per mangiare, insomma, non viviamo per mangiare e basta; ma mangiamo per continuare a vivere e poter continuare a mangiare. Il cibo è funzionale alla vita, ma la vita è felicità e gioia, è ricerca del piacere e sperimentazione costante di esso.

Mangiamo per vivere, certo, ma viviamo per essere felici, per godere della vita e del cibo con cui viviamo.

Giacomo Dall’Ava

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Colpa di Rossi? Chiediamolo alla filosofia

Appassionati o meno di motociclismo, da un po’ di tempo siamo stati costretti dai media (o da chi a sua volta ha costretto i media) a diventare esperti di qualcosa che fino a qualche settimana fa non ci interessava minimamente. Bandiere a mezz’asta in giro per l’Italia per un evento così lontano dalle nostre vite, dalle nostre precedenti passioni. Eppure sono state sentite persino signore dal parrucchiere che commentavano la vicenda di Rossi, di un certo Rossi che ha spinto o non ha spinto un tale Marquez.

L’epilogo lo conosciamo tutti: penalizzazione per il pilota italiano, che si è visto scivolare dalle mani un titolo mondiale all’ultima gara della stagione.

Una volta spogliati del patriottismo in stile bar sport, l’interesse per la faccenda tornerà al livello che gli compete e riprenderemo a commentare le partite di calcio.

Ma per una volta potremmo invece soffermarci su questo fatto qualunque, un episodio noto ai più, che fa ancora tribolare gli animi di molte persone: Valentino Rossi è colpevole della caduta dell’avversario? La sua azione è stata intenzionale? Ha meritato la penalizzazione e la pressoché matematica certezza di non vincere il mondiale?

Lontani dal volerci porre a giudici di un fatto sportivo, possiamo però valutare filosoficamente l’operato del pilota italiano. Reato colposo o doloso?

Per poter valutare come intenzionale un’azione bisogna che il soggetto decida di agire per  raggiungere uno scopo. C’è bisogno del desiderio di arrivare a un obiettivo, indipendentemente dalle azioni che saranno compiute (tutte comunque intenzionali). Non si  tratta di  alcun giustificazionismo tra mezzi e fine (non ce ne voglia Machiavelli), dato che ogni azione che concorre allo scopo prefissato sarà giudicata intenzionale, come fosse un tassello del grande mosaico che raffigura il nostro obiettivo: ne saremo quindi pienamente responsabili.

L’intenzione di fare qualcosa coordina tutte le azioni necessarie per raggiungere  l’oggetto  del  nostro  desiderio e ne facilita il verificarsi, come spiega  Searle. L’intenzione è il collante che tiene assieme ogni nostro movimento, anche quelli più immediati e apparentemente privi di pianificazione. È il denominatore comune a cui sono ricondotti pensieri, pulsioni, agiti e azioni. Il nostro cervello è in grado  di elaborare ciò che desideriamo e intendiamo perseguire, riuscendo a farci produrre una serie di  comportamenti che a noi sembreranno istintivi, fuori dal  controllo della nostra volontà, ma che sono in realtà frutto della nostra più profonda intenzionalità.

Qual era dunque l’intenzione di Rossi? Certo è difficile fosse quella di far cadere  avversari e speranze di trionfo. Credenze, desideri, aspettative, intenzioni e volontà: tutto era volto ad altro, ogni singola azione era messa in armonia con lo scopo finale. Punti in classifica, un podio e un titolo a qualche giro di pista da lì.

Che dire quindi di quella colpevole gamba, che si sporge oltre il dovuto e fa precipitare al suolo Marquez? Fa tutto parte del potenziale motivazionale, ovvero di quelle azioni incondizionate, che però ci garantiscono di essere impegnati nell’adempimento dell’intenzione prefissata.

