Metafisica dei soprammobili

Quante volte, da bambina, ho dovuto sopportare le richieste di mia madre implorante di aiutarla a spolverare casa. Non sopportavo farlo e probabilmente cercavo mille scuse pur di evadere da quella noiosa e scocciante attività. Avrei voluto far sparire tutti i centrini, già démodé negli anni Novanta e dei quali mai azzeccavo il giusto verso; e avrei voluto restituire ai proprietari le inutili bomboniere che guai a farne cadere o rovinarne una!

Eppure, a distanza di anni, eccomi a mia volta a collezionare (e addirittura a costruire home-made) altrettanti soprammobili inutili. Laddove da bambina non vedevo altro che scatoline devote alla polvere senza ragion d’essere se non quella di disturbare la quiete del mio giovedì pomeriggio (giorno appunto delle pulizie settimanali in casa dei miei e, pensate, invariato tutt’ora), ad oggi quel genere di cianfrusaglie contribuisce a far sì che io possa chiamare casa lo spazio che mi trovo ad abitare.

Metafisica dei soprammobili, insomma. Il che consiste nell’andare oltre la loro apparente inutilità, e oltre la loro funzione estetica e di arredamento, per ricordarne o attribuirne ex novo un significato più profondo. Ogni oggetto corrisponde infatti al ricordo di una persona o di un particolare momento del nostro passato. È cosi che un vasetto di vetro decorato corre veloce agli anni delle elementari, una tazza ricorda la gita scolastica in Inghilterra e un contenitore di latta conserva i sottobicchieri di alcune serate speciali. Ogni soprammobile trasmette sensazioni per lo più positive, racchiude il nostro percorso e di conseguenza ci permette di affrontare con il giusto piede anche il presente.

Che siate accumulatori seriali o minimalisti, vi lancerei una sfida, anzi due. In primis sarei curiosa di sapere quale sia l’oggetto più strampalato che conservate sopra una delle mensole di casa e che non riuscite a buttare in quanto carico di significati. In secondo luogo vorrei sapere se invece qualcuno tra i lettori è in grado di alzare la mano e di distinguersi come l’ “A-soprammobiliato”, individuo sprovvisto di soprammobili, essere a mio avviso dal DNA tutto da studiare.

È indubbio che talvolta sarebbe utile sapersi liberare di qualche oggettino, soprattutto se gli spazi di casa sono ridotti. Esistono delle vere e proprie terapie per affievolire la cosiddetta disposofobia, ovvero quella tendenza ad accumulare oggetti senza criterio. Per ovviare a ciò potremmo dire che la nostra chiave sta nel punto di vista della metafisica, ovvero nel saper conservare solo quanto merita la nostra attenzione e di conseguenza il nostro trattamento speciale.

Un altro spunto di riflessione proviene invece dalla cultura buddhista. Famosissimi sono i mandala, disegni creati con sabbie colorate attraverso un processo che può durare ore, bellissimi da ammirare e usati per la meditazione. Una volta terminato il momento di preghiera, i mandala vengono distrutti per ricordare il destino perituro delle cose materiali; un’usanza che fatichiamo a capire, in quanto vorremmo poter apprezzare più a lungo le loro geometrie e i loro colori. Ma dal punto di vista delle culture orientali, conservare i mandala significherebbe voler possedere ciò che per natura non può appartenerci.

Probabilmente la possibilità oltreché la volontà di conservare i nostri affezionati soprammobili hanno a che fare con lo stile di vita occidentale, con il nostro concetto di proprietà privata e con il nostro considerare la casa che abitiamo come uno dei beni di maggior valore dei quali possiamo disporre, in quanto sinonimo di indipendenza e sicurezza. Inoltre, il non volerci liberare di tutti quegli ornamenti che tanto la riempiono in virtù dei loro richiami metafisici, non è altro che l’ennesima riprova del nostro instancabile desiderio di aggrapparci alla vita materiale e terrena, l’unica dimensione che siamo in grado di esperire e della quale vogliamo godere appieno.

 

Federica Bonisiol

 

[Immagine tratta da Pexels.com]

banner riviste 2022 ott

Una citazione per voi: homo homini lupus di Hobbes

 

• HOMO HOMINI LUPUS •

 

Homo homini lupus è un’espressione latina attribuita al commediografo Plauto e diventata, in età moderna, uno dei pilastri del pensiero etico, giuridico e politico del filosofo britannico Thomas Hobbes (1588-1679). Letteralmente sta a significare che l’uomo è un lupo per il suo simile: nel corso della sua vita, infatti, ciascun uomo non mancherà di ostacolare e prevaricare l’altro da sé, volendo trarre da esso il massimo del vantaggio.

L’analisi antropologica condotta da Hobbes sa essere disarmante, in quanto egli tratteggia i limiti e le debolezze della natura umana con una lucidità che potremmo definire cruda e tagliente. La lettura di Hobbes è sempre stata per me un’esperienza di vita, un modo per riflettere sulle peculiarità della nostra specie e sui rapporti che instauriamo nel corso della nostra esistenza. Hobbes scrive dell’uomo, per l’uomo, da uomo: parla di noi, per noi, come uno di noi. Impossibile dunque non rimanere affascinati dall’obiettività della sua antropologia, presentata per l’appunto con un linguaggio accessibile, elemento da non sottovalutare in materia filosofica!

