La forza dell’abitudine. Ovvero come smettere di mettersi le dita nel naso o di guardare il telefono quando non squilla

Cammini, fai altro, sei impegnato, ma senti vibrare il telefono.
Ti infili una mano in tasca e controlli la notifica.
E così tutte le volte che ti capita di averlo in tasca o a portata di mano. Sempre, quindi.
E poi c’è la curiosità di vedere se qualcuno ti ha scritto, ti ha taggato o ha apprezzato qualche tua azione sui social. Anche quando non vibra.
A un certo punto la mano scivola al telefono in automatico.
Si è creata un abitudine. Ma non solo, si è creato qualcosa di ancor più forte: un rito.
Il rito dell’abitudine. E così per la maggior parte delle azioni che ci partono in automatico: segnale, routine, gratificazione. Segnale, routine, gratificazione. Questo è il circolo vizioso che si mette in atto. E poi a ripetizione ogni giorno, ogni ora, ogni minuto.

Dopo un po’ il segnale non serve nemmeno più, tant’è che possiamo mettere silenzioso e fregarcene dell’input. Controlleremo comunque in maniera spasmodica il telefono come se fosse in perenne stato vibrazione, e per qualcuno non serve nemmeno il “come se”.
Alla base ci sta la gratificazione di un bisogno, qualcosa che ardentemente vuoi soddisfare e che ti richiederebbe troppe energie se ogni volta dovessi riprogrammare l’azione per farlo.
E allora trovi un modo semplice, veloce, immediato. Lo metti in atto un po’ di volte e ti prendi tutta la goduria del risultato.

Se vuoi stroncare un’abitudine devi quindi provare a farlo all’inizio, quando ancora c’è il segnale che ti chiede di trovare una soluzione al bisogno.
Se arrivi troppo tardi, cioè se la tua gratificazione parte anche quando non c’è più il segnale, è – appunto – troppo tardi.
Non abbiamo più margine di manovra per estirpare quella dannata abitudine.
Prendi un bambino (per carità non prendere te come esempio: eri l’unico a non farlo). Prendi un bambino e insegnagli a non mettersi le mani nel naso. Puoi farlo, ma prima che quella sia diventata un’abitudine radicata. Se arrivi un attimo dopo, il gesto gli parte in automatico e non c’è più un controllo consapevole sul movimento.

Come fare? In questo caso intervengono forze maggiori. I poteri forti che riescono a influenzarci anche contro la nostra volontà o contro la nostra consapevolezza: la pressione sociale.
Ma per lo smartphone non c’è nessuna pubblica gogna se lo controlliamo in maniera forsennata e incontrollabile.

Allora dobbiamo ricorrere a qualcos’altro. Anche perché personalmente molti non la ritengono nemmeno un’azione automatica di cui liberarsi. Fa parte di quel meccanismo spontaneo, come quando si apre il frigorifero anche se non stiamo cercando del cibo. Facciamo solo un rapido check-up, e se qualcosa ci cattura, la cattureremo a nostra volta.

Abbiamo bisogno di qualcosa che vada oltre la chimica sinaptica.
Il cervello risente della crisi da millenni, e cerca di mettere in atto un’economia cognitiva che punta al risparmio. Risparmio di tempo, di energie, di ragionamenti.
Se qualcosa è superflua, non la fa.
Se capisce che il telefono lo guardi anche quando non suona, smette di aspettare che suoni per darti l’idea di guardare se è suonato. (Che poi non si è nemmeno sicuri che sia colpa del cervello, che sia lui a lanciare alla persona l’idea di fare qualcosa di spontaneo e inconscio.)

Non c’è scampo insomma, se arriviamo dopo il superamento di questa soglia. L’abitudine ha già preso casa e cambiato gli infissi. Non si sfratta.
Quando insomma non abbiamo alcun motivo intrinseco o estrinseco a cambiare abitudine, o non ci rendiamo nemmeno conto di averne una, come fare?
C’è solo un modo per farla andar via, per farla annichilire sotto gli sferzanti colpi della nostra motivazione e della nostra sete di miglioramento.

Per togliere un’abitudine possiamo solo costruirci sopra un’altra abitudine.

Dobbiamo quindi impegnarci nel costruire un ciclo dell’abitudine forzato sopra all’altra abitudine. E quindi: segnale, routine, gratificazione. Ma questa volta controllati. Fino a che non serviranno più né il segnale né il nostro controllo. E dobbiamo essere intransigenti, dannatamente intransigenti.
Chiodo schiaccia chiodo, insomma. Eppure ci avevano detto che quando si viene lasciati da una ragazza non funziona.
Con il cervello invece sì.
E non sto dicendo che “ragazza” e “cervello” siano due cose opposte, sia chiaro.
Ma chiodo schiaccia chiodo funziona. O al limite lo facciamo funzionare, schiacciandone uno sullo schermo del telefono per fissarlo al tavolo.

Giacomo Dall’Ava

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Il caldo amore di un genitore, asfissiante

A un certo punto ci siamo svegliati la mattina del 25 dicembre senza attesa per i regali, senza quel senso di curiosità straripante che ci faceva volare giù dal letto. Non ci siamo più fiondati dai regali che un misterioso Babbo Natale ci aveva lasciato di notte.

Non è più accaduto perché quei due che di solito si prendevano cura di noi ci hanno dato una delusione straziante.
Non esiste alcun simpatico signore che vola con le renne di casa in casa.

Li abbiamo odiati, probabilmente, se ci ricordiamo il momento della scoperta.

Quella forse è stata la prima volta in cui abbiamo messo in discussione i nostri genitori. D’un tratto non erano più il riferimento massimo per la nostra vita, ma una minaccia, una fonte di delusione.

Da allora è stato un susseguirsi di litigi, lotte per ottenere un gioco, un motorino, un’uscita con la compagnia.

I figli sono sempre scontenti, sembra che ogni comportamento non sia quello giusto, che si sbagli sempre qualcosa.

Eppure i genitori fanno sempre tutto per amore dei figli. Non c’è momento in cui non siano davanti a ogni cosa, nel gradino più alto del podio. Ogni atto è un modo per dar loro qualcosa di buono: un’istruzione, un’educazione che li supporti. Un sostegno e una struttura per affrontare il resto della vita nel migliore dei modi.

