Invito al pensiero di Ernesto De Martino

Il concetto di esistenzialismo si accompagna spesso alle immagini della Parigi anni ’30, a mondani personaggi posati e sempre vestiti di nero, ai caffè e alla musica jazz. Eppure anche da questa parte delle Alpi, vari pensatori sono stati raccolti, forse troppo in fretta, sotto questa etichetta per poi essere velocemente messi da parte.

Uno di questi è Ernesto De Martino. Cresciuto nel clima culturale della Napoli di Croce, con un solido retroterra filosofico, voltosi all’antropologia, rappresenta, con le sue analisi sul campo, un eccellente esempio di ibridazione di diverse influenze filosofiche quali l’idealismo, la psicoanalisi, e la fenomenologia. I suoi libri sono per lo più rielaborazioni di indagini svolte sul campo, con la collaborazione di un team variabile di esperti di medicina, storia della musica, psicologi, avvenute per lo più nel sud Italia tra gli anni ’50 e ’60. In questi anni, in questa parte d’Italia, il processo di industrializzazione, analizzato così finemente da Pasolini, che ha coinvolto gran parte del nord e centro Italia, trova le ultime resistenze di forme di ritualità millenarie, destinate presto a sparire lasciando tracce vaghe. De Martino in sintesi procede all’analisi di riti, tra cui la Taranta e il pianto rituale, nel momento del loro tramonto.

Il tempismo di queste ricerche ha permesso di registrare comportamenti umani che appaiono oggi incomprensibili, se non ridicoli, nella loro irrazionalità apparente, ma che contemporaneamente illuminano l’immagine dell’uomo di una ricchezza nuova, da poco scomparsa e già dimenticata.
La domanda che anima le ricerche di De Martino è volta a individuare l’utilità fondamentale, nell’economia della psiche e dell’esistenza umana, dei riti. Il fatto che ogni cultura ne sia ricca così come lo scrupolo con cui essi vengono osservati sono sintomi di un ruolo effettivo da essi svolto.

La chiave di lettura proposta, espressa qui sommariamente, consiste nella tesi secondo cui le diverse forme rituali di ogni civiltà siano tutte in qualche modo un’operazione collettiva di autodifesa psichica. Di fronte ad eventi che l’uomo non può controllare e che mettono in luce tutta la fragilità e inconsistenza del suo essere al mondo, egli troverebbe riparo nella ripetizione di gesti che riportano il passato nel presente, stabilendo una continuità consolatrice. Così facendo egli afferma di esserci ancora, afferma un nesso tra la situazione passata e quella presente, afferma che, in fin dei conti, non tutto è cambiato. Inoltre, nel rito, alle paure e alle difficoltà vissute dall’individuo viene donato un senso, del cui valore e solidità si fa carico tutta la comunità. E attraverso essa la situazione traumatica viene inquadrata, rielaborata e superata. Un esempio di questa mediazione comunitaria è rappresentato dal coro delle lamentatrici che si uniscono alla parente del defunto e attraverso la professionalizzazione dell’atto del piangere liberano la parente dal suo ruolo facendola diventare una lamentatrice tra le altre. L’irrigidimento dell’elaborazione del lutto indirizza in questo modo il dolore per vie sicure attraverso cui sfogarsi senza rischiare che esso prenda il sopravvento.

Come si esprime lo stesso De Martino, i riti sono necessari a far morire (in noi) ciò che è morto. Espressione che ha valore letterale se si pensa al caso di decesso di una persona cara, ma che in generale significa far passare ciò che passa, accettare il divenire, senza rimanere patologicamente aggrappati a fantasmi del passato. De Martino tende a non tematizzare il contenuto della crisi nelle sue analisi più teoriche, nelle osservazioni sul campo essa si presenta però come recesso della presenza dell’uomo a sé stesso, perdita di lucidità, fino ad arrivare a veri e propri disturbi psicotici.

All’alba di un’epoca in cui l’invito a pensarsi privi di ogni limite, capaci di tutto, è ripetuto insistentemente, le ricerche di De Martino ci aiutano a ricordare il senso dell’appartenenza dell’essere umano ad una certa cultura, ad un certo mondo. Quest’appartenenza che viene sempre più spesso vista come una gabbia, è invece, per il nostro autore, il punto di appoggio grazie a cui l’uomo attraversa la vita saldo e solido.

Francesco Fanti Rovetta

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Identikit del crimine (mediaticamente) perfetto

<p>Close up crime scene investigation police boundary tape</p>

Di recente è stata emessa la sentenza in primo grado del processo contro Massimo Bossetti, accusato di omicidio. Al di là del significato specifico dell’evento di cui si è parlato anche troppo e che qui non ci interessa discutere, esso mi ha portato naturalmente a riflettere su l’interessante rapporto tra mezzi d’informazione, cronaca nera e pubblico. Siamo partiti dal caso Bossetti perché, come tutti i crimini che suscitano per anni interesse mediatico, ha un valore rappresentativo ed emblematico. Trovo un fatto curioso che certi fatti di cronaca emergono prepotenti su altri fino ad entrare nell’immaginario comune, il quale, in un certo senso, li ha eletti. Non penso si possa attribuire ciò alla scelta completamente arbitraria dei giornalisti, sembra anzi sottesa una logica molto simile alla dialettica domanda/offerta che anima il libero mercato. Esistono cioè delle dinamiche e delle situazioni che favoriscono il successo mediatico di certi crimini su altri. Vediamole insieme.

Regola N.1: Il crimine deve essere spregevole e infame, la persona mediocre.
Se l’identikit del criminale è quello – banalmente – di un criminale, l’interesse non supera al massimo un paio di giorni. Se esso invece combacia con quello del vicino di casa, così normale e anonimo che tutti abbiamo, allora nessuno è al sicuro. La paura è però filtrata e sopportabile: ci fa venire i brividi, ma da lontano.

