Una libertà critica per capire che possiamo essere ecologici

Ci piace pensare di essere liberi, liberi come un fiume in piena che non incontra ostacoli lungo il suo cammino. Eppure, ogni giorno percepiamo la fragilità di questa nostra libertà che, come una foglia secca, è sempre sul punto di lasciarsi travolgere da forze esterne. Soprattutto oggi, in un mondo scosso da disastri planetari e guerre intestine, da epidemie emergenti e cambiamenti climatici repentini, sperimentiamo costantemente il nostro condizionamento e la nostra limitatezza nei confronti degli eventi che incalzano il mondo attorno a noi. Sorge allora spontanea una domanda: quale libertà? Quale libertà spetta a noi esseri umani contemporanei che vivono sotto il marchio dell’estinzione?

La filosofia politica, che sul tema della libertà è stata tra le discipline ad avere maggiore influenza, ha ascritto agli esseri umani due differenti tipi di libertà, una negativa e una positiva. In quanto persone, siamo liberi di agire e compiere determinate azioni, come per esempio votare, esprimere la nostra opinione, professare la religione che preferiamo, amare chi vogliamo, etc. Questo primo tipo di libertà si definisce positivo perché designa la nostra capacità o possibilità di fare qualcosa in base ai nostri desideri o valori. Anche se, riferendosi solamente alla possibilità di fare qualcosa, questa libertà si confonde spesso con una libertà formale di cui godiamo in maniera astratta. Al contrario, la libertà negativa è libertà come assenza d’impedimento e di ostacoli. Essa, quindi, indica che noi tutti possiamo agire senza che nessuno intervenga a ostacolarci o rimanere passivi senza che nessuno ci costringa a non agire. Certamente, gli esempi più conosciuti di questo tipo di libertà sono l’inviolabilità del proprio corpo, il diritto alla privacy e la garanzia alla proprietà privata.

Tuttavia, le modalità della libertà di cui l’essere umano dispone non si esauriscono in queste due dimensioni relative alla capacità di agire senza interferenze o in accordo con i propri valori. Questo perché l’essere umano, come Nietzsche insegna, possiede anche la capacità fondamentale di poter giudicare e ribaltare i valori in cui crede. In effetti, quest’ultima capacità individua un nuovo tipo di libertà, che non esclude i primi due ma si aggiunge ad essi nel tentativo di migliorare la consapevolezza dell’uomo in un momento di profonda crisi. Secondo il filosofo canadese James Tully, questa terza libertà può essere definita ‘critica’ perché ha il ruolo chiave di sfidare, nella pratica quotidiana, i valori e i pregiudizi che abbiamo ereditato. La libertà in quanto critica, quindi, riguarda le condizioni che permettono a noi soggetti umani di attuare delle trasformazioni al fine di diventare delle persone diverse. Da questo punto di vista, è facile vedere che questa libertà è anche ecologica. Infatti, se pensiamo che l’identità di una persona sia definita dai valori in cui crede, modificando quei valori una persona potrà cambiare radicalmente la propria identità, diventando, per esempio, più sensibile ai problemi del cambiamento climatico o al maltrattamento degli animali.

La nostra vita è piena di momenti ‘critici’ in cui si racchiude la possibilità di diventare altro, di aprirci a certi orizzonti e chiuderci ad altri. Esempi classici possono essere la decisione di diventare genitori, di scegliere un certo percorso di studi o una certa carriera, di abbandonare il proprio paese per vivere in un altro. Ma lo stesso vale per esempi più ecologici come la decisione di non mangiare carne più di una volta a settimana, o di non utilizzare alcun prodotto contenente della plastica (sia nel packaging sia nei suoi ingredienti), o ancora di coltivare un piccolo orticello. I momenti ‘critici’ della nostra vita, allora, sono degli eventi che determinano la forma della nostra vita e, così, tanto più una vita è capace di queste trasformazioni, tanto più libertà critica possederà.

In un mondo sempre più complesso e caotico, in cui la paura e l’orrore sembrano essere padroni, è importante comprendere e distinguere come dobbiamo agire e cosa possiamo fare. Questa comprensione però ci mostra che le nozioni di libertà positiva e negativa non sono più sufficienti a spiegare la nostra libertà e, al tempo stesso, a metterci sul cammino di una rivoluzione. Al contrario, serve ampliare il raggio della nostra vista e riconoscere un nuovo tipo di libertà, più propriamente critica ed ecologica, che ci aiuti a cambiare il nostro modo di stare al mondo e abitare la Terra che ci ospita.

 

Gaia Ferrari

 

[Photo credit Pablo Heimplatz via Unsplash]

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Io contro di te: Hegel e la lotta per il riconoscimento

Leggere la Fenomenologia dello spirito è un atto di scoperta e sofferenza continua: ogni volta che credi di averla capita, ecco che riesce a sorprenderti e a rivelarti qualcosa di nuovo a cui non avevi fatto caso. Sembra una di quelle calli veneziane che più le percorri e più ti risultano oscure e misteriose, conducendoti sempre in una direzione diversa. Ed è proprio per questo suo continuo ribollire di idee che oggi vorrei ritornare sulle pagine della Fenomenologia e parlare un po’ del tema del riconoscimento tra auto-coscienze. Però anziché considerare questo tema attraverso la famosa dialettica tra servo e padrone, vorrei concentrarmi sul suo stadio preparatorio. Sto parlando della lotta per la vita e la morte. Questa lotta è estremamente interessante, perché ci mostra con grande chiarezza i rischi di una concezione astratta dell’identità personale; rischi che si manifestano quotidianamente negli scontri tra fidanzati, amici, genitori e figli, etc.

