La saggezza del vivere bene

Esiste un’opera intitolata De vita coelitus comparanda, ovvero Come ottenere la vita dal cielo, e fu scritta da Marsilio Ficino nel 1489, con l’intento di dare consigli su come condurre un’esistenza in totale armonia con il cosmo. In pieno stile quattrocentesco, Ficino sciorina una serie di consigli su come assicurarsi la salute, congiungendo il corso dei pianeti con le giuste erbe e cibi corretti. I suggerimenti di Ficino, coi suoi calcoli astrali e lo studio dei simboli animali, fanno sorridere le menti ciniche e scientifiche. Tuttavia, vi è un momento in cui Ficino, nel suo manuale, afferma qualcosa di molto interessante: «Per vivere ed operare felicemente, in primo luogo devi conoscere il tuo ingegno, la tua costellazione, il tuo genio e il luogo ad essi conveniente. Abita lì. Segui la tua professione naturale»1.

Ficino ipotizza che esista un demone o meglio uno spirito, donato a ogni individuo, e che esso debba guidarlo nei bivi della vita. Tale demone può essere duplice, cioè farà riferimento, da una parte, alla natura ereditata dai progenitori, al proprio carattere in sostanza; dall’altra, rispecchierà le inclinazioni precipue dell’uomo a cui è stato assegnato. La vita di quell’individuo sarà tanto più felice quanto queste due parti del demone combaceranno, ovvero quando ciò che si è troverà corrispondenza in ciò che si compie ogni giorno. Infatti, Ficino ammette che non esista uomo più sfortunato di colui che sia costretto a dedicarsi a un lavoro, a una mansione, a una parte, che non appartenga al suo intimo. Non si tratta, perciò, semplicemente di lavorare ma ciò a cui ci si dedica deve essere un’esplicazione del proprio interiore, un’espressione quanto più chiara possibile del proprio ingegno e del proprio essere. Dal punto di vista di Ficino, non è soltanto questione di realizzazione delle aspirazioni bensì di essere in accordo con il cosmo intero, perché solo agendo in equilibrio con la propria natura si è in armonia anche con ciò che ci circonda e che, apparentemente, non ci riguarda.

Questo principio, raccontato in modo così fiabesco, è in realtà una vera e propria strategia per vivere bene. Non si può essere felici, o anche solo avvicinarcisi, se nulla o poco di ciò che facciamo non rispecchia affatto il nostro essere.

Ficino ricorda qualcosa che si è dimenticato da tempo, cioè che la filosofia è saggezza del vivere bene, e niente di più. A chi dice che filosofia sia solo speculazione e astrazione è probabilmente sfuggito che nulla di tutto ciò vale, se non si potenzia al meglio l’esistenza. Non è più ammissibile che la filosofia sia presentata come esplicazione di argomenti generali ma è necessario che ritorni ad occuparsi dei fatti del mondo e che suggerisca come rigenerare e vivificare l’esistenza stessa. In sostanza, ciò che Ficino afferma è che non si può essere felici se l’interiorità dell’individuo non incontra mai il mondo.

Per quanto possano essere ridicoli i calcoli astrologici di Ficino, quanti di noi sanno davvero vivere bene e in salute? Chi è veramente in grado di dare qualità alla propria vita? Questo testo di fine 1400 si pone il problema di quanto sia importante la professione che un uomo intraprende; non per una prospettiva economica, ma come chiave di volta per essere in equilibrio con se stessi. Quanti di noi sono lacerati, oggi, da questo dilemma? Il compito che ognuno di noi deve effettivamente assumersi è di ricercare tale armonia, perché sopravvivere non è sufficiente e l’esistenza ha diritto a essere potenziata. La filosofia non può più esimersi da tale compito.