Regola N.2: Un colpevole deve esserci, ma non subito.
Se l’assassino viene colto in flagrante, si costituisce o simili, i media non hanno più novità da centellinare, niente retroscena, rivelazioni improbabili, testimoni dell’ultima ora e mitomani dilaganti. Di conseguenza l’interesse scema. Se al contrario l’assassino si tarda a trovare e infine il crimine irrisolto, lo scandalo per l’inefficienza delle forze dell’ordine viene oscurato dall’assenza di novità. Il pubblico si annoia.

Regola N.3: Uno sfondo ideologico ha valore fondamentale a fini mediatici.
I simboli hanno il potere di rendere un fatto di cronaca qualsiasi qualcosa di metastorico, il cui significato resiste in un certo senso al consumo dello spettacolo. Essi mantengono forte presa sulla nostra immaginazione, e hanno il potere di appassionarci molto più dei meri fatti. Su episodi dal forte quoziente ideologico la classe politica si sentirà in dovere di esprimersi, e il popolo dovrà a sua volta intervenire e schierarsi in base a quanto indicato dai politici. In questo caso la ruota dello spettacolo si mantiene in moto da sé.

Regola N.4: Tempismo.
Anche Jack lo Squartatore sarebbe stato eclissato da una vittoria ai mondiali di calcio. Il crimine mediaticamente perfetto avviene nei caldi pomeriggi di agosto.

Regola N. 5: Il fattore X.
Poiché questo tipo di informazione si fonda sull’appeal mediatico che il fatto suscita, non tutto si riesce a spiegare razionalmente. Alcuni elementi riposano sul fondo oscuro dell’immaginario comune: alcuni tratti fisici, alcune situazioni – variabili per latitudine e contesto storico – colpiscono e perturbano oltre quanto riesce facilmente spiegabile, risultando così l’ingrediente segreto della ricetta qui brevemente abbozzata.

Francesco Fanti Rovetta

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Intervista a Laura Palazzani: l’importanza di un’interazione tra scienza e società

La bioetica tende sempre più ad essere un tema di discussione pubblica che accende molto spesso gli animi, ma al di là delle copertine e degli scontri ideologici, c’è una disciplina poco conosciuta e che vale la pena approfondire.

Per farvela ( e farcela) conoscere meglio abbiamo intervistato la professoressa Laura Palazzani, una dei massimi esperti in Italia in materia.

Dal 1999 è Professore ordinario di filosofia del diritto. Attualmente insegna presso il Dipartimento di Giurisprudenza della LUMSA biogiuridica e filosofia del diritto. È membro del Comitato Nazionale per la Bioetica dal 2002, Vicepresidente dal 2008. È stata componente dell’European Group of Ethics in Science and New Technologies presso la Commissione Europea (2010-2015). E’ membro del Comitato internazionale di Bioetica dell’Unesco (dal 2016)

Iniziamo dal principio: cosa l’ha portata ad avvicinarsi alla filosofia del diritto e alla bioetica?

Prima di tutto mi sono avvicinata alla filosofia perché sentivo l’esigenza di rispondere alle domande ontologiche ed esistenziali e avvertivo la necessità di studiare gli autori che avevano dato queste risposte, leggere i loro testi, riflettere sulle loro risposte al fine di trovare una mia risposta, che potesse essere adeguatamente e dialetticamente argomentata, consapevole, critica. Inoltre sono sempre stata convinta che la filosofia non sia un pensiero solo astratto e speculativo e che il pensiero astratto e speculativo ci aiuti nell’affrontare le scelte, a livello macro e micro, che in ogni momento caratterizzano la nostra esistenza. La scelta di dedicarmi alla bioetica nasce proprio dall’interesse che ho maturato nel corso degli studi filosofici per la filosofia applicata: ho scelto di occuparmi della bioetica quando in Italia si iniziava a parlare di questa disciplina e ne avevo intuito la rilevanza e la probabile crescente diffusione in relazione all’inarrestabile progresso scientifico e tecnologico in biomedicina. L’interesse per la filosofia del diritto è nato parallelamente, nella presa di coscienza che la discussione filosofico-morale in bioetica, per quanto rilevante, rischiava di rimanere ‘aperta’ nella conflittualità delle teorizzazioni e argomentazioni eterogenee del dibattito pluralistico oggi. La riflessione filosofica sul diritto, alla ricerca della elaborazione di norme di comportamento per la collettività, costituiva una sfida alla ricerca della convergenza nel pluralismo morale, al bilanciamento tra i diversi valori, al fine di offrire regole ed orientamenti ai cittadini.

È stata per motivi di ricerca in molti paesi tra cui l’ Inghilterra e gli Stati Uniti. Quali sono le differenze più significative riguardo la visione della bioetica e la sensibilità medica tout court tra Italia e questi paesi?

La prima distinzione che emerge è l’approccio filosofico: nell’area anglo-nordmericana l’approccio è in prevalenza pragmatico e meno speculativo, prevalentemente orientato alla ricerca di principi che possano funzionare come ‘griglia’ concettuale di riferimento per risolvere problemi concreti, se non addirittura alla ‘casuistry’ nella mera collezione di casi risolti dalla discussione come esemplificazioni di modalità di discutere. La bioetica europeo-continentale è più attenta alla giustificazione teorica della presa di posizione morale rispetto ai temi in discussione (siano essi di inizio vita che di fine vita).  Una seconda distinzione è la prevalenza nell’area anglosassone dell’approccio pragmatico di tipo libertario e utilitaristico, che tende a privilegiare il principio di autonomia inteso come autodeterminazione individuale delle scelte e il principio di convenienza, nella ricerca della massimizzazione delle preferenze individuali e/o collettive, rispetto al principio personalistico della difesa della integrità fisica e psichica dell’essere umano e della sua dignità.