Di certo Rossi dirà che non aveva intenzione di far cadere l’avversario, e noi gli crediamo in virtù di un regolamento che consoce meglio di noi. Tuttavia, per fare intenzionalmente un’azione, non è necessario che il soggetto abbia intenzione di fare quella azione precisa, ma è sufficiente che abbia intenzione di fare qualcosa che gli  permetta di ottenere lo scopo finale (Bratman). Ogni  azione di questo tipo  sarà intenzionale, di qualunque cosa si tratti, anche  di una spintina, se dovesse servire.

Tra corse e ricorsi, i tifosi (perlopiù improvvisati) sono gli unici delusi: sponsor e sportivi hanno fatto il loro dovere e ricevuto i relativi incassi dalla sconfinata pubblicità derivata. A soffrirne – senza intenzione alcuna –  rimangono soltanto migliaia di persone, che pensano ancora alla filosofia come a un’illazione che non ci fornisce risposte soddisfacenti.

Fortunatamente ci pensa  il diritto, così caro agli italiani, a condannare definitivamente Rossi per un delitto preterintenzionale, un’azione le cui conseguenze sono state più gravi di quanto previsto, dato che nessuno si sarebbe forse aspettato di perdere tutto all’ultima corsa, ma nemmeno che milioni di persone si sarebbero poi disperate intenzionalmente per una gara di motoGP.

Telepatia? No, neuroni specchio

Pausa pranzo, prima di tornare in ufficio o di rimetterci a studiare, entriamo in un bar per prendere un gelato. Ci cade però l’occhio su una persona impegnata proprio nell’azione che, per colpa di quella dannata gastrite, abbiamo scelto di non fare più: prendere un caffè, corretto o liscio che sia.

Anche se attribuissimo la colpa al clima avvolgente del dopopranzo, che potrebbe farci sentire già ingaggiati nel gesto che altri attorno a noi stanno compiendo, questo non è forse l’unico fattore che ha contribuito al nostro coinvolgimento. C’è qualcosa di più cerebrale che si innesca nel momento in cui osserviamo il braccio di quello sconosciuto muoversi verso il bancone, la mano puntare la tazzina ancora fumante e le dita stringersi adeguatamente sul manico.
Eravamo così fedeli alla nostra disintossicazione, eppure il nostro cervello ha in parte vissuto l’esperienza di quel dannato caffè, l’ha afferrato e l’ha portato alla bocca, proprio come ha fatto contemporaneamente quella persona di fronte a noi.

Ne rimaniamo increduli, ma cos’è accaduto nella nostra testa in quel momento? Cosa accade costantemente quando osserviamo azioni di cui non siamo gli artefici, ma solo “passivi” spettatori? Al nostro cervello è bastato un input visivo, vedere cioè un’azione eseguita da qualcun altro, per innescare il processo sinaptico di alcuni neuroni sensorimotori (deputati al movimento in relazione a stimoli sensoriali): i neuroni specchio. Solo guardando quel movimento, si sono attivati in noi gli stessi neuroni, che si sarebbero innescati se avessimo compiuto personalmente quell’azione.

Cosa vuol dire questo? Osservare equivale ad agire? Il solo fatto di aver guardato compiere un’azione fa sì che il mio cervello registri l’esperienza di quell’attività, che non avevo nemmeno l’intenzione di fare? Teoricamente sì: le neuroscienze, a partire dalle scoperte del team di Rizzolatti, ci spiegano che in noi si attivano alcuni neuroni della corteccia pre-motoria e del lobo parietale, aree deputate al movimento e prive di funzioni cognitive. Le cellule in questione sono neuroni bi-modali, si attivano cioè non solo quando compiamo effettivamente un’azione, ma anche quando guardiamo qualcuno compierla: lavorano quindi sia quando afferriamo la tazzina del caffè, sia nel caso in cui tale movimento venga soltanto osservato.

Tuttavia, questo particolare fenomeno sembra non accadere in ogni circostanza: si pensa invece che i neuroni specchio si attivino in fase di osservazione, quando l’azione dell’altro ha un significato per noi, quando guardiamo un movimento che conosciamo, che è presente nel nostro repertorio di significati. Non si instaura infatti una speciale telepatia con l’altro, ma, dato che non siamo immersi in un mondo sterile e oggettivo, la nostra esperienza si plasma in un contesto che prende forma nella nostra mente nel momento in cui lo guardiamo e siamo in grado di attribuire ad esso un significato.