Nello stato di natura, ovvero in quella particolare situazione che precede l’istituzione di qualsiasi tipo di forma giuridica, ciascun individuo è del tutto uguale ai suoi simili. Va da sé che, se i diritti di cui tutti gli uomini godono si rispecchiano integralmente, e se vi è una totale assenza di leggi, i rapporti tra individui non saranno affatto volti all’amicizia reciproca. Homo homini lupus, per l’appunto, in quanto le forze che alimenteranno i vari rapporti sociali saranno antagonismo, violenza e volontà di sopraffare l’altro.

Hobbes scriveva nel Seicento, ma siamo davvero in grado di smentire, al giorno d’oggi, la sua visione dell’uomo e della vita comunitaria? È sufficiente guardarci attorno e riflettere su alcuni valori propagandati nel complesso dalla comunità mondiale di cui facciamo parte per intuire come antagonismo, violenza e prevaricazione non siano affatto concetti estranei al terzo millennio. Lungi da me il condannare il successo, il benessere economico o la fama, a patto che non li si abbiano raggiunti giocando la parte del lupo. Bisognerebbe davvero rispolverare alcune pagine di Hobbes, per esempio per ripartire dall’uguaglianza di cui tanto ha scritto, per affievolire le discriminazioni e per toglierci di dosso la veste del leone da tastiera. Oppure per fare memoria della vera finalità delle istituzioni politiche, ovvero la realizzazione di una comunità pacifica che consenta lo sviluppo di ogni suo individuo. Ne trarremo sicuramente molti vantaggi!

 

Federica Bonisiol

 

nuova-copertina-abbonamento-2020

“Ma tu sei arrivato con il barcone?”

Nessuno avrebbe il fegato per porla; nessuno avrebbe la faccia tosta per pronunciare davvero quelle parole. Eppure, ad un certo punto, quella domanda squarcia (sì, squarcia, letteralmente) l’aria. “Ma tu sei arrivato con il barcone?”. E dopo un breve, addirittura troppo breve, momento di silenzio (perché in fin dei conti non richiede mica pause di riflessione una domanda del genere: o è si o è no) segue la risposta di Malick… affermativa.

A pronunciare la fatidica ma pur sempre legittima domanda, un bambino. Già, perché un bambino non si chiede, e in effetti non si deve chiedere se una domanda sia lecita o meno; non si chiede se una parola di troppo può essere inopportuna. Un bambino chiede e basta, come è giusto che sia. La sua curiosità è del tutto naturale, spontanea, innocente e per tale motivo esige di essere soddisfatta.

I bambini lo vedono alla tivù che alcuni uomini color cioccolato attraversano il mare e, qualche volta, arrivano in Italia con un barcone o con dei gommoni di fortuna. Lo vedono sul maxischermo rettangolare del salotto di casa, per loro è qualcosa di oggettivo, sanno che succede; ma sebbene siano molto più svegli di quanto molti adulti possano pensare, forse non riescono a percepire la portata del fenomeno. Alcuni di loro, senza dubbio, si porranno qualche domanda da grande: “Sarà brutto, sarà bello, sarà buono quel viaggio per mare?”. Ma ciò che conta per loro, alla fine, è la praticità dei fatti: tu quel barcone l’hai preso o no? E che c’è di male nel chiederlo?

Un modo di pensare e agire opposto a quello di noi adulti, che probabilmente riflettiamo di più e cerchiamo di ponderare al meglio le nostre parole, ma che di conseguenza abbiamo finito per accantonare quella spontaneità tipica dell’infanzia, rischiando di cristallizzare lo specchio delle nostre emozioni. Nascosti dietro ai sospetti, alle preoccupazioni e alle incertezze, mettiamo in gabbia la nostra capacità di provare ogni giorno quelle sensazioni che ci farebbero vivere più serenamente, e più vicini gli uni agli altri.

Perché quella domanda avremmo voluto farla anche noi, perché anche noi vogliamo conoscere e capire; ma per fortuna c’era Leonardo, nove anni, che la mano l’ha alzata subito, e senza nessun timore.

Avremmo voluto sapere la risposta a quella domanda per cercare di conoscere un po’ di più la persona che avevamo di fronte, per intuire dal suo modo di rispondere qualcosa di più del suo vissuto. Così come vorremo delle risposte a molti altri interrogativi che la nostra mente formula, ma che la nostra voce non sempre riesce ad esternare. Eppure domandare è così facile: non prende molto tempo e non costa fatica. Il difficile viene poi, ed è l’ascoltare; il mettersi a disposizione dell’altro e il lasciarsi andare alle sue parole. Il lasciarsi andare che è lasciarsi influenzare. Perché ascoltare equivale talvolta a prendere in considerazione un nuovo e diverso punto di vista. E questo difficilmente noi lo vogliamo fare.