È nello spirito della Chiave di Sophia tentare di rivolgere la filosofia alla dimensione pratica, Lei attraverso l’insegnamento e la partecipazione di comitati etici a livello locale, nazionale, europeo e -con il suo recente ingresso al comitato internazionale di bioetica mondiale, è un esempio di come ciò sia possibile.  Cosa ne pensa del rapporto tra filosofia e prassi, tra filosofia e quotidianità?

La bioetica in generale è un esempio chiaro di filosofia pratica, applicata a problemi emergenti oggi. Un esempio di una filosofia che può contribuire a indicare soluzioni in vista di decisioni individuali (dei singoli cittadini, di pazienti, di ricercatori, di medici, di operatori sanitari) e di scelte legislative, giurisprudenziali e politiche, a livello nazionale ed internazionale. La bioetica è imprescindibilmente connessa alla biogiuridica e alla biopolitica.

La partecipazione di filosofi ai comitati etici locali è un esempio chiaro della rilevanza della riflessione morale per contribuire, nell’ambito di una discussione interdisciplinare, alla ricerca di risposte a problematiche e a volte a dilemmi emergenti dalla prassi (ad esempio, la sperimentazione di farmaci, la discussione di casi clinici complessi, quali il limite di accettabilita del rifiuto di terapie salvavita o la distinzione tra interventi medici proporzionati e sproporzionati). La partecipazione di filosofi a organismi di bioetica nazionali ed internazionali (a livello europeo e mondiale) mostra come la riflessione di senso sia indispensabile nella ricerca, nel contesto del dibattito interdisciplinare e pluralistico, di minimi condivisi o del massimo possibile di condivisione, per cercare linee di orientamento morale e giuridico, negli Stati, nei Continenti e nel mondo. In ogni Stato i governi si trovano, oggi, di fronte a problemi in biomedicina che necessitano di una risposta e a questioni che esigono una disciplina sociale (es. tecnologie riproduttive, test genetici, eutanasia); a loro volta gli Stati avvertono la rilevanza di un confronto internazionale di fronte a problemi globali, che superano i confini politici (si pensi alla manipolazione genetica, alla sperimentazione internazionale, alle pandemie, al problemi ambientali). La riflessione filosofica offre e può offrire un contributo prezioso di riflessione per un inquadramento del problema, per la comprensione del senso, per la discussione dialettica tra tesi contrapposte, per la giustificazione di una spiegazione convincente.

In un’intervista da Lei rilasciata ha affermato che “Vi deve essere una maggiore comunicazione tra scienza e società, perché in fondo la ricerca scientifica deve essere orientata al bene della società e al tempo stesso la società deve sempre più conoscere la ricerca scientifica”. In che modo la Filosofia può intervenire fornendo strumenti e mezzi affinché questo dialogo tra scienza e società possa essere sempre fecondo?

L’importanza di una interazione tra scienza e società è evidente: da un lato perché il sapere scientifico deve rivolgersi alla società e pertanto deve conoscere le esige della società e dall’altro perché la società deve sempre più essere coinvolta, informata e consapevole degli orientamenti del sapere scientifico. La filosofia può avere un compito: quello di fare comprendere la necessità, le ragioni e gli scopi del dialogo tra scienza e società, per evitare che la scienza rimanga chiusa in modo autoreferenziale e la società esclusa dal dialogo con la scienza; aiutare la scienza a interrogarsi sulle potenzialità e i limiti teorici e applicativi della disciplina; aiutare la società ad acquisire una coscienza critica dell’importanza dei problemi morali e giuridici emergenti dal progresso tecnoscientifico. Alcuni strumenti potrebbero essere mezzi tradizionali (l’educazione, ad es. mediante l’inserimento di moduli di bioetica nei corsi di filosofia già nelle scuole) e l’uso delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (con la costituzione di piattaforme di dialogo tra scienziati  e filosofi, forum di discussione rivolti ai cittadini).

Nel secolo scorso la tecnica sembra essere stata un incubo ricorrente della filosofia. Una profonda riflessione etica coniugata al diritto è sufficiente ad indirizzare lo sviluppo tecnico in modo responsabile e umano?

La riflessione etica e la regolazione giuridica possono indubbiamente contribuire ad orientare la scienza e la tecnica alla presa di coscienza delle loro responsabilità rispetto all’uomo, ma non sono sufficienti per garantire la effettiva responsabilizzazione di scienziati e tecnologi.

Va precisato che per etica si intende la riflessione che si interroga in modo critico sulla liceità del progresso, in contrapposizione al tecnoscientismo, ossia alla permissiva liberalizzazione di ogni ricerca scientifica e applicazione tecnologica sull’uomo, ritenuta un bene in sé, non suscettibile di essere limitato. E’ questa la visione di chi percepisce ogni limite come un ostacolo al progresso della tecnoscienza che comunque deve andare avanti per il bene dell’umanità.

L’orientamento etico che offre un contributo alla responsabilizzazione della scienza è l’orientamento anti-tecnoscientifico, che tematizza la priorità della dignità umana sul progresso della ricerca: un percorso che è stato incluso in molti documenti normativi internazionali (ad es. la Convenzione sui diritti umani e la biomedicina del Consiglio d’Europa, 1997; la Dichiarazione sui diritti umani e la bioetica dell’ Unesco, 2005). E’ questa la riflessione etica e giuridica che offre un prezioso contributo alla presa di coscienza, in un dialogo interdisciplinare, dei problemi morali emergenti dal progresso e della rilevanza della responsabilità degli scienziati.

page_FOTO PALAZZANINello specifico un suo libro recente tratta il tema del potenziamento umano attraverso la tecnica (“Il potenziamento umano. Tecnoscienza, etica e diritto”). È possibile un equilibrio? Quali sono i rischi?

Oggi nel contesto del rapido sviluppo della tecno-scienza si aprono nuove possibilità di interventi finalizzati all’enhancement o potenziamento della salute e della vita dell’uomo e della stessa umanità. Il “potenziamento” è l’uso intenzionale di farmaci e tecnologie per interventi sul corpo umano in condizioni di salute al fine di modificarne, in senso quantitative e qualitatico, il normale funzionamento. Si tratta quindi di interventi non terapeutici, volti a migliorare le capacità umane (fisiche, mentali e/o emotive) o, nella versione più estrema, ad introdurne di nuove.