Per cominciare bisogna dire che l’esperienza che Hegel ci sta descrivendo con questa lotta è un’esperienza originaria, perché rappresenta un desiderio di riconoscimento che ciascuno di noi – in quanto uomo – vive costantemente dentro di sé e fuori di sé, nel confronto con gli altri. Nel caso specifico della lotta per la vita e la morte, Hegel ritiene che questo desiderio si caratterizzi per il fatto che ciascun uomo pretende di affermare la sua assoluta libertà e indipendenza, e di essere riconosciuto come tale, senza però voler riconoscere a sua volta l’altro. Per esempio, un figlio adolescente pretende il riconoscimento unilaterale da parte dell’autorità del padre, che per lui significa dire: «Io sono grande e, se voglio uscire con gli amici, posso fare ciò che Io voglio!»
Allo stesso tempo, un padre pretende che il figlio sottostia e riconosca come assoluta la sua autorità, affermando che «Io sono il padre e decido Io cosa è meglio». In questo caso, è chiaro che le due auto-coscienze che sono coinvolte nello scontro si considerano entrambe come assolutamente libere e indipendenti, ovvero come un “puro essere per sé” che non è limitato da nulla poiché non è dipendente da nulla. Considerandosi così assolutamente libere, però, le due auto-coscienze non possono certo riconoscere l’altro come un loro stesso pari, ma soltanto come una cosa che limita momentaneamente la loro libera espressione di sé.

Siccome il riconoscimento è essenziale per l’auto-coscienza in generale, non le è mai sufficiente considerarsi libera in sé, ma sempre vuole essere riconosciuta in quanto libera dall’altra auto-coscienza. È così che nasce l’eventualità del conflitto e la vera e propria lotta per la vita e la morte: padre e figlio, per esempio, non si accontentano di dire «Io sono libero» ma bramano al contempo di ottenere la prova della propria libertà. Questa prova, ovviamente, passa attraverso l’altro, poiché mancando l’altra coscienza mancherebbe anche il mezzo del riconoscimento. Ecco che così si mostra il fraintendimento di fondo di questa lotta, in cui i due contendenti non comprendono che riconoscersi vuol dire includere e non escludere l’altro.

Ora, per Hegel, l’esito necessario di questa lotta tra auto-coscienze che si considerano astrattamente libere e indipendenti è che una delle due decida di abbandonare la scontro, al prezzo di riconoscere senza essere riconosciuta dall’altro contendente. Così si raggiunge una forma di riconoscimento, seppur assolutamente asimmetrica: un sé riconosce l’altro e così abbandona la propria assoluta indipendenza e libertà, l’altro sé rimane legato a questa indipendenza e libertà ottenendo il riconoscimento desiderato. Nel caso di padre e figlio, è solitamente il figlio che rinuncia alla sua libertà di uscire e divertirsi con gli amici e dà il riconoscimento dovuto al padre, che al contrario rimane fermo sulla sua posizione (ovviamente, è anche possibile che sia il padre a rinunciare alla sua autorità e lasciare fare al figlio tutto ciò che vuole).

In conclusione, la lotta per la vita e per la morte è estremamente interessante, poiché ci rivela qualcosa di essenziale sul modo in cui ci dobbiamo relazionarci agli altri; una relazione che passa attraverso l’evitare di affermare una concezione astratta e completamente auto-assorta della nostra identità. Infatti, ogni volta che crediamo di essere assolutamente liberi e indipendenti e di poter ottenere il riconoscimento dell’altro attraverso l’esclusione, ecco che siamo condotti alla più primitiva e ottusa violenza (sia verbale sia fisica); affermiamo, inoltre, con convinzione che la relazione con l’altro va rifiutata perché “Io” sono naturalmente auto-sufficiente e ci chiudiamo, infine, in un circolo vizioso di isolamento.

 

Gaia Ferrari

 

[Photo credit Marc Sendra Martorell via Unsplash]

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Meglio buoni o cattivi? Un confronto con l’Oriente

Una delle domande più scottanti che la filosofia si è posta – anche se come da tradizione non ha ancora trovato una risposta – è quella relativa alla natura degli esseri umani: siamo buoni o cattivi, altruisti o egoisti, virtuosi o dissoluti? E se siamo buoni, come rimaniamo tali nonostante tutte le tentazioni che gli altri e il mondo ci offrono quotidianamente; mentre, se siamo cattivi, come ribaltiamo la nostra natura?

La filosofia occidentale è nata e cresciuta sotto il marchio dell’individualismo, secondo cui ogni uomo rappresenta una cellula a se stante che è in tutto e per tutto indipendente da ogni altro uomo, e ha sviluppato una concezione egoistica dell’essenza dell’uomo. L’esempio più evidente è certamente quello di Hobbes che, riprendendo la citazione di Pluto, descrive il comportamento dell’uomo nei confronti dei suoi simili come quello di un lupo (homo homini lupus est). L’uomo nello stato di natura uccide e assoggetta chiunque si interponga tra sé e i suoi interessi privati, poiché ogni uomo rappresenta un potenziale ostacolo a questo soddisfacimento. Ciò significa che per Hobbes la natura umana si caratterizza come fondamentalmente egoista, cosicché ogni azione compiuta ha come oggetto più proprio soltanto l’istinto di sopravvivenza e quello di sopraffazione. Non c’è quindi nessuna possibilità che l’uomo possa sentirsi spinto ad avvicinarsi al suo simile in virtù di un naturale sentimento di amore verso il prossimo, come quello della compassione o della benevolenza. Al contrario, se gli uomini si legano tra loro in amicizie o società, ciò è dovuto soltanto a causa di un timore reciproco, che costringe a regolare ogni rapporto intersoggettivo (privato e pubblico) secondo delle leggi ben precise. Pare insomma non si possa essere buoni.