 

Federica Bonisiol

 

[Immagine di Adolfo Felix da Unsplash]

banner 2019

Prendi una mamma e aggiungi un po’ di filosofia. Intervista a Vittoria Baruffaldi

Donna, filosofa, madre, insegnante. Quattro identificazioni che offrono le linee guida per iniziare a conoscere Vittoria Baruffaldi. Nella vita, Vittoria insegna filosofia e storia ai ragazzi del liceo e suggerisce a se stessa di fare la mamma con filosofia. Queste ultime le parole che fanno da sottotitolo al suo libro, Esercizi di meraviglia 1, un testo che dimostra il profondo legame che esiste tra quotidianità e filosofia (punto di partenza e al contempo obiettivo del nostro stesso progetto editoriale). La realtà che trapela dalle pagine del libro della Baruffaldi è la realtà quotidiana di una mamma come tutte le altre. Solo, con un pizzico di filosofia in più, la quale fa da insaporitore alle piccole-grandi osservazioni e riflessioni di ogni giorno. In questo modo, nelle pagine scritte dalla Baruffaldi, Socrate insegna alle lettrici a non usare troppo dogmatismo nei confronti dei figli; la lezione del Tractatus Logico-Philosophicus di Wittgenstein offre spunti interessanti per un approccio con le prime paroline proferite dai nostri bambini; le massime eleatiche 2 fungono da interpretazione dell’egocentrismo che i bambini sviluppano attorno ai due anni; e via così dicendo. Se questi accostamenti vi incuriosiscono, vi suggeriamo la lettura del testo, e nel frattempo vi offriamo questa breve intervista all’autrice. Buona lettura!

 

Parliamo del suo libro, Esercizi di meraviglia. In questo testo lei propone una riflessione eminentemente filosofica riguardo i vari momenti che caratterizzano la vita di una donna che sta per diventare, o è diventata, madre: dall’attesa e dalle speranze tipiche della gravidanza alle gioie e alle preoccupazioni proprie dell’infanzia dei figli. Com’è nata, dunque, l’idea di accostare alcune pagine di storia della filosofia alla sua quotidianità di donna e di mamma?

esercizi-di-meraviglia-vittoria-baruffaldi-la-chiave-di-sophiaEsercizi di meraviglia è la storia di una madre e un bambino che si fanno delle domande, e provano a illuminare il senso del loro rapporto, e delle cose che accadono intorno a loro. Il bambino si meraviglia di fronte al mondo, e la madre prova a re-imparare a meravigliarsi insieme a lui, e così dà un nome nuovo alle cose, persino a se stessa. Il tratto d’unione tra la filosofia e l’essere madre è proprio la meraviglia, quel primo passo, verso le domande, i capovolgimenti, le possibilità.

La nostra società è fortemente intrisa, forse più che in passato, di stereotipi e pregiudizi, non sempre valicabili. A questo proposito vorrei chiederle: che significato ha per lei il concetto di maternità? Crede si possa andare oltre alla costruzione prettamente culturale di questo concetto?

Quello che mi interessava era proprio parlare della maternità dal punto di vista del “pensiero”. La filosofia non è un farmaco: fornisce chiavi di lettura, pone domande, sconvolge credenze cristallizzate. È una possibilità per trovare noi stessi, insomma, e abbandonare stereotipi e modelli imposti (che sulle mamme abbondano da ogni fonte). È una possibilità per essere la madre che si è, una madre complessa, fluida, in fieri.

Potremmo dire che il suo percorso di studio e di vita (da studentessa ad insegnante di filosofia) ha condizionato il suo essere madre e la sua personale riflessione riguardo questo suo nuovo “ruolo sociale”. Capovolgendo la prospettiva, ritiene che la maternità abbia altrettanto condizionato il suo modo di guardare la filosofia?

Fare la mamma con filosofia è l’opposto di fare la mamma che “la prende con filosofia”. La prima è colei che si complica la vita, a suon di domande, dubbi e capovolgimenti. Vantaggi? Imparare a sbagliare, capire; diventare la madre che si sceglie di essere. La maternità non ha cambiato il mio modo di guardare la filosofia, forse solo un maggiore interesse per il pensiero femminile, per una filosofia ben piantata dentro l’esistenza. Prediligo le strutture frammentarie, le “piccole illuminazioni”.

Solitamente questa è l’ultima domanda che rivolgiamo ai nostri interlocutori, ma con lei mi permetto di anticiparla. Che cos’è “filosofia”, che cosa ha rappresentato e cosa significa per lei ora?

Una grande passione, sin dai tempi del liceo. Un modo d’illuminare l’esistenza quotidiana, senza alcuna pretesa di riduzione a una qualche verità. Avere il coraggio di pensare – dare voce agli interrogativi che tutti ci poniamo prima o poi –, stare presso di sé e uscire fuori da sé.

Veniamo ora al suo lavoro: lei è professoressa di filosofia e storia al liceo. L’insegnamento è per lei una passione o in passato si prospettava una diversa posizione professionale?

È il mestiere che volevo fare e che mi piace fare: dopo dodici anni entro ancora in classe sorridendo. Le materie che insegno esercitano un grande fascino sugli studenti.

A proposito degli studenti, lei lavora con gli adolescenti, ragazzi al contempo fragili e determinati. Tornando con la mente a quando io stessa ero studentessa della scuola superiore, mi rendo conto che instaurare un dialogo proficuo con i ragazzi di questa fascia d’età non sia affatto semplice. Considerando il fatto che l’insegnante in questione è chiamato a parlare di storia e filosofia, materie che al giorno d’oggi sembrano collocarsi agli antipodi degli interessi dei giovani, la questione si complica. Che osservazioni ci propone a questo proposito?