Il volume dedicato a questo tema analizza l’argomento in due parti. Una prima affronta il dibattito sul piano teorico mettendo a confronto gli argomenti favorevoli e contrari all’enhancement in senso generale, allo scopo di delineare una riflessione critica ponderata che giustifichi i requisiti etici minimi per una regolamentazione che non ostacoli l’innovazione ma al tempo stesso sappia tutelare i valori e i diritti fondamentali dell’uomo. La seconda parte analizza i principali ambiti applicativi oggi in discussione: dalle tecnologie esistenti (chirurgia estetica, doping sportivo), alle tecnologie emergenti (potenziamento genetico, biologico, neuro-cognitivo) fino alle tecnologie convergenti (nanotecnologie, biotecnologie, informatica e scienze cognitive) e agli scenari radicali che si prefigurano nel transumanesimo e postumanesimo.

Emerge anche in questo ambito la rilevanza della riflessione filosofica che contribuisca a comprendere le ragioni delle diverse teorie (perfezioniste e anti-perfezioniste) e possa offrire un contributo per giustificare una visione bilanciata, contro una visione pessimistica del potenziamento, ma anche contro un’opposta visione ingenuamente ottimistica. Si tratta di mettere in luce i rischi insiti nel potenziamento stesso, connessi soprattutto all’incertezza delle nuove tecnologie e alla sproporzione rispetto ai benefici ottenibili (che non sono la guarigione, ma l’attuazione di desideri soggettivi). Si tratta di interventi che mettono in pericolo la sicurezza, la libertà umana (fino a che punto saremmo liberi di farne uso, in una società competitive ed efficentista?) e la giustizia, facendo aumentare le disegueglianze già esistenti.

Cautela e precauzione sono allora criteri fondamentali per regolare e giustificare certe pratiche, accanto all’obbligo di acquisire correttamente il consenso informato della persona interessata.

Fondamentale è la consapevolezza che il potenziamento non potrà mai portare alla perfezione, né al superamento di alcuni limiti caratteristici della condizione umana, quali l’invecchiamento e la limitata capacità cognitiva. Inoltre, l’artificialità del potenziamento rischia – offrendo ‘scorciatoie biotecnologiche’ – di far passare in secondo piano l’autenticità del divenire umano e delle sue faticose acquisizioni, che rimangono alternativi alla tecnica.

Un altro tema che molto ha fatto discutere recentemente è la questione gender, a questo proposito Lei parla di equivoci dell’uguaglianza. Può spiegarci cosa intende?

Nell’ambito del dibattito anglosassone è emersa la questione sex/gender: con sex si indica la condizione biologica dell’essere maschio o femmina (come si nasce); gender si riferisce alla condizione psico-sociale e culturale acquisita (come diveniamo) o l’identità scelta dall’individuo. Il problema filosofico è costituito dal rapporto tra sex e gender. Il dibattito è estremamente complesso e rimanda ad un’articolata discussione filosofica tra moderno e postmoderno: le teorie gender, in modo più moderato o radicale, affermano la separazione tra sex e gender, ritenendo che il gender sia il prodotto dell’educazione o il prodotto della volontà individuale, a prescindere dalla nascita. In questo senso il gender potrebbe non essere corrispondente al sex: con la conseguenza non solo della legittimazione del transessualismo, ma anche della condizione intersex (di chi nasce con ambiguità sessuali) e transgender (di chi vule oscillare tra una identità maschile e femminile). Il dibattito si estende anche al c.d. ‘orientamento sexuale’, ossia alla rivendicazione dell’equivalenza della condizione eterosessuale, omosessuale, bisessuale.

Dietro le teorie che esaltano la liberalizzazione della identità gender e della sexual orientation vi è la visione relativistica che ritiene equivalente qualsiasi opzione individuale e ritiene che il diritto debba legittimare, sullo stesso piano, qualsiasi richiesta della comunità LGBTI (lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersex). In questo senso l’appello all’uguaglianza risulta equivoco: non è certo in discussione il rispetto dovuto ad ogni essere umano in quanto umano (a prescindere dalla identità gender e dall’orientamento sessuale), ma la equiparazione indifferente di diritti, con il riconoscimento del diritto ad una iscrizione anagrafica intersessuale e transgender (tra maschile e femminile; maschile e femminile o né maschile né femminile), il matrimonio tra persone omosessuali, e il loro accesso alla adozione e procreazione assistita. La filosofia è chiamata ad interrogarsi  sulla differenza sessuale come costitutiva della identità e della socialità. Il rischio delle teorie gender è l’omologazione indifferenziata di qualsiasi scelta, senza considerare che l’identità sessuale è costitutiva della persona umana e non può essere modificata a piacimento e che la diversità sessuale nella famiglia (avere un padre e una madre) costituisce la condizione di principio migliore per un bambino per una crescita equilibrate nel processo di identificazione sessuale ed esistenziale.   

Emerge una tendenza molto forte degli ultimi decenni alla spettacolarizzazione della bioetica. Come interpreta questo fenomeno?

Se per spettacolarizzazione si intende la strumentalizzazione di casi di bioetica provocatori o pietosi per persuadere i cittadini a certi orientamenti bioetici, esprimo una presa di distanza da questa modalità di divulgazione della bioetica. A mio parere il vero contributo alla discussione bioetica può essere dato da una riflessione critica pacata, dialettica e razionale, senza provocazioni, estremismi, emozionalismi. Le posizioni bioetiche a favore o contro certe tecniche o pratiche non posssono essere solo suscitate da emozioni, ma anche e soprattutto giustificate da ragioni. In questo senso la filosofia offre un contributo alla discussione oggi.

Infine, cosa consiglia ai giovani che vogliono intraprendere lo studio della filosofia?