Ma il caffè noi non lo volevamo più prendere, volevamo smettere con le tentazioni e con ogni esperienza di assunzione della bevanda, cerebrale o effettiva che fosse!

Allora perché questi neuroni si attivano involontariamente, anzi anche contro la nostra volontà? L’ipotesi più plausibile sulla loro funzione è che essi contribuiscano a creare nella nostra mente un’idea di movimento, anche tramite un’azione soltanto vista e svincolata da qualsiasi possibile esecuzione. Nel cervello dell’osservatore prende forma un atto motorio in potenza, che va a creare un personale serbatoio di esperienze, guardate e riconosciute, anche se non eseguite. In tal modo possiamo arricchire il nostro vocabolario motorio con una serie di simulazioni mentali, anche mentre qualcun altro afferra una tazzina di cui non desideriamo il contenuto,

Il caffè non l’abbiamo preso, certo, né siamo più caduti in tentazione di berlo, infatti la nostra volontà e il nostro pensiero regnano ancora sovrani sulla nostra esperienza. Quella del cervello invece è una lettura di movimenti a cui diamo un significato, un incremento di esperienza motoria, per cui non possiamo affermare (per ora) che i neuroni specchio influenzino sovrastrutture personali quali la morale, l’attività cognitiva del pensiero e la capacità di prendere decisioni. Ma le neuroscienze hanno iniziato da poco a studiare questi fenomeni e i filosofi si stanno scatenando sulla loro interpretazione.

Per sicurezza, comunque, ci conviene mantenere puro lo sguardo e dedicare la nostra attenzione ai soli gesti e alle circostanze che reputiamo inclini alle nostre credenze. In pausa pranzo, domani, sarà meglio andare in gelateria.

 

Giacomo Dall’Ava

[Immagine tratta da Google immagini]

Two beautiful minds

C’è un’occasione che ha sancito definitivamente il mio passaggio all’età adulta, che mi ha fatto guardare disinvolto e senza ingenuità alle favole che da piccolo mi tenevano compagnia.

All’inizio del mio percorso di studi, il professore di logica era incalzante, riempiva la lavagna di formule e aneddoti, così pieno di trasporto e passione da catturare l’attenzione di centinaia di studenti, seduti anche per terra, stipati. Si arrivò ad Alan Turing, matematico, padre della programmazione moderna, del computer e dell’intelligenza artificiale. D’un tratto, gli occhi del professore si riempirono di lacrime, il cuore gli finì in gola e il silenzio per tutta la stanza. Il nostro non era imbarazzo, quanto invece un rispetto reverenziale: nessuno aveva il coraggio di far traballare quella tensione emotiva così delicata.
Ci spiegò che Turing, dopo aver decrittato i codici nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale, venne accusato di omosessualità dalla stessa nazione che aveva salvato, dalla nazione al cui servizio prestava tutto il suo intelletto. Il patteggiamento fu una condanna: una cura ormonale dalla quale Turing uscì distrutto, stravolto a livello fisico e psicologico, senza più riuscire a vivere con quel corpo mutato, evirato.
Le favole che ci raccontano da bambini hanno sempre un bel finale, non ci preparano al mondo che in realtà ci aspetta: Turing si suicidò con una mela avvelenata, senza alcun principe azzurro ad impedirne il tragico epilogo.

Qualche anno dopo l’Inghilterra diede i natali a un’altra mente geniale, macchiata anch’essa di quel peccato imperdonabile dell’omosessualità: Oliver Sacks, uno dei neurologi più famosi al mondo. La mela era ancora lì, priva di quell’unico morso letale. A lui la scelta, ma l’esperienza fu maestra e Sacks fuggì oltreoceano a realizzare il suo sogno americano. Brillante, preparato, ironicamente britannico di spirito, la sua fama crebbe in tutti gli Stati Uniti. Scienziato pazzo, per alcuni, pazzo al punto di sperimentare sostanze stupefacenti e provare ciò che i suoi stessi clienti sentivano, per poi scriverne libri di successo internazionale. Senza di lui le neuroscienze sarebbero rimaste relegate soltanto agli ambienti più accademici, rimanendo un’oscura e affascinante disciplina.