Io ho una visione molto positiva dei ragazzi d’oggi: li trovo curiosi, intuitivi. Personalmente li vedo coinvolti dalle mie materie, soprattutto dalla filosofia, che dà loro gli strumenti per comprendere l’architettura, la complessità – anche di informazioni – in cui vivono. Per essere buoni insegnanti bisogna aggiornarsi, usare le tecnologie didattiche in maniera sensata, saper facilitare i processi d’apprendimento in maniera attiva. È necessario essere flessibili e creativi anche nell’insegnamento, essere in grado di adattare quest’ultimo a seconda degli studenti (si creano alchimie differenti di classe in classe, da alunno a alunno) e agganciare ciò che si spiega con la loro contemporaneità. Bene, oggi ti spiego la Fenomenologia dello spirito di Hegel, ma ti spiego anche perché è importante, a cosa ti può servire, come si lega col tuo vissuto. Oppure parto da cose relative al senso comune per mostrar loro come si possa fare filosofia anche attraverso la vita.

Facciamo infine un passo indietro al periodo dell’infanzia. Sulla spinta delle influenze provenienti per lo più da altri paesi europei, anche l’Italia, negli ultimi anni, ha iniziato ad abbracciare la causa della filosofia applicata ad attività e laboratori rivolti ai bambini. Alla luce della sua esperienza di “mamma-filosofa”, cosa pensa del binomio filosofia-infanzia? Nel suo piccolo ha provato a giocare con la filosofia assieme alla sua bambina?

Ho avuto dei contatti con ragazzi e ragazze che si occupano di P4C: mi piace l’idea della filosofia come scoperta formativa, e spero che mia figlia possa partecipare a uno di questi laboratori. Per ora mia figlia va all’asilo, impara con naturalezza e gioca. Quando la vado a prendere le chiedo: ti sei divertita? “Sì”, mi risponde, e questo mi basta. A casa mi vede spesso leggere e scrivere, e quindi gioca a leggere e scrivere. Le racconto miti platonici rivisitati e storielle ambientate ai tempi di Napoleone. Le do quello che conosco. “Ti diverti?” le chiedo, e mi risponde: “Sì”. Per ora mi basta questo.

 

Federica Bonisiol

 

NOTE:
1. Vittoria Baruffaldi, Esercizi di meraviglia. Fare la mamma con filosofia, Giulio Einaudi Editore, Torino 2016
2. L’essere è e non può non essere. Il non essere non è e non può essere. (Parmenide, Poema Sulla natura)

 

banner2-pubblicita-rivista2_la-chiave-di-sophia

Le parole chiave dell’Adunata degli Alpini

Città di Treviso, un caldo fine settimana di maggio, strade chiuse al traffico, più di 500 mila persone disseminate nelle vie del centro storico, tricolori ovunque. È il week end dell’Adunata Nazionale degli Alpini.

Un appuntamento giunto alla sua novantesima edizione, che per tre giorni ha cristallizzato la città facendo vivere la sua gente in un’atmosfera sospesa dalla solitaria e frenetica routine che caratterizza i nostri tempi. Un evento particolarmente sentito dalla popolazione, che ha risposto all’iniziativa con una partecipazione decisamente numerosa. Una manifestazione che mi ha sorpresa e affascinata, e che vorrei raccontare attraverso tre parole chiave; quelle tre caratteristiche che più mi hanno colpita e che mi hanno aiutata a capire il senso profondo di questa adunata.

Convivialità. Il clima di profonda festa e di profonda convivialità che faceva da tela alla manifestazione lo si poteva esperire appieno già a partire dal viaggio in autobus, indubbiamente il mezzo più agevole per raggiungere la città. Durante i tre giorni dell’adunata, gli autobus sono stati sovraccarichi di persone che molto probabilmente ne facevano uso per la prima volta; persone che non esitavano a scambiarsi informazioni sulla manifestazione; persone che, a differenza dei consueti passeggeri settimanali, condividevano i minuti del tragitto chiacchierando tra loro. E persone che si riunivano ad ascoltare i racconti di qualche passeggero dall’inconfondibile cappello con la piuma nera. Ebbene sì, onnipresenti nel territorio trevigiano, gli alpini non mancavano mai all’appello di narrare le loro esperienze più importanti. Impossibile relegarli al silenzio con timidezza: gli alpini volevano e dovevano parlare al loro pubblico. Hanno partecipato all’Adunata così numerosi per noi, e noi, se volevamo assistervi con autenticità, dovevamo saperci disporre all’ascolto, accettando con disponibilità e simpatia il pacchetto all-inclusive.

Ordine. Il senso dell’ordine e della disciplina caratteristico dei valori degli alpini, come si può ben immaginare, ha trovato la sua massima espressione nella sfilata domenicale. Sono stati 80mila gli alpini che vi hanno preso parte, provenienti da ogni parte d’Italia, e in alcuni casi anche dall’estero. Impossibile non sentirsi coinvolti dai sorrisi e dall’entusiasmo di quell’ordinato scorrere di uomini (e di donne: presenti, sebbene in minoranza) che procedevano a passo di marcia, trainati dalle musiche di bande e fanfare. La maestosa compostezza del corteo rispecchiava la geometria delle camicie a quadri, che tanto hanno riempito gli occhi degli spettatori. Un fiume che ha sfilato per tutta la giornata in città, sembrando una cosa sola, tanto era forte l’unione che lo disciplinava. Valori, quelli dell’ordine e della coesione, che al giorno d’oggi risultano in molti casi superati, complice la nostra volontà di essere padroni di noi stessi senza freni inibitori e senza la disponibilità ad accettare consigli o puntualizzazioni da quanti ci stanno attorno.

