We are Belgium: il Belgio oltre il Mondiale, lingue e diversità

Poco più di un mese fa la finale dei mondiali di calcio, un tempo dedicato anche a rispolverare bandiere e origini, anche per chi fa parte della European bubble di Bruxelles. Cosa c’è di meglio di una competizione sportiva internazionale per discutere di politica? In fondo, i mondiali di calcio sono tutto tranne che calcio: riadattando una citazione di Carl von Clausewitz1, mi piace convincere gli amici ad interessarsi ai mondiali sostenendo che, in fondo, qualsiasi competizione internazionale è solo «la continuazione della politica con altri mezzi»2, in questo caso sportivi. Un’occasione perfetta per ricordarci che siamo united, sì, ma in diversity3.

Quando l’Italia al mondiale non c’è e sei circondata da persone che si preparano a tifare la propria nazionale, hai due scelte: scegliere un’altra squadra da tifare o osservare gli altri tifare. Dopo un periodo iniziale di tentennamento e l’uscita ai gironi di quasi tutte le squadre che avevo deciso di “supportare” sulla base di criteri poco credibili (per esempio, il paese dell’ultima vacanza), ho deciso di arrendermi. È stato a quel punto che il Belgio mi ha offerto lo spunto per un’interessante riflessione.

We are Belgium” è il motto del mondiale del Belgio, scelto da AB InBev la più grande compagnia di birra belga (la famosa Jupiler è stata infatti rinominata Belgium per il periodo dei mondiali). Lo scopro qualche settimana prima in una serata qualsiasi al cinema, quando nei 30 minuti di pubblicità che precedono l’inizio del film, passa una sorta di pubblicità-cortometraggio sui Red Devils, la nazionale belga. Lo scopo è quello di spiegare perché “We are Belgium” e smuovere il patriottismo belga. La pubblicità mostra, oltre ad immagini di tifosi dei Red Devils, anche l’intervista ad una ragazza che, presentata al pubblico come la cugina del capitano della squadra belga, spiega le sue ragioni del perché “siamo tutti il Belgio”4.

Tutto normale: la pubblicità è apprezzabile ed una grande idea di marketing. Se non fosse che, a conclusione della stessa, mi rendo conto che la lingua usata è l’inglese. Eccola la Belgicità! Improvvisamente, lo spunto di riflessione mi è servito su un piatto d’argento.
Il Belgio è un paese con tre lingue ufficiali (francese, fiammingo e tedesco), in cui almeno due delle tre comunità linguistiche (quella francese e quella fiamminga) si fanno la guerra sull’uso delle rispettive lingue. Si potrebbe pensare che non ci sia nulla di strano al riguardo – fino a quando non ci si rende conto di quanto sia radicata questa guerra linguistica. Possiamo anche sorvolare sul bilinguismo dei nomi delle vie o delle fermate della metro e degli autobus. Ma prendiamo l’esempio della metro. Appena trasferita a Bruxelles, mi sorprese il fatto che in metro ogni tanto passassero canzoni italiane piuttosto datate – niente a che vedere con il marketing chiaramente, dato che le canzoni in questione avevano nel migliore dei casi almeno 15 anni. Scoprii poi che la questione era semplice: francesi e fiamminghi decisero, per amore della neutralità, che le canzoni usate nel trasporto pubblico potevano essere inglesi, italiane, spagnole – ma rigorosamente non francesi né fiamminghe. Una vecchia storia conosciuta, per chi vive in Belgio.

Ma la questione sembra non avere una fine: così, solo qualche mese fa, scopro che il bilinguismo dietro i nomi delle fermate della metro e degli autobus ha un suo preciso ordine. Per evitare qualsiasi barlume di parzialità, i nomi delle fermate in questione sono rispettivamente in ordine alternato. Ovvero, se una fermata è identificata prima con il nome francese e poi quello fiammingo (Arts-Loi/Kunst-Wet) quella successiva avrà prima il nome fiammingo e poi quello francese (Park/Parc). E così via.
Conscia della guerra linguistica intestina del Belgio, immagino che la scelta dell’inglese per la pubblicità in supporto ai Red Devils sia un tentativo neutrale di non scontentare nessuno. Tuttavia, a pensarci bene, essa racchiude anche la vera essenza del Belgio, che lo slogan stesso vuole promuovere e di cui fa parte in effetti la menzionata guerra linguistica, superata solo grazie ad una neutralità standard su cui tutti sono d’accordo. Nient’altro avrebbe potuto esprimerla meglio del motto “We are Belgium”, rigorosamente in inglese.

Ma torniamo un attimo ai mondiali. A questo punto un dubbio mi assale: in che lingua parlano i giocatori della nazionale belga? Decisa a scoprirlo, inizio a chiedere alle persone di nazionalità belga che conosco. Nessuno mi sa rispondere. Vengono avanzate varie ipotesi: spagnolo, perché l’allenatore è spagnolo; francese o fiammingo perché in fondo anche gli impiegati pubblici devono saperli parlare entrambi. Chiaramente nessuna di questa ipotesi è plausibile. Suggerisco l’inglese, ma nessuno ne sembra convinto. Qualcuno scherza, dice che non parlano (!), qualcun altro dice che ognuno parla la sua lingua – altre ipotesi scarsamente immaginabili, soprattutto per i 90 minuti in campo durante i quali per i giocatori capirsi è fondamentale. Qualcuno mi dice di non essersi mai posto il problema e, in alcuni casi, per far capire il nocciolo della questione mi vedo costretta a spiegare chiaramente cosa si cela dietro la mia curiosità.
Rimango senza risposta per qualche settimana, fino a quando Reuters5 e il Post6 decidono di porsi la stessa domanda. Ma loro hanno fornito anche la risposta. Ed ecco svelato il mistero: l’inglese, come volevasi dimostrare, è la lingua usata dai giocatori della nazionale belga. In fondo, “We are Belgium” e non potrebbe essere altrimenti.

 

Francesca Capano

 

NOTE
1. Generale e teorico militare della Prussia (1780 -1831).
2. La massima originaria recita “War […] is the continuation of politics by other means”.
3. Il motto dell’Unione Europea in uso dal 2000 è “United in diversity”, ovvero uniti nella diversità.
4. Quella trasmessa al cinema non è la stessa pubblicità, più corta, trasmetta invece dalla televisione belga, che usa invece tutte le lingue ufficiali del Belgio e lo spagnolo (lingua dell’allenatore spagnolo), con sottotitoli in inglese.
5. Reuters, Who are Belgium? No identity crisis for Martinez’ men, 2 luglio 2018
6. Il Post, In che lingua si parlano i giocatori del Belgio?, 2 luglio 2018

[Photo credits: Alex Wong on Unsplash.com]

banner-pubblicitario_abbonamento-2018

Facebook, dati personali e privacy: siamo all’altezza?