Dall’altra parte però non tutto viene visto allo stesso modo. Spesso si crea un solco e da una parte e dall’altra schierate due visioni opposte di una realtà impossibile da valutare in modo unilaterale.

L’unico punto di contatto sta nell’intenzione ultima: entrambe le parti vogliono il benessere e la realizzazione del figlio, a qualunque età. Ma in modi diversi.

Il modo, appunto, fa la differenza. Non basta l’aiuto economico, non bastano le scuole migliori, il cibo e i regali. Tutto molto interessante, direbbero gli adolescenti. Ma sterile.

Il rapporto poi non decolla, i figli cercano altro e i genitori si perdono a distribuire beni di qualunque tipo, come fossero un’Ikea di articoli di sussistenza.

Ma in fondo il figlio di che ha bisogno? La maggior parte dei tentavi dei genitori finisce per soddisfare bisogni del genitore stesso, per placare paure e timori di mamme e papà.

Eppure l’articolo 315 bis del Codice Civile è piuttosto chiaro sulla modalità con cui un figlio dovrebbe essere cresciuto. Per una volta la legge non è fredda e sterile, ma ci indica la via di un comportamento che cambierebbe le sorti dell’educazione.

«Il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni. (…)
Il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano».

Ai ragazzi interessa questo, ai bambini ancora di più. Non è tanto il regalo da scartare, l’entusiasmo dei figli è legato alla presenza. Alla condivisione del tempo. L’affetto che percepiscono sapendo che i genitori sono lì da qualche parte pronti ad avvolgerli.

Se non ci fidiamo della legge, chiediamo alla natura, che non sbaglia mai.

L’esperimento di Harry Harlow (psicologo statunitense del Novecento) ci illumina su quello che un cucciolo di scimmia può provare rispetto alla presenza di un genitore. Harlow ha preso delle scimmie e con un gesto di temporanea crudeltà le ha separate dalla mamma. Questi cuccioli di scimmia sono stati poi lasciati in una gabbia: da una parte una “mamma metallica”, cioè un fantoccio in metallo con un biberon annesso, e dall’altra una “mamma morbida” fatta di panni di stoffa su cui appoggiarsi.

Niente, non è il cibo la cosa che le scimmie hanno voluto.

Non è la sopravvivenza fisiologica che istintivamente viene cercata da una piccola scimmia. Questi esemplari si stringevano al fantoccio di stoffa per trovare conforto.

Una coccola non vale un sorso di latte.

Le scimmie al massimo correvano a bere per pochi secondi, e poi tornavano a cercare affetto da quella cosa morbida, calda, accogliente.

Insomma, che sia Babbo Natale o un genitore a portare regali o biberon di latte, la cosa importante è assecondare i bisogni e le inclinazioni dei figli, o, mal che vada, ricoprirsi di stoffa.

 

Giacomo Dall’Ava

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I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo

Aspetta, rileggila, anzi, te la riscrivo, per esserne sicuro: i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo. Prima di andare avanti, se ti sei confuso con questo giro di parole, già ti dico che se ne parlerà a Sarmede, con i migliori esperti di linguaggio e illustrazione, in un Simposio inedito e illuminante: 9 e 10 dicembre, segnati la data.

Non sarà un’interrogazione di italiano, ma vediamo di arrivarci preparati e scomponiamo questo mondo di cui parla Wittgenstein, facciamolo a pezzi per capirci qualcosa un po’ per volta.

Per “limiti del mio linguaggio” immagino un concetto di cui poter solo ipotizzare un significato, un qualcosa che posso capire se i miei limiti lo consentono e che posso apprezzare nella misura in cui le mie facoltà di linguaggio permettono. Il linguaggio infatti non è un qualcosa di dato e definitivo, una certificazione che tutti raggiungono solo grazie all’età o a un corso di formazione come la comunione, la patente, la maturità. È piuttosto qualcosa di malleabile, una possibilità che ci viene attribuita alla nascita, anzi, prima, quando comunichiamo scalciando sgarbatamente. Da lì si sviluppa un linguaggio, una trasmissione di significati, contenuti, idee, relazioni, sentimenti. Prendi quel bambino in pancia che scalcia e te lo ritrovi poco dopo a tirarti la maglia al supermercato per un Kinder. Poi ti scappa di casa guidando la (tua) macchina per uscire con gli amici, senza nemmeno un grazie, ovviamente. Tutte forme di linguaggio, forme che si fanno via via più sofisticate e si plasmano in relazione al messaggio che dobbiamo comunicare, alla nostra abilità, alla nostra sete di sapere. Il linguaggio si definisce secondo contorni specifici, limiti tratteggiati, pronti a restringersi, se inariditi; o a espandersi, se esercitati a dovere.

Dopo “i limiti del mio linguaggio” troviamo il verbo “sono”, copula, che forma un predicato nominale. Un po’ di analisi logica è doverosa: parliamo di linguaggio (e dei nostri limiti…).

Arriviamo al nome del predicato: i limiti del mio mondo. Guardati attorno, guarda la lista di contatti dei tuoi profili, osserva le barriere che non esistono più. Ti sembra che il mondo sia ai tuoi piedi, a distanza di un tocco sullo schermo. No, non quel mondo, non il mondo delle cose che ti circondano; qui si parla del mondo mentale, del tuo mondo di pensieri, del dialogo interiore che ogni giorno fai con te stesso, guardandoti costantemente allo specchio, troppo spesso a luce spenta. Wittgenstein parla di quel mondo, del mondo delle possibilità e delle connessioni che riusciamo a innescare e dei pensieri che effettivamente riusciamo a produrre.

Mettiamo assieme il tutto, rileggiamo ancora, tutto d’un fiato: i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo. Cosa significa tutto ciò? Ogni cosa che riusciamo a tradurre effettivamente in linguaggio andrà a costruire quel mondo mentale di cui ci nutriamo e che costantemente costruiamo. Se riusciamo a pensare e a cogliere un’idea tramite linguaggio, questa potrà trovare spazio tra i nostri pensieri e andare ad annidarsi tra le nostre convinzioni, a costruire quel sistema di valori che ci indica ogni giorno la retta via, dal bagno di casa all’ufficio in cui lavoriamo o sui banchi di scuola. Valori, credenze, pensieri, idee, morale: tutto viene filtrato dal linguaggio e dal livello di sofisticatezza che riusciamo a raggiungere. Più saremo cultori della forma e di come veicolare parole, contenuti e intenzioni, tanto più riusciremo ad allenare quell’organo per cui a poco servirebbero tutte le ore in palestra ad allenare il resto del corpo.