E’ una scelta difficile oggi, ma va valorizzata e sostenuta. La filosofia fa parte implicitamente se non esplicitamente di ogni essere umano che si pone la domanda sul ‘perché: chi la studia ha compreso la sua rilevanza e può, con impegno e dedizione, attraverso uno studio approfondito affrire un contributo in tanti settori della nostra società (economia, diritto, politica, biomedicina, informatica, biologica ecc.).

E’ importante non perdere di vista la motivazione di chi intraprende questo percorso: la meraviglia rispetto all’esistere, la ricerca della risposta ai perché, lo sforzo di ricercare la ragione dei fatti, la disponibilità al confronto dialogico e dialettico, la ricerca della giustificazione razionali delle proprie posizioni. Il presente e il futuro della filosofia è tra speculazione ed applicazione: il confronto con la complessità reale sta rivitalizzando la filosofia, costringendola a ripercorrere strade del passato per interpretare il presente ed anticipare gli scenari futuri. E’ questa la strada che si presenta come piena di opportunità per chi non si accontenta di accettare passivamente ciò che accade, ma chi avverte dentro di sé la spinta a interrogarsi sul senso e a costruire un senso nella nostra società. Il consiglio è continuare con tenacia il percorso intrapreso, studiare i classici, tenersi informati sui problemi emergenti anche nella letteratura internazionale e identificare l’ambito di maggiore interesse, rispetto al quale convogliare le proprie energie intellettuali ed esistenziali.

 

La filosofia quindi deve mantenersi sulle orme di Socrate, critica e vigile per potersi opporre a forme di degradazione dell’ essere umano. Al contempo però non può deve eccedere e incorrere chiusure acritiche verso il cambiamento. Insomma ha bisogno di trovare il giusto equilibrio tra conflittuali eccessi opposti.

Ringraziamo la Professoressa Palazzani per averci dedicato il suo tempo e per averci aiutato a riflettere in modo lucido e razionale su temi spesso scivolosi e opachi.

Francesco Fanti Rovetta

Profilo Laura Palazzani: qui

Ciò che rimane di Giordano Bruno

Il personaggio è conosciuto e non necessita prolusioni biografiche. Sappiamo tutti soprattutto le modalità della morte: con la lingua bloccata da una sorta di museruola, fu trasportato e arso vivo in campo dei fiori a Roma il 17 febbraio del 1600. Celebre è anche il monito da lui pronunciato in seguito alla condanna definitiva per eresia: «Forse tremate più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell’ascoltarla».

Garantendosi l’ingresso nel mito, diventa bandiera contro ogni forma di oscurantismo. La luce emanata dal rogo diventa essa stessa un complesso significante questa sfida al potere delle ombre, razionalità contro controllo diffuso. Il contenuto della sua filosofia sembra scadere così ad accidente parassitario dell’avventura universale di cui sopra si diceva.

La vita di Bruno è in realtà costellata da compromessi e fughe; ciò che gli premeva era di poter esporre in libertà le proprie concezioni teologiche, cosmologiche, filosofiche con scarsa preoccupazione per le adesioni esterne. Da questo punto di vista è emblematica la conversione al calvinismo durante il soggiorno ginevrino come tentativo di placare le accuse che gli venivano rivolte. Ugualmente significativo è notare che contro l’inquisizione romana il comportamento di Bruno si irrigidisce quando capisce che non è una questione di forma, l’obbiettivo era anzi una completa abiura della sua filosofia. Altro elemento da tenere a mente è la concezione dell’unità degli opposti che innerva tutta la produzione e la vita di Bruno: è solo nel pericolo, in odore di morte, che la vita si illumina della luce più brillante.

Bruno è più sfaccettato, complesso di quanto l’immagine conosciuta lo vuole. La sua filosofia è più simile all’indicazione di una strada non percorsa, una linea di modernità minore, inesplorata e vergine, piegata dalle traiettorie vincenti, dal cartesianesimo, dallo scientismo.

Si dimentica anche il suo l’approccio radicalmente nuovo al sapere, un sapere che vuole essere primariamente pratico, fulcro di una comunità. Nel testo della denuncia del “nobiluomo” veneziano Giovanni Mocenigo ai danni di Bruno infatti si legge: «Ha mostrato dissegnar di voler farsi autore di nuova setta sotto nome di nuova filosofia». Non è neanche aderente l’immagine di un Bruno incendiario e antitradizionalista a priori, l’ispirazione del Nolano è infatti creare una filosofia classica, che coinvolga l’uomo nelle sue diverse dimensioni, un recupero quindi di quel concetto di filosofia antica come forma esistenziale di elevazione, la sua vis polemica si focalizza contro l’idea di una filosofia ancella di altri padroni.

Così ci chiediamo cosa resta dell’eredità di Bruno, oltre l’uso strumentale nel conflitto ideologico tra Stato e Chiesa, oltre la fascinazione che su molti giustamente esercita, oltre il luogocomunismo, forse il poco che rimane è un grande pensatore – tanto originale quanto profondamente ignorato e sconosciuto – ancora da ritrovare.

Francesco Fanti Rovetta

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Elogio dell’eclettismo

L’eclettismo è definito in campo filosofico e artistico come l’accostamento di più tradizioni autonome, la cui riuscita risulta non contraddittoria e felice. Esso è l’arte di fare arte attraverso la tradizione (o di pensare attraverso grandi pensatori). Nessuno può in buona fede dire di non avere precedenti o “padri” a cui ispirarsi, chi lo facesse mentirebbe agli altri e/o a sé. Più spesso ce ne si dimentica per eccesso di amor proprio. All’interno di quest’ottica l’eclettico sceglie come proprio percorso per conquistare l’originalità, paradossalmente mai originaria e sempre mediata, non l’appiattirsi o approssimarsi quanto più ad un maestro,ad una dottrina, ma l’innesto di più elementi in uno che è unicum. L’eclettico naturalmente si oppone all’ortodosso e agli -ismi, non già perché gli manchi un legame intimo con la tradizione, ma perché la mancanza di fedeltà ad una scuola, la necessità di costruirsi il proprio percorso peculiare, sono motivati dalla tormentosa insoddisfazione che lo sprona. La riuscita di questa operazione avviene quando diventa impossibile dall’esterno distinguere i diversi stili assimilati ed essi si fondono in qualcosa di diverso dai presupposti che l’hanno guidata.