Nel marzo 2018, Cambridge Analytica, compagnia fino a quel momento pressoché sconosciuta, diventa tristemente famosa per aver raccolto informazioni personali identificative di almeno 87 milioni di persone tramite Facebook. Secondo l’informatore Christopher Wylie, ex-dipendente di Cambridge Analytica, la compagnia avrebbe raccolto dati che poi sarebbero stati usati per influenzare le elezioni americane e il referendum inglese sulla Brexit. La compagnia era già nell’occhio investigativo dell’Observer almeno da un anno1, ed era stata oggetto di un articolo del The Guardian nel 20152. Il primo articolo dell’Observer nel febbraio 2017 portò all’apertura di due inchieste ancora in corso, mentre nel 2015 l’Observer accusò il senatore americano Ted Cruz di usare dati definiti “psicologici” raccolti da Cambridge Analytica tramite Facebook, per influenzare i suoi utenti ritenuti potenziali sostenitori. Le interviste all’informatore Wylie del marzo 2018 hanno causato sdegno pubblico a livello internazionale: le inchieste che ne sono derivate hanno portato la compagnia a dichiararsi fallita, a causa delle spese legali sostenute e della pubblicità negativa, il 2 maggio 2018.
Il caso Cambridge Analytica dimostra che le informazioni personali che definiamo sensibili, sono effettivamente molto sensibili, perché possono essere usate in modi che superano la nostra immediata comprensione. Nell’immediatezza dello scandalo, molte persone hanno cancellato i loro profili Facebook, nel tentativo di proteggere i propri dati da futuri utilizzi illeciti.

Ma a ben vedere, il caso Cambridge Analytica dimostra qualcos’altro, altrettanto preoccupante: ovvero, quanto siamo diventati influenzabili in balia dei social media e quanto profondamente essi possano modificare i nostri pensieri e le nostre convinzioni, senza che noi stessi ce ne rendiamo conto. Lo scandalo del caso Cambridge Analytica non risiede tanto nella scoperta che i dati personali sono preziosi e possono essere usati e venduti per vantaggi commerciali (e politici): questo, in teoria, lo sapevamo già, come dimostrato dal proliferare di legislazioni sempre più restrittive a protezione dei dati personali degli ultimi anni. Cambridge Analytica dimostra una verità scomoda, per la prima volta proiettata senza filtri su larga scala: Facebook è uno strumento potente, su tutti i fronti, e noi probabilmente non ne siamo all’altezza. Siamo sufficientemente capaci di usare Facebook con le necessarie considerazioni ed attenzioni che esso richiede? Come è possibile poter influenzare il nostro voto tramite pubblicità o fake news mirate? Della violazione dei nostri dati, se ne occuperà chi di dovere, perseguendo chi ha violato le legislazioni in materia ed emanando nuove politiche per la loro protezione. Ma è sufficiente questo per proteggerci da noi stessi?

La necessità di esistere ed essere visibile, essere quindi social, è più forte nella maggior parte delle persone della preoccupazione per i propri dati e, in molti casi, della possibilità che essi siano sfruttati per influenzarci. Inoltre, l’uomo è un essere (più o meno) influenzabile per natura: la capacità di essere influenzato sta alla base della pubblicità. Eppure, nei confronti della pubblicità che passa in televisione, comunque meno effettiva perché non mirata verso uno specifico individuo, siamo più critici perché sappiamo che per vendere un prodotto bisogna, banalmente, mostrare le sue qualità piuttosto che i suoi difetti e, con ogni probabilità, anche gonfiarle facendo attenzione al linguaggio usato, alle immagini, ai colori, a qualsiasi dettaglio necessario per attrarre l’attenzione prima, ed influenzare poi. Non si tratta solo di pubblicità: siamo influenzabili anche offline. Se un nostro amico, collega o conoscente fa qualcosa che ci sembra particolarmente cool, con ogni probabilità influenzerà il nostro comportamento verso quella stessa cosa e nel caso più estremo faremo lo stesso. Un esempio sono le destinazioni turistiche: paesi precedentemente esplorati solo da viaggiatori avventurosi che nel giro di pochi anni vedono duplicare o triplicare il numero di visitatori.
Partendo da questo presupposto, Facebook non ha reso gli individui influenzabili. Esso ha piuttosto moltiplicato potenzialmente all’infinito questa nostra influenzabilità, non fosse altro perché passiamo molto tempo scorrendo una news feed che nella migliore delle ipotesi ci mostra quello che fanno i nostri amici e, nella peggiore, ci presenta notizie o pubblicità mirate ad influenzarci.

Tuttavia, questo non significa che non dovremmo più usare Facebook, come alcuni hanno pensato in preda all’isteria del momento. Non è il male di tutti i mali, ma un facile capro espiatorio. È uno strumento molto potente, con funzionalità potenzialmente positive. Tuttavia, esattamente perché potente, va saputo usare: è necessario aver ben chiaro come funziona, conoscerne i meccanismi (reali) che vi sono dietro, essere consapevoli dei rischi (potenziali) e delle vulnerabilità associate. Serve usare Facebook consapevolmente, nello stesso modo in cui dovremmo bere alcool e fumare consapevolmente, guidare solo con una patente di guida e sparare solo con un porto d’armi. In fondo, nessuna di queste quattro cose, la lasceremmo fare ad un bambino, perché non ha raggiunto la maturità intellettuale, cognitiva e critica per comprenderne a pieno conseguenze e rischi associati a tali azioni. In conclusione, più di tutto è necessario stimolare negli utenti quella criticità perduta (o forse mai veramente sviluppata), la cui assenza rischia effettivamente di essere il male di tutti i mali poiché ci rende influenzabili ad un livello pericoloso, non solo per un utilizzo consapevole di Facebook ma anche nella vita quotidiana.