Se non ti è bastato, o se Wittgenstein ha suscitato in te quell’irresistibile e insaziabile sete di sapere e di miglioramento, se ne parlerà a Sarmede, durante il primo Simposio d’illustrazione del 9 e 10 dicembre, organizzato dalla celeberrima Scuola Internazionale di Illustrazione e dalla  Fondazione Stepan Zavrel Perché parlarne tramite una scuola di illustrazione? Il cervello elabora linguaggi strutturati, li codifica e decodifica, ma alla fine ne possiamo percepire soltanto un’immagine. Ogni linguaggio analitico viene tradotto in immagine nel nostro cervello. Un’immagine fotografata senza filtro Bellezza, ma che rappresenta la cruda realtà del nostro livello di educazione al linguaggio.

 

Giacomo Dall’Ava

 

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Siamo buoni o cattivi?

La natura non è un’autorità morale su cui fare affidamento. Se dovessimo chiederle come comportarci in società, probabilmente ci direbbe di sbranarci: per lei merita di vincere il più forte, il più furbo, quello che si adatta meglio all’ambiente. Vedetela un po’ come volete, darwiniani o meno che siate. L’abbiamo chiesto quindi al filosofo della scienza Telmo Pievani.

Nel dubbio comunque, usciamo di casa e andiamo a chiedere maggiori informazioni a un nostro cugino, quello che è sempre informato sulle cose, lo smanettone. Lo troviamo allo zoo, con tutta la sua famiglia degli scimpanzé in una casa di vetro spesso di cui non deve nemmeno pagare le tasse.

Sono passati 6 milioni di anni dall’ultima visita, secolo in più, secolo in meno. Potremmo quasi accoppiarci a lui senza rischi di parentela ravvicinata.

Ci avviciniamo alla gabbia e lo vediamo tranquillo, amorevolmente impegnato a spulciare i suoi simili: sembra conosca altruismo, bontà, gentilezza (seppur con i suoi modi rudi e totalmente proibiti dall’umanissimo galateo).

E mentre ci commuoviamo vedendo questo simpatico quadretto di vita quotidiana, ci arriva uno schizzo di sangue a due centimetri dall’occhio, fortuna c’era di mezzo la parete di vetro.

Infanticidio, il giudice degli scimpanzé sentenzia così: si è trattato di un caso di infanticidio, anzi, non uno, ma tanti.

Altruismo e infanticidio coesistono, ma sono opposti? Antitetici? Lo Yin e lo Yang di un’unica complessità? No, per loro l’omicidio non rappresenta la faccia oscura della loro specie, è “solo” un comportamento, un’azione spontanea. Si aiutano, si spulciano alla sera dopo una dura giornata lavorativa, ma quando si infastidiscono per una lite condominiale, partono alla ricerca dei vicini da sgozzare, senza farsi troppi problemi morali.

Nel DNA da cui proveniamo troviamo questo istinto all’aggressione, alla violenza per risolvere un conflitto, un problema da cui ci sentiamo minacciati. E dire che guardando le notizie da ogni parte del mondo mi sarei quasi convinto del contrario. Ma per noi c’è di mezzo la cultura che getta ogni dibattito nel caos della scienza.

La natura attorno a noi è violenta, è un giardino selvaggio all’interno del quale non puoi mai abbassare la guardia. Anzi, abbassala pure, qualcuno ti sbranerà e nessuno piangerà la tua morte, perché saremo tutti intenti a sbranare o a farci sbranare. Eppure a un certo punto l’uomo ha costruito un recinto, ha isolato la violenza e l’ha portata dentro sotto forme diverse, o forse si è solo infiltrata tra un asse e l’altro della staccionata dell’Etica: qualcuno potrebbe comunque approfittarne per introdurre l’omicidio della suocera, tra le altre cose.

Sconsolati, torniamo a casa e ci fermiamo anche dai bonobo, altri cugini, un po’ più lontani e dimenticati pure alle cene in famiglia. Anche qui troviamo tracce di aggressività, che però è stata adeguatamente isolata grazie a un’attività tanto naturale quanto eccentrica: il sesso. Enormi gruppi di bonobo si trasformano in attori di un film porno la cui trama è – come al solito – molto semplice: un’orgia. In questo modo l’aggressività viene sedata e tutto torna alla normalità.

Ma questa forma di violenza non mi pare si sia ancora infiltrata nel nostro recinto, soprattutto da quello che sento dire sulle suocere: preferiremmo in ogni caso l’omicidio.
La nostra storia sociale ci mostra che nel recinto dell’essere umano spuntano violenza e solidarietà: tenetevele entrambe e scandalizzatevi di meno. La nostra evoluzione è per piccoli gruppi: piccoli gruppi contro piccoli gruppi, che attraggono poi altri piccoli gruppi. La solidarietà si sviluppa tra chi è dalla nostra parte e l’aggressività contro chi è fuori, un avversario. Due facce della stessa moneta. La tiriamo in alto e la facciamo roteare fino al dorso della mano, copriamo il risultato con l’altra e scegliamo: contro il prossimo uomo saremo buoni o cattivi?

 

Giacomo Dall’Ava

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Sparatutto e GTA, nuove frontiere del terrorismo

<p>The truck which slammed into revelers late Thursday, July 14, is seen near the site of an attack in the French resort city of Nice, southern France, Friday, July 15, 2016.  France has been stunned again as a large white truck mowed through a crowd of revelers gathered for a Bastille Day fireworks display in the Riviera city of Nice. (AP Photo/Luca Bruno)</p>

Ricordo bene l’arrivo del Natale quando si era ragazzi. Ricordo bene quel senso di eccitazione che ruotava attorno all’attesa dei regali, che per i più fortunati significava un gioco nuovo per la Play Station. Ma in un modo o nell’altro quel gioco sarebbe arrivato tra le mani di ognuno di noi, a casa di un amico o magicamente scaricato dal web. Andava di moda GTA, in una delle tante versioni passate alla storia. Un gioco a dir poco irriverente e per questo spopolava: si trattava di fare tutto quello che nella realtà le leggi e il senso etico ci impediscono. Possiamo sparare a tutti, investire persone in auto, andare a puttane in pieno giorno e picchiare, picchiare a sangue chiunque si metta in mezzo tra noi e la nostra onnipotenza.