Leggendo quest’opera, sembra che Ficino abbia una soluzione a ogni problema della vita, dalla cura del corpo a quella della mente, e la trova scritta fra le stelle, le erbe e le pagine ammuffite di maghi e pensatori. Ovviamente non è mai stato così semplice. Chi, in fondo, ha mai avuto la chiave della felicità? Chi conosce il trucco per vivere in modo davvero soddisfacente? Inseguire la felicità lascia il tempo che trova, eppure, almeno una volta, chiunque si sarà chiesto «perché sono infelice?». Nessuno ha davvero la risposta, neanche chi crede di averla avuta, come Ficino. È anche vero che, prima o poi, si è costretti a fare un patto col mondo e a rimodellare le proprie ambizioni. Tuttavia, la ricerca del senso deve tornare di moda e che sia allora benvenuto il demone di Ficino, e che ricongiunga le sue parti.

Chi può dire se convenga davvero cercare la felicità? Di certo il tempo trascorso a ricercare l’armonia fra ciò che si è e ciò che si fa e a pretenderla, a vivere in un luogo che si ama – compiendo ciò che corrisponde al proprio intimo – non è mai tempo sprecato.

 

Fabiana Castellino

 

NOTE
1. Marsilio Ficino, Sulla Vita, Rusconi Libri, Milano 1995, p. 279.

[Credit Greg Rakozy]

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Étienne de La Boétie e il peso della libertà

Si immagini, per assurdo, una comunità di uomini e donne che abbiano cessato di camminare. Non perché non possano più, o perché non ci siano le condizioni che glielo permettono, ma, semplicemente, questi uomini e queste donne ritengono superfluo l’uso di gambe e piedi. Se si prosegue ancora un po’ con questo gioco di immaginazione, si sarà costretti a pensare a questi individui perennemente seduti, o striscianti, il cui mancato uso delle gambe, a lungo andare, ha reso fiacchi e deboli. Essi inizieranno quindi a lamentarsi della loro condizione misera e della loro indolenza, si malediranno e riterranno la loro esistenza molto infelice. Eppure, questi individui continuano imperterriti a non muovere le proprie gambe, o a usare i loro piedi, perché hanno dimenticato il motivo per cui non si sono più alzati, e, d’altronde, perché farlo adesso? Si vivrà, finché si potrà.

Per quanto questo esempio possa sembrare paradossale, se una tale società esistesse davvero, cosa diremmo a quegli individui così disperati? Non resteremmo increduli, o non saremmo persino divertiti dalle loro lamentele? Tuttavia, questo gioco non è così assurdo come appare, perché è proprio ciò che afferma Étienne de La Boétie quando scrive degli uomini servi e miseri sotto il potere di un tiranno. Il suo Discorso della servitù volontaria del 1576 è un testo di circa quaranta pagine, colme di indignazione e stupore. Centinaia, migliaia, milioni di uomini dipendono da uno o pochi sovrani, e li servono così bene e profondamente, che nemmeno ci si chiede più perché lo si fa. La domanda che La Boétie si pone nel Discorso è: perché i molti servono i pochi, se non uno solo? La Boétie, nemmeno ventenne, scrive queste pagine pieno di rammarico, incredulità, e nemmeno una parola si avvicina al distacco con cui immaginiamo qualsiasi filosofo.

Lo sbigottimento di La Boétie parte da un assunto molto semplice: l’essere umano è libero, in un modo naturale e spontaneo, nello stesso modo in cui è naturale che impari a camminare. La libertà è costitutiva dell’essere umano come il suo corpo, la sua voce, la sua intelligenza; fa parte della sua natura, e non ha bisogno di giustificazioni o di essere cercata. Eppure, gli uomini servono continuamente sovrani indegni, e la storia non è che un susseguirsi di volti e nomi che raccontano lo stesso ritornello: la servitù si erge e la libertà si smarrisce. Se si segue La Boétie, ci si rende conto che non essere liberi è come non camminare pur avendo gambe funzionanti: è negare la propria natura. A tutto questo vi è una motivazione semplice, tanto quanto il suo presupposto: gli uomini si sono così abituati a servire, che hanno dimenticato che sono nati liberi e autonomi.