Due figure paradigmatiche di questo approccio sono Salvator Rosa e Giambattista Vico, poeta e pittore l’uno, poeta e filosofo l’altro, entrambi napoletani, entrambi vissuti nell’alveo controriformistico, cioè in un tempo, per certi versi, come il nostro, esausto. Nonostante la loro biografia sia quanto di più antitetico si possa pensare, il primo poeta a tratti romanticheggiante, solidale alle esperienze di rivolta civile a lui contemporanee e precursore del nichilismo, il secondo tranquillo e ligio all’ordine costituito, verso chiesa e stato; eppure, come si diceva, condividono questo modus operandi tipicamente barocco (essendo il barocco la più riuscita forma di eclettismo) della stratificazione di stili, la commistione dei generi, la difficoltà di essere a casa in un’etichetta che non porti scritto “non catalogabile”. Questi temperamenti barocchi portano all’estremo l’amore umanistico per la completezza: dall’universalismo all’eccesso. Indubbiamente essi non ricadono nella categoria degli storpi a rovescio: grandi orecchie o grandi nasi, brandelli di uomini che hanno poco di tutto e troppo di una cosa sola, prospettata da Nietzsche. Un fine studioso americano ha parlato del magnete di Vico, in opposizione al rasoio di Ockham, come un processo di sovrapposizione di elementi eruditi e lampi di genialità, di diverse concezioni e spunti armonizzati fino a perdere le tracce dell’uno nell’altro, fino a rendere impossibile una stratigrafia. Non è un caso che un grande scrittore barocco della contemporaneità, J. Joyce, avesse molti debiti dichiarati verso Vico, tanto da affermare: “quando leggo Vico la mia immaginazione si accresce in misura superiore a quando leggo Freud o Jung” e da fondare la struttura narrativa di Finnegans Wake su La Scienza Nuova. Rosa che si definiva anche filosofo è in realtà meno erudito, meno intellettuale e più artista, più apertamente sofferto e maledetto. Scrive:

“[…]Cangiato è il mondo, oh quanti ne minchiona
la foja della guerra, e della stampa,
la pania della Corte e d’Elicona!
Sfortunato colui, che l’orme stampa
ne’ lidi di Libetro avidi e scarsi,
che vi sta mal per sempre, o non vi campa.
Torna il conto, o fratelli a spoetarsi:
cantan sino i ragazzi a bocca piena.
Che il poeta è il primiero a declinarsi.”

Così, queste figure scelte tra molte possibili, mostrano che quando la ruota della storia, dell’arte e del pensiero sembrano incepparsi, quando come genere umano si è stanchi e insofferenti, ci si può avvolgere nel passato, nella memoria, così a fondo da ritrovare le sorgenti dello spirito e una rimediata originalità.

Francesco Fanti Rovetta

1 D. Ph. Verene, Vico. La scienza della fantasia.
2 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Della redenzione.
3 S. Rosa, Satire, Liriche, Lettere.

Aritmie, Bertolucci

Capita talvolta all’artista, per il concomitare di fattori eterogenei, di trovarsi sulla soglia di fama e onori meritatissimi senza potervi del tutto accedere e senza esserne completamente escluso. Questo è il caso di Attilio Bertolucci, poeta, critico e traduttore prolifico, che pur avendo rappresentato uno snodo fondamentale per un certo modo di pensare e fare poesia in Italia, è stato facilmente oscurato nel tempo.

Ha avuto in ciò un ruolo l’ideale esistenziale del poeta secondo la formula del larvatus prodest, avanza nascosto. O forse il grande successo dei figli, soprattutto di Bernardo, come registi – ricordo a proposito di quando, andato a cercare in libreria un libro di questo poeta, ricevetti dal personale sguardi obliqui al limite dello scherno, confondevo forse un regista con un poeta? Determinante per adesso è anche lo scarso interesse ministeriale per la poesia del secondo novecento, che s’attarda ad inserire nel piano di studi liceali.
La poetica di A. Bertolucci è fatta di un linguaggio semplice, al limite del fanciullesco, tesa a dire la realtà agreste in quel di Parma che, pur inchiodata a riferimenti topografici precisi, li travalica verso un’universalità prepotente; Baccanelli diventa paradigma del piccolo centro extraurbano alla meta del ‘900. Realtà questa che di li a pochi anni era destinata a ritrarsi tra i grigi fumi del “miracolo economico”.

Un unico manifesto esplicito e concreto della propria poesia si trova all’inizio della raccolta di prose Aritmie, con il nome di Poetica dell’Extrasistole. Qui Bertolucci gioca a miscelare elementi biografici e stilistici: così il cuore che già nella fanciullezza inizia a perdere dei battiti diventa sintomo, segno in carne ed ossa della poetica dal ritmo asimmetrico e irregolare, nelle stesse parole del poeta:

“Penso che il cardiopalmo che accompagnava il mio passo precipitoso e furtivo mentre andavo così pubblicando, puerilmente, i primi versi, non m’abbia più lasciato, che abbia anzi allora avuto origine, appunto gemello fastidioso e dolce del poetare: e l’un male forse non potrei cavarmi di dosso senza uccidere anche l’altro, che non ho deciso ancora se debba chiamar male, o no.”1

In questo senso la poesia non è solo la voce del poeta, ma la voce della vita del poeta, le tracce sul corpo lasciano profonde tracce sulla carta, e la carta torna ad incidere sul corpo, in circolo. Un bambino registra un ritmo cardiaco anomalo quando, solo con la penna in mano, tenta una poesia, la poesia assorbe la musicalità “malata” del cuore del poeta e la fa suonare, confermandola sulla carta. Un cardiogramma di parole.