Tuttavia, l’individualismo e l’egoismo, che la filosofia occidentale afferma come una possibile verità, sono soltanto la voce più prepotente di una certa tradizione di pensiero, non di certo del pensiero in generale. E, infatti, altre tradizioni filosofiche – più incentrate sull’interconnessione di tutte le cose che sul singolo individuo – hanno dato una risposta diversa al quesito da cui siamo partiti. In particolare, nella filosofia cinese spicca la figura di Mencio, un pensatore confuciano, che ha una fede assoluta nell’intrinseca bontà degli esseri umani. Per dimostrare la sua convinzione in modo chiaro ed evidente, Mencio sviluppa un esperimento mentale che ha per protagonista un uomo e un bambino. Certamente questo esperimento non nasce come un’obiezione rivolta a Hobbes, ma è altresì vero che si applica benissimo alla filosofia egoistica di questo filosofico come sua controprova. Ecco l’esperimento mentale di Mencio:

Supponete che vi sia qualcuno che all’improvviso veda un bimbo nel preciso momento in cui sta per cadere in un pozzo; ebbene, chiunque proverebbe in cuor suo un senso di apprensione e sgomento, di partecipazione e compassione1

Analizzando quello che Mencio dice con grande semplicità, possiamo notare che ogni parola e ogni frase sono accuratamente selezionate. Prima di tutto, Mencio suppone che all’improvviso un uomo veda un bambino cadere in un pozzo. L’esser improvviso della vista del bambino è importante perché dimostra che la reazione avuta non è frutto di un calcolo riflessivo: non c’è tempo di pensare ai genitori del bambino, che potrebbero starci simpatici o anticipatici; non c’è tempo per calcolare i benefici che potremmo ottenere salvandolo; e non c’è neanche tempo di ponderare il fastidio che i pianti del bambino ci causerebbero, essendolo lui solo. Inoltre, Mencio è molto scaltro ed evita di dire che gli uomini, vedendo il bambino in difficoltà, lo salverebbero dal pozzo. Al contrario egli si limita a riconoscere che tutti proverebbero un immediato e genuino sentimento di compassione. Quindi, ciò che Mencio afferma con questo esperimento mentale è la capacità universale degli esseri umani di provare un sentimento di compassione. Questo sentimento li caratterizza nel profondo, tanto che se un uomo non avesse questo sentimento, gli mancherebbe qualcosa di cruciale per essere definito come un essere umano.

Caratterizzando la natura umana sotto il segno della bontà, è chiaro che Mencio esclude che il timore reciproco possa essere la base di ogni relazione; piuttosto, gli uomini si uniscono per un bene e un amore comune a crescere insieme e sviluppare la loro disposizione più innata.
E voi, vi sentite più buoni o cattivi?

 

Gaia Ferrari

 
NOTE:
1. Mencio 2.A.6

[Immagine tratta da Unsplash.com]

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L’utile del più forte. La giustizia nella Repubblica di Platone

Leggendo i dialoghi platonici, chi non ha mai sognato almeno una volta di essere Trasimaco? Sfacciato e insolente, affronta Socrate di pieno petto e non ha paura di denunciare la presunzione del metodo maieutico, che è per lui del tutto inadeguato a ricercare la verità. Perché in fin dei conti esso rappresenta solamente una pretesa con cui Socrate cerca di ricevere vani complimenti, grazie alla bravura con cui sa confutare le risposte che gli vengono proposte in successione.

Ma facciamo un passo indietro e cerchiamo di capire di chi e di che cosa stiamo parlando. Nel suo dialogo più famoso, la Repubblica, Platone si adopera per definire che cos’è il giusto e la giustizia, in modo da poter fornire un modello di armonia sia per la città sia per l’anima. Come sempre, il dialogo è incentrato sulla figura di Socrate che si ritrova a conversare su questo difficile argomento insieme a Cefalo, Glaucone, Polemarco e Trasimaco. Se i primi tre personaggi si mostrano affascinati dalla dialettica e dall’eleganza dei modi retorici di Socrate, Trasimaco non si lascia intimorire e cerca lo scontro diretto con il filosofo per mostrare la giustizia nella sua nuda e cruda verità.
E infatti lo scontro su questo tema non tarda a realizzarsi. Ma a differenza di quanto ci si aspetta, Trasimaco riesce realmente a mettere in difficoltà Socrate, che deve utilizzare un piccolo trucco per liberarsi delle sue obiezioni. Forse un po’ provocatoriamente, forse un po’ ingenuamente, Trasimaco afferma che la giustizia non è altro che ‘l’utile del più forte’, poiché ogni governante (di una tirannide o di una democrazia poco importa) emana leggi che sono vantaggiose per sé stesso. In questo modo, chi comanda determina ciò che è giusto per i cittadini assoggettati al suo potere, che saranno poi puniti se non rispetteranno le leggi decretate giuste.