Non scandalizzatevi! È solo un gioco!”, ripete ogni ragazzo come un mantra, mentre la mamma lo guarda preoccupata, sperando che almeno i compiti per il giorno dopo siano stati fatti.

Nel frattempo il mondo è stato messo a ferro e fuoco da notizie di cronaca nera e di terrorismo, di stragi e di tutto quello che quotidianamente ci fa storcere il naso, quanto più accade vicino ai nostri confini. Il nostro radar del disgusto e del ribrezzo sociale si attiva ogni giorno accendendo il telegiornale, eppure c’è un altro meccanismo che ormai è costantemente attivo in quasi ognuno di noi.

La disinibizione.

Siamo disinibiti di fronte alla violenza, dopo esserci allenati per anni con un joystick in mano; non ci sembra in fondo così strano se qualcuno spara all’impazzata e senza un motivo per strada.
Sì sì, ci scandalizziamo per quei cinque minuti dopo aver sentito la notizia, ma l’informazione in entrata rientra comunque in una gamma di possibilità (cioè di azioni fattibili, possibili) anche perché le abbiamo già esperite virtualmente. È solo un gioco, quello di GTA, certo, ma ci introduce in un climax sinaptico che rafforza nella nostra testa certe connessioni. Strada? Camion? Sì, se scaviamo tra le possibili azioni combinando questi due elementi, ci troviamo anche quella di stendere passanti e polizia, roba da una sola stella tra l’altro (per gli intenditori).

Gli scopi del gioco sono sicuramente quelli di far divertire e sfogare anche con ciò che abitualmente non possiamo fare. Il gioco virtuale potenzia nell’immaginazione le nostre possibilità e ci regala qualche ora di gloria incontrastata. L’effetto però non si ferma qui, il potenziamento a lungo termine dei neuroni (LTP) non guarda in faccia alla morale e rafforza nel nostro bagaglio esperienziale anche l’intera gamma di azioni che abbiamo compiuto giocando. Virtuali o tangibili il cervello le ha esperite, ci siamo macchiati di un peccato da poco, apparentemente, ma che non si può lavare con l’oblio o con una risata.

Scappando dalla polizia o tirando sotto i passanti il nostro cervello ha messo in atto quel meccanismo tanto straordinario quanto delicato della plasticità del sistema nervoso. Addestrando i collegamenti sinaptici che riguardano un determinato comportamento, le connessioni tra i neuroni e il verificarsi di certe condizioni si intensificano, modificando permanentemente la nostra struttura. Il cervello non è elastico, non ritorna allo stato di quiete iniziale dopo aver passato il pomeriggio a sparare e investire persone (virtuali), anzi si modifica e rimane marcato.

Se infatti diamo un I-phone in mano ad un indigeno, non lo userà certo per cercare Pokemon, al massimo proverà a spaccare noccioline, perché nel suo ventaglio di azioni concepibili con un oggetto di quella consistenza, si dipana solo qualche simile possibilità. Per noi, invece, il camion era sempre stato un mezzo di trasporto: me lo ricordo quando ci giocavo da piccolo, per non aver  ricevuto in regalo GTA. Il mio cervello non aveva ancora vagliato una possibilità diversa perché il mio avere-a-che-fare (l’Umgang heideggeriano) con quell’oggetto si nutriva di altre finalità.

Ormai invece siamo immersi in una quotidiana violenza con ogni oggetto che ci capiti tra le mani, vediamo obiettivi da sterminare ad ogni difficoltà o fastidio. Non diventeremo tutti assassini, certo, ma abbiamo inserito nel nostro mondo del possibile anche atrocità che ora iniziano a presentarsi sempre più frequenti.

Non sono azioni isolate di persone disturbate, ma alcuni tra gli esiti e le conseguenze della cultura della violenza, che addestra miliardi di neuroni a disinibirsi di fronte alla brutalità e a uccidere non più per fame, non più per protezione di un confine, ma per un’idea, per uno sfizio che ci si voleva togliere, o per passare un pomeriggio di svago al centro commerciale…

Giacomo Dall’Ava

La paura che corrode

In ogni giorno di festa, quando mettiamo piede fuori casa in mezzo alla gente, stiamo iniziando a sentire una sensazione diversa. Ci assale una sorta di agorafobia negli spazi aperti, una paura sociale quando siamo con gli altri, in autobus, passeggiando attraverso una piazza gremita di gente. Pensiamo che possa accadere il peggio, che i fatti di cronaca più terribili possano in quell’istante coinvolgere la nostra città, la nostra vita. Ci guardiamo attorno, attendiamo un’esplosione infernale, cerchiamo di capire da dove potrebbe arrivare e pensiamo a come fuggire…

Invece non accade nulla, continuiamo a fare la passeggiata che ci eravamo programmati, senza però goderci neanche quel giro in santa pace.

L’esplosione non c’è stata e la nostra vita è ancora al sicuro, ma cosa è successo dentro di noi?

Un’esplosione in realtà l’abbiamo subita, siamo stati dilaniati da un ordigno diverso, silenzioso. Un’arma di distruzione di massa ecologica – perché non rovina l’ambiente – ma provoca danni insanabili se lasciata agire costantemente.

Una bomba di paura, terrore, inquietudine e ansia ha pervaso tutto il nostro corpo. Gli effetti sono devastanti. La paura è una emozione che deriva dalla percezione di un pericolo, reale o supposto: non serve cioè che il pericolo ci sia davvero, ma basta che noi ne percepiamo la possibilità. È un’emozione primaria, governata prevalentemente dall’istinto, non possiamo disinnescarla nemmeno con la forza della ragione, con il pensiero della nostra sicurezza.