«Ma l’abitudine, che esercita in ogni cosa un gran potere su di noi, non possiede in un nessun altro ambito forza tanto grande come nell’insegnarci a servire […]»1.

L’abitudine li ha intrappolati così bene e stretti, che risulta impossibile cercare un altro modo di vivere. Se gli occhi si abituano così bene all’oscurità, non ci sarebbe forse il rischio di accecarsi, accendendo la luce?

«Decidetevi a non servire più, ed eccovi liberi»2. Per La Boétie sembra incredibilmente facile. Il sovrano, il tiranno, sono uomini soli, che nulla potrebbero fare di fronte a una moltitudine che li rifiuta. Sembra addirittura troppo facile.

C’è, in verità, un altro elemento che non bisogna dimenticare: l’essere umano, oltre a essere libero, è anche razionale. Libertà e razionalità non possono che andare di pari passo, perché per essere liberi occorre intelligenza, per poterlo riconoscere dentro di sé; occorre coraggio, per difendere la propria libertà; occorre empatia, per non calpestare la libertà altrui. Se non ci si riconosce come individui unici, e che proprio in questa unicità siamo colmi di dignità, allora la nostra libertà è come le gambe degli uomini che abbiamo immaginato: inutile. Tuttavia, fino a quando l’essere umano vivrà ignorando se stesso e senza chiedersi nulla, l’abitudine, il vero male, sarà l’unica protagonista delle vicende umane.

Essere liberi è faticoso, e serve esercizio per renderlo più solido. Ciò che è importante saper ammettere è che la servitù non è imposta, ma a lungo andare ne siamo tutti complici.

È impossibile non indignarsi insieme a La Boétie, o ignorare il suo scritto, una volta che lo si è avuto fra le mani. È uno di quei libri che brucia i polpastrelli.

Il Discorso è presentato come un trattato politico ma si tratta di un mero travestimento, perché non si può sperare in civiltà migliori se non si riconosce l’essere umano per ciò che è.

La libertà dell’uomo, prima di essere civile, è naturale, fa parte della sua pelle, e come il bambino impara a reggersi in piedi, prima traballando e poi correndo, così l’individuo deve imparare a essere libero, riconoscendosi come tale.

Per concludere, c’è un solo, vero motivo, per cui si dovrebbe leggere il Discorso: i poteri a cui siamo sottomessi sono molteplici, ma di qualunque cosa si tratti, noi ne siamo complici, perché non solo abbiamo dimenticato chi siamo, ma l’abitudine ci ha fatto cessare di chiedercelo. Il Discorso spinge verso l’unica rivolta possibile, ovvero alla riappropriazione di sé, e alla coscienza della propria persona. Solo così si cessa di servire.

 

Fabiana Castellino

 

NOTE
1. É. de La Boétie, Discorso della servitù volontaria, Universale Economica Feltrinelli 2014, Milano p. 43
2. Ivi, p. 37

[Photo credits: Emile Séguin on Unsplash.com]

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La schiavitù delle donne

«Le donne che leggono, e ancor più quelle che scrivono, rappresentano nello stato attuale delle cose, una contraddizione e un elemento di disturbo: e si è sbagliato a coltivare nelle donne altre virtù che non fossero quelle di un’odalisca o di un’ancella»1.

