I competenti

Non si può fare politica senza pronunciarsi su questioni che nessun uomo sensato può dire di conoscere. Si deve essere infinitamente stupido o infinitamente ignorante per avere un’opinione sulla maggior parte dei problemi posti dalla politica.

P. Valéry, Des partis

Sono molti i luoghi in cui Galimberti mette in evidenza come, sotto la spinta dell’iperspecializzazione che lo sviluppo della tecnica (mi permetto di specificare, questo sviluppo di questa tecnica) ci richiede, la democrazia sia destinata ad estinguersi per mancanza delle competenze tecniche necessarie per prendere una decisione su uno specifico tema – sicché, le decisioni vengono poi prese con la “pancia” e i politici diventano affabulatori di masse incompetenti (su questo, una scorrevole e affascinante lettura può essere il suo La morte dell’agire e il primato del fare nell’età della tecnica).

Le implicazioni etiche di un simile scenario sono state individuate dalla Arendt nel suo dirompente La banalità del male dove identifica nella specializzazione, e quindi nello specialista (in quel caso, della “soluzione finale”, amministrata come un qualsiasi indifferente atto specialistico: Eichmann), la fine non solo della possibilità di pensare ma anche della facoltà di giudicare, quindi della responsabilità – tema già anticipato nel’44 da Camus (Eichmann in Jerusalem è del ’63), quando nel suo articolo Non tutto si sistema (pubblicato su Lettres françaises, giornale clandestino del Comité national des écrivains, con un certo imbarazzo), imputa al membro del Governo Vichy, Pucheu, un torto che definisce come “mancanza di immaginazione”; tipica, oggi lo si può constatare ancor più di ieri, dello specialista.

Stando così le cose, il problema non risulta superabile né trasformandoci in “tuttologi”, né diventando claustrofobici iperspecialisti. La prima cosa non è, per fortuna, realizzabile. La seconda è antidialettica, perché circoscrive il pensare all’interno di parametri predefiniti, rendendolo quindi nient’altro che una funzione di quei parametri (con tutte le implicazioni e conseguenze culturali, sociali, politiche ed etiche che molti pensatori contemporanei hanno già evidenziato).

Sia chiaro, con questo non voglio dire che lo specialista non abbia diritto di cittadinanza in società: se devo essere operato voglio esserlo da un chirurgo professionista. Sto dicendo invece che non si può assumere il pensiero specialistico come se fosse quello migliore, se non addirittura l’unico, per prendere decisioni – peraltro, senza neanche chiedersi quali siano i fondamenti culturali dello stesso. In parole povere: al mio computer chiedo di navigare su internet, ma non chiedo di dirmi il significato di internet.

Ecco allora la chiave di volta, che stiamo sempre più dimenticando: il significato.

Quando siamo interrogati su questioni su cui non siamo tecnicamente competenti (dalle centrali nucleari, alla ricerca medica, alle trivellazioni petrolifere…), non siamo necessariamente destinati al silenzio, o a dire la prima cosa che ci passa per la testa (questa è la democrazia oggi) o ad una rapida acquisizione di competenze tecniche (cosa impossibile; inoltre l’ostentazione di qualche superficiale competenza ci fa diventare ancor più grotteschi di chi parla senza competenza alcuna). C’è invece un’ulteriore possibilità, a mio modo di vedere, quella sensata: porci un problema di significato. Ovvero, non soffermarsi su misurazioni e calcoli tecnici relativi ad un evento, ma sul significato di quell’evento nel mondo.

Sul significato nessuna misurazione o calcolo può dire qualcosa, dato che un significato non è quantificabile. Le competenze tecniche sono incompetenti in materia di senso. L’incompetente par excellence, dunque, è l’ipercompetente su qualcosa.

Ma in quale luogo del mondo si può oggi apprezzare non una calcolazione tecnica degli eventi ma un’interrogazione del loro significato, se anche l’attività del pensare è nelle università sempre più ridotta ad una misurazione che ne attesti la competenza?

Federico Sollazzo

[Immagine tratta da Google Immagini]

Strumentalità e natura (umana)

Le nuove frontiere della tecnica costituiscono anche le nuove frontiere della morale, delle quali si parla e si parlerà sempre più; in questo momento, ad es., a proposito del cosiddetto utero in affitto. A priori, non credo possano esserci obiezioni sul fatto che ciascuno possa vivere e agire come più gli piace (si badi, en passant, che questo discorso ne contiene un altro, ovvero il fatto che il limite di tale libertà non sia da intendersi come quel confine dove inizia la libertà altrui: questa è una visione della libertà a compartimenti stagni, a perimetri, a ghetti, una sorta sistema di celle contigue; il limite, se questa è la parola giusta, sta invece nell’interazione con l’alterità: la libertà non è un oggetto da possedere, è una relazione), ergo ogni pratica atta ad incrementare tale libertà è in linea di principio benvenuta.

E tuttavia una misura resta. Ma non mi sembra che possa essere quella che si sente andare per la maggiore: indignarsi perché l’utero in affitto, in questo caso, o altre pratiche in altri e/o futuri casi, è una strumentalizzazione della natura, segnatamente di quella umana, per di più fatta per denaro.

Questi argomenti non mi sembrano convincenti per delle ragioni molto semplici.

Quanto alla critica alla strumentalità, mi sembra una sorta di cecità selettiva. Vivere in una casa di cemento, plastica e acciaio per edificare la quale sono stati abbattuti alberi, spostarsi con mezzi di trasporto che emettono agenti inquinanti, trivellare in cerca di petrolio, ricevere una trasfusione di sangue o un organo trapiantato sono strumentalizzazioni della natura, anche di quella umana, che passano alquanto inosservate – altrimenti i  fautori della non manipolazione della natura dovrebbero vivere in case sugli alberi (ma anche quella non sarebbe una manipolazione?), o spiegare perché alcune manipolazioni fanno problema ed altre no (come se vedere Jack lo squartatore all’opera con la vittima A o con quella B cambiasse l’essenza di quello che sta facendo).