Forza d’animo. Considerato il sole cocente di questo fortunato fine settimana di primavera inoltrata, la presenza di alpini di una certa età non era affatto scontata. Eppure c’erano, ritti e fieri, malgrado le rughe sul volto, i capelli bianchi, la schiena ricurva e le gambe stanche. D’altra parte, la forza d’animo e la forza di sopportazione del sacrificio che hanno temprato le scorse generazioni non trovano di certo ostacolo in qualche chilometro da percorrere a piedi. Le maniche di camicia rimboccate per loro non sono un semplice modo di dire; sono piuttosto il naturale atteggiamento nei confronti della vita e delle sue avversità. Anche in questo caso, dovremmo essere capaci di prendere esempio da quanto è stato in passato: dovremmo farci forza, imparare a sopportare, imparare a ricucire e ricostruire. Dovremmo limitare la predisposizione all’usa-e-getta che ci è stata imposta dalla contemporaneità, la quale finisce inevitabilmente per influenzare anche le nostre relazioni e il nostro rapporto con gli oggetti di cui usufruiamo.

Ciò che è accaduto in passato non legittima quanto avviene nel presente; la quotidianità deve essere in grado di autolegittimarsi, di trovare in se stessa le sue ragion d’essere. Storia e memoria non vanno confuse; ma è altrettanto vero che la storia ha bisogno di essere tramandata e di far conoscere ai posteri i valori che l’hanno plasmata. «Se dal presente non viene alcuna sollecitazione a mantenere vivo il rapporto con il passato subentra negli individui e nei gruppi quella forma particolare della memoria che è l’oblio»1. E dimenticare, in storia, è tutto fuorché un atteggiamento morale.

Federica Bonisiol

NOTE:

1. Bruno Cartosio, Parole scritte e parlate. Intrecci di storia e memoria nelle identità del Novecento, Società di mutuo soccorso Ernesto de Martino, Venezia 2016, pag. 57

 

banner2-pubblicita-rivista2_la-chiave-di-sophia

La rischiosa esigenza del Fantastico

Che cos’è “Fantastico”? Una semplice qualità o un concetto più complesso? Fantastico è soltanto un aggettivo di valore con cui descriviamo qualcosa di particolarmente piacevole come una situazione, un sentimento, un oggetto, un desiderio esaudito? Fantastico è solo il meraviglioso mondo frutto della fantasia e dell’immaginazione?

Sicuramente è tutto questo, ma non solo: il fantastico può essere anche la nostra rovina, il nostro bisogno più pericoloso, la nostra esigenza più rischiosa.

L’accezione di fantastico che rimbalza nei miei pensieri qualifica questo concetto come una alternativa alla realtà. Un’alternativa che, per definizione, è tutt’altro che disponibile ed accessibile. Un’alternativa che mi pare venga ricercata e desiderata, in modi diversi, in quanto rappresentante illusoria di un’evasione da quella realtà che è percepita negativamente come chiusura, costrizione, limitazione, e che dunque è considerata incapace di realizzare l’essere degli individui.

In effetti, è sufficiente pensare per un attimo al clima sociale, politico, ma anche culturale nel quale siamo chiamati a vivere. Il peso della quotidianità si fa sentire! Ora, non è mia intenzione enfatizzare le critiche che costantemente vengono indirizzate verso le strutture della nostra realtà socio-politica perché non sono questi il momento e il luogo opportuni, ma d’altro canto non si può non constatare che sono sempre di più le persone che all’interno delle trame del nostro presente si sentono imbrigliate, soffocate e talvolta tradite. La realtà è dura, ci spaventa, e a volte vorremmo soltanto tentare di fuggire per evitare i suoi vincoli.

I percorsi e gli stili di vita intrapresi per evadere dal quotidiano assumono diverse manifestazioni.

Alcuni possono dirsi efficaci, nel senso che riescono nel tentativo di far vivere l’individuo in uno stato di idealità almeno apparente: penso all’ostentazione della ricchezza, al circondarsi di momenti di divertimento e svago talvolta estremi, alla necessità di raggiungere mete lontane o mondane per le ferie.

Altri percorsi, invece, non riescono in tale obiettivo e finiscono tristemente per testimoniare il malessere personale degli individui, il loro senso di inadeguatezza, il bisogno di colmare una carenza di qualunque natura essa sia: penso al bullismo, alla tossicodipendenza, ai disturbi alimentari, alla volontaria ricerca di situazioni di pericolo, piuttosto che ai problemi di socialità che con l’era dei social network accentuano talvolta irreparabilmente le piccole e naturali insicurezze dei più giovani.