Quando John Stuart Mill scriveva queste parole nell’opera La schiavitù delle donne, per criticare le condizioni che la società aveva creato su misura per le donne, aveva alle spalle una voce che gliele sussurrava, il cui nome è per lo più sconosciuto: quello della moglie, Harriet Taylor.
Questa timida e quasi anonima voce guidò la mano del marito nel tracciare uno dei testi più rivoluzionari sullo stato delle donne. Per far tremare i muri di una società, ispessiti dai secoli e dalle consuetudini, Harriet Taylor era consapevole che solo una penna di uomo avrebbe avuto quella forza demolitrice, e nulla venne trascurato: si scagliò contro la legge del più forte, contro il matrimonio forzato, un’educazione che non permetteva di progredire nelle scienze, ma che puntava a rendere ragionevole e persino appetibile la sottomissione. La voce di Taylor condusse la penna del marito oltre la semplice constatazione, per giustificare la fine della servitù femminile; perché non poteva bastare richiamare la loro intelligenza, il loro acume, la loro sensibilità. Taylor sapeva che tutto ciò non era sufficiente, e bisognava mettere in campo ben altri motivi: il progresso di una civiltà necessitava di maggiore forza intellettuale e delicatezza emotiva, e se ciò non fosse stato attuato il prima possibile, la società si sarebbe accartocciata su se stessa, rendendo gli uomini ancora più pigri e ottusi, e le donne stupide, incapaci di vedere al di là del proprio naso. Taylor era ben lucida a riguardo, e lo affidò alla scrittura leggera ed efficace del marito, John Stuart Mill, che divenne uno dei primi femministi della storia occidentale.

Da allora la strada è stata di molto spianata alle donne. Esse pongono il loro nome sulle pagine che scrivono, leggono, decidono se avere dei figli, cercano il loro posto nel mondo, lottano perché altre donne raggiungano gli stessi traguardi. Le donne occidentali sembrano diverse da quelle che Harriet Taylor voleva difendere senza svelarsi, e la persona a cui dobbiamo essere più grati è una sola: J. S. Mill. Solo lui, il filosofo inglese è stato ringraziato, letto e ricordato per avere scritto un’opera il cui senso controcorrente ha aperto nuovi occhi. È Mill l’intellettuale imperituro, non Taylor. Chi era Harriet Taylor? La moglie di Mill. E chi era John Stuart Mill? Il filosofo.

Viviamo ancora in quella società, in cui le donne per essere ascoltate hanno bisogno di un uomo, e finché il nome di Harriet Taylor è ricordato solo nelle Note del traduttore dell’opera La schiavitù delle donne, quei muri sono stati solo scalfiti, ma non abbattuti. Se persino le donne che studiano con passione l’opera di Mill non conoscono il nome di chi ha ispirato quelle parole, allora esse sono ancora schiave non di un uomo o di un matrimonio, ma di un preconcetto: l’idea che il sesso femminile necessiti della legittimazione del sesso maschile. La società di cui si promuove il progresso sta solo tremando, per trovare un nuovo equilibrio, non sta cadendo, e perché ciò accada bisogna ritrovare tutte quelle voci che sommessamente hanno spifferato le ingiustizie di metà del genere umano, e che sono i venti che hanno eroso, con pazienza e dedizione, il pregiudizio, la vigliaccheria e la violenza, e continuano a farlo.

La civiltà occidentale, in fondo, permette ancora che queste voci restino anonime, e se è così non si è allontanata troppo dall’Inghilterra di Mill e Taylor. La società è fatta di spazi chiusi, compartimenti, in cui gli individui si infilano, convincendosi che quello sia il proprio posto e vi restano. Quelle pareti si sono allargate, non sono ancora divenute ponti o strade; la civiltà occidentale è ancora costituita di regioni e confini, non di tragitti.
Allora, per provare a tracciare una nuova mappa, è bene raccontare una versione diversa della storia, ringraziando quello scrupoloso traduttore, che ha aggiunto la lunga Nota alla fine del libro.
Nel 1869 fu pubblicata La schiavitù delle donne, ed è forse il primo testo che mette in chiaro quanto dolore e quanta violenza abbiano dovuto subire le donne, e quanto gioverebbe alla società, non solo in termini di giustizia, ma di concretezza, che esse fossero libere di scegliere il proprio cammino. Viene chiamato protofemminismo. Il libro è il frutto dell’intesa intellettuale, della stima, dell’amore e fiducia di John S. Mill ed Harriet Taylor, il cui matrimonio fu desiderato e felice.