Ma l’uomo è naturalmente contro-, o meglio, oltre-natura. L’uomo è un essere strumentale. La vera domanda allora è: perché a volte strumentalizziamo la strumentalità e a volte no?

Quanto alla questione del denaro, è solo una delle forme di strumentalizzazione, a sua volta strumentalizzata da movimenti politici, religiosi e quant’altro, che non dice niente sulla questione della strumentalità in sé.

Voglio dire, la ricchezza è la direttrice fondamentale su cui viaggiano libertà e felicità? E quindi la povertà è il male assoluto? Non è questa una posizione che scivola pericolosamente verso il discorso capitalista/neoliberista? Si sente dire che nei Paesi del terzo mondo ci sarà chi accetterà di sottoporsi alla pratica dell’utero in affitto, e/o ad altre pratiche, solo perché costretto dall’indigenza. Questa è purtroppo una tragica verità. E tuttavia questo è un discorso politico, che in quanto tale continua a non dire niente sul significato delle cose di cui parla: strumentalità, natura, natura umana.

Meno che mai è spendibile per l’analisi di questi temi il fatto di stabilire una gerarchia universale di cosa sia meglio/peggio per tutti, ergo anche per l’altro da sé, la cui alterità viene così del tutto calpestata – discorso paternalistico, evangelizzante, pastorale che caratterizza tanto il cattolicesimo quanto quella versione rozza di neoillumismo che oggi va per la maggiore e che non è altro che la versione secolarizzata di quello: portare la Verità e portare la Luce, sono lo stesso discorso autoritario; se è la libertà che è in gioco, si deve rinunciare alla pretesa di decidere cosa sia meglio/peggio per tutti.

Diversamente da ciò, il limite di qualsiasi pratica umana, quindi non solo delle nuove frontiere che la tecnica dischiude, mi sembra sia da rinvenirsi in una certa forma di strumentalità (che è altra cosa dalla strumentalità in sé), quella che oggi viviamo. E che consiste in una strumentalità che non contiene nessun altro significato che la strumentalità stessa. E che rende tutti e tutto non strumenti che esprimono significati, ma strumenti che esprimono strumentalità. Basti notare che quando si prende posizione su un qualsiasi tema, lo si fa in base alle conseguenze che si ritiene possa generare, quindi in base ad una mera questione di calcolo, e non riflettendo sull’essenza in sé di quella cosa.

Il contributo che allora la filosofia e solo la filosofia può dare, come riflessione sull’essenza della condizione umana e di quella del vivere contemporaneo, è quello di mettere al centro del discorso non semplicemente gli effetti di un qualcosa, ma il suo significato. Questione che procedendo per mera logica formale non potrà mai essere affrontata.

Eppure, anche la filosofia ridotta sempre più, e proprio da chi se ne occupa, a un qualcosa di pratico, scientifico, misurabile, sta perdendo la capacità di riferirsi a ciò che sta oltre la pratica: il senso.

Federico Sollazzo

[Immagine: Google immagini]

Se questa è filosofia (seconda parte)

Per riprendere e avviare verso una possibile conclusione un discorso che forse è inconcludibile (e che ho aperto qui), credo che ci si debba ora chiedere come si sia arrivati alla sostituzione della filosofia con la sua filologia e storiografia. Le linee di riflessione attorno alle quali propongo di andare alla ricerca di una possibile risposta, sono essenzialmente due.

Primo. Un costante accrescimento del fenomeno della reificazione, introdotta forse, e forse involontariamente, nel pensiero occidentale dalla logocentrizzazione operata da Platone. Dialettica che è diffusamente descritta da diversi autori, ciascuno nei suoi propri termini ma tutti accomunati dal fil rouge della riduzione dei margini del pensare: dall’heideggeriano oblio dell’Essere all’unidimensionalità marcusiana, dalla francofortese dialettica dell’illuminismo alla benjaminiana riproducibilità tecnica dell’arte, dalla andersiana antiquatezza dell’uomo alla pasoliniana omologazione e mutazione antropologica – sia chiaro, en passant, che nessuno di questi autori è un passatista antimodernista critico di ogni cambiamento e della modernizzazione in sé, la critica è invece verso una certa, questa, modernizzazione.

Secondo. Eppure, il filone di riflessione qui sopra accennato non assume quel certo sviluppo come una necessità, ma come una possibilità – almeno fino ad un eventuale punto di non ritorno. Resta quindi da dar conto del fatto per cui tra quella possibilità ed altre, abbiamo imboccato proprio quella – che stiamo vivendo. E qui si devono fare i conti con un tema troppo trascurato: la brama di potere. Infatti, chi vuole detenere un potere può farlo solo se e quando lo stesso può esercitarsi su cose. Il potere è infatti potere di disporre delle cose, ma per disporne bisogna poterle afferrare e per poterle afferrare devono essere oggetti. Un sovrano come può disporre della popolazione se non riducendola prima ad oggetto, pertanto impersonale, del potere – si noti che la legge designa sempre individualità impersonali? Un medico come può disporre di corpi se non riducendoli prima ad una somma di leggi che lui sa gestire? Un accademico che sia interessato ad amministrare le decisioni dell’accademia come può legittimarsi se non riducendo il sapere ad una somma di nozioni che lui sa amministrare? E possono costoro accettare che una possibile diversa ermeneutica metta in discussione quella certa epistemologia che serve loro per essere legittimati nel possesso del potere? Evidentemente no. Ecco che una certa forma della conoscenza, reificata, nozionistica, si impone come l’unica forma possibile, rappresentando il necessario fondamento epistemologico per il possesso del potere.

Fino a quando non faremo i conti anche con le miserie dei singoli individui, oltre che con la descrizione delle marco-dialettiche in cui viviamo, continueremo a stare nell’equivoco di scambiare per dato di fatto oggettivo quella che invece è una certa modalità di interrogare il mondo – e sia chiaro che il mondo risponde in base a come è interrogato.

E tuttavia questo sembra essere il classico cane che si morde la coda: più si accrescono quelle macro-dialettiche, più diminuisce la capacità di leggere il singolo al di fuori delle stesse, ovvero, la sensibilità di percepire l’epistemologia in cui ci si trova e altre possibili.