Tutti questi comportamenti mi sembrano accomunati dalla stessa motivazione di fondo: quella di sentirsi unici e veri artefici del proprio destino; quella di sentirsi liberi dalle preoccupazioni e dai vincoli della realtà. L’obiettivo? La ricerca di quel “fantastico” che viene desiderato in quanto tale, in quanto opposizione alla cruda realtà quotidiana. Da questo punto di vista ciascuno di noi sembra essere indirizzato, più o meno inconsciamente, verso ciò che non è, verso ciò che per definizione non può essere ottenuto, il quale, infondo, è desiderato proprio per questo contraddittorio motivo: ovvero per il fatto che non beneficiando della caratteristica dell’entità, non potrà mai essere posseduto.

Siamo alla ricerca di un altro modo di essere noi stessi, e sebbene non siamo in grado di sapere se ciò sia realizzabile o meno, muoviamo comunque alla sua rincorsa, insoddisfatti della nostra condizione attuale. Siamo predisposti a quell’idealità di cui tanto parlava Platone, ma a cui personalmente, per quanto anch’io la possa desiderare, non ho mai creduto per più di mezzo minuto. Ciò che ci scuote è quella belva della nostra insoddisfazione esistenziale!

Nel suo testo Il mondo come volontà e rappresentazione Arthur Schopenhauer scrive:

«Ogni tendere nasce da una privazione, da una scontentezza del proprio stato; è dunque, finché non sia soddisfatto, un soffrire. Ma nessuna soddisfazione è durevole; anzi, non è che il punto di partenza di un nuovo tendere. Il tendere lo vediamo sempre impedito, sempre in lotta: è dunque sempre un soffrire. Non c’è nessun fine ultimo al tendere dunque nessuna misura e nessuna fine al soffrire».

Eppure, per trascendere la nostra insoddisfazione, la nostra scontentezza, il nostro tendere irreparabilmente destinato alla sofferenza, sarebbe sufficiente un così piccolo cambiamento in noi. Tanto piccolo, quanto profondo. E, dunque, decisamente troppo difficile!

Federica Bonisiol

[Immagine tratta da Google Immagini]

La fine di un amore non cambia mica l’universo (credo)

È dura riconoscere la fine di un amore! (Mi fa quasi ridere scriverlo a due giorni di distanza da San Valentino, ricorrenza a cui molti tengono e che molti festeggiano, eppure… questo l’allegro argomento del giorno). Ricominciamo dai…

È dura riconoscere la fine di un amore, specie se si tratta di un amore durato un periodo di tempo sufficientemente lungo per riconoscergli senza troppa presunzione la qualità di amore “vero”. Non che la durata di un rapporto determini inevitabilmente la sua importanza; ma all’infuori della convivenza o del matrimonio, quello temporale è sicuramente un fattore che contribuisce a definire la profondità di una relazione. Il tempo da dedicarsi, il tempo da trascorrere insieme è forse il regalo più bello che due innamorati possano farsi. Si suppone infatti che il tempo sia la vera chiave per scoprire al meglio la persona che si ha di fronte, per conoscerne con meno approssimazioni possibili le caratteristiche, per amarne i pregi e per accettarne i difetti. La durata di un rapporto a volte sembra determinarne la saldezza, sembra renderlo immune a qualsiasi tipo di intemperie.

Eppure, la durata di un rapporto, sa essere anche una vera scocciatura, una nebulosa indefinita che non ci permette di distinguere raggio d’azione e confini della relazione. La durata di un rapporto d’amore è infatti direttamente proporzionale alla difficoltà di stabilirne la fine! Il tempo trascorso insieme, carico di bei momenti ma anche di difficoltà superate, ci fa credere invincibili. Il tempo vissuto à deux ci sembra il più convincente fattore legittimante per sopportare gli screzi del presente e per trovare la forza e la voglia di andare avanti. Come se di bei momenti da vivere insieme ce ne potessero essere ancora tanti; come se le difficoltà superate ci permettessero di affrontare e scavalcare anche quelle attuali o addirittura quelle che si potrebbero presentare nel futuro.

Quando il tempo trascorso insieme lo si è guardato con sempre rinnovata incredulità, come fosse qualcosa di veramente incredibile nella sua bellezza, come si può capire se è davvero giunto il momento di dichiararsi tregua reciproca? Quando si ha sempre guardato con soddisfazione e orgoglio a quanto si è saputo costruire, come poter riconoscere la necessità di pronunciare la parola “fine”?

L’amore e l’odio sono le due forze che muovono il mondo e assieme a lui anche noi poveri umani. Che ci affanniamo tanto con domande e preoccupazioni di ogni genere, come se il mondo lo dovessimo portare sulle nostre spalle, come se la fine di una relazione potesse cambiare completamente le carte della nostra partita. Ma infondo noi umani non siamo altro che pedine microscopiche di un gioco di cui non conosciamo le regole, e forse nemmeno il nome. Ma di cui sappiamo invece l’obiettivo finale. Certo, perché la conoscenza delle tattiche per vincere ci appartiene senza volerlo. Lo scopo del gioco è quello di essere felici, di conoscere il bene, quello vero. Sì, proprio quello che i vari filosofi che abbiamo letto e studiato si sforzavano di individuare e definire.

Allora personalmente dico: pazienza se non sappiamo definirlo, pazienza se non sappiamo descriverlo a parole. Il bene lo sentiamo, lo riconosciamo senza volerlo; impossibile girarci attorno, impossibile confonderlo. Ed è quindi domandandoci se rispecchia o meno l’idea del bene, del bene-per-noi-stessi e del bene-per-l’altro, che possiamo capire se il nostro rapporto d’amore è giunto o no alla sua fine. Siamo ancora capaci di donare e di ricevere il bene? Riusciamo ancora a farci del bene malgrado il tempo che è passato, i cambiamenti che abbiamo subito, le nuove scelte che abbiamo intrapreso?