 

Francesca Capano

 

NOTE
1. Revealed: 50 million Facebook profiles harvested for Cambridge Analytica in major data breach, The Guardian
2. Harry Davies, Ted Cruz using firm that harvested data on millions of unwitting Facebook users, The Guardian, 11 Dicembre 2015

[Immagine tratta da pexels.com]

banner-pubblicitario-La chiave di Sophia N6

L’altra faccia della medaglia: giovani e fuga dall’Italia

Siamo sempre di più: la cosiddetta ‘fuga di cervelli’ sembra non arrestarsi, anzi peggiorare. Articoli di quotidiani, dossier speciali, trasmissioni televisive dedicate ai giovani italiani che se ne vanno dipingono l’Italia del brain drain, quella che esporta più laureati di quanti ne attiri. L’ultimo riferimento all’esodo viene dal Ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, che a gennaio 2018, in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico all’Università “La Sapienza” di Roma, ha ricordato che «il numero di laureati sta crescendo ma è ancora troppo basso e ancora troppi giovani lasciano il nostro Paese per migliori opportunità all’estero»1. Secondo l’ultimo studio di Confindustria, sono 624 mila gli Italiani che dal 2008 al 2016 hanno spostato la loro residenza all’estero, in tutte le fasce di età2. Lo spostamento dei giovani in particolare costa all’Italia circa un punto di PIL all’anno, secondo lo studio citato.

Ma stanno veramente così le cose? In occasione di una conferenza sul fenomeno migratorio, una persona di nazionalità italiana, nel condividere con il pubblico la sua storia personale di migrazione intra-europea, disse di aver lasciato l’Italia per ambizione, per inseguire un sogno, quello di partecipare ad un progetto di respiro internazionale.

La verità è quella del brain drain potrebbe essere solo una faccia della medaglia. L’altra parte della storia è fatta di curiosità, voglia di mettersi in gioco, e perché no, ambizione. La curiosità di scoprire a fondo realtà nuove, la voglia di mettersi in gioco, integrandosi in ambienti diversi, l’ambizione di seguire un sogno più grande di se stessi o in un settore più rinomato all’estero: non sono caratteristiche legate alla nazionalità che portiamo, ma alle nostre personalità. Queste caratteristiche ci avrebbero portato a spostarci in un paese diverso da quello di nascita, anche se fossimo nati inglesi, scandinavi, olandesi o tedeschi. Reinventarsi in una realtà diversa e straniera è un processo così radicale e totalizzante, che non può essere compiuto se alla necessità pura e semplice, non si affianca almeno una di queste caratteristiche.

L’interpretazione corretta di questi dati ci dovrebbe spiegare che ci sono tanti motivi per cui una persona decide di trasferirsi in un altro paese. Immaginiamoci una bilancia: da una parte la necessità e dall’altra le altre motivazioni menzionate in precedenza. Nella scelta di ognuno di noi entrambe hanno un valore, anche se diverso. Ci saranno persone per cui la necessità ha un peso maggiore, così come ci sono persone per cui curiosità, sfida o ambizione hanno il sopravvento nella decisione finale. Per altre, magari, è più una questione di “moda”. Qualsiasi sia la motivazione predominante, non è intellettualmente onesto interpretare delle statistiche appiattendole solo su una singola variabile. Soprattutto quando su queste interpretazioni, si forma l’opinione pubblica nazionale, ed a sua volta quella estera3.

Sembra pensarla alla stessa maniera anche PagellaPolitica, il nuovo partner di Facebook Italia nella lotta alle fake news4, che ha verificato i dati dello studio di Confindustria. Secondo PagellaPolitica5 ci sono almeno tre considerazioni da tenere a mente. Innanzitutto, non tutti gli italiani emigrati hanno lo stesso titolo di studio. Ci sono italiani con titolo di studio superiore come concittadini laureati o dottori di ricerca: questo implica che il calcolo sulla spesa di formazione fatta dallo studio in questione possa solo essere un’approssimazione al rialzo. In secondo luogo, in economie che si definiscano avanzate, è normale che i giovani si spostino in Paesi diversi da quello di origine, con alcuni tra i maggiori Paesi europei che arrivano a numeri più elevati di quelli italiani6. Infine, un numero non irrisorio di italiani torna in Italia, spostando nuovamente la propria residenza dall’estero all’Italia (22 mila nel 20157).

Queste considerazioni ci restituiscono un’immagine differente e forse più realistica dei 624 mila italiani, evidenziati dai giornali. La necessità è una faccia della medaglia, quella che fa più rumore, perché porta a decisioni che sono frutto della mancanza di viabili alternative. Ma non è l’unica. Per quanto minoritaria, l’altra faccia vale ugualmente la pena di essere presa in considerazione, raccontata e ascoltata, perché come ha detto di recente il Presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, «quando c’è qualcosa di positivo che riguarda l’Italia, bisogna avere il coraggio di raccontarlo»8. Il rischio è quello di favorire altrimenti il circolo vizioso della profezia che si auto-adempie9.

 

Francesca Capano

 

NOTE
1. Padoan, la disoccupazione cala, ma ancora troppi giovani lasciano l’Italia, Corriere della Sera, 18 gennaio 2018.
2. Confindustria Centro Studi, Scenari Economici, dicembre 2017, N. 31,
3. Francesca Capano, L’intreccio tra Dinamiche Interne e Rappresentazioni Esterne, settembre 2017, La Chiave di Sophia.
4. Facebook farà il fact checking anche in Italia, con Pagella Politica, Il Sole 24 Ore, 30 gennaio 2018
5. Quanto costa allo Stato e alle famiglie italiane la fuga dei cervelli. Una stima, gennaio 2018, Pagella Politica.
6. L’affermazione non è tuttavia sostanziata da dati o riferimenti a Paesi europei specifici.
7. Fonte: Istat.
8. Il video dell’intervento alla pagina Facebook del Presidente del Consiglio.
9. In sociologia, la profezia che si auto-adempie è una previsione che si avvera solamente perché ritenuta reale (la previsione genera l’evento che a sua volta verifica la previsione stessa).

 

banner-pubblicitario_la-chiave-di-sophia_rivista

Bruxelles, un anno dopo (ormai già due)

Questo pezzo è stato scritto nel giorno del primo anniversario degli attacchi terroristici del 22 marzo 2016 all’aeroporto di Zaventem e alla stazione metro di Maalbeek.

 

Oggi è il 22 marzo 2017. Primo anniversario degli attacchi terroristici all’aeroporto Zaventem di Bruxelles e alla metropolitana di Maalbeek. A marzo 2016, Bruxelles era già una città militarizzata: dopo gli attacchi di Parigi di novembre 2015, era emerso che la cellula di terroristi veniva da Bruxelles, dal quartiere di Molenbeek. Da lì era partita la ricerca serrata di Salah Abdeslam, che ci aveva imposto una settimana di città blindata.