Per concludere sgombrando il campo da possibili equivoci, in questi due brevi articoli andati sotto il titolo di Se questa è filosofia, ho cercato di mettere in evidenza la differenza tra il pensare e lo studio del pensato. Differenza particolarmente trascurata in ambito umanistico, arrivando fino alla grottesca indistinzione tra filosofia e sua filologia e storiografia. Con questo però non intendo dire che allora la filosofia sarebbe quella che socraticamente si fa per strada, che necessariamente è al di fuori dell’accademia, oggi prevalentemente nello spettacolo dei mass-media. La differenza che ho cercato di mostrare non ha a che fare primariamente col luogo in cui si fa filosofia, pensiero – da qui poi tutta la retorica della critica alla torre d’avorio, retorica che però si dimentica che anche la strada è una torre d’avorio quando ci si rifugia in essa senza considerare cosa sta avvenendo in essa e tagliando aprioristicamente con tutto ciò che è fuori di essa. Limitandosi alla solo critica della sede, infatti, può benissimo rimanere il peccato originale: il rivolgersi a un’audience, a un pubblico, anziché a un altro se stesso.

La differenza essenziale tra lo studio e/o la divulgazione del già pensato e il pensare, sta nel fatto che la prima cosa ha a che fare con la fruibilità, la spendibilità, mentre il pensare è un discorso per, a se stesso – a cui solo secondariamente accede un altro, potendovi accedere solo perché il modo in cui chi pensa per se stesso si rivolge a se stesso è storicamente simile al modo in cui si rivolge ai propri simili. Nel primo caso quindi il pensato altrui ed il proprio è ridotto a moduli spendibili, presentabili alla comunità scientifica, per la verifica e l’incremento delle citazioni, o al grande pubblico, per l’applauso e la commercializzazione. Nel caso del pensare invece, il pensiero altrui, lungi dall’essere qualcosa di cui bisogna essere in grado di dar conto, è un suono in cui quel che conta sono alcuni frammenti che risuonano in noi, fertilizzandoci, unendosi al nostro suono interiore, e portandoci così a comporre un altro suono, il cui valore e significato risiedono solo in colui in cui quel suono risuona, non essendo quindi sottoponibile ad alcun tipo di misurazione e valutazione. Questa è la via dell’alta cultura e dell’arte.

Quel che regge questo mio discorso quindi è l’intendere la filosofia non come scienza, ma come arte. Va da sé poi che una cosa è fare arte, e un’altra è studiarla o commentarla o divulgarla. Differenza che si potrebbe con semplicità rendere nella distinzione tra cultura e sapere.

Ora, è certamente ingenuo, infantile, assurdo chiedere che la civilizzazione occidentale si riorienti in direzione di quella che ho qui definito come cultura (quindi arte, di cui la filosofia potrebbe essere una manifestazione), anziché, come è ed è sempre più, in direzione di quello che qui ho definito come sapere (quindi scienza, compresa quella umana, di cui filologia e storiografia della filosofia sono esempi).

Tuttavia, chi si occupa di questi temi, dovrebbe perlomeno aver chiara la distinzione tra cultura e sapere. E chiedersi se nei luoghi deputati alla cultura (siano essi le università, i libri, i giornali, i siti, le associazioni culturali…) non si faccia invece nient’altro che sapere.

E se così è, che fine fa la cultura?

Federico Sollazzo

[Immaginer: Google Immagini]

Se questa è filosofia (prima parte)

In parole povere stiamo dicendo che non possiamo fare a meno della storia della filosofia (…) allora questo non potere fare a meno diventa una domanda su questo non potere fare a meno, diventa la richiesta che ci sia esibito come tutto ciò si è dato. E là dove non c’è questa domanda, dove non è suggerita, sollevata, ricordata, non c’è esperienza filosofica, non c’è esercizio filosofico, c’è solo esercizio di cultura. Ma se la cultura è infine libertà, la mera cultura storiografica non è esercizio di libertà, perché è l’esercizio di essere soggetti alla cultura e non soggetti della cultura, soggetti alla pratica, senza nemmeno essere consapevoli di esserlo.

C. Sini, La verità pubblica e Spinoza

Ormai il sapere occidentale ha un suo orientamento ben preciso, che emerge con particolare evidenza nei luoghi del sapere istituzionalizzato: le università. Chiunque abbia un minimo di confidenza con queste, infatti, sa bene che ciò che avviene là dentro è una trasmissione di dati. Cosa che è comprensibile nel caso di quei saperi direttamente finalizzati alla realizzazione di qualcosa di pratico – anche se questo non li esonera da una riflessione sulla loro stessa essenza, che è invece quasi sempre assente. Cosa che però avviene anche per quelle discipline che avrebbero il proprio fine in se stesse, quindi essenzialmente in una riflessione su se stesse, non nella ricerca di un utile esterno, e che invece diventano sempre più un archivio di dati trasmissibili e verificabili, nozioni soggette ad una metodologia unica, universale e predeterminata.

Nel caso della filosofia (che per mia disgrazia mi ha fatto suo, avrei potuto vivere molto più serenamente e comodamente se non fossi stato toccato da questa mania) questo si mostra con evidenza nella riduzione della stessa ad un esercizio filologico e storiografico, al punto tale che i dipartimenti universitari di filosofia dovrebbero a rigore essere rinominati come dipartimenti di filologia della filosofia e storia della filosofia, anziché continuare a indugiare nell’equivoco di fare filologia e storiografia, nominandole però come filosofia. Non ci vuole poi molto a discriminare tra un soggetto e un complemento, e sulla base di questa semplice distinzione si potrebbero creare dipartimenti ad hoc – fermo restando che non esiste una storia della- e una filologia della- che non sia già una filosofia, tuttavia, se lo storico e il filologo ci tengono ad essere annoverati come scienziati che maneggiano dati, anziché come pensatori che in quanto tali hanno come primo problema quello di problematizzare la natura del proprio stesso pensare, allora si potrebbe ricorrere ad una divisione anche istituzionale. Di pari passo, si dovrebbe con chiarezza e onestà evitare di usare l’appellativo di filosofo per chiunque si interessi di filosofia, differenziando invece tra storici, filologi, cioè studiosi,  e filosofi – cose che a volte possono anche coincidere nella stessa persona, ma restando pur sempre cose diverse.