Ma il terrore che ci ha pervaso non scompare dopo l’esplosione, rimangono radiazioni e conseguenze su tutto il corpo. Le principali reazioni corporee alla paura possono riguardare infatti l’intensificazione delle funzioni fisico/cognitive e l’aumento del livello di attenzione, del costante stato di vigilanza che ci porta stress, tensione, desiderio di fuga. Diventiamo delle belve intente a proteggere il nostro territorio, la nostra incolumità da un nemico che non esiste ma di cui abbiamo paura.

Mentre passeggiamo con lo sguardo sospettoso, il sistema nervoso simpatico (responsabile delle reazioni in caso di emergenza) è più che mai attivo: aumenta il battito cardiaco, la pressione sanguigna, la quantità di glucosio per i muscoli che devono contrarsi per l’attacco o la fuga. Anche se effettivamente non stiamo registrando alcuna informazione paurosa, perché stiamo soltanto facendo shopping, il nostro pensiero terrorizzato innesca l’amigdala, che prende il comando delle nostre reazioni, inibendo le parti del cervello responsabili del pensiero.

Come fermare allora questa concatenazione dannosa di eventi? Se rimaniamo immersi in uno stato di paura, anche quando l’oggetto della paura non c’è, entriamo nella cosiddetta ansia anticipatoria. Ma se anche questo stato d’animo rimane insensato, perché continua ad anticipare qualcosa che non accade, come liberarsene?

Sostituendo.

Dobbiamo sostituire ogni pensiero di paura con un pensiero di speranza, ricostruzione, positività, anche nel dolore di quello che succede. Se non lo faremo, il nostro cervello rimarrà “marcato”, perché accumula ricordi di eventi che ci hanno impaurito, proprio per metterci al riparo da nuovi eventuali pericoli. Ogni volta che cammineremo per strada, non staremo più godendo dell’euforia della giornata, ma innescheremo inconsapevolmente una valanga di reazioni dannose: il battito cardiaco aumenta, i muscoli si contraggono, le pupille si dilatano e il respiro si fa più profondo e rapido.

Il cervello non distingue un pensiero ipotetico da un reale bisogno di fuga o attacco in una situazione di pericolo. Per lui anche il solo pensiero che possa succedere una cosa diventa allarmante e stravolge il nostro equilibrio. Per calmarlo non possiamo fare altro che immergerci in pensieri diversi, forzarci di pensare ad aspetti positivi e propositivi.

Usciamo di casa a testa alta, per goderci un’altra giornata di sole e per schiacciare ogni pensiero di terrore con il nostro benessere.

 

Giacomo Dall’Ava

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Libero arbitrio: siamo davvero liberi di scegliere?

Già il fatto che tu abbia cliccato su questo articolo potrebbe farti sentire sicuro e padrone della tua esistenza, della tua decisione così personale e privata. L’hai scelto tu, lo stai scegliendo anche mentre continui a leggere: senti che questo argomento è di tuo interesse e lo vuoi approfondire.

Sospiro di sollievo… Sei sul divano di casa, o in giro per la tua giornata lavorativa o di studio che sia, e ti senti finalmente in possesso della tua vita. Non c’è macchinazione che tenga, non esiste alcun complotto mondiale che ti induca desideri che non sarebbero tuoi, ti senti l’unico decisore di ogni scelta della vita.

Ti starai chiedendo dove stia la fregatura, già te la aspetti, senti che sta per arrivare un “però”, uno di quelli che vorrebbe metterti in dubbio e farti pensare che tutto quello che è stato scritto finora sia fondamentalmente falso.
Eppure nel campo di ricerca sperimentale ci si sta ancora interrogando: siamo o non siamo in grado di esercitare il nostro libero arbitrio?

Ci ha provato Libet, negli anni Ottanta, a darci una risposta, dissacrando il mito delle facoltà decisionali dell’essere umano.

Libet parla di “avvio inconscio di un atto volontario e getta nel paradosso una delle certezze del mondo occidentale. Com’è possibile che un atto volontario parta da un’attività inconscia che quindi non possiamo controllare consapevolmente?
Ancora una volta la scienza si rivolge al cervello, chiede responso a questa scatola nera da cui escono risultati che non sappiamo del tutto interpretare: l’atto sembra involontario, nonostante ai soggetti dell’esperimento fosse stato chiesto di compiere una scelta.

Ma di che scelta si trattava? Le persone sottoposte all’esperimento dovevano scegliere il momento in cui stoppare una lancetta che scorreva su un quadrante di orologio, mentre un caschetto pieno di ventose veniva applicato sul cranio e registrava la sottostante attività del cervello. Libet constatò che il momento in cui il soggetto metteva in atto a livello motorio la scelta di interrompere la lancetta, veniva sempre anticipato da un’attività neuronale inconsapevole alla persona. Questione di millesimi di secondi, ma il tempo sufficiente per affermare che la fantomatica scelta di fermare la lancetta non venisse presa da un soggetto cosciente, ma fosse attivata da una sterile attività di un organo umano.

Il sistema computerizzato che registrava le attività della persona poteva quindi anticipare la scelta che stava per superare il livello di coscienza del soggetto, ricevendo in anticipo un suggerimento di quanto sarebbe accaduto. In questo modo la divulgazione (para)scientifica voleva fare a pezzi il libero arbitrio dell’essere umano: l’esperimento ebbe risonanza mondiale e tutti furono terrorizzati anche quando controllavano innocentemente l’orario, pensando che quel desiderio non derivasse in realtà dal loro Sé.

Fortuna che oggi gli smartphone utilizzano un orologio digitale senza lancette, eppure il problema potrebbe presentarsi sotto altre sembianze: dobbiamo quindi dare davvero credito all’esperimento di Libet?

Il problema risiede in quel “potenziale di preparazione” registrato dall’encefalogramma, cioè l’attività neuronale che sembra anticipi la scelta: se anche si verifica un’attività che precede temporalmente il momento in cui un soggetto sceglie di compiere l’azione, non possiamo comunque affermare che la preceda anche logicamente. L’essere umano ormai è considerato come un tutt’uno indissolubile: da chi sarebbe quindi attivata la macchinosa e apparentemente sterile attività neuronale? Difficile trovare una risposta a simili quesiti.