Sperimentando una parità intellettiva, riuscirono a rendere partecipi gli altri di quanto fosse motivo di serenità e gioia: lei concepì le idee, lui le mise per iscritto, e il mondo applaudì il libro.
Purtroppo, sul saggio vi è solo il nome di lui, John S. Mill. Il pubblico ha applaudito così forte che il nome di lei, Harriet Taylor, sfortunatamente, non l’ha sentito.

 

Fabiana Castellino

 

NOTE
1. John Stuart Mill, La schiavitù delle donne, Tasco, Milano 1992, p. 56

 

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Arthur Schopenhauer: la lezione del disincanto

Arthur Schopenhauer, spesso, è ricordato come uno dei più celebri pessimisti che abbia mai osato esprimere la propria opinione. Il suo pensiero è duro, limpido nella sua crudezza, senza fronzoli e diretto; indubbiamente difficile da accettare.

Il pessimismo è una modalità di pensiero che poggia su un unico pilastro: il disincanto. Se la filosofia ha sempre voluto svegliare le menti, aprire gli occhi, e rendere coscienti i cuori, il pessimismo lo fa proprio a partire dal disincanto, dalla disillusione.

Per quanto il primo istinto sia quello di rifuggirlo, vi è un’importante lezione che Schopenhauer ha lasciato e che, probabilmente, non è stata colta.

La filosofia di Schopenhauer è ormai fin troppo nota: il nocciolo della vita, in tutte le sue forme, è un bisogno mai soddisfatto, una fame che non trova sazietà, un impulso senza appagamento. Il destino dell’uomo è segnato nell’insoddisfazione e nell’egoismo, poiché egli intenderà l’altro come strumento, e sarà per coloro che lo circondano un mezzo a sua volta, per placare bisogni e aspirazioni. La direzione degli eventi è tracciata dal dolore e dalla mancanza. Della filosofia di Schopenhauer si è appreso soprattutto questo e altro non si è voluto vedere.

Eppure, proprio il pessimismo di Schopenhauer ha lasciato un profondo insegnamento, che ben si adatta allo scoramento a cui si è abituati.

Se il male, cioè l’egoismo, la mancanza, il dolore, sono la madre dell’esistenza, dov’è il bene? Se è il male il diamante grezzo che l’uomo ritrova scavando dentro di sé, che cos’è effettivamente il bene?

È la più grande conquista dell’essere umano. Schopenhauer parla di diverse forme, attraverso le quali l’uomo può giungervi, ma il percorso è sempre lo stesso.

Quando l’individuo guarda dentro di sé, e trova il suo dolore, la sua voracità, il suo egocentrismo, e ne ha orrore, allora il bene può emergere, in quanto coscienza ed empatia.

Schopenhauer suggerisce, in sostanza, che il bene non è andato perduto, e non è un principio aleatorio e irraggiungibile; è frutto di consapevolezza, e soprattutto, è una vittoria dell’uomo su stesso.

L’effetto di porre il male come fulcro della vita, e il bene come costruzione, sta nel fatto che, d’un tratto, ci si accorge dell’altro non più come strumento, ma come carne che combatte contro lo stesso dolore che si sperimenta ogni giorno. Il risultato del pessimismo di Schopenhauer è che, quando si riesce a intendersi, l’altro non è più invisibile. Quel nucleo negativo diviene così la possibilità di empatia, di apertura.

Il disincanto di Schopenhauer dà così avvio, per chi è pronto ad accoglierlo, alla ricerca del bene, inteso non come perdita in seguito a una colpa o a un’imperfezione, bensì come desiderio di rivoluzione, costruzione, salvezza.

Sebbene questa sia un’interpretazione azzardata del pensiero di Schopenhauer, soprattutto per chi lo conosce bene, è probabilmente quella di cui si ha bisogno.