Questa concezione della giustizia è in realtà composta da due parti complementari. In primo luogo, se la giustizia è l’utile del più forte ciò significa che è giusto ciò che risulta conforme alla norma sanzionata dalla legge. Questo tipo di convinzione si chiama positivismo giuridico e ritiene, appunto, che l’unico diritto sia dato dalla legge del sovrano, che determina il giusto a cui i sudditi devono obbedire. Ma, allo stesso tempo, la legge imposta da chi detiene il potere ha lo scopo conservare il potere stesso del sovrano. La norma, quindi, rappresenta l’interesse di chi detiene la forza. Così la condotta giusta dei cittadini è finalizzata all’interesse del più forte, cioè alla conservazione del potere da parte di chi già lo possiede. Questo vuol dire che oltre al positivismo giuridico, Trasimaco è portatore anche di un positivismo della forza, secondo cui è la forza a legittimare l’emanazione di una norma.

Di fronte all’irriverenza di Trasimaco e alle sue tesi realiste, Socrate si trova effettivamente in difficoltà, forse perché anche per lui il legame così intimo tra la giustizia e la forza è impossibile da rovesciare direttamente. E, infatti, non sapendo come criticare la verità esposta da Trasimaco, Socrate deciderà di limitare la portata della sua definizione. Anziché riguardare ogni forma di potere, Socrate identifica l’utile del più forte con la sola figura del tiranno, estraneo a ogni norma di legge e volto all’oppressione e allo sfruttamento di tutti.
Ma, come abbiamo già detto, il legame che Trasimaco porta alla luce tra la giustizia e la forza è molto più profondo e complesso. Esso rappresenta un rapporto che non concerne solamente quelle forme di potere totalmente ingiuste ma tutte quante, poiché sempre il potere mira alla propria conservazione.

Oggi più che mai una simile tesi di dimostra attuale, perché, dalla politica all’economia passando per l’educazione, non troviamo altro che una forza che per inerzia tenta di mantenersi in vita.
Ma cosa possiamo fare contro tutto ciò? Trovare una soluzione non sembra facile, ma la filosofia è anche questo, uno sforzo propositivo che cerca nuove soluzioni finora rimaste impensate. Contro l’ineluttabilità di questo legame, probabilmente, l’unica cosa che ci è possibile fare è creare delle condizioni sociali che rispettino il più possibile l’interesse della comunità; è produrre degli spazi fisici e metaforici in cui il bene comune si possa esprimere limitando la bramosia individuale.

 

Gaia Ferrari

 

[Photo credit Tingery Injury Law Firm via Unsplash]

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Omaggio a Hegel: che cos’è la filosofia oggi?

Duecentocinquanta anni fa la filosofia veniva attraversata da una scossa tettonica rivoluzionaria che ne avrebbe interamente cambiato il suo corso e il suo destino: 250 anni fa nasceva Hegel, il filosofo grazie a cui l’uomo conquistò con il pensiero la pienezza della libertà e dell’autonomia della sua ragione. Oggi, dopo 250 anni segnati dagli eventi più disparati, cosa direbbe questo grande pensatore sul mondo in cui viviamo e sul modo in cui abbiamo incarnato la filosofia che egli aveva cercato di insegnarci? Questa domanda rischiosa è al contempo provocatoria perché, anche se a prima vista dovrebbe rimanere senza risposta, essa ci induce comunque a una riflessione profonda sul significato che la filosofia di Hegel – un uomo che con il nostro mondo fatto di velocità impercettibili e tecnologie ubique non sembrerebbe aver nulla da spartire – ha per noi oggi.

Per rispondere a questo interrogativo, iniziamo dal principio riconoscendo cosa significa filosofare per Hegel. Parafrasando un po’ metaforicamente le sue parole, la filosofia può essere descritta come una ritardataria cronica, poiché essa arriva sempre troppo tardi rispetto agli eventi che la popolano. Come la nottola di Minerva spicca il suo volo solamente sul farsi del crepuscolo, quando ormai il giorno si trasforma lentamente in notte profonda, così la filosofia si manifesta «dopo che la Realtà ha completato il proprio processo di formazione e si è ben assestata» (G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, 2006). Questo paragone azzardato che Hegel ci propone è però importante, perché riesce a far trapelare la semplice profondità che caratterizza la natura della filosofia, la quale è tutta immersa in un lavoro molto complesso e raffinato. Infatti, il suo scopo è rivolto alla comprensione, alla spiegazione e alla giustificazione del presente compiuto, e il suo intento mira alla problematizzazione della nostra esperienza quotidiana, perché la filosofia è totalmente presa dalla necessità di penetrare quel mondo in cui da sempre siamo situati e gettati. In altre parole, per Hegel la realtà – che ci circonda come un dato di fatto – deve essere lasciata andare o venir abbandonata, deve essere perduta per poter essere riconquistata attraverso la filosofia che la comprende rettamente. Comprendere la realtà giustificandola, allora, significa avviare un profondo processo di liberazione dell’uomo che pratica la filosofia, dal momento che la comprensione (di noi stessi e del mondo) che attingiamo filosofando è la conquista della nostra libertà. Nella radicalità della sua interrogazione, cosa fa la filosofia se non liberarci, rendendoci consapevoli, da tutte le forme di autorità esterna, da tutti i condizionamenti, a cui può ed è sottoposta la nostra ragione? Comprendere, giustificare, diventare coscienti (in una parola filosofare) sono quindi la conquista dell’autonomia e della libertà dell’uomo, che pur non agendo sotto occhi pubblici trasforma se stesso e le relazioni che lo legano al mondo circostante.