Ma in fin dei conti possiamo considerare quel gap tra l’attività cerebrale e il momento della scelta (che tanto ha scosso il mondo della filosofia e delle ricerche di neuroscienze) come un semplice scarto di fasi tutte appartenenti allo stesso processo, ad un percorso di scelta messo in atto dal nostro personale – seppur talvolta debole – libero arbitrio.

Giacomo Dall’Ava

Occhio non vede? Ma il cuore duole. Il ruolo dei messaggi subliminali

Ci sentivamo un tempo schiavi della televisione, oggi forse di uno smartphone: ce lo dicevano ogni giorno a scuola, leggendo i giornali e sbraitando in famiglia. Per anni ci siamo sentiti in colpa per aver tenuto la televisione accesa in sottofondo, mentre giravamo per casa facendo altro, perché sapevamo che qualcosa entrava nella nostra testa, ci pervadeva e ci condizionava. Eppure sembrava farci compagnia, pensavamo di mantenere comunque saldo il nostro potere decisionale, senza subire il condizionamento di pubblicità, opinione pubblica e conduttori persuasivi.

Nel frattempo le ricerche sul funzionamento del cervello diventavano sempre più elaborate e abbiamo iniziato a sentir parlare dei messaggi subliminali: parole, suoni o immagini che non vengono percepiti consciamente, riescono comunque a influenzare il nostro giudizio, gli atteggiamenti e le credenze a livello inconscio. Immagini tratteggiate sullo sfondo che non sappiamo di vedere, suoni con una frequenza sotto la soglia della percezione e tutto ciò che riusciamo a ricondurre a un significato senza rendercene conto, diventa realtà per il cervello  e può sfociare in un’emozione fastidiosa, insinuata  e radiata.

Ci siamo sentiti attaccati nel profondo, nella nostra intimità: nessuno si permetta di toccarci l’anima, la psiche, la mente, il pensiero che desideriamo nostro e di cui speriamo ancora di essere gli unici tutori e amministratori.

I suoni, le immagini e le vibrazioni sonore eccitano i nostri organi di senso e influenzano le nostre percezioni anche quando sono sotto la soglia della consapevolezza. Il messaggio elettrochimico che i neuroni si trasmettono crea una concatenazione di informazioni che parte dall’esterno e arriva direttamente al cervello. Ma se tutte le strada portano al cervello, che percorso fanno queste informazioni in entrata? La strada non esiste già dentro di noi e la responsabilità di ciò che arriva – anche in modo subliminale – è in parte nostra.

Quando infatti esercitiamo il nostro pensiero e siamo immersi nella vita quotidiana, creiamo dei sentieri, delle tracce che anche le informazioni future potranno percorrere, andando a rinforzare e tracciare al meglio quel determinato percorso. Un messaggio subliminale trova quindi dei varchi nelle nostre abitudini e le va a consolidare, crea una via neuronale specifica e diretta alle nostre credenze più sensibili. Non sono dunque messaggi a cui siamo totalmente vulnerabili, ma diventano incontrollabili anche dalle tendenze che ogni giorno esercitiamo con i nostri pensieri.

La forza della ripetizione di un pensiero crea abitudini e automatismi, piccole fessure su cui va a insediarsi il contenuto inconsapevole di una vignetta, di un motivetto e di un’immagine pregnante.

Per massimizzare l’effetto di questo fenomeno, non si possono usare le buone maniere, il cervello non usa il bon ton: preferisce gli eccessi, la volgarità, omicidi, suicidi, violenze sessuali, catastrofi naturali e tutte quelle notizie che ormai abbiamo assorbito e registrato come “normali”. Queste notizie sono però “negative” e stressanti, pur non essendo riferite a noi in prima persona, hanno un impatto sul nostro modo di percepire il contenuto della notizia.

Quando ci immergiamo in una situazione che il cervello registra come minacciosa, reale o implicita che sia, aumenta l’attività del sistema simpatico e dell’ippocampo, che iniziano a produrre ormoni corticoidi. Ma cosa implica quest’attività? Se il nostro cervello secerne questi ormoni in abbondanza, assistiamo a un mantenimento in memoria delle informazioni registrate. Non solo, dalla memoria a breve termine in cui vengono inserite, vengono poi impresse e incise anche in quella a lungo termine e legate in maniera quasi indissolubile ai nostri ricordi. La pubblicità accattivante non rimane più soltanto una bella esperienza visiva, ma diventa parte integrante del nostro bagaglio di vita, un’emozione che ci ha emozionato e che pulsa ora dentro di noi al ritmo del cuore.

Se vogliamo additare qualcuno per l’intrusione di informazioni impercettibili, non possiamo accusare soltanto i maghi della pubblicità, ma dobbiamo anche sentirci responsabili di aver spostato l’asticella dei nostri pensieri: tramite l’interazione con gli altri abbiamo dato spazio a riflessioni che non avrebbero trovato modo di instaurarsi nel nostro cervello, neanche con la malizia di un messaggio subliminale.

Giacomo Dall’Ava
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L’amore ai tempi del cervello

M’ama o non m’ama? A furia di strappare petali di margherita, servirà un referendum anche per limitare questa taumaturgica pratica di ispezione di sentimenti.

Ognuno di noi avrà sicuramente vissuto un dramma d’amore, che ci avrà poi fatto rovinosamente cercare risposte tra superstizione, tarocchi e oroscopi: come se astrologia e scaramanzia potessero darci un aiuto concreto a scrutare il cuore dell’altro.

Evitando invece malizia e ambiguità, avremmo potuto armarci di stetoscopio e andare a curiosare sul petto del partner (o presunto tale), per sentirne il battito: perderci nel ritmo calmo della sua circolazione e nell’andamento del suo respiro. Un po’ macchinoso, di certo scomodo, ma avremmo avuto un accesso diretto al suo coinvolgimento emotivo nei nostri confronti.

Non è un’indagine del cuore, del sentimento. È piuttosto un’indagine cardiologica, perché, dai risultati di una ricerca condotta da Emilio Ferrer nell’università della California, si è notato che il battito del cuore e la respirazione di due persone innamorate si attestano sulle stesse frequenze. Se infatti l’ultimo petalo dovesse recitare “m’ama”, sentiremmo un battito cardiaco che suona all’unisono con il nostro; così come il ritmo dell’aria, che entra ed esce, cadenzata dalla nostra stessa andatura.