La risposta DOVREBBE essere semplice…

Mal che vada, vi ricordo che i testi di Schopenhauer sono sempre in commercio! (Ma cercatelo da soli, perché io oggi mi rifiuto proprio di citarlo).

Federica Bonisiol

[Immagine tratta da Google immagini]

Contro il tempo, la libertà

Non c’è sera in cui, percorrendo i pochi passi dal bagno al letto, io non ricordi a me stessa, in maniera forse ossessiva, che un altro giorno è ormai finito e passato. Nello specifico, sono due le frasi che mi ripeto, sera dopo sera, senza mai stancarmi. La prima, presa da una canzone di Guccini, che in realtà non ascolto ormai da anni: «un altro giorno andato» (la sua musica ha finito, quanto tempo ormai è passato e passerà). La seconda, copiata questa volta a una poesia di Quasimodo, ricordo forse delle medie, forse delle superiori, chi lo sa: «ed è subito sera». Prima di addormentarmi ripercorro con il pensiero i momenti che hanno riempito la mia giornata, le persone con cui ho parlato, quelle con cui ho scambiato un semplice e veloce sguardo, le parole che ho detto, i piatti che ho mangiato, i particolari che mi hanno colpita, e via dicendo. Finita questa lista di istanti trascorsi e passati, inizio quella del giorno dopo: ricapitolo mentalmente le cose da fare, a volte numerose, a volte minime, fantastico sui miei desideri o progetti futuri, a volte carichi e rinvigorenti, altre volte spenti e deprimenti.

Il tempo che scorre incessantemente e passa alla velocità della luce è il nostro più fedele compagno, ma anche il nostro peggiore nemico. Il mio rapporto con lui qualche mese fa è stato abbastanza turbolento: la paura di aver perso tempo in anni di università che forse non mi porteranno laddove mi ero immaginata intraprendendo questo percorso; il rimorso di aver già rinunciato a piccoli grandi sogni, attività o impegni; il dovere di inventarmi in fretta cosa fare di qui a qualche mese… Mettiamoci dentro anche la banale preoccupazione per i primissimi capelli bianchi. E la sana invidia verso mia sorella quasi diciottenne, alla quale, sentendomi una vera nonna, ripeto con i miei migliori auguri che ha tutta la vita davanti.

Ho cercato di venirne fuori, da questo superficiale e stupido malessere che mi stavo ossessivamente creando da sola. L’ho fatto cercando di appropriarmi per davvero di quel maledetto tempo che ci caratterizza e condiziona tutti, ricordandomi di un’altra dimensione che appartiene all’uomo, alla pari del tempo. La nostra libertà! La libertà di muoverci nelle trame del tempo come ci pare e piace, la libertà di disporre di esso e di gestirlo nel modo in cui preferiamo. Preciso che con ciò non intendo la possibilità di svincolarci da una serie di obblighi alla quale siamo chiamati a rispondere per un dovere che potrei definire ‘morale’. Altrimenti, lungi dall’essere libera e volontaria gestione del proprio tempo, questa finirebbe per decadere nel caos egoistico dettato dal volere e dal piacere. Intendo piuttosto dire che, nella scelta riguardo il come poter disporre del tempo che ci appartiene, dovremmo darci tutti una lista di priorità e dovremmo provare a rispettarla quanto più ci è possibile.

Dovremmo imparare a dire ‘sì’ senza paure, ma anche imparare a proferire qualche ‘no’ secco andando oltre le convenzioni. Dovremmo impegnarci con dedizione e costanza in quanto crediamo, e riuscire a rinunciare ad impegni che lungi dall’arricchire la nostra persona finiscono invece per inaridirla. Dovremmo accogliere e passare più tempo con le persone che amiamo e stimiamo e svincolarci da quelle con cui non riusciamo più ad avere punti d’incontro.

Dovremmo e potremmo fare tante cose. Ma non tutto dipende da noi e dalla nostra libertà. I giorni si susseguono senza sosta, e un altro anno è ormai andato… La sola soluzione è allora ricordarci di vivere appieno ogni singolo momento della nostra vita, bello o brutto che sia. Dobbiamo ardere, per noi stessi, per il dono della vita, e per quanti ci stanno attorno. Circondiamoci di quanta più freschezza e positività riusciamo. Facciamoci avanti e consumiamo, inghiottiamo, svisceriamo il nostro presente!

«Circondatevi di uomini che siano come un giardino, o come musica sopra le acque, al momento della sera, quando il giorno già diventa ricordo».

Nietzsche

Federica Bonisiol

[immagine tratta da Google Immagini]

Selezionati per voi junior: Natale 2016!

Dicembre ha bussato alle nostre porte, il freddo la fa ormai da padrone, e Natale pian piano si avvicina. Per molti bambini questo periodo di giornate corte e gelide, di nasi rossi e mani congelate malgrado sciarpe e guanti di lana, di alberi addobbati e profumo di dolci e biscotti, è il periodo più bello dell’anno. In effetti, possiamo dargli torto? Forse per gli adulti con il passare degli anni la magia del periodo natalizio si fa sempre più debole; ma poterlo rivivere negli occhi dei figli o dei nipotini ha una magia ancor più speciale!