Se gli autori del passato non sono solo carta stampata, ma possono divenire consiglieri del mondo che conosciamo, in cui i giovani hanno già le rughe agli angoli della bocca, e i vecchi non vogliono ricordare ciò che hanno fatto, allora è necessario proprio il disincanto di Schopenhauer. Egli può insegnare a riconoscere il male come la possibilità del bene, l’egoismo dell’empatia, e che nulla di tutto ciò si ottiene, se non si è pronti a riconoscere se stessi per ciò che si è. Il bene emerge dal male, e lo sovrasta, solo se l’individuo osa guardare in profondità.

Il pessimismo diventa ciò da cui bisogna scappare, solo quando si avvera l’unico rischio insito in sé: la resa alla realtà così come l’abbiamo trovata*.

 

Fabiana Castellino

 

* Per comprendere al meglio la filosofia di Schopenhauer, si consiglia la lettura della sua opera principale, Il mondo come volontà e rappresentazione, edito da Einaudi, 2013

[Photo credits: Annie Spratt via Unsplash]

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I “Pensieri” di Marco Aurelio e la cura dell’imperatore

Marco Aurelio, uno degli imperatori più stimati dell’antichità, nella sua solitudine, lontano dalle corti e dalle battaglie, soleva scrivere in questo modo:

«Presto dimenticherai tutto; presto ti dimenticheranno tutti»1.

È solo uno delle centinaia di aforismi che l’imperatore scrisse, senza alcun nesso fra loro, ordine, scopo o destinatario. Fuggendo il chiasso dei senatori, il rombo delle armi e lo stridio del cavalli, le pagine che Marco Aurelio ci ha lasciato sembrano impregnate dai lunghi respiri che l’imperatore doveva prendersi, prima di ritornare ai suoi doveri. L’uomo più potente dell’impero si consolava della sua esistenza con l’inchiostro e la pergamena, ogni volta che poteva. L’opera di Marco Aurelio esiste perché alcuni sconosciuti decisero di organizzare i suoi scritti, e solo in seguito nacque il titolo come lo conosciamo oggi, A se stesso.
La mancanza di un ordine chiaro dei suoi pensieri ha reso quest’opera la più libera, che possa mai capitare fra le mani di un lettore: la si può sfogliare a caso, tornare indietro, e poi volgersi verso la fine del libro. Si troveranno consigli su come vivere, comportarsi con gli altri (soprattutto con chi ci odia), sulla necessità della calma, l’inutilità della rabbia, la pazienza nel non fomentare la malvagità altrui, la consapevolezza delle cose effimere.

Nel caos delle sue massime, si trova tuttavia un elemento che spicca fra tutti, e che spesso si ripete.

«[…] in nessun luogo più tranquillo e calmo della propria anima ci si può ritirare; […] Concediti quindi questo ritiro e in esso rinnovati»2.

Nei memoranda che Marco Aurelio lasciava proprio a se stesso, per resistere alla vita stessa, si scopre che la via da seguire può essere tracciata solo a partire dalla propria interiorità.

«Scava dentro di te; dentro è la fonte del bene, e può zampillare inesauribile, se continuerai a scavare»3.

L’imperatore si aggrappa continuamente a sentenze di questo genere, perché l’interiorità è l’unico luogo in cui si ritrova la mappa delle strade da percorrere.
Marco Aurelio visse dal 121 d. C. al 180 d. C., non conobbe ritmi frenetici, rumori assordanti e continui, né il fenomeno della massa che ingurgita l’identità dell’individuo. Marco Aurelio, in sostanza, non poteva prevedere il nostro secolo e i suoi mali, eppure propone l’unica cura possibile, o almeno, quella che adottò egli stesso. Contro lo smarrimento per essere stati trascinati troppo a lungo dagli eventi, dalle passioni e dai propri sogni, bisogna riappropriarsi di se stessi. Che sia il silenzio, lo sfrigolio di una penna, o qualsiasi altra cosa, l’unica conquista da compiere è quella del proprio tempo, poiché soltanto così si ritrova il proprio equilibrio, il proprio senso.
Non si tratta di parole di solo conforto, ma si basano su un principio logico-filosofico ben preciso: fra la natura, l’anima umana e gli eventi del mondo esiste una legge, che interconnette ogni cosa, anche se gli uomini non la comprendono.
«O un universo perfettamente ordinato o un ammasso casuale, ma pur sempre un ordine. Come potrebbe esistere in te ordine e nell’universo disordine? Specialmente considerando che tutte le cose sono ben distinte le une dalle altre eppure fuse insieme e in reciproca armonia»4.