Questa mattina, ad un anno di distanza, camminando verso il lavoro ho ripercorso mentalmente quella giornata. L’ho fatto una infinità di volte nell’ultimo anno, stile Sliding Doors, ma oggi aveva un sapore diverso. La mattina del 22 marzo 2016 mi ero svegliata più tardi del solito: alle 8.30 ero ancora a casa ed ascoltavo il telegiornale. La giornalista parla di un esplosione all’aeroporto di Zaventem. Non si sapeva ancora a cosa fosse dovuta, la notizia era troppo fresca. Inutile giungere a conclusioni troppo affrettate.
Esco di casa. Anche se penso che forse non sia una buona idea prendere la metro, almeno finché non si ha la certezza del motivo dell’esplosione all’aeroporto, mi faccio convincere dal fatto che se ci fosse stato alcun pericolo, l’avrebbero chiusa. Quando la metro arriva a Schuman, una fermata prima di Maalbeek e tre prima del mio ufficio, il mio telefono si spegne, scarico. Le porte rimangono aperte per pochi secondi, ma la quantità di pensieri che passa per la mia testa è notevole. Non volevo prendere la metro dal principio, c’è stata un esplosione di cui ancora non sappiamo nulla, sono senza telefono e se qualcosa mai dovesse succedere non posso nemmeno comunicare. Così in qualche secondo decido di scendere.
Guardo le persone che lascio dentro e quelle che salgono: mi chiedo perché nessuno pensa che salire in metro non sia una buona idea e mi rispondo che mi sto facendo prendere dalla paura. Inizio a camminare verso Maalbeek: la strada che porta al mio ufficio è una lunga strada trafficata e dritta, sulla quale si trovano le stazioni metro successive.

È difficile calcolare le tempistiche quando si tratta di secondi di scarto, ma saranno circa le 9:10 quando passo davanti all’entrata di Maalbeek. La bomba esploderà alle 9:11. Non appena supero Maalbeek inizio a vedere ambulanze e macchine della polizia venirmi incontro e penso che stiano andando all’aeroporto. Continuo a camminare. Ripensandoci a posteriori, mi chiedo come mai non mi sia mai girata. Se mi fossi girata avrei visto, e la mia mattina sarebbe stata differente. Alla fermata dopo, Art-Loi, vedo la gente che esce urlando, correndo e piangendo. Penso che sia un’evacuazione precauzionale, forse un pacco sospetto. Il militare di pattuglia alla stazione urla qualcosa e indica alla gente di correre e allontanarsi. A quel punto inizio a correre anche io. Non so quanto forte sia l’esplosione di una bomba, ma se stanno evacuando di certo è meglio andarsene il più velocemente possibile. In quei momenti, esattamente come durante i sette giorni di ricerca serrata di Salah, ti senti totalmente vulnerabile, nuda, sai che stai scappando da qualcosa, contro cui nessuno può proteggerti, nemmeno un militare con un mitra. In ufficio, eravamo solo in tre, nessuno ancora sapeva della metro, così spiego cosa ho visto e nel frattempo le notizie iniziano ad emergere. I miei colleghi sembrano più scioccati di me, qualcuno piange, anche loro erano passati per Maalbeek, come ogni giorno. Per tutto il giorno, penso che quella era sicuramente la mia metro: solo qualche giorno dopo scoprirò dalle foto diffuse del vagone che non lo era. Non mi sono salvata; non ne sarei uscita in ogni caso con ferite fisiche.
Eppure ci sono andata così vicino che non sono rimasta totalmente immune dalla giornata. Nei giorni successivi, mi sembra di non riuscire a realizzare bene cosa sia successo. Per i mesi successivi accuserò un generale senso di vuoto e insofferenza, ma senza realmente fare un collegamento con gli attacchi: in fondo non ho vissuto né visto molto e penso piuttosto allo stress del lavoro. Solo dall’incontro con una psicoterapeuta predisposta dalla compagnia per tutti i dipendenti, realizzo che non era altro che la conseguenza di quella mattinata. A partire da questo momento, sarà poi molto più semplice dare il giusto peso a quelle sensazioni.
Ho capito così il vero significato della resilienza1 e come anche da un’esperienza traumatica si può trarre qualcosa di positivo: mai come in questi attimi, una persona è sola, nuda a fare i conti con il proprio essere. Un’occasione rara, per essere onesti con se stessi: nessuno ti chiede il permesso, una mattina ti svegli, e ti ci ritrovi lì, dove starai per i mesi successivi, volente o nolente. Tanto vale saperla sfruttare una tale opportunità.

 

Francesca Capano

 

NOTE
1. F. Capano, La resilienza uno strumento contro il terrorismo, La Chiave di Sophia

[Photo credit: Geert Vanden Wijngaert / AP]

banner-pubblicitario_la-chiave-di-sophia_rivista

Unconscious bias, ovvero quando la discriminazione è inconscia

Il 2 gennaio 2018 in Islanda è entrata in vigore la legge sulla parità di salario tra uomini e donne. La legge, che era stata approvata nel 2017, impone ai datori di lavoro di assicurare condizioni eque, incluse quelle retributive, a parità di incarichi e qualifiche1. Al di là dell’ovvia importanza della legge, decisamente all’avanguardia rispetto al resto del mondo, vale la pena di sottolineare un altro elemento interessante su cui la legge fa luce. Obbligando i datori di lavoro a fare particolare attenzione ad una parità a trecentosessanta gradi, si porta in primo piano quella che potremmo definire “discriminazione di genere involontaria”, ovvero inconscia. Sotto la categoria di discriminazione inconscia si possono raggruppare tutti quegli atteggiamenti che, essendo profondamente radicati nelle nostre abitudini, riteniamo normali ma che in realtà hanno un’origine discriminatoria. Su queste attitudini mentali, che ci accompagnano nella vita di tutti i giorni, spesso basiamo i nostri comportamenti e formiamo le nostre percezioni, soprattutto senza rendercene conto.

Per discutere della discriminazione di genere involontaria, dobbiamo prima di tutto escludere la discriminazione volontaria. Immaginiamo un gruppo di riferimento costituito da uomini e donne convinti della necessità di avere eguaglianza di genere non solo a parole, ma anche nei fatti. In sostanza, immaginiamo che la discriminazione volontaria, ovvero quella frutto di una decisione attiva di discriminare un genere, non esista.