Ora che è più chiaro il senso della pratica filosofica per Hegel, possiamo tornare alla nostra domanda inziale, e concludere questa riflessione rispondendo al problema di come Hegel possa parlare a noi contemporanei, non solo storicamente ma anche attraverso un linguaggio di azione e praticità. Oggi più che mai l’insegnamento che la declinazione hegeliana della filosofia può darci è la conquista della nostra consapevolezza in relazione al mondo che ci circonda. Mi spiego meglio: in un mondo fatto di falsi idoli e di inestinguibili fake news, dove i confini di tutto diventano labili e sfocati, Hegel può insegnarci a ritrovare noi stessi e a trovare un posto che ci renda degli individui consapevoli, autonomi e liberi, degli individui gettati nel mondo ma perfettamente coscienti della loro “condizionatezza”. La filosofia di Hegel può mostrarci una via per divenire soggetti pensanti impavidi che sono disposti a perdersi per potersi alla fine ritrovare nella loro verità e finitezza.

A buon diritto, il nostro maestro potrebbe non essere del tutto soddisfatto di come abbiamo incarnato la filosofia in questi ultimi 250 anni; ma, osservandoci in questa situazione, egli sicuramente ci spronerebbe a iniziare a incamminarci per questa faticosa salita di autonomia e libertà, con devozione e tenacia nonostante la costante inquietudine che può sorgere in noi.

 

Gaia Ferrari

 

[Photo credit James Toose via Unsplash]

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Parlare “con” gli altri e “agli” altri

«Poiché la forza del discorso sta nella guida delle anime, chi vuole essere esperto di retorica è necessario che sappia quante forme ha l’anima».
Platone, Fedro.

Parliamo sempre a frequenze elevatissime e di rimando le nostre orecchie sono sempre aperte al bombardamento delle note e dei colori delle voci altrui. Oggi più che mai, poter parlare e ascoltare gli altri sembrano due gesti indispensabili, perché l’emissione di un suono di condivisione è l’unica cosa che può riuscire a scavalcare la distanza fisica che ci separa. Eppure, per quanto banale possa sembrare chiederselo, sappiamo veramente parale con e agli altri? E di riverbero, sappiamo ascoltare con il giusto animo quello che gli altri provano a dirci? Colui che impara a parlare francamente e adeguatamente diventa filosofo, perché riconosce la natura dell’anima di chi lo ascolta e dice il vero attorno a ciò di cui sta parlando. Tuttavia come possiamo parlare in questo modo, impegnandoci eticamente in ciò che diciamo? In una parola, come possiamo diventare filosofi parlando?

Platone, in uno dei suoi dialoghi più enigmatici — il Fedro — lo spiega velatamente, con il suo solito acume e la sua profonda ironia. Egli ci ricorda che due metodi sono necessari per poter parlare agli altri mostrando e insegnando loro la verità. Da un lato chi parla con verità deve essere dialettico, ovvero deve essere un oratore che sa suddividere e conseguentemente raggruppare diversi argomenti o diversi aspetti di uno stesso argomento. Chi parla è una sorta di macellaio, che deve dividere il tema prescelto secondo le sue giunture e articolazioni naturali, lasciando così scorrere un senso di verità che l’ascoltatore ha il compito di percepire. Questa prima parte del metodo del parlar franco permette di pronunciare dei discorsi che hanno in sé la verità, e al contempo di “educare” l’ascoltatore, che attraverso un dialogo fondato su una conoscenza vera impara qualcosa di altrettanto vero. In Platone, ovviamente, una tale conoscenza è legata alle idee. Così, ritornando alla nostra metafora, le articolazioni attraverso cui si taglia l’animale (o il tema) sono le idee intelligibile dell’Iperuranio, che essendo imperiture ci permettono di incidere la carne nei punti giusti non spezzando l’unità dell’animale.

Tuttavia, secondo Platone, per parlare adeguatamente non basta conoscere la vera natura delle cose, poiché è sempre possibile, pur conoscendo la verità, cercare di persuadere gli altri del contrario. Per questo, è necessario che chi parla sia eticamente impegnato in ciò che dice, avendo cura di comprendere l’anima di colui con cui e a cui parla. Parlare non è mai un semplice occupare il silenzio del mondo con dei suoni sconnessi e poveri di significato; parlare è sempre pronunciare un discorso vivo, che tocca e plasma l’anima di chi lo ascolta. Chi parla svolge metaforicamente lo stesso lavoro del medico che cura il corpo malato dei suoi pazienti. E non è un caso che Platone citi Ippocrate, il fondatore della medicina, per il quale un medico deve saper adattare una cura al corpo personale che si trova in una situazione di malattia. Perché ogni corpo è diverso dall’altro e ha bisogno che le sue specificità vengano rispettate e ascoltate. C’è quindi una praticità essenziale nella cura che dipende da quella miriade di circostanze particolari del corpo che viene curato. E lo stesso vale per l’oratore che pronuncia un discorso a un amico, a una cerchia di persone o davanti a un pubblico fedele. Chi parla agisce come il medico, poiché deve capire, analizzando l’anima di chi gli sta di fronte, con che tipo di anima sta parlando e che discorso gli si addice, dimodoché egli si possa impegnare a curarla con le parole.

In conclusione, Platone ci insegna un metodo per diventare filosofi delle parole e ci mostra che il parlare è molto di più di un semplice discorrere per passare il tempo. Esso, invero, deve farsi esercizio etico di intima unione con gli altri e di impegno solidale per la verità, attraverso cui si impara a conoscere l’anima di una persona. E questo parlar franco è un metodo che dobbiamo imparare noi tutti, perché il parlare è la nostra linfa vitale e simultaneamente la nostra macchia quotidiana. Nel parlare, quindi, dovremo sempre ricordarci che nessun discorso potrà mai essere trascendente e astratto, ma che ogni discorso è immerso nelle viscere della persona che ci ascolta, ed è in base alla natura della sua anima che va sempre modellato e scolpito.