Sebbene l’imperatore sia ben consapevole di non potere capire la ragione dell’armonia, egli si rifugia continuamente dentro di sé per ritrovarvi i semi che vi ha lasciato: solo in questo modo, si può essere coscienti di ciò che è effimero, e ciò che non lo è.
Marco Aurelio scriveva a se stesso e, senza saperlo, avrebbe teso la mano a sconosciuti di epoche per lui inimmaginabili, rispondendo ai dubbi e alle domande di chi lo avrebbe letto.
Questi sono solo alcuni dei motivi per cui bisognerebbe continuare a leggere Marco Aurelio. Che le si sfogli distrattamente, o le si divori riga per riga, le pagine dell’imperatore custodiscono rimedi imperituri all’unico male dell’individuo: la perdita del sé, inghiottito dai fatti del mondo.

Vi è un ultimo elemento da sottolineare. In assenza di un obiettivo chiaro, gli aforismi sono di fatto molto simili fra loro, in alcuni momenti persino ripetitivi. Tuttavia, spiccano le prime pagine del Libro I, perché diverse da tutte le altre. Non sono altro che dediche fatte dall’imperatore a tutte le persone che lo hanno amato e ispirato, dai familiari ai propri maestri. Di ognuno, Marco Aurelio ricorda, soprattutto, il motivo per cui è debitore: da alcuni ha imparato la clemenza, la bontà, da altri la severità, i precetti morali ecc… Se volessimo dare un nuovo titolo a queste pagine, sarebbe forse Il libro della gratitudine, poiché siamo ben poco, se ci districhiamo dai legami con altre anime, se ci svincoliamo da ciò che abbiamo dovuto affrontare, anche nostro malgrado.
La gratitudine è uno sforzo di memoria, di riconoscimento di sé, un atto di volontà di pace, ed è così che si apre ciò che potremmo definire il diario di un’anima così temuta, potente, che aveva bisogno di nascondersi in se stesso, come la tartaruga nel suo carapace, per godere della saggezza di cui il mondo scarseggiava.

 

Fabiana Castellino

NOTE:
1. Marco Aurelio, Pensieri, Mondadori Editore, Milano 1994, p. 84
2. Ivi, p. 35
3. Ivi, p. 90
4. Ivi, p. 41

[Photo credits: Elisabella Foco su Unsplash]

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Rupi Kaur, le sue poesie e il femminismo della riconciliazione

«Questo è il viaggio della
 sopravvivenza attraverso la poesia […]»1.

Si tratta dei versi di apertura della raccolta Milk and honey di Rupi Kaur, e questo è un articolo sulle ragioni, per cui chiunque dovrebbe sfogliarlo almeno una volta.

Quando si pensa alla poesia, la mente richiama innumerevoli cose: fogli ingialliti, lirismi, metafore, poeti melanconici. Poesia è arte, filosofia, espressione, ma, a volte, rischia anche di allontanarsi dall’uomo, di non avere niente a che fare col suo essere di terra e fango, così concentrata com’è a raggiungere l’etereo, il metafisico.

Tuttavia, quando Rupi Kaur presenta la poesia come strumento di sopravvivenza, si ha un unico compito nei suoi confronti: bisogna compiere un atto di dimenticanza, e ripulire la mente da ogni cosa si conosca sulla poesia.

Vi si troveranno il corpo, la pelle, i peli, il sangue, gli odori, mai esaltati o rifiutati come volgari e banali, ma messi a nudo sulla carta.