Sia chiaro che con questo non voglio stabilire una gerarchia tra la figura dello storico, del filologo, e del filosofo tout court. Vorrei però metterne in evidenza le differenze, che a guardarsi intorno sembrerebbero essere meno ovvie di quel che invece sono.

Ora, a quali conseguenze porta questa indistinzione? Ne richiamo di seguito alcune.

Primo. Ritenere che si possa fare filosofia solo dopo averla studiata. Ritenere quindi che si possa essere filosofi solo dopo essere stati filologi e/o storici della filosofia.

Eppure è la stessa storia della filosofia a fornirci esempi di filosofi che sono stati tali senza essere stati studiosi di filosofia. Un esempio su tutti: Wittgenstein. E se si hanno buone orecchie si potrà sentire che spesso c’è più filosofia nel cosiddetto uomo della strada (perlomeno, in quelli di un passato non così omologato) che nell’accademico scientificizzato.

Secondo. Ritenere che vi sia un’unica modalità corretta di approcciare il pensiero altrui e che tale modalità sia lo studio finalizzato all’estrazione di dati oggettivi.

Ma questo apre (almeno) un problema a due facce. Da un lato, si assiste alla cancellazione di qualsiasi altra modalità di contatto con l’alterità che non sia quella basata sull’estrazione di dati da esibire alla verifica della comunità scientifica. Dall’altro, svanisce, tra le altre cose, quella possibile relazione con l’alterità mossa dall’ascolto disinteressato di ciò che ci affascina – cosa che, per fortuna, rimarrà sempre non misurabile e quindi non “datizzabile”. Conseguenza non da poco di questo problema è che in tal modo un progresso del pensiero si potrà avere solo in termini quantitativi e non qualitativi. Ovvero, nella forma dell’accrescimento aritmetico di dati, tutti collezionati con una metodologia universale, prestabilita, al di fuori dalla quale vi è il nulla (posta quindi come una meta-metodologia), anziché come rottura di un certo ordine epistemico e apertura ad altre possibilità ermeneutiche.

A scanso di equivoci, con questo non voglio aprire alla dimensione della chiacchiera – da cui peraltro non si è al riparo neanche con la conoscenza nozionistica. Intendo invece che la fondatezza argomentativa che non ci fa cadere nella chiacchiera non si trova nel nozionismo, ma nella nostra onestà intellettuale – per fortuna, anch’essa non misurabile.

Terzo. Ritiene che si possa parlare di qualcuno/qualcosa, senza invece avvedersi che ogni parlare è sempre un parlare su qualcuno/qualcosa.

Provo a spiegarmi. Una volta ridotto un autore o un tema a un cumulo di nozioni, ovvero una volta ridotta una vita ad un manuale di conoscenza, va da sé che poi si ritenga di parlare di quelle cognizioni. Questo impedisce di avvedersi che è esattamente il nostro parlarne a determinare quelle nozioni e che quindi un parlare di è in realtà sempre un parlare su, un parlare a partire da, un parlare che sulla base di una sollecitazione iniziale crea concetti che non saranno mai una descrizione esaustiva di quella sollecitazione iniziale, un suo esaurimento nella verbalizzazione – essendo l’origine del pensiero nell’intuizione, come Platone ha magistralmente argomentato, collocando tale intuizione nell’istante, che è atopos, fuori dal tempo cronologicamente misurabile, ed essendo quindi il logos (pensiero/parola) che cerca di dare corpo a tale intuizione, già una forma di reificazione della stessa. Insomma, ogni parlare altro non può essere che un parlare intorno a qualcosa.

Questo apre ad (almeno) due rilevanti conseguenze. Da un lato, poiché neanche il ricorso ad un nozionismo che si pretende oggettivo è esentato dall’essere una costruzione soggettiva, tanto vale assumersi esplicitamente la responsabilità, e la gioia, della costruzione di una relazione col mondo basata sul modo specifico in cui lo interroghiamo, che poi altro non sarebbe che il tentativo di elaborazione di un pensiero consapevolmente autonomo – come dice quel proverbio popolare (testimonianza di come bassa cultura e alta cultura si tocchino, è quella media il problema): se porti un falegname e un poeta in un bosco, non vedono lo stesso bosco. Dall’altro lato, se ogni parlare è sempre un parlare attorno a qualcosa, essendo impossibile afferrarne l’intuizione originaria, allora questo parlare diventa tanto più ricco, quante più traiettorie compie attorno al suo inafferrabile centro. Ne consegue che, diversamente da come la corrente impostazione filologica ci porta a credere, leggere un autore nella sua lingua originale è tutt’altro che un arricchimento del pensiero. In quel modo si andrà infatti ad eseguire sempre la stessa traiettoria attorno a quel centro inafferrabile. Diversamente, leggerlo in una, o diverse, lingue tradotte, oltre a farci abbandonare la pretesa tanto ossessiva quanto irrealizzabile di voler afferrare quel centro, sotto forma di dato filologico, permette di eseguire altre traiettorie attorno a quel centro inafferrabile, unica possibilità per l’arricchimento del pensiero.

Quarto. Poiché, nonostante la trionfale avanzata delle scienze, l’uomo non sarà mai scientificizzabile in toto (altrimenti, paradossalmente, la stessa scienza dovrebbe arrestarsi, essendo invece il suo motore, come in tutte le attività umane, una costante spinta al trascendimento di ciò che è dato), ci sarà sempre un resto che avanza. E in un mondo in cui l’unica alternativa alle scienze, comprese quelle cosiddette umane, è la religione, questo resto sarà preso in carico dalle religioni. Ed ecco che la scientificizzazione dell’uomo ha come esito paradossale l’esplosione delle religioni. È così che i due fenomeni oggi convivono.