Il luogo più banale da cui partire per un esempio di discriminazione inconscia è la casa. All’interno del gruppo di riferimento, siamo sicuramente tutti d’accordo che il mantenimento della casa è responsabilità di ciascuno dei componenti del nucleo familiare – così è stabilito anche dalla legge2. Si potrebbe dunque pensare che la questione si risolva facilmente accordando una divisione equa dei compiti domestici. Ma è realmente così che si raggiunge una vera parità? La risposta ce la fornisce il concetto di carico mentale, elaborato in fumetto dalla blogger francese Emma3. Con i suoi disegni, Emma spiega perché condividere le faccende domestiche non è sufficiente. Alla divisione dei compiti domestici si arriva grazie ad un lavoro mentale e organizzativo pregresso: facendo il punto della situazione su cosa c’è da fare, la donna si prende carico più o meno inconsciamente della responsabilità dell’organizzazione del lavoro attorno nucleo familiare. Al contrario, è proprio il senso di responsabilità, in primis, che va diviso equamente. Ne segue che l’idea stessa che un compagno/marito “aiuti” in casa è discriminatoria, perché implica una mancanza di responsabilità da parte dell’uomo nei confronti del lavoro domestico, a cui contribuisce, invece, aiutando il responsabile di quel lavoro (la donna).

Non c’è da meravigliarsi se una tale struttura mentale venga involontariamente trasferita anche in altri campi, come quello lavorativo. Per facilitare la comprensione, ricorriamo alle statistiche, che ci dicono che nonostante le ragazze tendano ad essere più brave nello studio, i vertici delle società rimangono per la maggioranza ricoperti da uomini. Un tale controsenso indica che c’è qualcosa che storpia il processo di crescita professionale e che non viene raccolto come dato obiettivo dalle statistiche. Il carico mentale domestico può avere un certo peso nel limitare lo sviluppo della carriera, per il semplice motivo che il tempo dedicato, per esempio, alla casa, è tempo che non può essere occupato per qualsiasi tipo di arricchimento personale. Più subdolo della disparità salariale e di una mancata promozione, c’è l’atteggiamento di chi (uomo o donna) più o meno inconsciamente respinge opinioni e idee di colleghe senza una ragione obiettiva: un concetto ha una forza comunicativa maggiore quando presentato da un uomo rispetto ad una donna. Secondo Robin Lakoff (1973)4 è una complessa questione di sintassi, registro e vocabolario. Di conseguenza, se un lavoratore uomo può facilmente trasmettere le sue idee, una lavoratrice dovrà, per esempio, ripetere lo stesso concetto due, tre, quattro volte, essere sicura di essere stata ascoltata, e non solo sentita, fare attenzione che non venga snobbata senza giustificazioni plausibili e accertarsi che, una volta accettato, le venga riconosciuto il merito. Questi atteggiamenti inconsci diventano poi percezioni distorte della realtà, che giustificano salari minori e qualifiche inferiori. Anche in ambito lavorativo, come in quello domestico, le donne si trovano a svolgere due lavori: il lavoro per cui si è assunte, ed un lavoro parallelo ed invisibile, fatto di gomiti alti, occhi aperti e orecchie vigili. Un lavoro necessario non tanto per farsi notare, quanto per assicurarsi di non farsi scavalcare.

La discriminazione di genere non solo esiste, ma ha anche due facce: un conscia ed una inconscia. E per liberarsi di quella inconscia, la strada è ancora più lunga e tortuosa. Ricordiamocelo tutti e tutte il prossimo otto marzo, e come suggerisce il The Guardian, «non essere “femminista” solo a parole o nei tuoi post su Facebook, dimostralo nella vita quotidiana»5.

 

Francesca Capano

 

NOTE
1. Islanda: la parità di salario tra uomo e donna è legge, 2 gennaio 2018.
2. Art. 24, Legge del 19 maggio 1975, n. 151.
3. Ma cara, perché non me lo hai chiesto?, 24 maggio 2017.
4. R. Lakoff, Language and Women’s Place, Cambridge University Press, 1973. Disponibile a questo link.
5. Men, you want to treat women better? Here’s a list to start with, The Guardian, 16 ottobre 2017.

 

banner-pubblicitario_la-chiave-di-sophia_rivista

 

Ragione e sentimento nell’elettorato: perché abbiamo perso la ragione

<p>Ragione e sentimento</p>

Saper riconoscere i propri sentimenti ed esprimere le proprie emozioni è fondamentale. Far andare a braccetto ragione e sentimento, è un’altra storia. Eppure oggi è più fondamentale che mai.
In un precedente articolo, scrissi di un cambiamento culturale in seno alla società occidentale iniziato nella seconda decade degli anni Duemila, e sviluppatosi in antitesi a quello che le epoche precedenti rappresentavano. Tra le caratteristiche di questo cambiamento c’è il ritorno sulla scena pubblica (oltre che privata) delle emozioni.

Si tratta, di per sé, di una tendenza positiva: il coraggio di esprimere le proprie sensazioni è alla base del benessere quotidiano di ogni individuo. Tuttavia, allontanandoci da una prospettiva micro e assumendo un punto di vista macro, la situazione non appare poi così rosea. Infatti se per la sfera privata si tratta di una scelta personale, appunto privata, per quanto riguarda la sfera pubblica, questo cambiamento può avere ricadute più evidenti, come da ultimo dimostrato da decisioni storiche degli ultimi anni.

Nel periodo post-Brexit, nel tentativo di dare una spiegazione alla scelta dei britannici, è stato coniato il concetto di post-verità: la decisione sull’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea è infatti considerata uno dei frutti della cosiddetta era della post-verità. Quando si parla di post-verità ci si riferisce a quel fenomeno per cui un’informazione è giudicata positivamente quando suscita emozioni e sensazioni nell’ascoltatore: a definire la rilevanza di un’informazione pertanto non è la veridicità fattuale della stessa, ma la sua capacità di parlare “alla pancia” di chi ascolta. Secondo questo principio, le decisioni, quelle collettive del livello macro, vengono prese sulla base del fatto che ciò che trova riscontro nelle proprie emozioni, non può che essere vero e soprattutto giusto, perché vere e giuste sono le emozioni stesse. Tuttavia, tale meccanismo può risultare drammaticamente fuorviante, nonché pericoloso quando su questa scelta si determina il proprio voto politico.

In tal senso, può essere utile ricorrere all’esempio dell’adrenalina. L’adrenalina è infatti un neurotrasmettitore che messo in circolo in seguito ad eventi stressanti prepara l’organismo ad una prestazione fisica superiore alla normalità, necessaria per la sopravvivenza in una situazione che l’individuo (o l’animale) ha percepito di pericolo. Se per l’animale tale sostanza è fondamentale nella lotta contro un predatore o per la preda, per l’uomo che non è più chiamato a lotte fisiche per la sopravvivenza, l’adrenalina diventa controproducente poiché abbassa la capacità di ragionare e causa confusione mentale. In preda ad una emozione forte, l’adrenalina fa concentrare un individuo esclusivamente su un singolo elemento, mettendo da parte tutte le altre circostanze, che seppur rilevanti perdono attrattiva. Questa visione parziale lo porta a decisioni che non sono razionali.