 

Gaia Ferrari

 

[Photo credit Kristina Paparo via Unsplash]

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Un tempo tutto da vivere: una prospettiva a partire da Henri Bergson

Nell’episodio precedente era stata presa in considerazione la concezione più comune dell’esperienza umana dello scorrere temporale. Quell’analisi mirava a portare alla luce la dipendenza della nostra visione ordinaria del tempo da un tempo prettamente fisico o scientifico, che si rappresentava come spazializzato e formato da unità di misura (gli istanti) tutte identiche tra loro. Siffatta modalità temporale era però astratta, giacché non era altro che un espediente epistemologico per facilitare le nostre misurazioni in relazione ai fatti che ci accadono. Seppur assolutamente necessario per lo svolgersi della vita quotidiana, questo tempo fisico non poteva tuttavia essere considerato l’unico tempo di cui abbiamo sentore. Come potrebbe esserlo, dal momento che non possiede alcun valore di verità per la nostra vita fenomenica, soggetta a uno scorrere ininterrotto di eventi e a continui mutamenti impercettibili? L’articolo precedente, invero, si concludeva ponendo la domanda sulla possibilità di un tempo da intendere e da vivere diversamente, un tempo per cui passato, presente e futuro non costituiscono rigidi spazi recintati ma zone di confine labile, in cui la determinazione dell’uno sfuma in quella dell’altro e grazie a cui si producono delle corrispondenze parallele. Questo nuovo tempo possibile, o forse il più vecchio di tutti i tempi possibili, è il tempo qualitativo della vita che viene vissuta al di là dei rigidi schemi cronologico-meccanici utilizzati per regolare le azione di uno “stare comune”.

Tra le tante proposte filosofiche dedicate a quest’esperienza alternativa del tempo, quella di Bergson è una tra le più significative e innovative. La ragione di ciò è che Bergson riesce a mostrare chiaramente come il tempo che viviamo sia una durata reale, un fluire interiore ininterrotto, che non è possibile tagliare in secondi o minuti o ore, perché per natura è una trasformazione indissolubile dei nostri stati psichici.

«La durata assolutamente pura è la forma assoluta della successione dei nostri stati di coscienza quando il nostro io si lascia vivere, quando si astiene dallo stabilire una separazione fra lo stato presente e quello anteriore» (H Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, 1986).

Quando parliamo del tempo e dell’esperienza che su di esso facciamo, non abbiamo quindi a che fare con un oggetto, una cosa “astratta”; al contrario il tempo è processo, una molteplicità di stati qualitativi che costituiscono un’unità indivisibile.

Come fa, però, questa nuova “vera” natura del tempo a rivoluzionare la nostra esperienza concreta del vivere il (e nel) tempo, suddiviso tra le tre dimensioni temporali di passato, presente e futuro? Per rispondere a questo problema è necessario partire dal passato e dall’atto della memoria: essi, infatti, non possono essere pensati come un contenitore pieno di morte informazioni che a nostro piacere utilizziamo per le azioni quotidiane. Se così fosse, allora significherebbe che la memoria e il passato si costituirebbero solamente come conseguenza del passare di ogni momento presente e che solamente dopo questo passare si potrebbe incominciare a riempire il contenitore prima vuoto della nostra memoria. Eppure, la memoria è molto di più di questa falsa profondità che si limita alla superficie. La memoria (e il passato) è una virtualità, che esiste e insiste sulla nostra vita; essa precede ogni presente e determina il venire alla luce di ogni evento attuale, di tutte le azioni concrete che noi compiamo attraverso il ricordo di fatti utili. Allora, si può dire che il passato è come l’ombra che ci segue ovunque e da cui non possiamo staccarci. L’ombra è la memoria nella sua virtualità più ampia, tutto il passato nella sua forma più vaga e indeterminata; noi invece, che siamo a lei incollati, siamo la forma determinata, l’attualizzazione presente e momentanea di uno dei suoi più intimi ricordi.

Questa nuova visione della memoria è importante perché permette di comprendere come il tempo possa diventare un’esperienza qualitativa e al contempo paradossale, giacché tutto il passato è ora contemporaneo e coesistente con il presente stesso. Ciò significa che il passato non è più fisso ma si muove costantemente in se stesso e nel presente che lo attualizza. E il presente ci incalza e ci scalza accollandoci continue nuove “forme”; ma in quest’incalzare esso rappresenta l’apertura di un vuoto di relazione tra passato e futuro. E il futuro, infine, non è più l’attesa angosciosa e colma di paura per un avvenire ignoto; esso diventa il destino della nostra vita spirituale, in cui è ripreso e ripetuto il livello del passato che abbiamo saputo scegliere e realizzare.

In conclusione, abbiamo a disposizione almeno due diversi modi di intendere e vivere il tempo, quello quantitativo della scienza e quello qualitativo del nostro flusso interiore. Se vogliamo vivere in un meccanismo la scienza può darci il suo tempo, scandendo a ritmo di secondi, minuti e ore la nostra quotidianità. Ma se vogliamo vivere il tempo intensamente abbiamo bisogno di un tempo diverso. C’è quindi un tempo nuovo ma antichissimo, che aspetta il nostro consenso per poter essere vissuto e per farci accedere a una regione più autentica dell’essere. Tutto ciò che dobbiamo fare è creare in noi quel vuoto necessario per la sua infiltrazione.