Vi sono versi composti da una sola parola, senza punteggiatura, perché se ne pesi il valore, e si scelga il ritmo con cui leggerla. Quella di Rupi Kaur è una poesia della carne, fatta di sapori, erotismo; è il motivo per cui chi legge si sente compreso e accolto, poiché nulla di più autentico e immediato unisce un essere umano all’altro come la carne e i suoi nervi. È la poesia del viaggio, e bisogna ancora dimenticare le regioni geografiche, laddove l’unico luogo esplorabile è il proprio vissuto.

Rupi Kaur traccia un percorso preciso, le cui tappe sono i capitoli stessi del suo libro e definiscono un’unica via, ovvero il potere più inaspettato dell’amare. Non si tratta solo dell’abbandono, dello stupro, dell’inganno, ma della frantumazione dell’essere che ama.

Tale viaggio inizia da il ferire, e il punto di vista assunto è quello della bambina, della figlia il cui unico uomo è il padre a cui rendere conto, che soggioga la madre, che diviene il modello. Il corpo è oggetto per gli altri e per se stessa, veicolo di fantasie, misteri e, a volte, abusi. Il primordiale atto d’amore, quello dei genitori verso i figli, è la prima ferita, poiché la separazione è inevitabile, e sancisce i confini fra il bene e il male, giusto o sbagliato.

Gli occhi della bambina si fanno più grandi, diventano quelli della giovane, che distolgono lo sguardo dal padre e si gettano verso l’amore come mistero. Non vi è solo l’abbandono al romanticismo o la scoperta dell’eros, ma l’affiorare della fiducia. È fiducia nella maternità, nel futuro, nel proprio corpo. Si amano figli non ancora nati, amanti non ancora incontrati; è la fiducia verso l’incomprensibile, aspettando che si schiuda. Ed esso si aprirà alla giovane, ma in modo inatteso. Inizia la parte più lunga e difficile del viaggio della sopravvivenza, il momento in cui si deve attraversare lo spezzare. Non è solo l’amore finito, è il rifiuto, la dipendenza, ed è soprattutto, il momento in cui ci si frantuma. Si perdono pezzi di sé, perché l’amato viene vissuto come parte interiore, e ci si smarrisce. È la strada del rimpianto, delle lacrime, della rabbia, ed è la parte più oscura.

La poetessa diviene sempre più saggia, pagina dopo pagina, e giunge finalmente all’ultima tappa: il guarire. Si tratta dell’amare trasformato, e non vi è padre o amante in esso, bensì l’interezza ritrovata. Rupi Kaur scrive per ricongiungere tutti i pezzi fra loro, che descrive a volte come ciglia cadute dagli occhi, o come frammenti di pelle, e rovescia lo sguardo dall’altro al sé. La risposta all’energia disgregatrice dell’amare è essa stessa amore, come dono all’altro.

Vi è un ultimo momento, su cui è necessario applicare la dimenticanza. Il mondo che descrive Rupi Kaur è prettamente femminile, con tutti i suoi punti di vista, per questo la poetessa è divenuta un riferimento per il femminismo moderno. Tuttavia, non si tratta del femminismo rabbioso, che risponde al sopruso con la rivendicazione. Il femminismo di Rupi Kaur è tale per cui l’uomo non è incluso solo come prepotente o violentatore. La vittima e il carnefice, l’uomo e la donna mescolano continuamente i loro ruoli. Il ferire, l’amare, lo spezzare, il guarire non sono soltanto luoghi di un viaggio, ma azioni, movimenti dell’animo, di cui la donna non è solo succube, ma anche soggetto.

Questo femminismo non è “roba per donne”, ma una prospettiva nuova, in cui amare è un dono a uno sconosciuto, in questo caso il lettore, come meta di un lungo cammino.

Si tratta di un femminismo della riconciliazione, e in quanto tale, perché sia efficace, non può escludere nessuno, ma deve dimenticare, per ritrovarsi; è un invito a far pace.

 

Fabiana Castellino

NOTE 
1. Rupi Kaur, Milk and honey, tre60, TEA Milano

 

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