L’esempio dell’adrenalina, per quanto estremo, esemplifica la situazione nell’era della post-verità, dove emozioni e sentimenti sono eretti a portatori di verità. Davanti ad una scelta complessa, per esempio quella di un voto politico, si tende a semplificare il processo decisionale a cui si è chiamati, concentrandosi solo su pochi elementi a scapito della totalità delle informazioni che rappresentano la realtà. In particolare, gli elementi favoriti saranno quelli che sono in grado di suscitare emozioni e sensazioni, secondo un processo mentale generalmente inconsapevole. Informazioni che sembrano poco attraenti, seppur fattuali o scientifiche, vengono ignorate o, peggio, considerate false (per esempio, pilotate da chi vuole farci credere in una realtà che è costruita a vantaggio dei poteri stabiliti, secondo un meccanismo tipico delle migliori teorie complottiste). Tutto ciò non significa che sentimenti e raziocinio siano inconciliabili, nemmeno davanti ad una scelta come quella del voto.

Parlando di salute mentale, la duchessa di Cambridge ha ricordato recentemente che è importante insegnare ai bambini a comunicare i propri sentimenti quando si rendono conto che sono troppo grandi e troppo forti per affrontarli da soli1. Per i bambini questo è un primo importante passo verso una stabilità emotiva. Quando si diventa adulti e pertanto membri a tutti gli effetti di una comunità civile e politica, esprimere le emozioni ed assecondarle non è più sufficiente: è necessario compiere un ulteriore passo, quello verso una conciliazione con la ragione. Un pezzo mancante e fondamentale di questo cambiamento in favore delle emozioni, è infatti la capacità di riconoscerle, nel senso di identificarle, spiegarle e interpretarle. Un adulto deve imparare a chiedersene il motivo, a riflettere sulle stesse per ricomporre tutti gli elementi della situazione che lo circonda: è chiamato a far sorreggere le proprie emozioni dalla ragione. Questo risulta particolarmente importante in un periodo come quello della post-verità, quando il rischio è che certe decisioni vengano prese su una scia emotiva che ha più l’effetto dell’adrenalina che di una salutare presa di coscienza emotiva.
Riconoscere questo tassello mancante e spiegarlo agli adulti di oggi, forse ci aiuterà a porre fine all’epoca della post-verità e a ricreare un elettorato più cosciente e coscienzioso, per non dire più razionale.

Francesca Capano

 

NOTE:
1. Le sue parole in questo video

 

banner-pubblicitario-abbonamento-rivista-la-chiave-di-sophia-03-03

 

L’intreccio tra dinamiche interne e rappresentazioni esterne

In occasione della festa della Repubblica del 2 giugno 2017, la Presidentessa della Camera Laura Boldrini ha ricordato che il concetto di patria «non ha niente a a che vedere con le ideologie nazionaliste. Il nazionalismo esclude, la patria è inclusiva; il nazionalismo è aggressivo, la patria è solidale; il nazionalismo costruisce muri, mette fili spinati se possibile, il patriottismo tende la mano agli altri»1. Seppure riferita in particolare alla questione migratoria, la differenza tra patriottismo e nazionalismo esprime un concetto che può diventare una chiave di lettura interessante.

Chiunque possieda un profilo sui social media, si sarà reso conto che esiste una fetta di popolazione che accusa e attacca violentemente il Bel paese dal divano di casa. Si potrebbe obiettare che questo fenomeno esiste da ben prima della comparsa dei social media: il mondo si divide in quelli che si danno da fare per cambiare ciò che non gli piace e quelli che si limitano a lamentarsene. A colpi di like e condivisioni, i cosiddetti leoni da tastiera ne sono solo la rappresentazione più moderna. «Il nazionalismo è aggressivo; la patria è solidale»2, ha detto Laura Boldrini. Si può facilmente estendere questo concetto a tale fenomeno. L’aggressività, infatti, raramente si sposa con l’autocritica: serve piuttosto per la critica dell’altro, chiunque esso sia, straniero o oppositore politico. Nonostante la critica di un sistema sia importante per il suo progresso, essa si differenzia dalla recriminazione fine a se stessa: nel momento in cui la critica manca di un carattere introspettivo e costruttivo, rimane una vuota lamentela.

In questa prospettiva, dunque, le osservazioni critiche si appiattiscono su strutture mentali che rispondono ad una logica del “noi contro loro3, che non è certamente né introspettiva né costruttiva e si carica di aggressività.

In un mondo interconnesso che amplifica ed esagera le percezioni umane, non si può trascurare l’impatto che questo tipo di ‘attivismo’ paranoico da social media ha su un pubblico esterno. Infatti, la prospettiva di chi osserva da fuori dinamiche esclusivamente interne che non può capire appieno poiché appunto esterno alle dinamiche stesse, rimane necessariamente parziale. Non ci si può stupire, dunque, se le rappresentazioni erronee riflesse verso l’esterno vengano considerate da esterni corrispettive della realtà e diventino nel tempo stereotipi o giustificazione per tali. Denigrare aggressivamente una realtà nella sua integrità per colpirne invece solo una parte, crea impressioni sbagliate e nocive nel lungo termine.

Non esistono paesi perfetti, dove tutto funziona nel migliore dei modi: vivendo all’interno di un sistema è inevitabile rendersene conto, sia esso l’Italia o un altro paese. Tuttavia, nonostante le inequivocabili mancanze di certe situazioni, altri paesi non riflettono all’esterno un livello di negatività tanto alto come sembra fare l’Italia. Eventi come l’incendio della Grenfell Tower di Londra ci fanno aprire gli occhi su come non tutto sia ottimale, come può sembrare dall’esterno.

Dove sta, allora, la differenza tra l’Italia e altri paesi europei, che pure non sono perfetti, ma non trasmettono, o almeno non lo hanno fatto fino ad ora, percezioni così negative all’esterno? Una spiegazione a questo dilemma potrebbe risiedere proprio in quell’abitudine a fare la voce grossa senza rimboccarsi le maniche. A recriminare, senza proporre un’alternativa costruttiva. A confondere nazionalismo con patriottismo. Un atteggiamento che è anche proprio di alcuni quotidiani nazionali, che preferiscono esasperare notizie che fanno rumore attraverso uno stile di scrittura aggressivo. L’esempio dell’incendio alla Grenfell Tower di Londra, diventata in pochi giorni il centro di una retorica polemica, che incolpa l’Italia della morte dei due connazionali, accusandola di costringere i suoi giovani a partire, è anche un ottimo esempio di questo tipo di meccanismo.