“Lo dimostra la benedetta sospensione dell’extrasistole, nel verso come nel cuore: salutare avvertimento sul fatto che morte e perfezione sono una cosa.”2

Francesco Fanti Rovetta

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NOTE

1 La descrizione fu tanto precisa, che venne, curiosamente, ripresa anche dalla rivista “Federazione medica”, Bertolucci, Opere, Ed. Mondadori, Meridiani, pag 954.

2 Bertolucci, Opere, Ed. Mondadori, Meridiani, pag 957.

Musica classica, quale futuro?

Al di là del tema comune della quasi impossibilità di fruizione immediata che la caratterizza, il nostro tempo ha un problema più profondo con la musica classica. Si è detto “quasi” perché solitamente con questo termine s’intende una categoria che tutti saprebbero individuare, ma è sorprendentemente difficile da definire e quindi altrettanto difficile è determinarne le qualità. Molti motivetti hanno superato la barriera dell’intenditore per diventare parte della cultura pop, infestando ad esempio il campo pubblicitario. Così come certe affermazioni filosofiche astratte dallo sfondo in cui si collocano sono diventate mantra contemporanei. Quando però si alza un po’ la mira gli unici a capirne qualcosa sono gli stessi musicisti e pochi intenditori. I più, tra cui si inserisce vergognosamente il sottoscritto, visitano questa forma d’arte come i turisti passano tra le antichità delle nostre città: da lontano e capendoci poco.

Dietro al declino della musica classica sembra esserci come uno sfasamento ontologico tra la dimensione temporale come era vissuta dal compositore nel passato e la dimensione temporale di cui fa esperienza l’uomo nel presente. Tanto il compositore quanto l’ascoltatore medio di ieri e di oggi creano e ascoltano una musica che abbia il ritmo del proprio tempo. Ciò a dire che la composizione e la fruizione della stessa viene inevitabilmente influenzata dal mondo in cui il soggetto vive. Usando la terminologia di una tradizione in disuso si potrebbe intendere la musica classica come una sovrastruttura, alla quale sono venute a mancare le condizioni materiali del proprio sostentamento. Un’ epoca in cui la durata di un paio di scarpe si misura in decadi produrrà inevitabilmente musica di una velocità al limite dell’incomprensibile per chi vive la contemporaneità in questa parte di mondo.

I nuovi compositori rimangono schiacciati quindi tra nuove condizioni dettate da esigenze di mercato: pezzi non più lunghi di qualche minuto, ad una certa velocità etc; l’ ombra magnifica della storia passata con cui dover fare i conti. Al giorno d’oggi compositori degni di nota non mancano anche restando in Italia, la notorietà raggiunta da qualcuno è però l’eccezione, non la regola. la tendenza è di plastificare la musica classica in due o tre autori (Bach, Mozart, Beethoven), banalizzando un’arte ricchissima di storia. La critica per lo più risulta incapace di stabilire canoni, di andare oltre i gusti personali e di ritrovarsi d’accordo a stabilire linee di sviluppo maggioritarie nella recente storia passata, facilita questo processo.
Gli stessi mezzi materiali di trasmissione della musica nella contemporaneità: radio, televisione, uniti alle “nuove” modalità di fruizione sembrano sfavorevoli a questa nobile arte. Una notevole eccezione è rappresentata dal grande schermo: il connubio con il cinema, nel quale immagine e musica si vengono ad intrecciare, ha dato nuova linfa e nuovo potenziale espressivo, ai compositori tra i quali Ennio Morricone e Philipp Glass.
Non si vuole sostenere qui una presunta superiorità aprioristica della musica classica su altri generi, la qualità di un componimento trascende il genere musicale in cui si situa. Si vuole solo indicare un animale bellissimo nel mondo della musica che sembra correre verso l’estinzione e in difesa del quale la sola appassionata dedizione non sembra aiutare.

Resta comunque da chiedersi quale sia il futuro di quest’arte, quando un ritorno ai ritmi e agli stili di vita di una volta sembra poco probabile se non impossibile e quando la tendenza mainstream riguardo la velocità dei bpm punta al rialzo. La musica classica tende non solo ad essere di nicchia questo, pur con significative variazioni, è sempre stata una sua prerogativa, ma anche tra i generi musicali di nicchia sta scomparendo, sostituita dal jazz, dal progressive rock ed altri.
Se la musica è uno degli strumenti con cui l’uomo interpreta il suo tempo e la musica che più viene venduta è di conseguenza quella che più lo rappresenta, lasciamo al lettore trarre le amare conclusioni.

Francesco Fanti Rovetta

Gilles Deleuze, a vent’anni dalla morte

A 20 anni dalla morte di Gilles Deleuze poco è cambiato sulla scena della filosofia mondiale, in questo ultimo ventennio ha soffiato un vento rarefatto e non si sono registrati epocali novità.
Del postmoderno si dice spesso che sia l’epoca delle citazioni, destinata a vivere guardando indietro; a questo riguardo Deleuze fu un pensatore che seppe andare controcorrente, non risparmiandosi una metodica schizofrenica sperimentazione: egli fece di una solida formazione da storico della filosofia non una zavorra, ma un trampolino, avendo a disposizione per questo scopo un armamentario di concetti e concezioni, di cui, come utensili del mestiere, sapeva servirsi.

Fu tra i primi negli anni ‘60 a liberare Nietzsche dall’ombra del nazismo, lo rese attuale, dandone una lettura coerente, sistematica e parecchio convincente. Ne mostrò il potenziale intrinseco, il non detto, l’ombra, proprio là dove si pensava di aver già detto tutto ciò che c’era da dire.
Da giovane professore universitario guidò a posteriori il ’68 oltre le mere rivendicazioni che premono a chi ha da poco acquisito un certo potere, sapendogli dare la forma di un Evento, una veste filosofica, salvandolo forse da quel macello di buone intenzioni chiamato Storia.