(Seconda parte dell’articolo, qui)

Federico Sollazzo

[Immagine: Google Immagini]

Invece che questuare la politica

Sempre più spesso ci si affida alla politica per la risoluzione di problemi essenziali (addirittura a volte non semplicemente chiedendo ma pretendendo tale risoluzione) – sintomo di uno spaesamento generale che innalza la richiesta di pater familias. Ma una simile richiesta, pretesa, supplica è giustificata? La politica può e/o deve soddisfarla?

Innanzi tutto, per avere almeno una chance di soddisfarla i politici dovrebbero essere degli uomini di cultura e pensiero, cosa oggi sempre più rara, basti notare la pochezza culturale e la piattezza argomentativa di molti di loro.

Ma soprattutto, i politici non possono e non devono soddisfare quella questua di senso, perché la politica – che evidentemente prendo qui in termini istituzionali – è mera amministrazione dell’esistente.

L’amministrazione è il tratto distintivo della politica. Esattamente a questo si riferiva la Arendt in Vita Activa quando comparava il modello politico antico con quello moderno. La teorica della politica notava infatti come nelle poleis la vita domestica, da lei definita come “sfera privata”, era nient’altro che gestione delle necessità biologiche per la sopravvivenza, oikonomia nel senso di amministrazione della casa, mentre la vita pubblica, che si esercitava in quello che lei definiva come “spazio pubblico”, era la sede deputata al perseguimento dell’eccellenza, e l’eccellenza non è amministrabile, è al di là di qualsiasi amministrazione – en passant, ecco il perché del disprezzo per gli schiavi nell’antica Grecia: essi preferiscono aver salva la vita rinunciando al perseguimento dell’eccellenza, possibile solo per gli uomini liberi, anziché rischiare di perdere la vita nel ricercare quella libertà che è conditio sine qua non per il perseguimento di qualcosa di eccellente, e in quanto tale degno di essere ricordato dalle future generazioni. Successivamente (attraverso uno sviluppo per la Arendt imputabile sostanzialmente al cristianesimo ed al marxismo), la politica ha assunto i caratteri che erano in precedenza della sfera privata, trasformandosi in ciò che la pensatrice tedesca chiama il “sociale”, divenendo così mera amministrazione dell’esistente; ed ecco che scompare dal mondo un luogo deputato al perseguimento dell’eccellenza.

A questo punto possiamo chiederci: perché mai la politica come amministrazione non è in grado di affrontare le questioni essenziali?

In sintesi, per almeno due ordini di motivi, uno generale ed uno particolare.

In generale, perché l’amministrazione delle cose lascia le cose essenzialmente come sono: non inserisce fratture nel divenire, non muta l’ordine stabilito delle cose, essendo anzi essa stessa a definirlo, non permette che si diano deviazioni, anomalie, differenze, anormalità ma le riconduce a sé amministrandole; invece, perseguire un’eccellenza, ovvero mettere al mondo il proprio talento, significa proprio eccedere l’ordine stabilito delle cose.

Nel particolare, perché la specifica forma di amministrazione di oggi è dettata dalla razionalità strumentale, esito di un certo rapporto che intratteniamo con la tecnica. Ovvero, è un’amministrazione informata dal criterio della pura efficienza, dell’efficienza per l’efficienza – che in quanto tale, si badi, è efficienza cieca. Prova ne sia il fatto che i politici si vantano di essere efficienti, ad esempio nell’amministrazione di una città o di un Paese, e criticano chi appare non tale.

Eppure, di un’amministrazione c’è pur sempre bisogno. Infatti, cercando di integrare il discorso della Arendt, si può affermare come anche l’antico spazio pubblico fosse retto da un certo tipo di amministrazione. E allora come si può uscire dalla problematica di un’amministrazione senza la quale non si può stare e che però al tempo stesso tende ad impedire l’eccellenza che si dà nella messa al mondo del proprio talento?

Con un tipo speciale di amministrazione, che sia finalizzata alla creazione di luoghi e tempi, contingenze, propedeutici alla realizzazione del proprio talento. Ma come sviluppare un simile tipo di amministrazione?

Assolutamente non chiedendo, pretendendo o implorando che i politici facciano ciò (e così mi ricongiungo all’inizio di questo breve articolo). La politica si può orientare alla realizzazione di talenti solo se e quando le persone, in primis, vivono il proprio talento. Nel Simposio Platone afferma che tutti gli uomini nascono gravidi ma che solo alcuni riescono a sbloccare la propria gravidanza. Bene, coloro i quali partoriscono il proprio talento non vi riescono certo perché un politico, o chi per lui, lo ha fatto in loro vece. Il parto di qualcosa che è dentro di sé avviene sempre in prima persona, o non avviene affatto. E se ciò avviene su larga scala, la politica si adeguerà a tali circostanze: l’amministrazione amministra quel che trova da amministrare.

Invece che questuare la politica, dunque, ci si dovrebbe dedicare alla coltivazione di se stessi. I problemi che emergono nella politica odierna non sono altro che il frammento terminale di una mancanza ben più originaria: artisti e pensatori che accettano di non essere tali, poeti che non poetano, filosofi che non filosofano…

Ma per riuscire a realizzare ciò per cui si è nati – quindi, tanto per farlo quanto per non illudersi che lo si stia facendo solo perché i risultati sociali possono essere buoni e/o perché si sta facendo qualcosa di eccentrico – l’inaggirabile punto di partenza resta sempre il socratico gnothi seauton, conosci te stesso.

Impresa ardua sempre, soprattutto nell’epoca della dismisura strumentale e mediatica.

Federico Sollazzo

[Immagine: Google Immagini]

Il pop è morto, viva il pop!

“Sarà una sorta di X Factor delle idee”. Così un politico (in questo momento non importa chi, dato che il fenomeno che vorrei ora descrivere è generalizzato e trasversale, essendo un fenomeno storico-sociale, ovvero di civilizzazione) ha di recente definito un evento pubblico che riguardava il suo partito.
Non che sia vietato fare battute per creare un clima leggero e conviviale. Ma il problema è che c’è battuta e battuta, e che i riferimenti a fenomeni della cultura di massa, oggi più che scherzi sono gli unici riferimenti di cui gran parte della popolazione dispone – politici inclusi ovviamente, che più cercano popolarità e più diventano popolari, in tutti i sensi della parola. Infatti, basta provare a chiedere a qualcuno di rendere lo stesso concetto con un riferimento che non sia tratto dalla cultura di massa e il più delle volte questo qualcuno rimarrà senza parole.