 

Gaia Ferrari

 

NOTE

[Photo credit Ben White via Unsplash]

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Di punto in punto, di istante in istante. Il tempo visto da Aristotele

Uno dei misteri più grandi, che da sempre hanno affascinato e arrovellato la mente umana, è il mistero del tempo, di quel pozzo infinito di eventi che scorrono inesorabilmente, scindendosi in un prima e in un poi. E non a caso, se si volesse dibattere di questo tema, gli aforismi e le citazioni famose (una su tutte Carpe diem) non mancherebbero affatto. Per questa ragione non avrebbe alcun significato ripeterle per dare avvio a un piccolo articolo su un grande problema, il quale non necessitando di ulteriore presentazione aspetta solo il suo inizio.Cos’è essenzialmente il tempo? Qual è il senso di questo scorrere implacabile, che detta i ritmi della nostra esistenza? E soprattutto, cos’è il tempo al di là di un essere che lo vive e che vivendolo consapevolmente lo rende tempo?

È chiaro che da un certo (e alquanto semplicistico) punto di vista il tempo è ciò che ci permette di ordinare cronologicamente le nostre azioni individuali e sociali, secondo un’unità di misura definita dal “prima” e dal “poi”. La nostra vita è comunemente misurata da un tempo cronologico-ordinario e la tradizionale interpretazione di questo tempo trova la sua più canonica formulazione in Aristotele, secondo il quale, appunto, il tempo è definibile come “il numero del movimento”.

«Il tempo, dunque, non è movimento, se non in quanto il movimento ha un numero. Eccone una prova: noi giudichiamo il più e il meno secondo un numero, e il movimento maggiore o minore secondo il tempo: dunque il tempo è un numero»1.

Seguendo alla lettera questa visione della natura del tempo, si evince che esso è sostanzialmente paragonabile ad un linea retta divisibile in segmenti di egual grandezza, rappresentanti i diversi istanti che si succedono alternativamente affinché il tempo sia. Ogni istante viene superato dall’istante successivo, giacché lo contraddice, essendo il suo non essere più, ovvero il suo essere divenuto qualcos’altro (così come ogni nuovo punto è il superamento del punto che lo aveva preceduto). Il tempo è quindi l’unità di misura di ogni cambiamento e per esserlo deve essere pensato come composto da una serie infinita di istanti, i quali sono i punti al limite della retta temporale delimitata da un punto-passato e da un punto-futuro.

Tuttavia, perché la misurazione del tempo sia resa possibile, è chiaro che sono necessari almeno due punti (ovvero due istanti), perché solamente due distinti punti liminari possono determinare la lunghezza effettiva di una certa retta (così come solo due istanti possono contrassegnare lo scorrere di un determinato tempo). Questa concezione del tempo come unità misurabile del divenire delle cose ha trovato come sua massima espressione l’invenzione dell’orologio, ovvero di quello strumento meccanico tramite cui il tempo è segmentato in istanti di egual durata ed è facilmente calcolabile nel suo fluire attraverso precise operazioni aritmetiche.

Ecco qual è fondamentalmente il nostro approccio e il nostro modo di considerare il tempo; un approccio e un modo che hanno delle conseguenze importanti sulla nostra percezione del suo scorrere. Invero, questa determinata visione rende implicitamente prioritaria una sola dimensione temporale, essendo essa “genitrice” delle altre due. Tale dimensione è chiaramente la dimensione del presente, che costituisce il magico vaso a partire da cui si potranno generare per sudditanza il passato e il futuro. In effetti, il passato è qualcosa di totalmente inesistente prima che un presente attuale sia passato e sostituito da un altro-nuovo presente. Il passato è quindi pensato alla stregua di un bagaglio in sé totalmente vuoto e perciò da riempire, gettandogli dentro l’ammasso delle esperienze di un intero viaggio. Allo stesso modo il futuro è reso possibile solamente dal sopravanzare di un nuovo presente su un vecchio presente, poiché solo nel “tra” di questi due attimi si aprono le porte al futuro, come l’altro o l’aperto verso cui ogni presente deve tendere, se non vuole immobilizzarsi e così negare il tempo stesso.

Così ci appare, in maniera alquanto ovvia, il tempo e da questo apparire deriviamo il suo funzionamento: guardare al passato ormai fisso, vivere il presente che incalza e aspettare il futuro sempre incerto. E se invece il tempo fosse altro da ciò che ci appare? E se esistesse una diversa possibile percezione di ciò che è tempo, del fluire inesorabile degli eventi, in modo che il tempo non sia suddiviso in istanti successivi, ma che esso sia come un cratere vulcanico sempre pronto ad eruttare il vecchio che ritorna? Potrebbe essere che sia possibile vivere il tempo non più come insieme di segmenti da sommare, ma come un magma di eventi che si attualizzano a partire da un immenso pozzo di virtualità infinite. Non è il presente allora che crea il passato ma il passato che produce eventi che balenano nell’orizzonte dell’ora per poi ritornare nel pozzo dell’allora.

Ma questa è tutta un’altra storia da raccontare…
TO BE CONTINUED…

 

Gaia Ferrari

 

NOTE
1. Aristotele, Fisica, IV, 11, 219b b, 2.