Siccome ogni Natale ‘ben riuscito’ deve assolutamente offrire un pacchetto scintillante da trovare sotto l’albero e da scartare alla velocità della luce, noi de La Chiave di Sophia facciamo i ‘guastafeste’, e anziché giocattoli, proponiamo a voi genitori a voi zii o a voi nonni Babbi Natale di acquistare qualche libro! Non preoccupatevi, tra i nostri selezionati di oggi, nessun libro grosso o impolverato e nessun libro di filosofia. Vi proponiamo alcuni must-have della letteratura per l’infanzia, che potrete trovare anche in versione album illustrato. Abbiamo infatti scelto per voi una piccola selezione di libri famosissimi e amatissimi, che potrebbero dunque piacere con molte probabilità anche ai vostri bambini ed ai vostri ragazzi, soprattutto se glieli proponete con una bella lettura animata fatta apposta per loro!

Anche se pensate di non essere portati o se vi imbarazzate facilmente, provate a lasciarvi andare ad una lettura ad alta voce, ed improvvisate un momento di divertimento e convivialità che coinvolga tutta la vostra famiglia. Non ve ne pentirete!

 

bastoncino_cover_la-chiave-di-sophiaJulia Donaldson, Axel Scheffler − Bastoncino
Emme Edizioni, 12€, età di lettura 2-5 anni

Il primo libro che vi proponiamo è rigorosamente in tema natalizio. Protagonista è il Signor Bastoncino, un pezzettino di legno che lontano dalla sua famiglia ne dovrà affrontare davvero delle belle. Riuscirà a fare ritorno dai suoi cari? Questa storia in rima è particolarmente adatta per i bambini della fascia d’età della scuola dell’infanzia; le rime infatti sono un elemento particolarmente utile alla memorizzazione della storia e di conseguenza ne facilitano anche la comprensione.

a-caccia-dellorso_cover_la-chiave-di-sophiaMichael Rosen – Helen Oxenbury − A caccia dell’orso
Mondadori, 12€, età 2-5 anni

Un album illustrato famosissimo e amatissimo dai più piccoli. Chi non ha mai desiderato di andare con mamma, papà, fratelli e sorelle, a caccia dell’orso? Gli ostacoli da attraversare saranno tanti: prati, paludi, fiumi… I nostri protagonisti riusciranno a trovare la caverna dell’orso? Questo libro si presta benissimo ad una coinvolgente lettura animata! Se volete trarre qualche spunto per prepararvi alla vostra performance, date un’occhiata ai numerosi video YouTube: noi vi proponiamo questo (in lingua originale).

il-mostro-peloso_cover_la-chiave-di-sophiaHenriette Bichonnier – Pef − Il mostro peloso
Emme Edizioni, 14€, età 4-8 anni

Una storia che è un vero cult della letteratura per l’infanzia, visto il successo che ha ottenuto nel corso degli anni. Questo racconto esilarante non mancherà di divertire appieno anche i vostri bambini. Il mostro peloso, come tutti i mostri, è davvero orripilante: i peli che cospargono il suo corpo tutto intero, poi, non fanno altro che aggravare la sua situazione. Ebbene, il povero malcapitato è così brutto che non riesce affatto a spaventare la piccola Lucilla. Che fine farà allora il mostriciattolo? Se i vostri bambini dovettero affezionarsi a questa storia, leggete loro anche il seguito: “Il ritorno del mostro peloso”.

il-vaso-vuoto_cover_la-chiave-di-sophiaDemi − Il vaso vuoto
Rizzoli, 16€, età di lettura 6-10 anni

Una storia che giunge da mooolto lontano, che vi farà immergere nella Cina imperiale. L’imperatore in carica decide di scegliere il proprio successore mettendo alla prova i bambini del regno con un’abile (e ingannevole) astuzia. Quali saranno le doti che egli considera come le più importanti per diventare sovrani di un impero? Non vorrei svelarvi di più per lasciarvi tutta la sorpresa, ma devo proprio lasciarmi sfuggire un piccolo indizio.. Questo libro è perfetto se cercate un modo per insegnare ai vostri piccoli l’importanza dell’onestà!

lautobus-del-brivido_cover_la-chiave-di-sophiaPaul Van Loon − L’autobus del brivido
Salani, età di lettura 9-12 anni

Per i più grandicelli consigliamo un libro in tema horror, che riuscirà ad avvicinare alla lettura anche quei ragazzi che con i libri non vanno molto d’accordo. I racconti di paura, infatti, possiedono un fascino a cui è davvero difficile resistere. Cari genitori, non vi sarete mica preoccupando? Vi rassicuro: queste storie tenebrose non deluderanno i vostri ragazzi, tutt’altro! Sono sicura che non vedono l’ora di dimostrare il proprio coraggio.

 

Allora, cosa aspettate? Tuffatevi nel vasto e colorato mondo della letteratura per bambini e ragazzi. Chissà, magari ne rimarrete stupiti e affascinati, come è stato per me. Buone letture!

Federica Bonisiol

[Tutte le immagini sono tratte da Google Immagini]