Il momento della critica, quella costruttiva, è un momento essenziale, che non può e non deve mancare nel processo di sviluppo progressivo di una società. Tuttavia, per essere comprensivo e utile, deve essere principalmente una riflessione interna, in cui ci si pongono domande e si cercano risposte, deve abbandonare la logica del “noi contro loro” e l’aggressività di tale logica. Un esercizio che si può dunque identificare con il patriottismo perché inclusivo e solidale nei confronti, in questa accezione, di chi rappresenta idee diverse. Non è il momento della generalizzazione né della violenza verbale, che si identificano meglio con l’aggressività del nazionalismo, come sottolineato dalla Presidentessa della Camera Laura Boldrini.

Francesca Capano

Note:
1. Link Camera 1
2. Link Camera 2
3. In questa logica, ‘loro’ sta per chiunque non si faccia portavoce delle stesse idee ne’ rispecchi le stesse paure di chi si identifica con il ‘noi’, come se non fossimo tutti parte dello stesso sistema che cerchiamo di migliorare.

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

banner-pubblicitario_abbonamento-rivista_la-chiave-di-sophia_-filosofia

La resilienza: uno strumento contro il terrorismo

Dopo un attacco terroristico si parla spesso di resilienza. La resilienza (ing., resilience) indica la capacità delle persone di superare un evento traumatico e continuare la propria vita, adattandosi alle nuove circostanze. Il concetto di resilienza è chiamato in causa da alcuni esperti di terrorismo, secondo cui preparare la popolazione civile ad essere resiliente, rimanere compatta e non cedere alla paura non è solo un concetto nobile, ma uno dei migliori strumenti nella lotta al terrorismo1. Una lotta con un margine di errore intrinseco, perché garantire la sicurezza al 100% di fronte alla minaccia terroristica è impossibile.

Pur non essendo stati preparati da alcun corso sulla resilienza, ad oggi siamo in molti in Europa ad aver provato sulla nostra pelle che cosa significhi essere resilienti in seguito ad un attacco terroristico. Al concerto di Manchester di Ariana Grande, tornata sul palco solo una decina di giorni dopo l’attacco del 22 maggio, si sono presentati in 50,000: 50,000 persone che, nonostante la paura e con il pensiero che il terrorismo colpisce, ma non si sa né quando né dove, hanno dimostrato la resilienza di una città intera.

Anche la resilienza di Bruxelles è stata messa a dura prova tra il 2015 e il 2016. A seguito degli attentati di Parigi, la capitale Europea, considerata la base degli attentatori, è stata costretta ad un rigido lockdown2: per una settimana ha vissuto in una situazione surreale, con sistemi di trasporto chiusi, eventi sociali annullati e militari in assetto da guerra ad ogni angolo della città; l’unico modo per proteggere la popolazione pareva essere quello di far stare le persone a casa (ma lontano dalle finestre!)3. Non è facile dimostrare la propria resilienza quando le occasioni di socialità vengono ridotte al minimo indispensabile. Una strategia che si rivela ben presto non sostenibile. Non appena le autorità lo permettono, Bruxelles torna a vivere esattamente come prima, nonostante il pericolo non fosse diminuito: Salah Abdeslam, la mente degli attacchi di Parigi, era ancora super ricercato in tutta Europa, e in particolare a Bruxelles. I militari in assetto da guerra rimanevano e rimangono tutt’oggi a vigilare ogni obiettivo sensibile4. A riprova che il pericolo era latente, gli attacchi che pochi giorni dopo la cattura di Salah colpiscono l’aeroporto di Bruxelles Zaventem e la fermata metro di Maalbeek. Nessun lockdown questa volta: ognuno si misura con il proprio grado di resilienza, senza costrizioni.

La resilienza è una caratteristica naturale dell’essere umano: va però ottimizzata. Alla luce dei continui attacchi in Europa, la strategia della resilienza dovrebbe trovare più spazio nella comunicazione delle autorità con i cittadini. Essere resilienti non significa solo continuare le proprie attività quotidiane nonostante il pericolo: significa anche non cedere al panico e all’allarmismo. Nel periodo storico in cui viviamo, il pericolo esiste perché alla luce della natura della minaccia, la sicurezza totale non può essere garantita neanche dal migliore dei servizi segreti. Con questo presupposto, una persona educata alla resilienza contiene meglio la paura: a sua volta evita di contribuire alla sensazione di insicurezza, alimentata invece dal volume di notizie che ci bombardano ininterrottamente. Infatti, comunicare ossessivamente informazioni non necessarie su certi accadimenti contribuisce alla diffusione del panico (spesso anche a portata di click) e non favorisce un atteggiamento resiliente.

All’indomani degli attacchi di Bruxelles, una psicoterapeuta specializzata nell’aiutare vittime a superare lo stress post-traumatico, suggeriva, per esempio, di non ascoltare né leggere notiziari a meno che non comunicassero effettivamente notizie aggiuntive rispetto a quelle comunicate in precedenza. Ascoltare molte volte la stessa notizia ingigantisce la sensazione di insicurezza, senza veramente comunicare alcuna informazione: evitandolo, invece, si aiuta ad arginare l’allarmismo, sia a livello individuale che di comunità.

La resilienza va spiegata ed insegnata ai cittadini: molti stati europei hanno infatti un livello di minaccia terroristica significativo. Essere resilienti non significa minimizzare il pericolo, piuttosto adottare un atteggiamento razionale.

Le misure di sicurezza aggiuntive, i continui falsi allarmi bomba che interrompono le attività giornaliere e richiedono evacuazioni, i pacchi sospetti abbandonati e fatti brillare per sicurezza, i militari con armi pesanti a vista in strade, aeroporti, stazioni, metropolitane, palestre, hotel, centri commerciali, non aiutano di certo a placare la sensazione di insicurezza, e possibilmente la aggravano. Tuttavia, una preparazione adeguata della popolazione permette la razionalizzazione di queste misure in quanto parte di un determinato contesto conosciuto (quello della minaccia esistente) ed evita inutili allarmismi.