Non si tratta quindi di farfalle nello stomaco né dell’aumento delle palpitazioni del cuore: siamo invece immersi in una sinergia sentimentale che ha sede nel corpo, che vive di corpo e di ogni organo di cui siamo composti.

Anche l’amore platonico, tanto osannato come amore ideale, parte da un’imprescindibile corporeità che ci accompagna lungo la scalata verso la contemplazione dell’Eros. Non si possono evitare i primi gradini della fisicità, che costituisce un fondamento indispensabile anche per i più romantici idealisti. Il corpo è chiamato in causa in ogni relazione d’amore, in ogni sentimento che troppo spesso si è visto relegato simbolicamente soltanto al cuore, finendo per tralasciare il resto della persona.

Il cervello pretende la sua parte, non accetta più di essere trattato come un freddo calcolatore di petali pari o dispari. Eppure si pensa ancora che la componente cognitiva sia così slegata da quella affettiva, come se emozioni e sentimenti fossero opposti e contrari all’apparato cerebrale, che invece si ritrova coinvolto in ogni nostra relazione e compartecipazione emozionale.

Il coronamento di una tensione d’amore induce il cervello a spremere ingenti quantità di ossitocina, il cosiddetto “amore dell’amore”, grazie all’attività della neuroipofisi. E per capire se anche la nostra metà mancante sta vivendo lo stesso stato di grazie, potremmo quindi calcolare il suo livello di questo neurotrasmettitore e osservarne alcuni effetti concreti, quali l’attenuazione dello stress, l’accrescimento della fiducia e dell’empatia con il prossimo. Tutte conseguenze inevitabili di quando si è innamorati…

Non si limita a questo il coinvolgimento  del cervello. L’insula e il corpo striato si attivano quando il desiderio sessuale prende finalmente forma, iniziano a scambiare informazioni e si comportano come se la persona fosse immersa in uno stato di dipendenza da sostanze. Come spiega il professor Pfaus, docente di psicologia alla Concordia University: «L’amore è un “abitudine” che si sviluppa dal desiderio sessuale e come tale chiede appagamento. A livello cerebrale funziona come quando le persone diventano dipendenti da droghe.»

In questo stato di avvolgente dipendenza, possiamo quindi ritenere sincera la drammaticità dei “non posso più vivere senza di te” di chi strappa l’ultimo petalo recitando un disperato “non m’ama”.

Giacomo Dall’Ava

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Se la primavera non tornasse… Intervista a Luigi Emmolo

L’acqua alta non è più solo un problema di Venezia, né di tutti i pendolari che la frequentano con gli stivali sempre a portata di mano. L’innalzamento del livello dell’acqua sta diventando una realtà che riguarda il mondo intero, o, se non vi piace osservare ciò che succede a troppi chilometri di distanza, riguarderà quasi tutta la pianura padana. Probabilmente tutti abbiamo sentito parlare della situazione problematica del clima, dello scioglimento dei ghiacciai, ma nessuno di noi ha mai sentito come personale questo problema, né l’ha mai tastato con mano.

Per capire qual è la situazione in cui si trova effettivamente il nostro territorio, abbiamo parlato con Luigi Emmolo, professore di Biologia e Chimica e autore del romanzo “Se la primavera non tornasse…”.

  • Luigi, parlaci in breve del tuo racconto, di cosa tratta?

Si tratta di un libro di sensibilizzazione sulle problematiche ambientali e sociali che caratterizzano i nostri tempi. Racconta la storia d’amore e d’avventura di un’ape e una farfalla che nascono nella Foresta Amazonica e che, scoperta una triste verità, decidono di affrontare l’oceano per raggiungere la Terra degli umani e parlare all’uomo per cercare di convincerlo a cambiare il suo stile di vita così impattante sull’ambiente e sulla sua stessa salute. È il racconto di un viaggio, di un sogno, di una commovente e indimenticabile storia d’amore che ha per protagonisti Noan e Flò, un’ape e una farfalla che decidono di affrontare l’oceano con l’intento di parlare agli umani, informarli delle conseguenze che potrebbero derivare dagli abusi nei confronti della Natura.

  • Come è nata la tua opera? Cosa ti ha spinto a scrivere questo libro?

Ho scritto questo libro per lo stesso motivo per cui ho deciso di fare l’insegnante, rinunciando tra l’altro alla possibilità di realizzare un sogno che coltivo sin da ragazzino: il sogno di diventare ricercatore. Il motivo è questo bisogno, questa necessità che sento di parlare a chiunque della natura, delle sue bellezze e dei rischi che essa corre a causa dei nostri comportamenti incuranti che sempre più stiamo portando avanti in un’ottica inconsapevolmente autodistruttiva. Notava Nicolas Georgescu-Rogen, padre fondatore della bioeconomia: “Mai, in tutta la sua storia, l’umanità si è trovata in una situazione più difficile. Parliamo di questa o quella specie in pericolo, ma evidentemente non ci si rende conto che forse quella in maggior pericolo è proprio la razza umana.”  Ecco, questo pensiero riassume perfettamente la motivazione che mi ha spinto a scrivere questo racconto: svegliare le coscienze umane, rendere la gente consapevole dei rischi che corriamo e del ruolo che ognuno di noi gioca, nel bene e nel male, rispetto a quanto sta accadendo a livello sociale e ambientale.

  • In che modo cerchi di svegliare le coscienze umane?

Mi dedico attivamente a campagne di sensibilizzazione rivolte soprattutto ai giovani, al fine di educare le persone a un corretto stile di vita e al rispetto dell’ambiente: punti di partenza per condurre una vita sana e felice. Con questo racconto, per quanto triste e realistico sia, cerco soprattutto di dare un segnale di speranza. Vorrei, infatti, che il mio messaggio arrivasse il più lontano possibile, che cambiasse il cuore della gente, per generare consapevolezze e cambiamenti capaci di migliorare il mondo.

  • “Se la primavera non tornasse…” è una favola che racchiude in ogni sua parte un livello simbolico-metaforico, raccontacene qualcuno!