L’eredità che ci hanno lasciato Turing e Sacks è legata al progresso della tecnologia, con cui l’indagine filosofica sulla mente umana ha potuto fare passi in avanti, consentendoci di studiare empiricamente l’attività cerebrale dell’uomo. Ci siamo affidati all’informatica, alla minuziosa precisione degli studi sul cervello e delle attivazioni sinaptiche che intervengono nei processi cognitivi di base.
Sacks ha raccolto il frutto di Turing, ma non quello avvelenato; le neuroscienze hanno raccolto l’affinamento del progresso tecnologico e si sono unite alla filosofia per discutere su cosa sia la mente umana, come funzioni e quali siano gli aspetti fisiologici e patologici della cognizione.
Spesso, purtroppo, è solo con lo studio di una disfunzione che si può teorizzare una struttura fisiologica e così, ad esempio, Sacks ha spiegato nei suoi scritti quanto il cervello di un paziente non sia propriamente malato e manchevole di funzionalità, ma sopperisca ad attività neuronali compromesse, mettendo in atto un nuovo modo di percepire la realtà, un nuovo modo di riorganizzarla a livello cognitivo, comprenderla, rielaborarla.

Deliri, allucinazioni, anomalie dalla percezione non sono cose da pazzi, anzi, sono la più sana risposta del nostro cervello ad un cambiamento o ad un malfunzionamento; sono una modalità differente di affrontare la realtà, considerata sempre più spesso una rielaborazione soggettiva della propria percezione. Il cervello si riorganizza, si riassetta su una nuova struttura che dà vita ad una percezione differente della realtà e ad un’interazione con essa rinnovata. Grazie a Oliver Sacks il corpo dei malati ha assunto un’importanza diversa, un valore più umano e degno di rispetto. Dalla fenomenologia si è arrivati alle neuroscienze, percorrendo una strada di valorizzazione del corpo e del cervello, sede delle attivazioni dei nostri processi cognitivi, che ha conferito dignità ad un corpo malato, ad un corpo che in realtà combatte in maniera sana e si adatta con una nuova struttura.

Quella mela però era rimasta sospesa, quasi nascosta. Ci pensò poi Steve Jobs a riportarla alla luce, mettendola sotto gli occhi di tutti, marchiata su ogni apparecchio Apple di cui è popolata la terra. Che la lezione sia servita, dunque, e che Oliver, a pochi giorni dalla sua scomparsa, possa ora riposare in pace.

«E ora, debole, col fiato corto e i muscoli una volta sodi sciolti dal cancro, trovo che i miei pensieri, non sulle cose soprannaturale o spirituali, ma su cosa si intende per vivere una vita buona e utile – hanno provocato un senso di pace dentro di me. Scopro che i miei pensieri vanno allo Shabbat, il giorno di riposo, il settimo giorno della settimana, e forse il settimo giorno della nostra vita, quando possiamo sentire di aver fatto il nostro lavoro, e di potere, in buona coscienza, riposare.» (Oliver Sacks)

Giacomo Dall’Ava

[immagine di proprietà di La Chiave di Sophia]

Neuro, ergo sum

Anche senza aver mai masticato troppa filosofia, al segnale di un “cogito” o di un “ergo”, tutti abbiamo sempre saputo come completare la ormai celebre filastrocca cartesiana del “Cogito, ergo sum”. Che lo sappiate o meno, la sconcertante ovvietà del “Penso, quindi sono” ha stravolto l’andamento della filosofia, conferendo all’uomo un livello di autocoscienza, con cui abbozzare qualche risposta all’ancestrale domanda del “chi siamo?”.