Ora, a scanso di equivoci ripeto che non c’è nulla di male nel riferirsi anche a ciò che è pop, ma, appunto, anche, non solo. E aggiungo inoltre che il riferimento al pop non solo non è demoniaco di per sé, ma è anche doveroso per comprendere appieno il tempo in cui ci è dato vivere. Per stare davvero nel mondo, con tutte le sue bellezze e bruttezze. Come disse una volta l’allenatore José Mourinho “chi sa solo di calcio, non sa nulla di calcio”, e il filosofo Elio Matassi con una indovinata sostituzione di termini cambiò la frase in “chi sa solo di filosofia, non sa nulla di filosofia”. Ed ecco un riuscito esempio di come cultura “bassa” e cultura “alta” possano felicemente incrociarsi – d’altra parte esse hanno molto in comune, è tutto quello che c’è nel mezzo che è medio, nel senso di mediocre.
Tuttavia il problema oggi è che, in primo luogo, avere a che fare con il pop non significa avere a che fare con una cultura bassa in quanto priva di riferimenti forbiti ma ricca di saggezza di vita, bensì con quella medietà (Heidegger) di cui sopra, e in secondo luogo, che la relazione che viene istituita con quella medietà pop non è un’analisi critica della stessa, bensì un lasciarsene travolgere, divenendone collusi (tanto più, quanto più si è inconsapevoli di ciò o si ritiene di essere esenti da una simile problematica) e contribuendo così al suo ulteriore dilagare.

Tornando all’inizio, il fenomeno di quella che propongo allora di definire pop-politica, è quindi dovuto al fatto che viviamo nell’epoca della pop-cultura.
A proposito di quest’ultima, la pop-cultura, oggi si sente dire spesso che portare almeno una briciola di alta cultura in un contesto pop (ad esempio un reality show o un social network) è un primo passo per migliorare quel contesto e così tutti quelli che vi entrano in contatto. Ma è veramente così semplice e lineare la cosa?

McLuhan ha sostenuto che “il medium è il messaggio”, volendo intendere che il significato di un qualcosa non è nella qualità di ciò che viene detto ma nelle circostanze in cui viene detto. Le circostanze, cioè, determinano il significato. Similmente a quanto, per altre vie, riscontravano Camus e Pasolini a proposito dell’influenza delle circostanze ambientali sulla vita (in primis, la natura, per il francese, e una certa urbanizzazione, quella borghese, per l’italiano). In altre parole, il significato non è nel detto ma, al contrario, nel non detto, ovvero nelle condizioni che permettono e supportano il dire, senza a loro volta essere dette, bensì percepite. Si può quindi affermare che il significato non si manifesta dicendolo, cosa impossibile, ma percependolo.
Bene, se questo è vero, allora possiamo introdurre in un contesto pop anche Platone in persona, ma quello che ne risulterà non sarà un’elevazione di quel contesto ma, esattamente al contrario, l’assorbimento di un qualcosa di valore all’interno del reame dell’insignificanza, o meglio, della banalità, della mediocrità, della medietà.

Ecco perché non si può fare cultura sempre e ovunque. Ecco perché per dedicarsi alla cultura servono tempi, luoghi, circostanze adatte. Ecco perché, di riflesso, esistono circostanze che non sono semplicemente non-culturali, ma assolutamente anti-culturali.
Ma attenzione alle generalizzazioni. Questo non significa che allora sia sempre da evitare lo stare in un contesto pop (anche il sottoscritto usa, almeno al momento, i social). Ma bisogna starci cum grano salis. Ovvero, dismettendo l’autoinganno a proposito del fatto che sia possibile portare e fare cultura in un contesto anti-culturale – prospettiva, per altro, autoritaria (pastorale nel senso foucaultiano), di chi ritiene di portare un valore al quale il prossimo dovrebbe conformarsi e ringraziare per il lume portatogli –, accettando il dazio di esserne assorbiti per cercare di comprenderlo e, se si è fortunati, trovare dei compagni di sventura. Ovviamente, il tutto fino al limite che la nostra sensibilità personale sopporta (che ultimamente mi sembra si stia adeguando a tutto), quel limite che ci fa dire: oltre quella soglia, no.

Federico Sollazzo

[Immagine: Google Immagini]

Gli uomini del fare

Politici (di tutti gli schieramenti) e opinione (sempre più) comune, concordano: con la cultura non si mangia, leggere non serve a niente, meglio laurearsi presto anche se male anziché tardi anche se bene (o forse non laurearsi affatto, tanto oggi per trovare un posto, che so, da ministro, basta saper usare i social), ecc., e ogni qualvolta che qualcuno se ne esce con qualche esternazione del genere, ne consegue un profluvio di articoli e commenti indignati, un coro in difesa della cultura, e la cosa si riduce così ad uno scontro binario fra guelfi e ghibellini.

Come piccola e ovvia premessa, va da sé che quando gli uomini del fare criticano il sapere, si riferiscono alla cultura, quindi al sapere umanistico, e certamente non al sapere tecnico, pratico, operativo, quello delle scienze applicate (le scienze “pure” sono tollerate solo perché servono per arrivare a quelle applicate), quello del know-how, che è già una forma di fare. È (dovrebbe essere) infatti ormai chiaro anche ai sassi che è in corso una risignificazione di termini, e delle relative pratiche, quali sapere, conoscenza, istruzione, educazione, facendoli coincidere con l’acquisizione di competenze dettate dalle esigenze del mercato (a loro volta, dettate dalle esigenze della tecnica, ma qui il discorso diventa lungo). Scuole e università si trasformano così in nuovi centri di avviamento al lavoro, che differiscono da quelli del passato solo per l’iperspecializzazione dei nuovi operai che producono – sarebbero queste la “Buona Scuola” e la “Buona Università”? E la cultura – en passant, una cultura alla quale ormai non prepara più nessuno, se scuole e università sono impegnate solo nella produzione di futura manodopera – è tollerata al massimo come ornamento del fare, come divertissement nelle pause del fare. Ora, so che è utopistico e obsoleto pensare oggi che dovrebbe essere il lavoro ad essere subordinato ai princìpi della cultura, ma sarebbe già un risultato (oggi impossibile, lo so) se almeno la si smettesse di ritenere che dovrebbe essere la seconda a sottomettersi al primo.