51Fmxz2wxCL._SX355_BO1,204,203,200_Flò, la farfalla, simboleggia la “Natura”; bella, elegante nelle sue forme e colori, ma anche e soprattutto fragile, proprio come i delicati equilibri che tengono in vita il Pianeta.

Noan, l’ape, è invece il simbolo della “Speranza”; le api ricoprono infatti un ruolo importantissimo nella biosfera: esse impollinano i fiori consentendone la riproduzione e la diffusione sulla terraferma, garantendo così, a tutti gli animali del Pianeta, il cibo e l’ossigeno di cui hanno bisogno per vivere. Anche i luoghi descritti sono densi di significato: la Foresta Amazzonica simboleggia infatti il mondo puro e incontaminato, incantevole, com’era una volta.

  • La situazione del nostro pianeta è così grave?

Ci rimane meno del 20% delle Foreste, l’80% delle riserve ittiche viene oggi sfruttato al limite o oltre la massima capacità di rigenerazione, entro il 2025 il 50% della popolazione mondiale potrebbe sperimentare delle gravi carenze idriche, e infatti è già stato lanciato l’allarme per una migrazione planetaria che potrebbe interessare dai 250 milioni a 1 miliardo di individui, produciamo più di 4 miliardi di tonnellate di rifiuti all’anno, la temperatura del Pianeta è in aumento e potrebbe salire di 4-5 gradi nei prossimi decenni, la produttività dei terreni sta diminuendo per tutta una serie di concause e la barriera corallina sta scomparendo ad una velocità spaventosa.

  • Nel libro affronti tantissimi problemi ambientali e sociali, però ce n’è uno che riguarda ancor più da vicino le zone della provincia di Treviso, ricche di vigneti e di coltivazioni

Sì, è il delicato ed attualissimo problema dei pesticidi: sostanze utilizzate in agricoltura per combattere i parassiti delle piante ma che hanno degli effetti gravissimi anche sull’uomo. È stato infatti dimostrato essere sostanze cancerogene, mutagene, teratogene, reprotossiche e neurotossiche. Dobbiamo quindi cercare di ridurre l’esposizione a queste sostanze, tutelando soprattutto le persone più vulnerabili, quali sono ad esempio le donne in gravidanza, in allattamento e i bambini.

  • Possiamo definire questo racconto una sorta di attacco al sistema capitalistico-consumistico; un sistema che ha portato alla distruzione degli equilibri naturali ma anche di quei valori che danno un senso all’esistenza: il valore della famiglia, dell’amicizia, dell’alterità, della libertà, della sana alimentazione e quindi della salute. Dico bene?

Sì. È un attacco a un sistema che è riuscito a trasformare la società in una mega-macchina il cui unico fine è quello di produrre. In un sistema del genere l’uomo è quindi visto come un semplice ingranaggio al servizio di chi, dotato di capitale da investire, può accrescere il proprio profitto a scapito della salute e della felicità della gente comune. Un sistema del genere deve essere quindi abbandonato al più presto, anche perché non può che portare alla distruzione del Pianeta. Non è possibili infatti accrescere i consumi all’infinito in un sistema dalle dimensioni finite qual è la Terra!

  • La filosofia può aiutare le persone a contrastare il sistema capitalistico, i cui effetti stanno rovinando il pianeta?

Sicuramente, perché può indurre ogni singola persona alla riflessione sulla vita. Risalendo alle cause degli eventi che ci circondano, possiamo comprendere da dove sia partita la deriva ambientale che stiamo vivendo. Con il mio libro infatti vorrei stimolare ogni persona a capire che la concatenazione degli episodi dannosi del pianeta include anche una responsabilità personale. Sensibilizzando ragazzi e bambini si può costruire una base per una società che viva in simbiosi con il proprio territorio, rispettandolo e capendo di cosa ha bisogno.

  • Ma esiste secondo te un’alternativa a questo sistema, alla società della crescita?

Certo! È il suo esatto opposto: un sistema che insegue l’ideologia della decrescita. Una società in grado di vivere all’insegna della frugalità, in cui ognuno si autoproduce quante più cose possibile, una società basata sul dono, sullo scambio di beni, che consuma soprattutto prodotti locali, che mette al primo posto la sana alimentazione, l’istruzione, la salute, l’amore e la libertà.

  • Il tuo libro è uscito da poco ma sta avendo grande risonanza: molte scuole lo stanno utilizzando per la realizzazione di progetti di sensibilizzazione, ha ricevuto importanti sponsorizzazioni e si è classificato al primo posto nella fase web del prestigioso Concorso Nazionale “Casa Sanremo writers 2016”. Qual è, secondo te, il motivo di tale successo?

Credo siano due i punti di forza di questo libro. Il primo è rappresentato dal tema affrontato. Un tema delicatissimo, attuale e che spinge ogni giorno milioni di cittadini, consapevoli dei gravissimi rischi che stiamo correndo, a cambiare il proprio stile di vita per renderlo più ecosostenibile. Per queste persone che credono e sperano in un mondo più salubre e giusto, il mio libro rappresenta un ottimo strumento per veicolare ad amici e parenti i valori in cui tanto credono, per questo lo stanno comprando e ne stanno favorendo la diffusione.

L’altro punto di forza è rappresentato dallo stile narrativo adottato, il quale mi ha permesso di affrontare questi temi così importanti senza però stancare il lettore, anzi, emozionandolo attraverso la dolcezza degli scenari descritti, dei personaggi, e le storie d’amore e d’amicizia che avrà la possibilità di vivere attraverso la lettura.

  • Ultima domanda, dedicata ai nostri lettori: cosa pensi della filosofia?

La filosofia è una disciplina completa, che si può occupare di aspetti molto diversi tra loro, tutti affrontati con un metodo rigoroso di riflessione, argomentazione, ragionamento. Se potesse diventare un campo di indagine fruibile a tutti, non rimanendo isolata a una materia di studio, potremmo avere risultati stravolgenti nella vita di tutti i giorni, nella quotidianità di ognuno di noi. Riflettendo sul senso delle cose, sulla loro naturalità, staremmo sicuramente più attenti a preservare il pianeta in cui viviamo, l’ambiente che ci dà il necessario per vivere e che ha bisogno del nostro aiuto.

Giacomo Dall’Ava

[immagini concesse da Luigi Emmolo]