 

Francesca Capano

 

NOTE
1. Psychological Resilience to Terrorism.
2. Il lockdown è definito come una situazione d’isolamento e blocco, in cui le normali attività e gli spostamenti sono ridotti al minimo o vietati.
3. Più volte durante il lockdown della città le autorità chiedevano ai cittadini di allontanarsi dalle finestre in aree in cui era in corso un’operazione antiterrorismo.
4. Non era inusuale, per esempio, andare in palestra e trovare militari con le loro armi pesanti passeggiare tra le persone che si allenavano.

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

banner 2019

Il connubio tra politica e cultura

A scuola ci hanno insegnato a non pensare a compartimenti stagni: anche se storia, arte, letteratura e filosofia sono materie separate, è importante capire che in ogni contesto storico esse sono strettamente intrecciate. Ma è possibile rendersene conto quando lo si vive in prima persona?

Brexit, l’elezione di Donald Trump, i timori precedenti le elezioni olandesi, tedesche e francesi, ci ricordano quotidianamente che esiste una fetta di società che non fa mistero di valori ed idee poco moderati. Solo qualche anno fa, l’elezione di personalità come Donald Trump ad una simile carica politica sembrava una prerogativa prettamente italiana e all’estero un’incredulità mista ad orrore spesso regnava di fronte alla continua (ri)elezione di un politico conosciuto per un atteggiamento poco rispettoso nei confronti delle donne.

Ma come ci hanno insegnato a scuola, la storia e dunque la politica non vivono una vita a sé stante: esse si inseriscono in un contesto culturale più ampio. Se siano esse ad influenzare o siano influenzate, è difficile da definire e con ogni probabilità dipende dallo specifico contesto storico.
Analizziamo quello attuale. L’inizio della seconda decade degli anni Duemila ha visto il delinearsi di una subcultura1 che, emersa a ridosso di un periodo di relativo benessere, si vuole porre in antitesi alla cultura di massa. Nel tentativo di differenziarsi dal mainstream (ciò che è convenzionale e maggioritario) riscopre aspetti che erano stati accantonati in nome dello sviluppo tecnologico e del benessere: il retrò e il vintage, l’ambiente e la natura, l’arte e la letteratura.

La storia dell’arte ci insegna che anche le innovazioni artistiche diventano mode: una parabola naturale che non le vede più prerogative di una nicchia di artisti, ma una caratteristica di molti, e che generalmente segna l’inizio del loro declino. In maniera simile, alcuni di questi ‘nuovi’ elementi culturali  hanno progressivamente coinvolto e interessato un numero di persone sempre maggiore. Ad oggi, alcuni di essi definiscono a pieno titolo il profilo culturale della società attuale. Basti pensare che nel 2016, il numero di vinili venduti nel mercato britannico è aumentato del 53% rispetto all’anno precedente2, o che nello stesso anno i musei italiani hanno registrato numeri di visitatori da record, in alcuni casi con un incremento del 70%3 degli ingressi.

Favorita dall’uso pressoché universale di Internet e dei social media, dalla velocità a cui le informazioni circolano e dalla libertà con cui possono essere condivise, questa cultura incontra la politica e se ne lascia influenzare.

L’incontro avviene in un contesto storico-politico dominato da incertezze, in cui le paure spingono a sostenere idee poco moderate, si mettono in dubbio le strutture esistenti ed i traguardi raggiunti, “machismo” e xenofobia ritrovano uno spazio politico proprio. In un quadro simile, il ritorno all’antico e alla natura, tipici del contesto culturale degli anni Dieci, dà convenientemente una risposta alla sensazione di insicurezza generalizzata, permettendo un ritorno alle origini che offre protezione.

Questo incontro in cui politica e cultura si rafforzano l’una con l’altra ha ripercussioni su due piani: quello pubblico e quello privato. Sul piano pubblico l’antitesi al mainstream e la volontà di differenziarsi da esso diventano opposizione di principio a tutto ciò che sembra rappresentare l’establishment. Nell’immagine collettiva il potere costituito ed il sapere riconosciuto diventano necessariamente un nemico che va smascherato: il potere politico tradizionale deve essere combattuto dalle nuove forme di democrazia; il sapere medico viene rinnegato e le sue cure rifiutate in numeri sempre più pericolosamente significativi. La sfera privata diventa l’elemento a cui guardare in cerca di protezione: al riparo da una situazione esterna caotica, la famiglia ritrova una raison d’être nella sua forma più tradizionale, ‘minacciata’ allo stesso tempo da un concetto di unità familiare non più basata sull’unione uomo-donna. Supportata da un nuovo autoritarismo politico4 e dalla ribadita importanza dei legami di sangue, si chiude dentro sé stessa, definisce una netta separazione dei ruoli all’interno del nucleo domestico e, nei casi peggiori, giustifica la violenza di genere, quasi a voler dimostrare che l’indipendenza femminile raggiunta ed il suo riconoscimento siano stati dopotutto una chimera5. Donald Trump non sarebbe potuto diventare il Presidente degli Stati Uniti d’America, senza il supporto di un contesto culturale che ritiene certi atteggiamenti nei confronti delle donne non così gravi da impedire di vincere le elezioni a colui che illusoriamente si definiva come l’anti-establishment; similarmente, un politico che ritiene che le donne siano “meno intelligenti e dunque si meritino un salario inferiore agli uomini” non si sentirebbe libero di fare certe dichiarazioni in sede di Parlamento Europeo6.

La mancanza di una capacità critica costruttiva è ancora una volta la grande lacuna dell’opinione pubblica, aggravata dalla tendenza a radicalizzare le proprie posizioni. La consapevolezza di certi perversi andamenti culturali e politici non manca completamente: è importante però saperli riconoscere, indagare e spiegare in un più ampio contesto, così da non diventarne involontariamente noi stessi suoi fautori.

Francesca Capano

NOTE:
1. Con il termine ‘subcultura’ si intende un sottoinsieme culturale che si differenzia da un insieme culturale più ampio di cui fa parte (vedi Enciclopedia Treccani).
2. P. Castelluccio, Vinile, record di vendite nel 2016, “Parkett”, gennaio 2017.
3. Dati del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, 2016
4. Russia: Vladimir Putin firma la legge che depenalizza le violenze domestiche, “Huffington Post”, febbraio 2017
5. L. Melandri, L’eterno ritorno di patria, famiglia e autoritarismo, “Internazionale”, novembre 2016
6. F. Mochi, Europarlamento, intervento choc: “Donne meno intelligenti, devono guadagnare meno”, “Adkronos”, marzo 2017

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

banner-pubblicita-rivista2_la-chiave-di-sophia