Ad ogni modo, in queste brevi righe, per quanto mi senta distante anni luce dagli “uomini del fare”, non voglio però unirmi al coro degli “uomini del sapere”. Innanzitutto per una mia personale allergia all’appartenenza ad un qualsiasi schieramento, ma soprattutto perché mi sembra che la cosa sia ormai alquanto inutile (o forse utile solo per alimentare il circo mediatico e quindi, appunto, inutile). Vorrei invece qui prendere seriamente in considerazione il punto di vista degli uomini del fare, ammettere che possano aver ragione e vedere che cosa deriverebbe da un’applicazione sociale di questa ragione.

Quindi, gli uomini del sapere pensano, cosa inutile perché equivale a fare niente, mentre gli uomini del fare fanno, ovvero fanno il mondo. È per questo che gli uomini del fare supportano, e sopportano, gli uomini del pensare. Bene, ma nel loro fare, gli uomini del fare, che cosa fanno? Indipendentemente dalla cosa specifica che fanno, il punto è che fanno sempre la stessa cosa. Per fare qualcosa di diverso, infatti, bisogna saper iniziare qualcosa di nuovo, ma per mettere al mondo un nuovo inizio bisogna prima pensarlo – non a caso la Arendt pensava che l’iniziare qualcosa di nuovo fosse la cifra dello stare al mondo.

Un esempio elementare (accessibile così anche agli uomini del fare). Oggi si parla tanto del passaggio dalle energie non rinnovabili a quelle rinnovabili. Benché il passaggio dalle une alle altre, in termini teoretici, sia un piccolo passo, è però pur sempre un nuovo inizio, un incominciare, la messa al mondo di una nuova possibilità, una differenza, uno scarto rispetto a ciò che vi era, che si faceva, prima. Insomma, è un pensiero. Invece, semplicemente seguendo il fare, si continuerebbe a fare, sempre nella stessa maniera, fino all’inevitabile esaurimento per consumazione di quello che si fa. Si moltiplichi questo esempio banale su scale di eventi più raffinati, e si vedrà la differenza tra l’autismo mortifero del fare e l’apertura vitalizzante del pensare.

Il fare quindi non può che rifare sempre la stessa cosa, poiché per introdurvi uno scarto qualitativo servirebbe il pensare, fino a consumarla del tutto, tanto idealmente quanto materialisticamente. Il fare, senza il pensare, senza la cultura, è destinato e destina all’estinzione.

E allora, esattamente al contrario di quel che dice il mantra della vulgata del fare, sono gli uomini del sapere, inteso come cultura e come pensare, a supportare (e sopportare?) gli uomini del fare. E se, come sembriamo ben avviati, prima o poi arriveremo all’autoestinzione, da non intendersi necessariamente solo come una possibilità fisica, un attimo prima guardiamoci intorno per vedere quanti uomini del fare e del sapere ci sono, e quindi la presenza di quale dei due sta portando tutti e tutto verso la fine.

Federico Sollazzo

[Immagine: Google Immagini]

Siamo tutti universalisti, con noi stessi

Uno dei fenomeni sociali più importanti, se non il più importante, con cui ci confrontiamo oggi e che le prossime generazioni studieranno sui libri di storia, è quello delle migrazioni di massa. È un tema estremamente complesso da affrontare e sul quale esiste una nutrita bibliografia internazionale; a tal proposito si potrebbe iniziare ad approcciarlo tramite il libro di J. Carens, Ethics of Immigration, 2013, già un classico in materia, o quello di E. Greblo, Etica dell’immigrazione, 2015, densa introduzione al dibattito internazionale.

Non è mia intenzione in questa sede riassumere i termini del tema e del dibattito intorno ad esso, per farlo anche solo maniera sintetica occorrerebbe molto spazio. Vorrei invece proporre qui delle considerazioni che si possono intendere come preliminari, un modo per rimuovere dal tema stesso possibili fraintendimenti che lo falserebbero in partenza, e che si sentono con una certa frequenza nei discorsi politici. La convinzione di chi scrive è che solo nelle interazioni, negli “inquinamenti” interculturali vi sia un potenziale arricchimento e progresso umano (insomma, così come la saggezza popolare sa, ci sarà pure un motivo se i cani meticci sono sempre più svegli di quelli di “razza pura”). Certamente queste interazioni culturali necessitano di una supervisione, che non sia però finalizzata a limitarle ma a permetterle in maniera ragionevole. Passiamo allora in rassegna, in maniera sintetica e schematizzandoli in 4 tipologie, i più popolari motivi immotivati della paura del meticciato e dell’apertura alla diversità, in base ai quali si predicano e attuano politiche di chiusura, più o meno netta, dei confini statali.

I. Ci si deve chiudere per questioni di sicurezza interna.
I, a. Innanzi tutto, generalizzare criminalizzando gruppi a priori anziché individuare singoli responsabili a posteriori è un po’ come dire che poiché in Italia (o in qualsiasi altro Paese) ci sono criminali allora tutti gli italiani sono preventivamente criminali potenziali, e sta a loro l’onere della prova di dimostrare il contrario. Inoltre, il modo migliore per superare criminalità e terrorismo, non è con stereotipi razzisti di criminalizzazioni di gruppi e con bunkerizzazioni, ma attraverso l’integrazione che, sia chiaro, non è quella cosa che dice “ti accolgo ma fai quello che dico io”, quello è dominio, ma è una guida consapevole dell’ineludibile cambiamento reciproco, di tutto e tutti, ossia del divenire. In altre parole, lo scontro di civiltà esiste solo se e quando qualcuno pensa che esista.