L’opera paradigmatica del suo rapporto con i moti del ’68 fu l’Anti-Edipo, scritta a 4 mani con l’amico Felix Guattari: questa ha come avversario teorico la psicoanalisi, vista come scienza dedita alla forzata reintroduzione del complesso edipico come norma dell’inconscio, quando questo è invece libero e creativo. Detto altrimenti, secondo i due autori lo psicanalista ha il compito di riportare ogni problema del paziente alla dimensione mitico-parentale, pur facendo salti mortali e improbabili congiunzioni.


“La fuga schizofrenica stessa non consiste solo nell’allontanarsi dal sociale, nel vivere ai margini: essa fa fuggire il sociale attraverso la molteplicità dei fori che lo rodono e lo trapassano, sempre in presa diretta su di esso, sempre in atto di disporre ovunque le cariche molecolari che faranno saltare quel che deve saltare, cadere quel che deve cadere, assicurando in ogni punto la conversione della schizofrenia come processo in forza effettivamente rivoluzionaria”

Per una filosofia tesa ad esaltare la forza dell’uomo e le sue capacità inesplorate, tutto ciò che inibisce, riporta alla colpa o “sgrida” è da evitare in quanto oppressivo strumento del potere. In quest’ottica la tristezza non ha nessuna dimensione nobile, niente di intelligente: chi si intristisce vede perdere ogni energia e se non riesce a spezzare il circolo vizioso ne rimane sopraffatto.
Così lo schizofrenico viene preso come modello di libera esteriorizzazione delle pulsioni, perché nessun pensiero viene trattenuto o filtrato, ma in esso tutto fluisce libero.

Non manca del tutto il bersaglio la critica secondo la quale gli autori, Deleuze in particolare, non avessero la minima conoscenza diretta di uno schizofrenico. Guattari, avendo invece collaborato con la clinica psichiatrica La Borde, aveva avuto probabilmente la possibilità di una conoscenza meno mediata.
Questa creatura letteraria viene in fretta marginalizzata -anche a causa della difficile incomprensibilità di certi passaggi- e vissuta dai due autori come una vera e propria sconfitta.
Deleuze abbandona progressivamente la riflessione politica e non ne dice più nulla di significativo se non in maniera indiretta. La riflessione viene a concentrarsi su altri temi e altri autori.

In seguito alla morte di Guattari nel ’92, Deleuze affermerà di sentirsi come se avesse perso una parte del proprio corpo e il 5 Novembre 1995, Gilles Deleuze si toglierà la vita defenestrandosi in seguito a problemi respiratori.
Francesco Fanti Rovetta

[immagine tratta da Google Immagini]

Impara a vivere

Rumeno, ebreo, passò i primi 25 anni di vita scappando dal regime nazista e da quello comunista. Il primo prese i suoi genitori. Trasferitosi a Parigi, pubblicò traduzioni e raccolte proprie, si sposò. Ebbe diverse crisi mentali fino ad essere internato e sottoposto a cura sperimentale, la terapia del coma insulinico[1]. Vita innocentemente nomade e intensa oltre le forze del singolo, tragica nella misura in cui si spezzò per il peso del ricordo, una volta materialmente salvo. [2]

Celan è conosciuto universalmente per lo sforzo poetico di dire l’olocausto, ma questo articolo interroga una poesia diversa, indirizzata a nessuno, un promemoria per sé, forse, indicazioni per un’umanità a venire. Le tre strofe graficamente si susseguono ma sono da pensarsi circolari, da leggersi d’un fiato:

non scriverti

tra i mondi

Esplicitamente la poesia comanda di liberarci dall’eccessiva storicità, dal sentirci perfettamente parte di qualcosa, dall’adesione totale. Non scegliere un mondo da abitare, sembra dire, ma muoviti libero tra questi, magari giocandoci, magari morendoci. Celan ci ricorda di coltivare quel sentimento di alienazione che cova in ogni entusiasmo, forse la forma più meschina della libertà, ma sempre d’oro in tempi bui.

tieni testa

alla varietà dei significati,

Ci ricorda che basta un attimo per perdersi per sempre. Interpretando, rimanere abbagliati dai troppi significati di un evento non è meno pericoloso di non essere più in grado di avvertire angoscia nell’incontro con i mille altri che automaticamente escludiamo. Angoscia questa che nasce con l’uomo, con la sua brama di ca(r)pire la realtà e dal sentimento perenne che qualcosa si perda.

fidati della traccia di lacrime

e impara a vivere. [3]

Questi versi in chiusura sono forse i più difficili da commentare. Parlano direttamente dell’esperienza traumatica di chi scrive, invitano a fidarsi del segno indelebile tracciato dal dolore sui nostri corpi, le nostre menti, a vederne un disegno, non per giustificarlo, ma per averne una comprensione più autentica, meno caotica.

E imparare a vivere.

 

Francesco Fanti Rovetta

[Immagine tratta da Google Images]

 

Note

[1] La terapia del coma insulinico consisteva in ripetute somministrazioni di insulina ai pazienti che soffrissero di schizofrenia e altre malattie mentali e aveva l’effetto di indurre il paziente in stato di coma solo dopo frequenti e dolorose convulsioni. Effettivamente al risveglio il paziente era meno agitato, ma ciò era dovuto più allo choc che non a un effettivo miglioramento delle condizioni del malato. La terapia era ripetuta più volte nell’arco di poco giorni.

[2] L’immagine è un’acquaforte incisa da Gisèle Celan-Lestrange, moglie del poeta. Per ammissione dell’autrice le opere sono ispirate alle poesie del marito, questi talvolta le faceva pubblicare con le sue poesie.

[3] Paul Celan, “Sotto il tiro di presagi”, traduzione a cura di Michele Ranchetti e Jutta Leskien Einaudi, p. 187.