[Photo credit Bradley Ziffer via Unsplash]

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Hegel: istruzioni per la lettura

“La filosofia: ma che senso ha la filosofia? Quale servigio rende all’umanità? Sull’arte non ci sono dubbi. Ma dalla filosofia, quella puramente teoretica – la dialettica hegeliana o il criticismo kantiano – che insegnamento dovrei trarne nell’atto di studiarli?”.
Questa “quasi-citazione” proviene da un vecchio post di Facebook di un mio amico e seppur è stata pubblicata molto tempo addietro mi è sempre rimasta impressa con una certa insistenza. Ora, la serie di domande che vengono poste rappresentano un classico della filosofia ed esse possono essere rivolte a qualsiasi sua opera “puramente teoretica”. Oggi, però, vorrei sfruttarle in un altro modo, usandole per introdurvi un’opera in particolare, una delle più difficili ma al tempo stesso delle più affascinanti. Sto parlando della Fenomenologia dello Spirito di Hegel. I quesiti precedenti possono, infatti, fungere da spunto per spiegare brevemente in che cosa consista il cuore di questo lavoro filosofico – anche se è chiaro che è impossibile esaurirne lo spessore intellettuale in così poche battute. Vi parlerò, allora, della Fenomenologia attraverso queste domande, cercando di mostrarne l’attualità e al contempo l’utilità per l’uomo che la legge con spirito attento.

A cosa serve e che insegnamento può darci un’opera così intrinsecamente teoretica? La domanda è alquanto paradossale e forse Hegel si arrabbierebbe pure se gliela facessimo, dal momento che il suo vero e unico soggetto è la coscienza propria di ognuno, tanto come singoli individui quanto come parte di un popolo. Per l’autore, a dover intraprendere il faticoso cammino in essa descritto, è quindi sia il singolo uomo, ovvero ognuno di noi, sia l’umanità in generale e quindi l’insieme delle coscienze umane che costituisce questo noi (a cui Hegel si riferisce come “Spirito del mondo”).

Nella Fenomenologia si svolge la storia delle diverse manifestazioni della coscienza, le cui tappe fondamentali sono ad esempio la certezza sensibile, la percezione, l’autocoscienza e la ragione. Attraverso tutti questi momenti viene messo in luce il processo tramite cui questa coscienza prede concretamente consapevolezza di sé, perché ogni tappa è un passo più in profondità verso la conoscenza di se stessi. Quest’opera, quindi, articola la totalità dell’esperienza della coscienza in modo tale che essa possa elevarsi allo spirito, ovvero alla coscienza consapevole. Secondo una famosa definizione, la Fenomenologia è la storia romanzata della coscienza; essa è un romanzo di formazione, in cui l’individuo viene accompagnato al suo vero essere. Ma perché l’uomo raggiunga questa consapevolezza, deve compiere un lungo percorso, una scala da salire gradino dopo gradino senza farsi prendere dalla fretta di arrivare in fondo.

Se ora possono essere più chiari il soggetto e l’intento di quest’opera, resta però da capire come l’uomo possa giungere alla sua consapevolezza interiore. Si tratta, cioè, di comprendere come avviene concretamente l’esperienza della coscienza.

«Ma non quella vita che inorridisce dinanzi alla morte, schiava della distruzione; anzi quella che sopporta la morte e in essa si mantiene, è la vita dello spirito. Esso guadagna la sua verità a patto di ritrovare sé nell’assoluta devastazione»1.

In generale, ciò che caratterizza il divenire nella Fenomenologia dello spirito è il fatto che il conoscersi della coscienza sia un divenire altro da sé. La coscienza, infatti, è movimento e coincide con un atto di riflessione, attraverso cui essa esce da sé, facendosi oggetto, per poi ritornare in se stessa. Ciò vuol dire che per poter ottenere la piena presa di coscienza su di sé, l’uomo deve alienarsi nel mondo esterno. Un esempio di questo movimento ci è offerto dal lavoro. Il singolo uomo produce un oggetto esterno, in cui è rappresentata la sua interiorità e in cui si riconosce come produttore di quello stesso oggetto. L’uomo si è quindi esteriorizzato nel suo oggetto; ma così facendo riesce al tempo stesso a conoscersi più in profondità, a scavare più a fondo dentro di sé. Una formula efficace che può riassume il movimento appena descritto è la seguente: giungere a sé diventando altro da sé, ovvero farsi oggetto di se stesso esteriorizzandosi, senza però venir meno, senza però perdersi.

È chiaro allora che quello in atto nella Fenomenologia è un processo negativo. Invero, «in questo itinerario tale coscienza perde la sua verità. Può quindi essere considerato come la via del dubbio, o più propriamente, la via della disperazione»2. La presa di coscienza su noi stessi non è in alcun modo un cammino felice e spensierato, ma, al contrario, è caratterizzato da scissioni continue, da dubbi ostinati ed è carico di disperazione, perché la nostra coscienza deve continuamente mettere sotto esame la verità che crede di possedere.

È ormai ora di chiudere il cerchio e rispondere in modo secco alle domande sopra poste: quale servigio ci può quindi rendere leggere la Fenomenologia? Non c’è dubbio che essa possa far venir il mal di mare per la sua complessità e tortuosità, ma nella sua ossatura è un brillante romanzo, scritto da un uomo per tutti coloro abbastanza coraggiosi da riuscire a guardare in faccia gli abissi del proprio io, senza indietreggiare dalla paura. La Fenomenologia insegna e parla a quegli uomini desiderosi di procedere più in profondità alla ricerca di se stessi e del proprio ruolo nel mondo.

 

Gaia Ferrari

 

NOTE
1. G.W. Hegel, Fenomenologia dello spirito, ed. italiana di Enrico De Negri, 1807, p. 26.

2. Ivi, pp. 69-70.

[Photo credit Simon Migaj]

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