Esseri pensanti, per cominciare: il solo fatto di poter pensare mi dà la garanzia di essere, di esistere come entità che pensa e di dormire sonni tranquilli sulla mia natura di essere umano, se mai qualcuno potesse aver sofferto di insonnia per riflessioni esistenziali (filosofi a parte)…

Se mi addentrassi ancor di più in questa apparentemente banale discussione, il mio lettore mi accuserebbe a ragione del noto delitto delle “seghe mentali”, che tecnicamente potremmo definire “speculazioni filosofiche”. Non mi resterebbe che ammettere la mia colpa, ma… ripensandoci, lui stesso ha appena ribadito quanto espresso da Cartesio!

La sua secca e disarmante considerazione ha infatti dimostrato proprio quello che la filosofia gli stava spiegando: l’attività cognitiva (messa in atto in questo caso per liquidare la filosofia) ha dato conferma della sua presenza, del suo antagonismo nei miei confronti e dell’eterea esistenza di qualcosa che pulsa incessante sotto i nostri ragionamenti: il pensiero.

Se oggi possiamo camminare eretti, immersi nell’agio e nelle comodità del Ventunesimo secolo, esibendo il nostro pollice opponibile su smartphone e smanettando sui tablet, non dobbiamo ringraziare soltanto Steve Jobs e il suo garage, ma dobbiamo partire dalla mente e dal cervello umani. Nel corso della storia dell’uomo infatti, per ottenere un costante miglioramento della tecnica, la via del progresso è sempre passata per la necessaria presa di coscienza della propria condizione: l’autocoscienza, mezzo e fine delle nostre attività mentali.

Il pensiero ha però posto anche i confini del nostro mondo: un perimetro tracciato a suon di colonne d’Ercole, oltre cui si nascondevano paesaggi troppo appetibili per non superarle e macchiarci così di un peccato mortale, la tracotanza (ὕβϱις, in greco). E così con il meta-pensiero (il pensiero del pensiero, lo studio del pensiero) abbiamo tratto il dado: filosofia e neuroscienze hanno spostato l’asticella del concesso, della conoscenza e ci prospettano estensioni di sviluppo ed evoluzione che sembrano un affronto a Dio. Ma non abbiamo fatto altro che affrontare il nostro passato e rendere onore al nostro logos, innalzandoci col petto in fuori rispetto al verdastro orizzonte che potevamo scrutare quando ancora stavamo a gattoni.

Non siamo stati fermi dove Dio o la Natura ci avevano messi, ci siamo trovati su un trampolino di lancio. Il volo è tutto una fase ascendente, non c’è gravità che tenga di fronte alla spinta generatrice, conservatrice e migliorativa dell’attività cognitiva tipica dell’uomo.

Allora capiamo che non stiamo spingendo troppo sull’acceleratore, perché sin dal principio c’era il logos, si pensa cristianamente; ma anche molti pensatori laici attribuiscono alle funzioni logiche (etimologicamente) una funzione primaria, essenziale e vitale. Questo logos racchiude una dicotomia inscindibile di pensiero e parola, gli artigli più affilati che la Natura abbia mai forgiato, il tutto messo in circolo grazie alla rete più affascinante e multimediale che ci sia al mondo.

No, non è internet, ma il sistema nervoso. Miliardi di neuroni che intervengono costantemente nel farci capire e apprendere gli stimoli esterni, capaci di creare collegamenti sinaptici sempre più raffinati e deputati al progresso, all’evoluzione della macchina umana.

Lo sviluppo delle neuroscienze ricopre dunque un’importanza fondamentale per la nostra esistenza, dato che l’analisi delle facoltà cognitive collima perfettamente con una ricerca filosofica rigorosa e puntuale.

Cosa farcene di tutto questo? Scomodare la filosofia dall’Olimpo della conoscenza, per donarle una formalizzazione concreta, che ci accompagni nella crescita dell’autocoscienza.

La tecnica avanza velocemente, non possiamo continuare a rincorrerla, ma dobbiamo condurla verso il destino di cui siamo – forse – gli unici artefici.

 

Giacomo Dall’Ava

[immagine tratta da Google Immagini]