II. Va difesa l’economia e il welfare locale.
II, a. A parte il fatto che una simile affermazione può essere pronunciata solo da uno Stato, o una comunità, che abbia già fatto tutto quanto è in suo potere fare per alleviare le sofferenze dei bisognosi, nativi o meno che siano, fino al limite del collasso del proprio welfare, altrimenti non sarebbe (come di fatto spesso non è) un’affermazione credibile, ci sono almeno due considerazioni da fare su questo punto. Primo, si può benissimo immaginare un sistema di accesso progressivo al welfare, proporzionale al contributo dato dall’individuo. Secondo, e soprattutto, se il welfare è uno strumento di giustizia sociale, per chi è allora la giustizia se non per i più deboli, i più poveri, i più disperati? Se il welfare si riduce ad un servizio in cambio di un contributo non è una faccenda di giustizia ma un bene di commercio e/o un privilegio.

III. Vanno tutelati in primis i propri connazionali.
III, a. A parte l’immediato problema pratico che si pone, ossia come fare con i connazionali all’estero, sottoposti ad un’altra sovranità, il punto cruciale è qui il seguente.

Viviamo in un’epoca che ha codificato i cosiddetti diritti umani, la cui esistenza è ormai accettata da tutti, intendendoli come universali. Eppure, quando si deve passare dalle formule alle azioni, l’accesso a questi diritti (per inciso, formalizzare un diritto senza garantirne l’accesso significa di fatto negarlo) è riservato agli appartenenti a specifici club (tribù?) e quello che oggi va populisticamente per la maggiore è quello dei connazionali; i diritti umani sono così (ancora) legati alla cittadinanza, il possesso di un passaporto “che conta” è quindi un privilegio, e quella sedicente universalità si trasforma in particolarismo. Si svela così anche lo scomodo sottointeso dell’origine, della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, infatti, così come scritto da L. Ferrajoli, quando «i rivoluzionari dell’89 parlavano di hommes pensavano evidentemente ai citoyens francesi e declamavano i diritti fondamentali come droits de l’homme anziché come droits du citoyen per conferire a essi, a parole, una più solenne universalità»; lo stesso autore nello stesso libro (Dai diritti del cittadino ai diritti della persona) afferma come questo imbarazzante non detto che persiste a tutt’oggi possa essere superato solo trasformando «in diritti della persona i due soli diritti di libertà oggi riservati ai cittadini: il diritto di residenza e il diritto di circolazione nei nostri privilegiati paesi». Insomma, predicare l’universalità dei diritti rendendoli però disponibili solo per alcuni, è ipocrisia e frode.
E allora, delle due l’una. O si dichiara esplicitamente che l’autodeterminazione (della quale i diritti umani dovrebbero essere la chiave) non è cosa per tutti ma solo per alcuni, e quindi si rifiuta l’universalismo dei diritti umani e dell’egalitarismo e il cosmopolitismo, e conseguentemente si dice a chi, e perché, l’autodeterminazione va concessa e a chi, e perché, no. Oppure, si ammette una possibile limitazione all’universalismo dei diritti umani solo come ultima ratio, ma intendendo sempre tale limitazione come un fallimento per tutti che deve quindi essere superato il più velocemente e il più radicalmente possibile. Il che non significa che un soggetto (ad es. un individuo o uno Stato) debba necessariamente andare a portare i diritti umani in giro per il mondo (quante strumentalizzazioni abbiamo già visto in tal senso), ma che debba operare per garantirli a chi viene a bussare alla sua porta. E in un’ottica universalistica solo un soggetto globale può assolvere questo compito. Esempi di soggetti del genere già esistono, dalla UE all’ONU, e il fatto che siano ampiamente perfettibili non significa che debbano essere abbandonati ma, appunto, perfezionati.

IV. Va difesa la propria identità, specificità culturale.
IV, a. A codificare in cosa consista tale identità culturale è sempre un potere, pertanto difendere quell’identità significa in realtà difendere il potere che la pone; si badi inoltre che il potere può difendere se stesso non solo vietando l’ingresso sul suo territorio a chi identifica come minaccia, ma anche espellendo le minacce dal suo territorio. Quindi, indipendentemente dalla provenienza, solo chi farà parte di un certo discorso culturale istituito da un certo potere sarà accettato.
Si potrebbe qui forse ammettere che gli Stati che più si adoperano per garantire condizioni di vita dignitose ovunque nel mondo siano quelli più legittimati a potersi chiudere. E tuttavia, da una parte, anche quando cose del genere avvengono, si riducono a mere operazioni di facciata che non cambiano l’andamento delle cose, dall’altra, e soprattutto, anche qualora tutto questo avvenisse in maniera seria, non spiegherebbe né perché il diritto di avere una vita dignitosa da parte di chi nasce nel Paese X dovrebbe essere superiore a quello di cercare una vita migliore per chi nasce nel Paese Y, né perché, anche a parità di condizioni di vita tra i Paesi X e Y, a qualcuno dovrebbe essere impedito di andare a respirare l’aria che più gli piace. In questi termini, l’unico modo per decidere su ciò diventa la violenza, quella della spada così come quella della Legge.

Ma c’è soprattutto una ragione, filosofica, per cui la difesa dell’identità culturale ha lo stesso spessore intellettuale di una barzelletta: il divenire. I paladini dell’identità culturale pensano di vivere in una dimensione culturale uguale a quella del passato o del futuro? O ritengono di vivere alla fine della storia? Vivendo (e addirittura anche morendo) non si può non divenire. Quando A incontra B, il che avviene ad ogni istante su diverse scale, non ne deriva una loro mera somma aritmetica o il primato dell’uno sull’altro, ne deriva C. Il punto non è quindi arrestare il divenire, pretesa teoreticamente assurda e, per fortuna, praticamente irrealizzabile, ma guidarlo in forme che ci sembrino ragionevoli, altrimenti se ne viene semplicemente travolti, senza neanche capire da cosa.

Federico Sollazzo

[Immagine realizzata dall’autore]